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Autore: Heihei    09/01/2018    2 recensioni
Della vita che ha lasciato, a Beth non resta nient'altro che un buco in testa e qualche incubo. Quindi cerca di tornare indietro, seguendone le tracce.
Nel frattempo, le certezze di Daryl vacillano e ritorna su ciò che ha lasciato, seguendone la luce.
Questa storia NON mi appartiene; mi sono limitata a tradurla con il consenso dell'autrice, che è Alfsigesey. Potete trovare la storia originale su fanfiction.net
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Beth Greene, Daryl Dixon
Note: Traduzione, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Like a bullet.

 

 


Quaranta miglia non sono poi così tante. Con tutto il carburante che abbiamo, potremmo anche riportarla a casa sua, come volevate fare all’inizio.”
Continua a pensare alle ultime parole che Aaron gli ha detto prima che si dividessero e tornassero ai loro rispettivi veicoli per lasciare la città.
È sempre così gentile e disponibile; sapeva che lo sarebbe stato anche in quel momento. Continua a comportarsi come se la cosa non fosse un enorme inconveniente, sebbene Daryl sappia che invece è proprio così. Al di là di questo, vuole chiederglielo comunque.
Rallenta mentre si avvicinano a un tratto di strada stracolmo di auto abbandonate e ribaltate. Inizia a farsi strada tra di esse, gettando un’occhiata dietro di sé per assicurarsi che Aaron stia seguendo indenne la sua stessa pista. Alla fine il suo è stato un buon suggerimento, sopratutto se andranno in ogni caso alla fattoria. Potrebbero trovare qualcosa di utile per Maggie e Glenn, e forse qualche vecchio cimelio di famiglia potrà fargli perdonare il suo comportamento da cazzone. Con un po’ di fortuna, potrebbero anche trovare qualche vestitino per neonati.
Il camion rosso dei pompieri è il primo che riconosce tra i veicoli di fronte a sé. Non era stato presente per assistere alla scena, quindi non ha idea di come diavolo abbiano fatto a ribaltarlo. Il caso aveva fatto loro uno scherzo che nessuno aveva trovato particolarmente divertente, specialmente non Abraham: a quanto pareva, era il secondo mezzo che perdeva nel giro di pochi giorni.
Mentre si avvicina, le sagome grigie dondolanti intorno a quel puntino rosso cominciano a prendere forma e subito si rende conto che c’è qualcosa che non quadra: l’area in cui l’Honda nera sarebbe dovuta rimanere ad aspettarli è completamente sottosopra. C’è un grande assortimento di macchine, ma non sono nello stesso stato in cui ricordava che fossero. Chissà quando, in quegli otto mesi passati dall’ultima volta che è stato lì, qualcosa è andato storto. Sembra che ci sia stato un terremoto, anche se non è l’unica cosa esistente a poter essere capace di spaccare la strada in due. L’asfalto è sfregiato da una grande crepa, che inizia a centro strada e prosegue per circa cinquecento metri. All’inizio è solo una linea sottile, che poi si allarga fino a diventare abbastanza grande da poterci cadere dentro e rimanere incastrato. Forse è stata un’alluvione, oppure proprio quella mandria. Non riesce a ricordare quanti corpi avesse visto, ma gli era sembrata infinita; il loro peso deve essere stato enorme.
