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Autore: Lhea    10/01/2018    0 recensioni
Seguito di "Russian Roulette".
Los Angeles: le strade della Black List non sono più quelle dei piloti clandestini, da quando c'è Irina Dwight a fare l'agente di polizia. Eppure, anche nelle notti più tranquille, lo spirito della Black List si agita ancora. Uno spirito diverso, distorto, più nero di quanto non lo è mai stato; uno spirito risorto dalle ceneri della leggenda dello Scorpione e delle sue auto. Uno spirito fatto rinascere da chi non ha mai conosciuto il lusso dei locali della costa, da chi non ha mai giocato il proprio denaro dei casinò di Las Vegas, da chi non ha mai accarezzato il volante di un'auto da duecentomila dollari.
Questa volta, il passato da pilota clandestina e il presente da agente di polizia non basteranno a Irina per affrontare la partita a scacchi che le verrà proposta. Non basteranno le sue capacità, né la sua auto. Non basterà nulla di tutto ciò che ha già.
L'unica cosa che potrà salvarla sarà il suo nome, il nome con la quale porta ancora vivo addosso il ricordo della Black List: Fenice.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sei mesi dopo

 

Ore 5.45 – Santa Monica, Casa di Irina

L'orologio ticchettava a intervalli regolari, ininterrottamente, scandendo il passare del tempo in modo inesorabile, nel silenzio della camera da letto, una lama di luce debole e grigiastra che segnava la parete vuota, facendo sembrare la vernice azzurra stranamente smorta. Irina ne contava i rintocchi, uno dopo l'altro, fissando il soffitto buio della sua stanza, sdraiata nel letto gelido, la coperta a coprirle le gambe, le mani appoggiate sul grembo.

Era evidente che il tempo non si sarebbe fermato, nonostante le sembrasse scorrere così lentamente.

Tra un suo respiro e l'altro poteva contare circa quindici ticchettii; tra un battito di palpebre e l'altro più o meno quattro.

Irina sospirò, mentre sentiva il rumore di una delle prime auto della mattina che passava davanti alla strada di casa sua. Poco dopo toccò al camion dei rifiuti, poi l'abbaio del cane della famiglia che viveva nell'appartamento di fianco al suo, che veniva portato di sotto per la prima passeggiata della giornata.

Ormai conosceva a memoria tutta la routine del palazzo e degli abitanti del quartiere; riusciva persino a riconoscere il suono dei motori delle auto che entravano e uscivano dai garage.

Contava i secondi che passavano, ma non le notti in cui aveva dormito poco, o quelle in cui si era svegliata troppo presto.

Si alzò gettando le coperte di lato, e tirò su le imposte della finestra. La luce fioca di ottobre invase la sua camera quasi vuota, mentre scostava la tenda e guardava di sotto, sulla strada ancora deserta. Non amava molto il quartiere di Santa Monica, ma era tranquillo e molto distante dalla sua vecchia casa con piscina, ed era anche così modesto da ricordarle quasi i tempi in cui viveva ancora a casa di suo padre, quando ancora sua madre si ammazzava di lavoro per guadagnare abbastanza da mettere insieme i soldi per l'affitto e la spesa.

Si appoggiò al davanzale della finestra, rabbrividendo per lo strano freddo che sembrava sempre permeare la sua stanza, e guardò il cielo nuvoloso appena rischiarato dall'alba, e capì che sarebbe stata una giornata lunga e faticosa da affrontare. L'unica cosa che la consolava era che tutto si sarebbe svolto nella solita routine, prevedibile e noiosa.

Riassettò rapidamente il letto, e ripiegò gli abiti che la sera prima aveva lasciato appoggiati sulla cassettiera. Nonostante si fosse portata lo stretto indispensabile dalla sua vecchia casa, ultimamente faceva fatica a tenere in ordine, più che altro perché non ne sentiva la necessità. Non invitava quasi mai nessuno a trovarla, e chi veniva di solito lo faceva per pochi minuti.

Strisciando i piedi Irina si diresse in cucina, mentre sentiva oltre la porta di ingresso il raspare del cane del vicino che tornava dalla passeggiata. Mise su un po' di caffè, la radio accesa con il volume al minimo, per ascoltare le previsioni del meteo. Avrebbe piovuto, molto probabilmente. 

Buttò giù la tazza di caffè senza mangiare nulla, poi si infilò un paio di jeans e una felpa, prima di andare in bagno a lavarsi.

