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Autore: Echocide    10/01/2018    1 recensioni
Tanto tempo fa, in un paese lontano lontano, un giovane principe viveva in un castello splendente, benché avesse tutto quello che poteva desiderare, il principe era viziato, egoista e cattivo. Accadde però che una notte di inverno una vecchia mendicante arrivò al castello e offrì al principe una rosa in cambio del riparo dal freddo pungente.
Lui, che provava repulsione per quella vecchia dal misero aspetto, rise del dono e la cacciò, ma lei lo avvertì di non lasciarsi ingannare dalle apparenze, perché la vera bellezza si trova nel cuore.
Il principe la respinse di nuovo e in quel momento la bruttezza della mendicante si dissolse ed apparve una bellissima fata.
Il principe si scusò, ma era troppo tardi, perché lei ormai aveva visto che non c'era amore nel suo cuore e per punirlo lo tramutò in una orrenda bestia e gettò un incantesimo sul castello e su tutti i suoi abitanti.
Se avesse imparato ad amare e fosse riuscito a farsi amare a sua volta prima che fosse caduto l'ultimo petalo, l'incantesimo si sarebbe spezzato.
Con il passare degli anni il principe cadde in preda allo sconforto...
Chi avrebbe mai potuto amare una bestia?
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Altri, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Titolo: La bella e la bestia
Personaggi: Marinette Dupain-Cheng, Adrien Agreste, Altri
Genere: romantico, fantasy
Rating: G
Avvertimenti: longfic, AU
Wordcount: 2.171 (Fidipù)
Note: Ed eccoci qua con un nuovo capitolo de La bella e la bestia, mettendo un altro tassello lungo la strada che porta alla fine! Nello scorso capitolo mi sono dimenticata di avvisarvi che, per tutto il mese di gennaio, pubblicherò un capitolo a settimana di questa storia: è quasi alla fine e quindi voglio...come dire? Liberarmene il prima possibile (esattamente come sto facendo con altre).
Detto questo, andiamo come sempre a ricordarvi la pagina facebook, dove potrete restare sempre aggiornati, avere piccole anteprime e leggere i miei deliri. E il gruppo Two Miraculous Writers gestito con kiaretta_ scrittrice92, mentre per gli altri miei social vi rimando alla descrizione nel mio profilo (altrimenti qui faccio la lista infinita!).
Detto questo, come sempre, ci tengo tantissimo a ringraziare tutti voi che leggete, commentate e inserite le mie storie nelle vostre liste.
Grazie di tutto cuore!

 

 