La corsia in cui è parcheggiata l’Honda nera è incrinata da un lato; la macchina stessa è stata spinta sul ciglio della strada, in modo che la parte anteriore sia più in alto di circa mezzo metro rispetto al cofano, che tuttavia sembra essere ancora intatto e solido. Niente sembra esserci entrato.
Sa che dovrebbe chiamare Aaron, ma è come se avesse la lingua stretta in un nodo. L’auto insanguinata è a dieci metri dal punto in cui aveva cominciato a mettersi male, in cui avevano deciso che la cosa migliore era scappare, cercare altre auto e lasciarsi quella mandria alle spalle. Ne ha vista una così grande solo un’altra volta e anche allora si è stupito di esserne uscito vivo.
Fatto sta che quell’auto non è per niente una tomba adatta a lei; quell’immagine lo ha perseguitato per otto mesi.
È stato così occupato ad osservare lo stato della strada e a lasciare in sosta la sua moto da non accorgersi che Aaron non l’ha ancora raggiunto. Tira un respiro profondo ma per fortuna, proprio in quel momento, sente il suo compagno chiamarlo.
“Daryl!”
Ha parcheggiato la sua auto qualche metro prima della sua moto. Lo osserva avvicinarsi con le mani strette intorno alla pistola, attento ad individuare eventuali segni di pericolo.
La sua gola si fa immediatamente più stretta. Dovrebbe dirgli qualcosa, almeno per fargli capire di esserci.
“È questa?” Aaron lo raggiunge con il respiro affannato, ma sempre fermamente concentrato sull’ambiente circostante. A parte qualche vagante solitario in lontananza, sono pressoché soli.
“Già.” Daryl si sistema la balestra sulla spalla e salta dall’altro lato della strada, percorrendo tutto il ciglio della voragine fino ad arrivare ad appoggiarsi all’Honda.
Aaron è proprio dietro di lui; si sorregge sul paraurti posteriore e sospira alla visione di quell’enorme crepa. Probabilmente sta pensando a una strategia fattibile per tornare indietro.
“Come facciamo a...”, prova a chiedergli, ma si ferma quando vede Daryl estrarre una chiave dalla tasca.
Quell’oggetto così piccolo pesa terribilmente tra le sue dita. Per tutti quei mesi, è stato come portare un macigno nella tasca. Aveva pure pensato di darla a Maggie, uno o due volte; non perché credeva che non sarebbero mai tornati a recuperare il suo corpo, ma perché piuttosto non sapeva che sarebbe stato lui a farlo. Tra loro due, Maggie è quella che ha più probabilità di vivere fino a vedere l’alba di una nuova era. È probabile che si mantenga in giro abbastanza a lungo da vedere il mondo tornare com’era un tempo; in lei vede quello spirito pratico e indissolubile di vivere e sopportare la vita che la circonda per quella che è.
Daryl, invece, su questo punto non è così sicuro di sé. Non lo è più da almeno otto mesi. Certo, può sopravvivere, ma vivere non è esattamente la stessa cosa. Ci sono stati vari momenti bui in cui si è chiesto se la cosa migliore da fare fosse stata dare la chiave a Maggie che, tra l’altro, non sa neanche che ce l’ha. Ma quandola inserisce nella serratura, si rende conto che è sempre stato lui, che è sempre stato suo il compito di andarla a prendere. È il suo fardello da portare in spalla.
Apre il bagagliaio e solleva la portiera, preparandosi alla possibilità di vedere qualsiasi cosa, tranne quella che effettivamente si ritrova davanti.
Beth Greene non c’è.