Ormai era abituata a vedere il suo riflesso nello specchio rettangolare, quindi non faceva più caso alle ombre nere sotto agli occhi e al pallore della sua pelle. La luce al neon poi era impietosa, facendola apparire ancora più sbattuta di quanto già non fosse, ricordandole che quell'estate non aveva passato molte giornate in spiaggia, come aveva sempre fatto. In sei mesi sembrava invecchiata di dieci anni, eppure non gliene importava gran che.

Quindici minuti dopo sfrecciava a bordo della sua Audi TT nera, diretta verso nord, sotto il cielo grigio dell'autunno, la strada sgombra e la radio spenta, in un silenzio ovattato solo dal rumore del motore. Era ancora presto per i monovolume che portavano i bambini a scuola, delle grosse berline luccicanti dei manager diretti nelle aziende e delle utilitarie degli impiegati che andavano in ufficio. Era più che altro l'ora di quelli che facevano i lavori duri, gli operai su turno delle fabbriche o i camionisti.

Irina amava guidare in quella calma, ascoltando solo il suono del motore dell'auto. La rilassava e la aiutava a smettere di contare.

Quando arrivò al cimitero di Los Angeles, non parcheggiò davanti all'ingresso monumentale. I cancelli erano ancora sbarrati, e non avrebbero aperto prima delle otto del mattino, più o meno poco dopo che i due fiorai che lavoravano lì davanti avessero piazzato i loro banchetti. Costeggiò l'alto muro di mattoni rossi che lo delimitava per circa quattrocento metri, finché non trovò un piccolo spiazzo vuoto, proprio vicino al marciapiede dove non passava mai nessuno, visto che era una strada chiusa. Lasciò l'auto parcheggiata vicino al muro e scese.

Incassato nei mattoni rossi, c'era un minuscolo ingresso, chiuso da un cancello alto circa un metro e mezzo, senza maniglia ma con una catena spessa e arrugginita a tenerlo saldamente chiuso. Irina tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una chiave e lo aprì, sgusciando dentro seguita solo da una folata di vento freddo.

Ogni volta che entrava lì di nascosto, sapeva di commettere un'infrazione. Un'agente di polizia come lei avrebbe dovuto dare il buon esempio, ma erano molti mesi ormai che qualcosa in lei non funzionava più a dovere.

Camminare nel cimitero deserto non le faceva più alcun effetto; aveva smesso di guardarsi alle spalle, e non aveva più la sensazione che ci fosse qualcuno a seguirla. Osservava le lapidi che spuntavano dal prato, grigie, nere, bianche, più o meno spoglie, più o meno recenti. Conosceva a memoria tutti i nomi che ornavano quelle al bordo del camposanto, le date di nascita e le date di morte. Le aveva anche contate.

Irina proseguì a passo rapido, verso la zona più recente di sepoltura, accompagnata solo dal vento freddo e dallo stormire delle foglie e dell'erba. Incontrò i soliti due piccoli pini che erano stati piantati sulle tombe di una giovane coppia dalla madre della ragazza, e notò che stavano crescendo bene, nonostante il luogo tetro in cui avevano messo radici. Li superò e raggiunse l'ultima lapide in fondo, di marmo nero, ancora lucida e splendente come se fosse stata appena posata.

Alexander Went.

Irina inchiodò di fronte alla tomba, sospirando.

Ogni volta che arrivava fin lì, qualcosa dentro di lei si rompeva. Era come se segretamente sperasse che su quella lapida quel nome sparisse e venisse sostituito da quello di uno sconosciuto. O che, di colpo, si risvegliasse da quel maledetto sogno grigio e doloroso.

Non era così.

Erano passati sei mesi, da quando Xander era morto. Le sembrava ieri, il giorno in cui aveva assistito al suo funerale, distrutta dal dolore e dal senso di colpa. Il tempo sembrava essersi cristallizzato a quel mattino di marzo, nel quale aveva aiutato Jenny a scegliere il suo abito da sposa e si era ritrovata ad aspettare Xander sul bordo del marciapiede, in ritardo ad un appuntamento con lei per la prima volta nella sua vita.

Dicevano che il tempo curava anche le ferite più profonde, cancellava i ricordi e faceva dimenticare il dolore.

Ci aveva creduto, all'inizio.

Era rimasta chiusa in casa per settimane, abbandonata nella sua volontaria solitudine, cercando di elaborare, di accettare, di comprendere quello che era appena successo. Aveva creduto di essere preda di qualche incubo, di potersi svegliare da un momento all'altro e scoprire che Xander era vivo, che lei aveva avuto una tremenda allucinazione.