Fissò il legno del tavolo, poggiando il mento sulle dita intrecciate e inspirando profondamente l'aria, cercando di ignorare la farfalla che stava volteggiando attorno a lei e più e più volte le era passata davanti agli occhi: «Lo so che cosa è successo» sbottò, dopo l'ennesimo volo dell'animale, dandosi la spinta e posandosi contro lo schienale della schiena: «La ragazza ha lasciato il castello e… per cosa? Per un'innocua bugia! Lo ama, perché se l'è dovuta prendere per così poco?»
La farfalla volò più alto, sfiorando quasi il soffitto e facendola sorridere: «E' vero. Io ho fatto di peggio, ma anche lui aveva fatto di peggio a me» bisbigliò, battendosi la lingua contro il palato ed emettendo alcuni rumori: «Che cosa devo fare? Era quasi vicino a spezzare l'incantesimo: lui la ama e lei lo stesso. Se tutto fosse rimasto come era la maledizione…» si fermò, storcendo la bocca e osservando l'insetto fluttuare davanti a lei in modo convulso: «Lo so anche io quello che ho detto a Fu, mio caro. E l'ho detto solo per darmi un tono! Insomma, mica potevo apparire e dire: sì, che bello! La maledizione si sta sciogliendo, non credi?» sbuffò, posando il gomito sul tavolo e il viso contro il pugno chiuso, voltandosi verso un angolo della piccola abitazione e fissando l'uomo che dormiva profondamente: «Che cosa dovrei fare? Svegliarlo? Lasciarlo andare? Ma così lui tornerà a casa e la ragazza non avrà più nessun motivo per tornare qui e Adrien…» si alzò con un movimento veloce, posando le mani sul tavolo e scuotendo la testa: «Che cosa devo fare? Oh, ma perché ho lanciato questa maledizione? Perché non potevo fare come tutte le madri normali? No, io dovevo far valere il mio lato fatato e via a condannare il proprio figlio! Che faccio? Che faccio?» alzò il capo, osservando la farfalla e fissandola come se avesse la soluzione a ogni suo problema: «Tu hai un piano? Ne hai sempre uno per ogni problema! Andiamo, non lasciarmi da sola proprio adesso!»
L'insetto sbatté le ali, volando fino a lei e posandosi sul volto della donna, sfiorandola appena con le zampette prima di allontanarsi e fluttuare nell'aria: «Neanche tu hai un'idea, eh?» bisbigliò, lasciandosi andare e scivolando verso terra; tirò su le gambe, poggiando il mento contro le ginocchia e osservando l'uomo dormiente, la stazza che riempiva l'intero letto e quasi fuoriusciva: «Non ha senso che io continui a tenerlo qui. La ragazza potrebbe non tornare comunque e la sua famiglia si preoccuperebbe soltanto» inspirò, alzando una mano e muovendo le dita nell'aria, osservando il suo ospite alzarsi e gettare le gambe fuori dal letto, tirandosi su e dirigendosi verso la porta: Tom Dupain non era piena cosciente, lo sarebbe stato una volta giunto dentro Parigi ma, fino a quel momento, sarebbe stato sotto l'influsso e la protezione della sua magia: «Adrien…» bisbigliò, ascoltando il rumore dei passi dell'uomo che si allontanavano e posando la fronte contro le ginocchia: «Cosa posso fare per lui? Come posso impedire che il mio sbaglio lo distrugga?» si fermò, inspirando e stringendo le palpebre: «Io l'ho condannato a morte certa: se la maledizione si compirà, diventerà una bestia e si scorderà la sua natura umana; oppure il suo cuore spezzato lo ucciderà prima. In ogni caso, la sua fine è segnata.»

 