 

∂∂∂∂∂∂∂∂∂∂

 

Anche se è più sfinita di quanto possa ricordare di essere mai stata in vita sua, deve combattere con il sonno per evitare di sottomettersi ad esso. È una notte fredda, il dolore alla testa sembrava riecheggiare nei suoi sogni. Si è svegliata prima dell’alba, insoddisfatta nello scoprire di essere ancora intrappolata in quell’inferno.
In silenzio, si rende conto di voler ricordare altre cose, o almeno di voler avere altri sogni che la aiutino a mettere ordine tra i pezzi del puzzle.
Come ci è finita lì? Cosa è successo alle persone che erano con lei? Perché si è svegliata fuori città?
Tutte quelle domande non le danno pace. Con la stessa intensità, desidera delle risposte, ma ne ha paura. Dovrà pur significare qualcosa, in un modo o nell’altro.
Quanto tempo è passato?
Uscendo dalla stanza, Beth va in bagno e cerca di pulire il vetro del primo specchio rotto che trova. Strofina via la polvere che offusca l’immagine; stacca lentamente i sudici strati di sporcizia sfregando il palmo della mano contro la superficie, spostandone i frammenti ai lati di quella figura che la fissa dall’altra parte dello specchio. Quando si rivede, il respiro le si mozza in gola.
Chi è quest’estranea?
Ha il volto incrostato da uno strato spesso di polvere e sporcizia, al di sotto del quale sembra essere mutilato. È più grande; decisamente più grande. Forse anche solo di pochi anni, in realtà, ma è sicuramente diversa da quella ragazza che, nella sua mente, conosceva così bene. Il viso è più magro, i lineamenti meno dolci. È sfregiata e ferita; alcuni segni sono ancora freschi, come i due grandi tagli che ha sulla guancia e sulla fronte. I punti sono stati applicati in modo atroce. Non che importi molto, ma è sicura di non esserseli messa da sola; sarebbe stata di certo più delicata. Comunque, stanno guarendo.
Sul lato sinistro, poco più in basso dell’attaccatura dei capelli, ha un’altra ferita circolare. I suoi capelli biondi sono sporchi e arruffati. Una ciocca, che pare quasi ci sia rimasta attaccata, copre quasi tutto il cerchio rosso, grande quanto l’impronta del suo pollice. La scosta con cautela per poterlo esaminare meglio.
La pelle è gonfia, in via di guarigione, e non le piace essere toccata. Tuttavia, non riesce a capire di che ferita si tratti. Può essere che sia stata una puntura, ma sembra più un foro da proiettile, anche se non capisce come potrebbe essere possibile che sia stata sparata in testa.
A meno che questo non sia l’inferno.
Disgustata, lascia che la sua mano ruoti intorno alla macchia appiccicosa che ha anche dietro la nuca, senza ancora volerla toccare direttamente. Concentrandosi su quella zona, le pulsazioni, il torcicollo e il mal di testa diventano più forti.
Il sole sta sorgendo e la sua figura riflessa nello specchio sembra ancora più misteriosa, bagnata da quella luce bluastra. Le occhiaie che ha intorno agli occhi e tutte quelle cicatrici sembrano appartenere a qualcosa di selvaggio, a una creatura partorita direttamente da quel nuovo mondo.
Con un ultimo movimento, Beth lascia cadere il pezzo di vetro a terra, che si frantuma con un rumore metallico e, all’improvviso, sente bussare alla porta. Scatta subito in piedi.
“Ne ho sentito uno!”, sussurra una voce. “Forza, piccolo mostro, vieni fuori! Lascia che spacchi la tua schifosa testolina!”
È una voce femminile, giovane e cristallina, accompagnata da un rumore di passi.
Merda!
Nel frattempo, Beth si accorge di aver lasciato il piede di porco nell’armadio. Corre in bagno in cerca di una qualsiasi altra arma, ma il suo sguardo viene invece catturato dalla finestra: perderà le sue scorte, ma deve scappare. Anche se è curiosa di sapere a chi appartenga quella voce, il suo istinto vuole che lei vada via e i suoi muscoli fremono dal desiderio di scavalcare quella finestra rotta.
I pezzi di vetro cominciano a cadere quando fa passare le dita e i palmi lerci, per poi graffiarle il braccio. Lo ignora, cade a terra con un tonfo leggero, ma riesce a fare solo tre passi prima di essere afferrata da qualcuno alle spalle.