Xander era morto in uno modo così stupido che per lei era inconcepibile.

Una rapina. Una sciocca rapina nella quale era intervenuto solo perché lei non era in servizio, un inseguimento finito in sparatoria e quattro proiettili che lui non era riuscito a evitare. Era quello che le avevano detto, che in quel pomeriggio straziante le avevano riferito, mentre lei gridava che non era possibile, che Xander non poteva essere stato ucciso da un rapinatore da strapazzo...

Non c'era stato nessun sopravvissuto, a quella sparatoria. Gli agenti che erano in servizio erano stati colpiti anche loro, e inizialmente nessuno aveva saputo che pista seguire. Poi, dopo appena una settimana, quando Irina non aveva ancora davvero realizzato quello che era successo, un paio di criminali sudamericani erano stati messi dietro le sbarre con l'accusa di omicidio di pubblico ufficiale. Il dipartimento di polizia di Los Angeles era stato veloce, nel fare le indagini, perché c'era il coinvolgimento anche di un agente dell'F.B.I., e Howard McDonall, il Vicepresidente, si era occupato personalmente di chiedere un rapporto approfondito sull'intera vicenda.

In tutto quel casino, Irina non era stata in grado di fare altro, se non cercare di lasciarsi consolare dai genitori di Xander, da Jenny, da Jess, da suo padre, e da tutti quelli che le volevano bene. Ma niente era riuscito a colmare almeno un po' l'enorme vuoto che la morte improvvisa di Xander aveva lasciato dentro di lei. Soprattutto perché ogni mattina si alzava dal letto, e ricordava a se stessa che in fondo era anche colpa sua.

Se quel giorno fosse stata in servizio, se fosse stata a pattugliare per strada, molto probabilmente Xander sarebbe stato ancora vivo.

Nell'esatto momento in cui Eric Senderson, il suo capo, le aveva comunicato quello che era accaduto, l'unica cosa che lei aveva pensato era che la colpa era sua. Se lui non l'avesse sostituita, se non avesse preso il suo posto, nulla di tutto quello sarebbe mai successo.

Le prime settimane, quella consapevolezza l'aveva resa incapace di parlare, di muoversi, di reagire. Aveva passato giorni interi a piangere, distrutta dal silenzio che regnava in casa. Aveva sperato ogni mattina di alzarsi e trovare Xander in cucina, in bagno, in garage, in qualunque luogo gli fosse appartenuto. Eppure, ogni volta, la verità le sbatteva addosso ogni volta più forte. 

Xander era morto. Non sarebbe mai tornato indietro.

Poi aveva smesso di commiserarsi, di incolparsi, di disperarsi. Semplicemente, aveva rinunciato a combattere il dolore e si era lasciata avvolgere da esso. In qualche modo aveva iniziato a conviverci, senza saper consolare nessuno, nemmeno i genitori di Xander, che come lei stavano patendo un dolore enorme. Avevano perso il loro unico figlio per colpa di quella stessa ragazza che lui aveva salvato quasi quattro anni prima.

Loro però se ne era potuti andare; erano tornati a New York, ad elaborare il loro dolore nella città in cui Xander si era fatto le ossa come agente. Non lo avevano fatto per lei; avevano preferito tornare semplicemente dove avevano i ricordi migliori della vita del loro figlio.

Lei, invece, era rimasta immobile, chiusa nel suo bozzolo, a cercare di dare un senso a quello che molto probabilmente non lo avrebbe mai avuto.

Xander era morto e non sarebbe mai tornato.

Nel giro di due settimane, aveva venduto tutto ciò che era appartenuto a lei e Xander. Il garage della loro casa era stato svuotato: la Ferrari 458 che aveva usato contro lo Scorpione era stata venduta a un vecchio milionario che voleva farla riverniciare; la BMW M3, quella che li aveva fatti conoscere, era stata ceduta a un ragazzino che sicuramente avrebbe ritrovato a qualche gara clandestina, se lei non avesse smesso di frequentarle; la Maserati Granturismo le era stata riconsegnata dopo una settimana dall'incidente, pulita e solo un po' ammaccata, e lei l'aveva fatta demolire. La casa era andata una giovane coppia che si trasferiva da Boston per lavoro, che si sarebbe sposata da lì a poco.

In un attimo, si era ritrovata ad avere sul suo conto in banca più soldi di quanti ne avesse mai avuti in vita sua. Aveva contattato Steve Went e gli aveva chiesto di ritirare la somma, ma lui non aveva voluto. Xander sicuramente avrebbe preferito che quei soldi andassero a lei.