Inspirò, riconoscendo l'odore tipico di Parigi: l'aria era densa di smog e vapore, i rumori metallici si accompagnavano alla cacofonia di voci umane; si guardò attorno, osservando le persone che accalcavano i marciapiedi e i mezzi che occupavano la strada: macchine a vapore erano al fianco di carrozze trainate da cavalli.
Parigi. La sua cara Parigi.
La sua città natale, confusionaria e caotica.
Dette un piccolo colpo con le redini, seguendo il carro avanti al proprio e osservandosi qua e là, aspirando a fondo i profumi nell'aria, quasi come se in quel modo potesse anche assorbire la città: non ci aveva fatto caso, mentre si trovava lontana, ma le era mancato tutto quello.
Tirò appena le cinghie, facendo rallentare il carro e poi allentando la presa sulla redine sinistra e aumentando la pressione su quella di destra, facendo così voltare il cavallo e immettersi nella piccola via che si affacciava sulla strada principale, sorridendone alla vista: quello era il luogo dove era nata e cresciuta, il vicolo dove aveva cercato di far funzionare le sue prime invenzioni.
Un posto importante nel suo cuore ma che, nel periodo trascorso nel castello di Adrien, aveva quasi dimenticato.
Come poteva essere successo?
Come era potuto accadere?
Abbassò le spalle, guardando avanti a sé e riconoscendo il negozio dei genitori, l'insegna consumata dalle intemperie continuava a svettare sopra la porta del negozio con la vernice leggermente consumata su alcune lettere, tanto che il cognome scritto in bianco non era più Dupain ma assomigliava più a Cupain.
Tirò le redini, facendo fermare il carro davanti il cancello in ferro e legno, proprio accanto alla porta del negozio e balzò a terra, guardandosi attorno e avvicinandosi alle vetrine piene di cianfrusaglie, notando l'assenza di qualche oggetto e la mancata presenza di merce nuova.
Suo padre non era dunque tornato a casa.
Allungò una mano, posandola sul vetro e facendo scivolare il polpastrello verso il basso, tenendo lo sguardo sul piccolo scrigno di metallo, dall'altra parte della vetrina, con una patina di polvere sopra: ricordava il giorno che suo padre l'aveva portato in negozio, tenendo fra le mani quell'oggettino e dichiarando di aver trovato un piccolo tesoro. Sua madre aveva sbuffato, scuotendo la testa e osservando il marito con tutta la saccenteria di cui una moglie era provvista: Marinette li aveva guardati, mentre avevano cominciato una discussione sul vizio del padre a comprare sempre oggetti che non potevano essere rivenduti, ritrovandosi poi fra le mani il cofanetto.
Ci aveva lavorato sopra, sistemando il meccanismo e facendo sì che potesse aprirsi a scatto: era stato un lavoro complicato, impegnata con pezzi che richiedevano l'ausilio della lente, ma alla fine ci era riuscita e aveva modificato il fallimentare acquisto del padre, posandolo poi in vetrina dove era rimasto.
Chinò la testa, posando la fronte contro il vetro e socchiudendo gli occhi, inspirando l'aria e avvertendo gli odori che le pungevano il naso, ma a lei familiari: «Marinette?» la voce conosciuta di sua madre la fece tirare su, mentre si voltava verso l'entrata del negozio e osservava la donna, che ricambiava il suo sguardo quasi sorpresa di vedere la figlia lì: «Sei veramente tu?»
«Ciao, mamma.»
«Oh, il mio tesoro» Sabine corse verso di lei, arrivandole davanti e circondandola con le braccia, stringendo con forza a sé la figlia e nascondendo il volto contro la spalla, tirando su con il naso mentre le spalle tremavano leggermente: «Io avevo paura di non vederti più» pigolò, stringendo la stoffa della giacca di Marinette e tirando su la testa, piegando le labbra in un sorriso: «Dove eri? Che cosa è successo?»
Marinette scosse il capo, stringendo le labbra e arretrando di un passo, facendo vagare lo sguardo attorno a sé, mentre Sabine la liberava dall'abbraccio: «Papà?» domandò, stringendosi le braccio al corpo e massaggiandosi i bicipiti, posando poi la completa attenzione sulla madre e osservandola mentre negava con la testa: «Non…» si fermò, inspirando e lasciando andare l'aria: «Non è tornato?»
«No, tesoro.»
Dove era dunque?
Se n'era andato dal castello di Adrien da molto tempo, da quando lei era giunta al maniero.
Possibile che si forse perso e, in quel momento, stava girovagando da qualche parte, incapace di trovare la via di casa?
Oppure…
No. L'altra ipotesi non voleva pensarla. Non era possibile. Non poteva essere accaduto a suo padre.
«Tu l'hai trovato?»
«No» mormorò, storcendo la bocca e avanzando nella strada, avvicinandosi ai cavalli e cominciando a togliere i finimenti: «Quando sono andata nel luogo indicato dalla lettera…beh, papà non c'era più ed io sono rimasta lì per un po' di tempo perché…perché…» si fermò, stringendo la presa sulle cinghie di cuoio e scuotendo la testa: «Beh, il padrone di casa aveva bisogno dei miei servizi come meccanico.»
«Bontà divina! Non hai fatto saltare niente, vero?»
«No, mamma.»
Sabine annuì, posandosi la mano sul cuore e piegò le labbra in un sorriso, seguendo con lo sguardo i movimenti della figlia mentre libera i due cavalli dal giogo delle redini e li scortava verso la stalla: «Ah, mi chiedo dove si sia infilato tuo padre…» mormorò, seguendola all'interno dell'edificio e superandola, aprendo uno dei box e poggiandosi poi contro il legno: «Sembra quasi scomparso. Puff! Come in quegli spettacoli di magia.»
«E' vero…» mormorò Marinette, posando una mano sul fianco dell'animale e lisciando lievemente il pelo corto: «Mi occupo dei cavalli e poi vado a farmi un bagno.»
«Certamente, tesoro. Vuoi che ti prepari uno spuntino?»
«No. Grazie, mamma.»