“Hey!”
Sono due braccia forti, quelle che la stringono. Riesce solo a distinguerne i muscoli, la pelle scura e una fede nuziale. Cerca di calpestargli i piedi, ma l’uomo la fa voltare senza sforzo, in modo da permetterle di guardarlo in faccia, tenendo ferma la presa sul suo braccio. Sembra sia un uomo di mezza età o giù di lì, con una barbetta brizzolata sulla quale non mette evidentemente mano da mesi.
“Calmati, ragazzina! Non ti faremo del male.”
Ha una voce profonda e gutturale. Le sue parole suonano di una certa sincerità, ma il suo istinto continua a dirle di scappare, se può.
In realtà, però, non può, dal momento che ha almeno un centinaio di chili a gravarle addosso. Anche se il braccio che stringe gronda di sangue, quell’uomo non sembra intenzionato a lasciarla andare.
“Siamo brave persone, ok? Siamo solo in due.” Le avvolge le spalle con l’altro braccio e la fa indietreggiare di qualche passo, senza mollare la presa. “Ti lascerò andare, ma prima… dovrei chiederti un paio di cose, non credi?”, dice poi con un grugnito che a tratti sembra un avvertimento.
“Tre domande?”, Beth espira e si ferma per qualche secondo. “Mi farai tre domande?”
Il battito del suo cuore accelera. Osserva lo sconosciuto, visibilmente in soggezione. Non sembra riconoscerla, ma la storia delle tre domande è un chiodo fisso nella sua testa.
“Qualcosa del genere.”
Ora è cauto mentre la guarda; le sopracciglia si abbassano velocemente sui suoi occhi neri. Un paio di occhiali da sole penzolano dal suo parka scuro.
“Scusa, è che… dammi solo un minuto” Lei tira un respiro profondo, nel tentativo di sforzare la memoria, e chiude gli occhi. “Quanti vaganti hai ucciso?”
Quella è la prima domanda. Non ha una risposta, ma lo sconosciuto ne ha una per sé stesso.
“Non ne ho idea. Centinaia.”
“Quante persone hai ucciso?” Si sente male solo a chiederlo.
Non ucciderei mai nessuno, pensa, ma è davvero così?
“Da quanto ne so, nove. Altri due probabilmente sono morti per la gravità delle loro ferite, ma non posso certo dire di averli scortati personalmente nell’aldilà”, risponde lui con più decisione.
Probabilmente si è guadagnata la sua antipatia. Sembra irritato, forse perché è lui a dover rispondere a delle domande e non lei.
“Perché?”
L’ultima domanda, la pone con più freddezza. Anche se non ha una risposta per la seconda domanda, per questa ce l’ha sulla punta della lingua.
Dovevo. Non mi hanno dato scelta.
Chi è che non le ha dato scelta?
“Perché avrebbero ucciso me, o Wanda… o tutti quelli che non sono più con noi.”
L’uomo fa un passo per scostarsi leggermente da lei e si volta a guardare la casa. Quando si volta anche lei, si sente come se fosse ancora davanti allo specchio: sulle scale del portico c’è una ragazza, probabilmente della sua stessa età, alta quanto lei e con i capelli biondi della stessa lunghezza dei suoi. Lentamente, quella che presume essere Wanda si avvicina a loro, con gli occhi azzurri guardinghi e la mano stretta all’impugnatura del pugnale che ha attaccato al fianco.
“Mi chiamo Hiatt”, dice lo sconosciuto. “E lei è la mia amica Wanda. Viaggiamo insieme da molto tempo ormai.”
“Io sono Beth Greene. Non so dirti da quanto tempo viaggio, ma sono sola.”
Non appena ha ammesso di essere sola, Hiatt si è rilassato. Mentre le indica la casa con lo sguardo, le sue spalle larghe si abbassano di qualche centimetro.
“Questo posto è tuo?”
Beth scuote la testa. “Solo per stanotte.”
Gli occhi dell’uomo scivolano in fretta sul suo polso insanguinato, che tiene premuto contro il braccio nella speranza di fermare il flusso.
“Se vuoi posso dare un’occhiata.”
“Sei un dottore?”
“Un medico dell’esercito.”
Quelle parole le donano una forte sensazione di calore. Le sembra quasi di conoscerlo, ma è come se avesse una faccia diversa, come se fosse più giovane e avesse gli occhi più tristi.
Bob...”
Perché ricorda quel nome e non quello dell’uomo che è in tutti i suoi ricordi?
“No, Hiatt.” L’uomo non sembra spazientito. Più che altro, sembra preoccupato; si vede dal modo in cui la sta squadrando da capo a piedi.