Irina aveva diviso la cifra a metà, aveva costretto Steve a prendere la sua parte, e con l'altra si era comprata quell'appartamento anonimo e spoglio in Santa Monica, senza portarsi nulla dalla vecchia casa.

Aveva preso un congedo di tre mesi dal lavoro, che Senderson le aveva concesso senza alcun problema, e si era messa ad aspettare che il dolore passasse.

Nel frattempo, Jenny e Jess si erano comunque sposati. Avevano pensato di rimandare tutto, ma Irina era stata irremovibile, e aveva convinto Jenny a fare la cerimonia comunque. Era stata una giornata felice, per la sua amica e Jess, nonostante l'ombra dell'assenza di Xander, e Irina si era sforzata di presenziare. Aveva patito ogni secondo, mentre si rendeva conto che tutto quello sarebbe dovuto accadere anche a lei, prima o poi, e invece no. Invece Xander era morto senza nessun senso, quando non lo meritava. Però era sicura che quel dolore doveva essere solo suo, e non poteva costringere il mondo a fermarsi per lei.

Il giorno stesso del matrimonio, Jenny aveva annunciato di essere incinta, cosa che Irina sapeva già da prima, e Jess aveva lasciato l'F.B.I. per andare a lavorare come tecnico in una multinazionale di software che aveva sede a pochi chilometri da Los Angeles. Anche per loro la morte di Xander era stata uno shock, ma almeno erano in due a consolarsi a vicenda, e in ogni caso dovevano prepararsi a diventare genitori. Non potevano permettersi di farsi prendere dallo sconforto.

Todd, suo padre, ormai lavorava come aiuto cuoco a tempo fisso in un piccolo ristorante nelle vicinanze della centrale di polizia, ed era in grado di mantenere se stesso, la casa, e le spese minime per Harry e Denis, i suoi fratelli. Harry era riuscito a farsi assumere come magazziniere da una ditta che vendeva articoli per l'edilizia; Denis cercava di frequentare una scuola serale e il mattino dava una mano al mercato ortofrutticolo.

Dominic e Sally si erano trasferiti a Oxnard, a una cinquantina di miglia da Los Angeles, dove Dominic lavorava come operaio in una fabbrica di farmaci. Era stato in grado di comprare una casa accogliente e un'utilitaria, mentre Sally faceva la commessa mezza giornata in un negozio di abbigliamento. Erano felici, finalmente, e sembravano una famiglia normalissima, lontana anni luce da quella che era stata un tempo. Tommy, il suo adorato nipotino, era cresciuto molto, e ormai aveva iniziato il primo anno di scuola elementare. Le sue difficoltà a parlare non erano che un ricordo.

E due settimane prima, era nato il figlio di Jenny e Jess, Luke.

Insomma, in quei sei mesi il mondo si era mosso, eppure lei era ancora davanti a quella lapide.

Irina fissò il marmo nero, le lettere incise in argento, i fiori ancora freschi e il vento che spirava leggero ma freddo. Faceva male ogni volta, fissare quella tomba, ma era l'unico modo che aveva per ricordarsi che era morto, e che non l'avrebbe più trovato ad aspettarla dietro l'angolo della strada a bordo della sua Ferrari.

Sentì le lacrime inondarle gli occhi, mentre rimaneva immobile.

"Quanto deve durare ancora, tutto questo?" si domandò, "Quando riuscirò a dare un senso alla tua morte? Non era così che te ne dovevi andare... Non per una stupida rapina, per mano di un criminale da due soldi... Chi ha deciso tutto questo?".

Si passò una mano sugli occhi, cacciando via le lacrime. Fissò l'orizzonte e il cielo grigio che si stagliava sul camposanto, e scosse il capo. Aveva ancora due visite da fare.

La tomba di sua madre era sempre la stessa, sempre pulita, sempre in ordine, da quando suo padre veniva una volta a settimana a trovarla. La fioriera era piena di gigli bianchi ancora freschi, la cornice che ne custodiva la foto lucida e splendente, un piccolo abete piantato da poco li vicino.

Irina si fermò poco, giusto il tempo di augurare a sua madre una buona giornata, poi si diresse dall'altra parte del cimitero.

Diversamente dalle altre due, la tomba di William Challagher era spoglia. Nessuno a parte lei doveva mai essere andato a trovarlo, in quei due anni. I fiori erano gli stessi che aveva lasciato lei quattro giorni prima, come capitava sempre. Li rassettò solo un po', salutò anche lui e se ne andò.