 

La fucina era immersa nel silenzio: non c'era più nessuno che lavorava e chiacchierava, alimentando il fuoco nella fornace. Il martello non suonava ritmico contro il metallo, nessuno sbuffo si levava dai macchinari e nessun suono di ingranaggi messi in moto giungeva alle sue orecchie.
Lei se n'era andata e anche la vita di quel luogo.
Il castello stava velocemente riprendendo la patina di abbandono che aveva avuto, prima che Marinette giungesse in quel luogo, anche la servitù sembrava aver perso il suo brio e si muoveva solo perché doveva farlo: era molto facile trovare Wayzz immobile da qualche parte, possibilmente, sopra un mobile; Mikko non apriva più le sue ante e non gettava più nastri e pezzi di stoffa ovunque e anche il resto sembrava scivolare veloce verso l'apatia.
Tutto stava morendo, privato dell'essenza vitale dalla partenza di Marinette.
Forse Plagg aveva avuto ragione e lei era stata la chiave per liberarli tutti, ma lui era stato troppo idiota per accorgersene e l'aveva lasciata andare via, l'aveva persa, tutto perché non era stato capace di dirle la verità fin dall'inizio, sorreggendo il gioco dei suoi servitori.
Entrò nella stanza, posando la mano metallica sul tavolo e scivolando sullo sgabello, poggiando il gomito contro il legno e tenendo il braccio rilassato con il palmo rivolto verso l'alto: la posa che assumeva sempre quando lei doveva fare la manutenzione al suo arto e quasi poteva vederla, con la testa china sopra gli ingranaggi mentre lo riprendeva per la noncuranza con cui trattava il suo stesso braccio, alzando poi lo sguardo e sorridendogli per un breve attimo, prima di tornare a dedicarsi al suo lavoro: «Ti amo» bisbigliò al suo fantasma, chiudendo appena le dita e riaprendole, domandandosi come avrebbe reagito alle sue parole.
Sarebbe arrossita, assumendo quella deliziosa tonalità rosata che le colorava le guance, arretrando poi di un passo e balbettando qualche parola senza un senso logico, cercando di comporre una frase; sorrise, mentre la immaginava portarsi una mano alla testa e tormentare una ciocca sfuggita all'acconciatura, tenendo con decisione lo sguardo verso terra e poi rialzando, una volta acquisita sicurezza, e posandolo lentamente su di lui.
Sì, se chiudeva gli occhi poteva vederla tranquillamente, immaginarla in ogni gesto.
Alzò il capo, sorridendo e chiudendo gli occhi, rivedendola mentre si affaccendava in quella stanza, mentre scherzava con i servitori, incontrando poi lo sguardo e vedendoci l'illusione di un sentimento ricambiato: «Ti amo, Marinette.»



I rumori nella strada la tenevano sveglia, rendendole incapace dormire e trovare ristoro nel sonno, impedendo così alla sua mente di lavorare: che cosa stava facendo Adrien in quel momento? Come stava?
Perché le aveva mentito? Perché aveva inscenato quel teatrino fin dal primo giorno che si erano conosciuti?
Adrien aveva provato a parlarle, a spiegarle ma lei non ricordava alcunché, solo il dolore della bugia e la bruciatura della delusione; si portò una mano al petto, massaggiandoselo appena sopra la camicia da notte e voltandosi verso la finestra e osservando la luce dei lampioni a gas fra le stecche delle imposte chiuse: voleva dormire, lasciarsi andare ai sogni e sperare che, almeno in quelli, non ci fosse dolore, ma invece rimaneva sveglia e completamente cosciente.
Scosse il capo, alzandosi e posando i piedi sulle assi del pavimento, avvicinandosi alla toeletta e afferrando la piccola lampada a gas, accendendola e rischiarando la stanza; si guardò attorno, trovando subito i suoi indumenti da lavoro e si tolse la camicia da notte, infilandosi la camicia e la gonna corta, sporchi in più punti di grasso e olio, sistemandosi poi alla meglio i capelli.
Se non poteva dormire avrebbe lavorato, sfruttato quel tempo, piuttosto che lasciarsi andare ai piagnistei.
Non avrebbe più pensato a niente.
Non avrebbe più pensato a quel castello, immerso nella foresta, con quella strana servitù e quel padrone che le aveva ghermito il cuore: con il tempo, il dolore si sarebbe placato e i suoi sentimenti assopiti e poi dimenticati.
Doveva solo attendere e lasciare che il tempo la guarisse.
Solo questo. Nient'altro.
Annuì con la testa, quasi come a confermare la propria decisione, e uscì dalla camera, raggiungendo le scale del corridoio e salendole, tornando alla sua mansarda piena delle sue invenzioni: lì doveva stare, quello era il suo mondo.
Lì sarebbe rimasta.

 

 

   
 
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