“Scusa se ho detto di volerti spaccare la testa, ho sentito un rumore e pensavo appartenesse a un morto… Hey, ti senti bene?” Wanda è finalmente abbastanza vicina da poter essere guardata meglio, e sembra preoccupata a sua volta.
Ricordando la figura sfregiata e selvaggia riflessa nello specchio, Beth non è sorpresa dal loro comportamento. Certo, non è che loro siano puliti, ma sono decisamente più curati di lei, forse perché sono in due e possono prendersi cura l’uno dell’altra. Per qualche ragione, quel pensiero le procura una fitta al cuore.
“Non lo so”, risponde, decisamente in ritardo. “Sono ferita e non ricordo alcune cose.”
“In che senso?”, Hiatt guarda il bosco e solo in quel momento Beth si accorge che ha tenuto la mano sull’elsa del pugnale per tutto il tempo. Non l’ha ancora tirato fuori, ma è pronto a farlo nel caso ce ne fosse il bisogno. Comunque, non sembra sia lei a preoccuparlo.
“Non ricordo come sono finita qui, né quello che è successo a quelli che erano con me. Mi sono svegliata in un’auto appena fuori da Atlanta e sto cercando di tornare a casa mia.”
Il viso di Wanda impallidisce sotto la patina di sporcizia che le copre il volto; le labbra si assottigliano e distoglie lo sguardo.
“Mi dispiace, spero per te che non sia troppo lontano”, dice Hiatt, cominciando a salire i gradini del portico e facendo cenno a entrambe le ragazze di seguirlo.
“È a Senoia.”
Qualcosa di quella risposta lo diverte, perché comincia a ridere, per poi fermarsi subito. “Beh, non è poi così lontano, poteva andarti peggio.”
Wanda sorride. “Io e lui ci siamo incontrati quando è scoppiato il caos e da allora ci siamo sempre mossi insieme. Siamo partiti dalla California; abbiamo entrambi parenti a Silver Spring.”
“Da quanto siete in viaggio?”
Ed è ancora lei a fare le domande. Più Hiatt la guarda, più si sente capace di capirlo, ma è consapevole che anche lui sta studiando lei. Vorrebbe dirgli che non ha niente da offrirgli, ma non è neanche una minaccia. È semplicemente sola, persa e ferita.
“È facile perdere la cognizione del tempo, ma… più o meno due anni.”
“Non è passato così tanto tempo”, Wanda lo contraddice, ma non sembra sicura. Infatti, poco dopo deglutisce e diventa leggermente più pallida. “Beh, forse è passato anche di più”, aggiunge con un mormorio.
“Hai già risposto a una delle domande che volevo farti”, Hiatt cambia argomento, osservando ancora l’abitazione.
“Sei sola?” Wanda incontra finalmente i suoi occhi, ma solo per una frazione di secondo. “Certo che lo sei… Hiatt, non credo ci stia mentendo. Guardala, è evidente che non ha nessuno che si prenda cura di lei.”
“Perché dovrei mentirvi?”, dice Beth, così piano che non è sicura di essere stata udita.
Incontrare nuove persone non è mai stato così terrificante. Il cuore le sta letteralmente scoppiando in petto. Non le piace stare in casa con loro, seduta sul tavolo della cucina con Hiatt che le ispeziona il polso tagliato e Wanda che perquisisce la casa. Entrambi, ogni tot di minuti, guardano fuori la finestra.
Nel suo zaino, Hiatt ha quasi un kit di pronto soccorso. Disinfetta il primo profondo squarcio sul palmo della mano; Beth osserva le sue mani ruvide lavare via il sangue secco rimasto intorno alla ferita e avvolgerla in una garza imbevuta di whiskey. Ora che la sua pelle è libera dalla sporcizia, delle linee rialzate catturano la sua attenzione. È stata così sotto pressione nelle ultime ora che non ci aveva ancora fatto caso, ma ora può vederle: ci sono delle cicatrici, sul suo polso.
Le ho fatte io.
Il sangue sembra sgorgare ancora al di fuori di esse, tanto che si è fatto vivido il ricordo. Aveva rotto lo specchio del bagno; non le aveva fatto tanto male tagliarsi con del vetro rotto, ma le tremavano le mani e singhiozzava. Non poteva e non voleva farlo davvero.
Le si contorcono le budella al solo pensiero. Anche se è certa che il suo stomaco sia quasi del tutto vuoto, si sente come se potesse vomitare da un momento all’altro.
Ho provato a uccidermi. Perché l’ho fatto? Come ho potuto fargli questo?