Quando si richiuse il cancelletto del cimitero alle spalle, Irina si sentì diversa. All'inizio aveva sempre definito quella sensazione "tranquillità", ma ora sapeva di cosa si trattava: era rassegnazione. Una rassegnazione che l'avrebbe resa meno inquieta fino al calare della sera, fino a quando non sarebbe tornata a casa, ritrovandosi di nuovo da sola.

Ogni mattina era così, da sei mesi a quella parte: cercare un modo di anestetizzare il dolore almeno per qualche ora, giusto il tempo di vedere come il mondo stava andando avanti e dove era rimasta lei.

Guardò l'orologio, scoprendo che erano quasi le sette e mezza. Goccioline di pioggia si stamparono sul parabrezza della TT, quando lei mise in modo e si diresse verso il centro di Los Angeles. Sarebbe andata direttamente verso la centrale di polizia, affrontando distrattamente il traffico mattutino, zigzagando appena tra le auto in coda.

Mentre aspettava di superare un incrocio particolarmente trafficato, sentì il suo cellulare vibrare. 

"Se vuoi passare a cena stasera, dovrebbe esserci Harry. Preparo le scaloppine in salsa verde".

Era un messaggio di suo padre. Irina scosse il capo, mentre rispondeva rapidamente. Nella sua mente ricordò che poteva essere multata, per quello che stava facendo: uso di telefono cellulare alla guida.

"Grazie, ma dovrò fermarmi a lavoro. Saluta mio fratello".

Mentiva, e lo sapeva benissimo. Il suo lavoro non era più lo stesso, visto che erano sei mesi che era praticamente fuori dal servizio attivo. Le serate di pattuglia, quando tornava a casa alle quattro del mattino dopo inseguimenti in autostrada e corse tra le vie cittadine, erano solo un ricordo. Tornare a casa sua, quella dove era cresciuta, ultimamente le metteva una certa inquietudine, perché anche lì c'erano luoghi che la legavano a Xander e le risvegliavano ricordi dolorosi. E le occhiate addolorate di Todd non facevano che renderla ancora più triste.

La stazione di polizia era già brulicante di vita, anche alle otto del mattino. Parcheggiò la TT, incrociando Ted Warner, un collega che aveva fatto i turni di pattuglia notturni con lei ogni tanto, che tornava verso casa. Gli rivolse un cenno di saluto, poi si diresse verso l'ingresso, salutando con un buongiorno tirato i poliziotti che la riconoscevano quando passava.

Era stata quasi una star, nel dipartimento, prima della morte di Xander. Lo era ancora, anche se al telegiornale non si vedevano più le immagini dei suoi arresti e dei suoi inseguimenti.

<< Irina... >> la salutò Onsow, l'anziano poliziotto che presidiava l'ingresso dietro il suo bancone, portandosi una mano al cappello, << Sto facendo portare dei caffè, vuoi qualcosa? >>.

<< No, grazie, sono a posto così >> rispose Irina, nonostante non mangiasse nulla di solido dalla sera prima, << Senderson? >>.

<< E' già in ufficio >> rispose Onsow, << Forse ti cercava >>.

Irina ringraziò e salì le scale, diretta verso il suo ufficio. Percorse il corridoio bianco sul quale si affacciavano diverse porte, la sala d'attesa, l'ufficio per le deposizioni, la saletta ristoro.

Il suo ufficio era in fondo, proprio di fianco a quello di Senderson. Aprì la porta, trovando la scrivania occupata da enormi faldoni di carta, documenti e plichi di vario tipo. Aveva decine di archiviazioni da fare e doveva visionare un sacco di profili di potenziali piloti clandestini. Era un lavoro noioso, ma le consentiva di tenere la mente occupata e soprattutto di stare lontana dalla strada.

Lasciò cadere la borsa sul pavimento, quando sentì bussare all'ingresso.

<< Sei già arrivata? >>.

Irina si voltò di scatto, trovando Eric Sanderson in uniforme, una tazza di caffè bollente in mano e un'espressione indecifrabile dietro la barba scura. Aveva all'incirca cinquant'anni, ma il suo passato da giocatore di rugby lo faceva mantenere ancora atletico e tutto sommato attraente.

<< Ho del lavoro da smaltire >> rispose lei, facendo un cenno verso la scrivania.

Senderson scosse il capo, come se non fosse convinto della sua risposta. Si frugò nella tasca dei pantaloni, estraendo un mazzo di chiavi.

<< Guarda caso sei arrivata in tempo per risponde a una chiamata dall'ospedale >> disse l'uomo, << C'è da trasportare un organo per un trapianto urgente. Te ne occupi tu? >>.