Le sue mani continuavano a tremare, ma ricorda il tocco gentile di suo padre e il suo sguardo grave. Le aveva fasciato il polso con estrema delicatezza. Le è tornato in mente con la stessa forza di uno tsunami. Era stata Maggie a trovarla e a lavare via il sangue, mentre suo padre si era occupato di curarla.
Ha il cuore a pezzi. Vorrebbe solo gridare.
No, no. Non può essere vero, non posso aver fatto una cosa del genere, pensa, ma di fatto ha delle cicatrici sul polso e una serie di nuovi ricordi incastonati nella sua mente che affermano il contrario.
Perché l’ho fatto?
Anche se Hiatt probabilmente le ha notate, non dice nulla a riguardo.
“Io… ehm, c’è dell’altro.” Beth deglutisce e trattiene le lacrime, mettendo da parte il ricordo del suo tentato suicidio.
Si ferma, perché vede Wanda fare il suo ingresso in cucina e posare la sua borsa sul pavimento. “Immagino che questa sia tua.”
“Sì… e anche il piede di porco nell’armadio.”
“Dannazione, davo già per scontato che potesse essere mio!”, Wanda sospira, ma sorride, con le guance colorate del più tenue rossore.
Guardandola con più attenzione, Beth realizza che non si somigliano poi così tanto, anche se a primo acchito chiunque potrebbe scambiarle per la stessa persona.
“Dell’altro?”, Hiatt zittisce Wanda con uno sguardo, rivolgendo l’attenzione alla sua paziente.
“È la mia testa. Non riesco a ricordare cosa sia successo, ma fa male e so che sanguinava. Potresti darle un’occhiata? Anche solo per dirmi quanto è grave...” Beth gli indica la parte posteriore della sua testa.
Aggrottando le sopracciglia, Hiatt si alza in piedi e, in tutta la sua altezza, fa il giro del tavolo. “Avevo notato il sangue tra i tuoi capelli, quando sei caduta dalla finestra...” Improvvisamente, però, smette di parlare. Beth sente i capelli appiccicati alla ferita, che continua a pulsare con vigore. Senza il bisogno di guardarla direttamente, si accorge che Wanda si è bloccata sul posto mentre osserva il suo compagno, per poi spostarsi per ottenere una visuale migliore.
“Oh, merda”, sussurra.
Hiatt riappare di fronte a lei con le labbra ridotte a una linea sottile. Sembra pensare che il commento di Wanda non fosse per niente necessario. Beth stenta a muovere la testa verso di lei, con un movimento quasi impercettibile.
L’uomo scosta delicatamente i capelli che le coprono la parte sinistra della fronte, accentuando il suo cipiglio; poi sparisce ancora dietro le sue spalle. Può sentirlo separare le ciocche attaccate alla ferita; le dita si fanno strada tra quel groviglio di capelli, tracciando una linea che parte dall’attaccatura e finisce sulla crosta appiccicosa che sente di avere dietro la testa. Per quello che sembra un interminabile momento di suspence, non dice nulla. Alla fine, però, si siede di peso sul tavolo, guardandola di sbieco e con gli occhi socchiusi.
“Non ricordi niente?”
Anche se non lo credeva possibile, la sua voce gutturale è ancora più profonda di prima, tanto da sembrare che rimbombi nello spazio che li circonda. Beth continua a non riuscire a vedere Wanda. Dopo quelle poche parole, è stata estremamente silenziosa.
Non scuote la testa, le fa troppo male il collo. “No.”
“Non vedevo una cosa del genere da quando lavoravo sui campi di battaglia.” Lo sguardo di Hiatt viaggia metri e metri oltre la finestra e, sotto la barba folta e nera, contrae la mascella.
“Beh, questo è un campo di battaglia”, mormora Wanda.
“Allora...”, l’uomo comincia lentamente a parlare, “hai una ferita lungo tutta la parte superiore della testa. Stando al livido che hai sull’attaccatura dei capelli, sembra che sia entrato un corpo estraneo e che sia uscito da dietro.”
“Un corpo estraneo?”, ripete Beth, imitando la sua voce atona e pacata. “Del tipo?”
“Probabilmente un proiettile.”
Per quasi un’eternità, in quella cucina nessuno parla o si muove. Hiatt e Wanda sembrano in attesa di qualcosa, ma Beth è nella più completa immobilità. Non sono solo i suoi muscoli, i suoi polmoni e forse il suo cuore a essersi fermati, ma ogni singola cellula del suo corpo, pronta a decadere. È la stasi della morte.