Le lanciò le chiavi prima ancora di ricevere risposta, e Irina le afferrò al volo, sapendo di non poter rifiutare.

<< Ti aspettano al Los Angeles Hospital tra venti minuti. Do loro conferma che stai partendo >> aggiunse Senderson, sparendo oltre la porta.

Irina raccolse la borsa e a passo rapido ripercorse il corridoio della stazione di polizia, scendendo nel garage, dove venivano parcheggiate le pattuglie. Salutò un paio di colleghi che stavano per uscire di ronda, e raggiunse le auto parcheggiate in fondo, in un'ala separata.

Una era la sua vecchia compagna, la sua Fiat Punto bianca con l'aerografia di una fenice, un piccolo scorpione su un parafango e i cerchi bruniti che aveva fatto cambiare un anno prima. Erano esattamente sei mesi che non la utilizzava più, e sopra la carrozzeria si era depositato uno strato di polvere che la rendeva opaca e quasi grigia. Se non fosse stata parcheggiata lì sotto, nella centrale di polizia, tutti avrebbero potuto pensare che fosse stata sequestrata a un pilota clandestino, non che fosse stata promossa a volante.

Le rivolse un'occhiata fugace, prima di raggiungere l'altra vettura ferma al suo fianco, una Lamborghini Gallardo nella livrea bianca e nera della polizia di Los Angeles, con tanto di lampeggianti e sirene sul tetto. I cerchi da diciotto pollici brillavano sotto le luci dei neon, la carrozzeria filante e le nervature del cofano a custodire il potentissimo motore V10.

Aprì la portiera e si mise al posto di guida, accarezzando la pelle del volante e lasciandosi avvolgere dai sedili sportivi, l'alluminio del cruscotto che scintillava e l'abitacolo permeato dal profumo della pelle. Infilò la chiave e avviò il motore.

Con un rombo sordo, i cinquecentosessanta cavalli sotto il cofano ruggirono imbizzarriti, facendo voltare quattro poliziotti di passaggio. Irina trasse un respiro profondo, mentre assaporava quel suono come musica, le dita che scivolavano sul pomello del cambio, le spie del cruscotto che si accendevano indicando che tutto era in perfette condizioni, la lancetta del contagiri che si assestava sul minimo.

Non aveva più guidato la Punto, da quando Xander era morto, eppure si rendeva conto che la velocità faceva parte del suo DNA, che nonostante tutto non aveva ancora smesso di essere una pilota. Lo sapevano tutti. Lo sapeva Senderson, quando le dava quell'auto da guidare; lo sapevano i suoi colleghi, che credevano fosse l'unica in grado di portare la Gallardo; lo sapeva lei stessa quando si recava al lavoro.

Era come tornare a respirare, in modo affannoso, ma era sempre una boccata d'aria per la sua anima soffocata.

Accelerò, portando la Gallardo lentamente verso l'uscita del garage. Il motore ringhiava appena, mentre risaliva la rampa e sbucava sulla strada, attirando l'attenzione dei passanti. Non si vedeva spesso in giro quell'auto, e quando usciva significava sempre che aveva un compito importante da portare a termine.

In meno di cinque minuti, Irina si lasciò alle spalle la centrale di polizia, sgusciando tra le auto che si dirigevano a lavoro, i mezzi pubblici e i pedoni indisciplinati. La Gallardo era docile come un gattino, sotto le sue mani esperte, fluida nonostante i cinquecento cavalli che da un momento all'altro potevano imbizzarrirsi.

Raggiunse il Los Angeles Hospital con cinque minuti di anticipo. Parcheggiò l'auto nella corsia riservata alle ambulanze, ma non dovette nemmeno scendere dal posto di guida: le porte di ingresso si spalancarono, e due infermieri che reggevano un grosso contenitore simile a un frigo portatile uscirono di corsa. Irina tirò fuori dal portaoggetti il cavo di alimentazione supplementare e lo agganciò alla presa che era stata istallata appositamente per lo scopo.

Uno degli infermieri, un signore robusto dalla barba scura spalancò la portiera del passeggero, e con l'aiuto del collega ancorò la cella frigorifera al sedile, fermandola con le cinghie. Irina inserì la presa e gli fece un cenno di saluto, mentre la spia dell'alimentazione sul tunnel centrale dell'auto si accendeva.

<< Signor Black >> lo salutò.

L'uomo le sorrise, porgendole un foglio di carta piegato in quattro.

<< Buongiorno agente Dwight >> rispose, << Ospedale di Fresno. Trapianto di cuore. Il ricevente è un bambino di otto anni >>.

Irina annuì. Non era la prima volta che trasportava un organo fino a Fresno: erano circa trecento chilometri di strada perfettamente dritta, in larga parte in autostrada. Accese i lampeggianti, controllò che la cella frigorifera fosse ben salda al sedile e controllò l'orologio.

<< Farò in fretta >> disse.

<< La aspettiamo sempre per un caffè >> la salutò l'infermiere.

Irina gli fece un cenno di saluto con la mano, poi accarezzò l'acceleratore e portò la Lamborghini fuori dal parcheggio. La delicatezza e la velocità erano tutto, quando trasportava qualcosa di prezioso come l'organo destinato a salvare la vita di un bambino.

Si diresse verso l'autostrada, mentre afferrava la radiotrasmittente.

<< Centrale, qui agente Dwight. Ho appena caricato la cella frigorifera, e sto per imboccare la superstrada. Sono le otto e trentaquattro minuti. Predisponete corsia preferenziale direzione Fresno >>.

<< Autorizzazione accordata, agente Dwight >> rispose la voce di una donna alla centrale, che lei riconobbe come Sasha Jekson, una delle sue colleghe, << Accendi i lampeggianti e mettiti per strada. Ti aspettano al Fresno Hospital per le dieci >>.

Irina lasciò che le sue labbra si increspassero in un sorriso appena accennato.

<< Se arrivo prima delle dieci, Senderson mi offre il pranzo? >> ribatté.

<< Sicuramente, visto che vuole vederti per mezzogiorno nel suo ufficio... >> rispose Sasha.

Irina sbuffò.

<< Sono già in strada >> disse, chiudendo la telecomunicazione.

Sgusciò lungo le strade di Los Angeles rapida, agevolata anche dal fatto che il traffico andava diminuendo. Trovò la sbarra del casello già aperta, quando imboccò l'autostrada. Spense la sirena che l'aveva accompagnata fino a lì e lasciò solo i lampeggianti accesi.

Quando la strada dritta e appena soleggiata della CA-99 si stagliò davanti a lei, affondò il piede sull'acceleratore, facendo ruggire il motore della Gallardo. L'auto schizzò in avanti incollandola al sedile, ma Irina ormai era abituata a quelle velocità.

La lancetta del tachimetro segnò i centocinquanta, e lei stiracchiò il collo e accese la radio, inserendo il suo cd preferito. Osservò la carreggiata sgombra davanti a lei, il guard-rail che scorreva già indistinto alla sua sinistra, solo le rade nuvole a scivolare leggere nel cielo.

Trecento chilometri in due ore non erano nulla per l'agente Dwight, tutta Los Angeles lo sapeva. Era lei quella che aveva macinato più miglia di tutto il distretto di polizia messo insieme. Era lei quella che era in grado di guidare una Lamborghini Gallardo come se fosse un'utilitaria.

In fondo, era pur sempre quella che una volta chiamavano Fenice.

Ore 12.00 - Los Angeles, Distretto di Polizia

<< Chissà perché non avevo alcun dubbio che tu arrivassi in perfetto orario, se non addirittura in anticipo... >>.

Eric Senderson alzò lo sguardo dal rapporto che stava leggendo, seduto alla sua scrivania di legno scurissimo, il pc che ronzava sotto il tavolo e una tazza di caffè ormai freddo appoggiata vicino alla lampada. Si sentiva il rumore della strada entrare attraverso la finestra tenuta appena appena aperta, e il carrello della signora delle pulizie che passava per il corridoio.

Irina avanzò nell'ufficio, le chiavi della Gallardo strette in una mano e la ricevuta del benzinaio nell'altra. Si sedette di fronte alla scrivania, vagamente preoccupata.

Quando Senderson la convocava, Irina sapeva che non era mai un buon segno. Ultimamente non accadeva più tanto spesso, perché essere fuori dal lavoro "attivo", quello per strada, significava non avere più molto da pianificare con lui, o molto per il quale essere ripresi. Questa volta era diverso, ma anche ora sapeva perché era lì.

Senderson le rivolse un'occhiata divertita, da dietro la barba scura. Irina gli porse le chiavi della Gallardo, e lui le prese quasi con riluttanza.

<< Ho fatto il pieno >> disse lei, mostrando la ricevuta. Era l'unica a passare sempre dal benzinaio, prima di riportarla alla centrale, perché era l'unica a ricordare che un'auto senza carburante, per quanto veloce, fosse inutile.