Le pulsazioni nella sua testa e un debole fischio nell’orecchio si riversano su di lei. Quel battito straziante è più pesante e quel suono diviene sempre più forte, come una campana. Può sentirlo. Lei può ascoltarlo.
La sua testa viene colpita da uno sparo, ed è come essere colpiti da un fulmine. Non c’è nient’altro che luce, ma i suoi occhi si spalancano davanti a quel ruggito, a quell’esplosione di morte.

“Mi hanno sparato.”
Prima che possa rendersi conto di aver riacquistato la capacità di muoversi, la sua mano tremante raggiunge un lato del suo cranio.
“La mia ipotesi è che...”, Hiatt annuisce, parlando a bassa voce. “Non posso esserne sicuro senza una radiografia, ma il fatto che riesci ad andare in giro come se stessi più o meno bene dice molto.” Parla con cautela. Non vuole allarmarla, né darle troppa speranza. “Deve essere stato vicino.”
“Sì, lo era.”
Beth ricorda. Non tutto, ma almeno quei pochi secondi che hanno preceduto la scarica di fulmini che si era scatenata nella sua testa, prima che crollasse a terra.
“Lei era in piedi, proprio di fronte a me. Non l’ho neanche vista prendere la pistola.”
Ricorda quel volto così vicino al suo, ricorda la rabbia. Era furiosa, non sapeva come sentirsi. Anche se non ricorda il suo nome, sa che quella donna le ha fatto sentire la collera scorrerle fin dentro le ossa.
“Te lo ricordi?”, le chiede Wanda. Il suo tono è strano, incerto, come se stesse combattendo l’impulso di vomitare.
“Non molto bene, ma sì. C’era una donna con i capelli scuri… era curata e indossava un’uniforme. Eravamo vicinissime, i nostri nasi stavano praticamente per toccarsi. Aveva la pistola attaccata alla cintura, sul fianco.”
“Ha sparato da così in basso?” Hiatt si avvicina di più. “Dal fianco?”
“Non lo so. So solo che non ho visto la pistola, che la stavo guardando in faccia e poi...”
E poi non parla più. Non ha idea di quello che sia successo dopo, non riesce a ricordarlo.
“Se l’angolo è stato così ampio, è una cosa buona. Il tuo cervello non deve aver subito danni gravissimi.”
“Com’è possibile?” Beth vuole crederci, ma sente che non è così. Non ricorda le cose; quello già è un segno che nella sua testa c’è qualcosa che non va.
“Il proiettile potrebbe aver attraversato solo lo scalpo, senza prendere il cranio. Se ha perforato il cranio prima di uscire, forse ha solo sfiorato il cervello.”
La tempesta nella sua testa è sempre più lontana e porta con sé i fulmini. Con cautela, tocca di nuovo quel piccolo foro che ha sulla fronte.
Questo è il foro di un proiettile?
“Dalle dimensioni del foro di entrata e di quello d’uscita, direi che era di basso calibro, e che la traiettoria sia stata ad angolo retto. Sei stata fortunata.”
E allora perché mi guardi come se potessi morire da un momento all’altro?
“Credi più all’ipotesi che mi abbia preso il cervello, vero?”
“Beh, un po’ sì.”
Quando si parla del cervello, anche un po’ può essere pericoloso.
“Credo ti abbia perforato il cranio, ma che in realtà lo shock idrostatico abbia causato più danni del contatto tra il proiettile e il cervello.” Hiatt lancia un’occhiata a Wanda oltre la sua spalla, prima di continuare. “Comunque, se questa ferita era tutto ciò che ti preoccupava, dovresti stare bene. Stai in piedi e il foro di uscita è piccolo. Una piccola parte di calotta cranica si rimarginerà e lo stesso accadrà sulla tua fronte. In quei punti non ti cresceranno più i capelli, ma il tuo corpo ha scelto di vivere. Stai anche guarendo in fretta… non sarà quel proiettile a ucciderti.”
Ma qualcos’altro lo farà.
Non vuole chiedere, non vuole neanche sentirselo dire, perché questa parte del discorso le è piuttosto familiare. “Lo farà l’infezione.”
Hiatt non sembra darle conferma, ma almeno le fa la cortesia di guardarla negli occhi. “È molto probabile che tu prenda una meningite batterica. Sai, vivendo in queste condizioni...”, scuote la testa. “Purtroppo non ho nulla da darti per questo.”
“Mio padre è un dottore. Lui ha… alcune cose.”
O aveva alcune cose.
Beth spinge via la paura; andrà a casa in quel giorno stesso. Andrà a casa e suo padre sarà lì, con i medicinali alla mano per ogni evenienza. Ha la penicillina e qualsiasi altra cosa per un’infezione batterica. Le ha ricucito il polso e adesso la sta aspettando alla fattoria.
Deve esserci.
L’espressione di Hiatt lascia intendere fin troppe cose e Beth si sente mancare. Sta pensando a quello che lei ha paura di considerare; che suo padre ormai è morto da molto tempo, solo che lei non se lo ricorda, perché la sua mente è nel caos.
“A Senoia?”, le chiede.
“A Senoia”, risponde lei con fermezza. “Ci andrò oggi stesso.”
“Non dovresti andarci da sola”, interviene Wanda improvvisamente, avvicinandosi al tavolo per guardarla meglio. “Dovresti...”
Hiatt la interrompe, dicendo l’esatto contrario di quello che lei stava per dire: “Non possiamo farti venire con noi”, afferma con convinzione posando una mano sulla spalla di Wanda e accarezzandola dolcemente. “La meningite è contagiosa e si diffonde velocemente. Non possiamo rischiare. Tra l’altro, stiamo seguendo la direzione opposta.”
Comunque, l’uomo tira fuori qualcosa dal suo zaino- un piccolo taccuino e una penna- e comincia a scrivere.
“Questi sono gli antibiotici che ti avrei dato, se solo li avessi avuti e se fossimo stati ancora nel vecchio mondo.”
Strappa il foglio e glielo passa.

 

∂∂∂∂∂∂∂∂∂∂

 

Le ginocchia di Daryl ormai hanno preso la forma dell’asfalto sbriciolato sotto di esse. Poggia entrambe le braccia sulla portiera del bagagliaio; sente contemporaneamente la carrozzeria fredda e la terra bollente, che sta lasciando segni rossi e profondi sulla sua pelle.
Aaron è accanto a lui mentre si morde la lingua, nel tentativo di non piangere, ma non funziona.
Ogni tanto, il suo compagno si alza e uccide i vaganti che si avvicinano. Adesso sono quattro, distanti l’uno dall’altro, e Daryl pensa che è il momento di alzarsi per aiutarlo. Così, tira alcuni respiri profondi e si rimette in piedi.
Si ritrova ancora davanti a quel cofano vuoto e sente di nuovo la confusione mescolarsi con la furia nel suo petto. Aaron non dice niente, né gli intima di aiutarlo. Lo guarda e basta mentre ci entra dentro.
Disteso di schiena, osservando il cielo spietato oltre la tettoia incrinata, si concentra sul suo respiro, diventato di nuovo regolare. Non è proprio una sensazione di pace quella che lo attanaglia, ma un ricordo. Se si concentra e ascolta bene la sua mente, riesce ancora a sentirla cantare.
A quel punto, tutte le domande di carattere pratico vengono spazzate via. Resta solo un’unica, furiosa parola.
Perché?
Se solo avesse sbirciato dalla finestra prima di aprire quella dannata porta… se solo avesse evitato di essere uno sprovveduto figlio di puttana, in quel momento potrebbe essere ancora lì con lui. Non avrebbero mai lasciato quel posto. Ha tentato di scacciare quel pensiero più e più volte, perché sa che è inutile pensare a quello che avrebbe potuto fare di diverso; è quello che gli direbbe anche lei.
Ma avrebbe dovuto essere viva, perché Alexandria è esattamente il posto dove sarebbe dovuta essere, sana e salva e con la sua famiglia. Con lui.
Una volta ha avuto il coraggio di pensarci, a che tipo di vita avrebbero potuto avere insieme, e quella stessa volta gliel’hanno portata via. Ormai non ha più senso pensarci ancora.
Le nuvole si allontanano dal sole e la luce entra nell’abitacolo. Un fascio di luce che gli illumina il fianco attira la sua attenzione e nota che il sedile è abbassato. Riesce a vedere il parabrezza e il cielo soleggiato che si spalanca al di fuori di esso.
Perché qualcuno avrebbe dovuto prenderla?
Quella è un’altra domanda che non gli da pace.
Nei mesi passati ha avuto diversi incubi a riguardo, in cui tornava e lei non c’era più, ma non immaginava potesse succedere davvero. In alcuni sogni era la macchina stessa a non esserci, in altri veniva travolta da una frana; in altri ancora veniva risucchiata dalla strada, ma non avrebbe mai pensato di tornare lì e trovare una tomba vuota.
Chi l’avrebbe presa?
Lentamente, si siede ed esce dal bagagliaio; lascia cadere la chiave sull’asfalto e chiude la portiera.
“Potrebbe essersi trasformata.” Aaron lo osserva tornare con la fronte corrugata dalla preoccupazione. Sa che tutto ciò che Daryl vuole adesso sono delle risposte; risposte che lui non può avere, ma che può cercare.
“Le hanno sparato in testa”, mormora.
Lo sguardo del suo compagno si sposta sul cofano dell’auto. Sembra confuso quasi quanto lui. “Mi dispiace, Daryl. Ci tenevi così tanto… ma sono sicuro che anche lei lo sapeva.”
Daryl non ne è così sicuro. Non è mai stato bravo a guadagnarsi la simpatia della gente; i suoi meri tentativi di essere gentile sono sempre sfociati in risultati ridicoli. Con l’arrivo dell’apocalisse, però, le cose sono leggermente cambiate. Adesso sembra che almeno qualcuno riconosca il suo valore; di certo non è il tipo di uomo che costruisce un nuovo mondo, ma è il tipo di uomo che continua a sopravvivere, che non smette mai di lottare contro la morte, anche quando vorrebbe.
Anche se lui non piace alle persone, alle persone piace quello che lui ha da dare, e lui non si fa problemi a metterlo a disposizione.
Lei era diversa. Lei non aveva capito che tipo era, non subito. Non aveva niente a che vedere con lui. Era il tipo di persona che ama; il tipo di persona che vede il bene e accetta il male. Guardava gli altri senza alcun pregiudizio, aveva capito certi aspetti di lui a cui non pensava neanche. Ma non aveva capito tutto. Probabilmente, non aveva mai realizzato davvero quanto ci tenesse a lei. Al massimo si era fatta un’idea. Una ragazza del genere, con occhi così attenti e con un’innata capacità nel leggere le persone, magari aveva abbastanza esperienza e intuito da capire quando un uomo la desiderava. Daryl è sicuro di essere sembrato sciocco, di fronte a lei. Doveva per forza aver notato il modo in cui la guardava.
Tuttavia, non era così semplice tra loro e lei lo sapeva. Qualche volta, per un giorno o due, aveva quasi sperato che avesse potuto sentirsi allo stesso modo nei suoi confronti. In ogni caso, che l’avesse fatto o no, aveva un forte ascendente su di lui, in termini di anima e corpo. Ha tenuto a lei in un modo che brucia ancora nel profondo. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei. È entrato nell’inferno e ne è uscito indenne solo per vedere sana e salva, o almeno ci ha provato.
Alla fine, infatti, la sua battaglia è stata inutile. Non è riuscito a salvarla.
Lei è morta, lui vivo. E niente può cambiarlo.
“Hey”, Aaron gli indica la strada con un cenno della testa. Sull’altra corsia, un gruppo di vaganti sta venendo nella loro direzione. Ha un’espressione triste. “Andiamo comunque alla fattoria”, dice.
Daryl accarezza con il pollice il pugnale di Beth, a riposo nel suo fodero. Magari potrà essergli d’aiuto. “Ne sei sicuro?”
Non può dire che effetto gli farà tornare lì. Se lo farà stare peggio o se in qualche modo lo aiuterà vedere qualche sua foto di quando il mondo era più gentile e non c’era niente a metterla in pericolo.
Aaron alza il fucile e si volta verso la sua auto. “Non torneremo a casa a mani vuote.”

   
 
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