<< Bene. Sasha mi ha detto che dovrò offrirti il pranzo, oggi >> iniziò il capo della polizia, ma Irina non gli diede il tempo di continuare. Non aveva più la pazienza di una volta.

<< Mi dica quello che deve dirmi, non giriamoci intorno >>.

L'espressione di Senderson divenne seria, mentre congiungeva le punte delle dita. Era nell'aria da settimane, quello che stava per dire; lei ne era quella più consapevole di tutti.

<< Sono sei mesi che non sei più operativa, Irina >> disse Senderson, grave, << Sei mesi. Da quando non ti fai vedere più per strada le gare clandestine sono aumentate. Le rapine anche. Durante gli inseguimenti i criminali ci sfuggono. Non sto dicendo che le cose vanno a rotoli, ma sicuramente sono peggiorate. I piloti si sono fatti più aggressivi, in qualche modo osano di più... L'altra notte mi hanno riferito che un paio di auto che gareggiavano sono passate proprio qui davanti, fregandosene di essere davanti alla stazione di polizia. Dieci mesi fa, se fosse accaduta una cosa del genere, l'unica cosa di cui si sarebbe parlato alla tv era dell'inseguimento da film che Irina Dwight avrebbe condotto prima di catturarli, non del fatto che quei due piloti si sono andati a schiantare contro una vetrina nel centro di Los Angeles e hanno quasi ammazzato un agente di polizia, prima di riuscire a scappare... Non credo di dover essere io a ricordati che questa è la città della Black List e dello Scorpione >>.

Irina lo guardò, stranamente distaccata. In un altro momento, un discorso del genere l'avrebbe offesa, l'avrebbe fatta arrabbiare per essere stata ripresa in quel modo come una bambina. Ora no, non le scatenava alcuna emozione: sapeva perfettamente che Senderson aveva ragione, e non aveva alcuna intenzione di contraddirlo.

Di fronte al suo silenzio, il capo della polizia continuò.

<< Ti ho dato i tuoi tre mesi di congedo per riprenderti, e ho accettato la tua richiesta di metterti a fare un lavoro d'ufficio per altri tre mesi, per darti tempo di rientrare nel tuo ruolo, ma tu non puoi rimanere dietro una scrivania. Devi tornare in strada, subito >>.

Senderson era famoso per i suoi modi duri, per la sua severità e per il modo di parlare fin troppo diretto. Molti lo detestavano, ma Irina aveva sempre apprezzato la sua franchezza. Anche in un momento come quello. Forse le rendeva le cose anche un po' più facili.

<< Non posso ancora farlo >> rispose, atona.

<< Il Governo ha stanziato dei fondi speciali per te e il programma che ho messo in atto io un anno fa >> ribatté Senderson, << Senza non avrei potuto assumerti come agente speciale e metterti a disposizione i mezzi che hai avuto fino ad adesso. Io capisco che quello che hai passato è qualcosa che sarà difficile da dimenticare, e che forse hai ancora bisogno di tempo, ma non me ne daranno altro, per te. Se non porti risultati, se non torni per strada immediatamente, il nostro programma non verrà più finanziato, e noi rischiamo di perdere il controllo della situazione in città... >>.

Irina lo guardò per un lungo momento. Non poteva che dargli ragione su ogni fronte, e non poteva chiedergli più di quanto avesse già fatto: Senderson era stato molto severo con lei, ma anche molto giusto. Se in quei sei mesi aveva avuto la possibilità di riprendersi e non ci era riuscita, non era certo colpa sua.

<< Io la ringrazio per la pazienza che ha avuto con me, ma non posso tornare per strada >> rispose lentamente, sicura di quello che stava dicendo, << Non posso. Non ci riesco. Ogni mattina mi alzo e l'unica cosa che riesco a pensare è che nonostante tutto quello che ho fatto, un criminale da quattro soldi ha ammazzato Xander per pochi spiccioli... Non riesco ad accettarlo. Non riesco a trovare una motivazione sufficientemente forte per salire in auto e tornare a girovagare di notte, a fare inseguimenti... Non lo voglio più fare >>.

Senderson sembrò non capire, o forse semplicemente non si aspettava una risposta del genere. Irina sospirò: quella era solo una piccola parte della verità. Come poteva dirgli che ogni volta che guardava la sua auto, le veniva in mente il momento in cui lei e Xander si erano incontrati la prima volta, e tutto quello che li aveva legati? Come faceva a spiegargli che aveva il terrore di tornare la sera a casa, o peggio la mattina presto, dopo una nottata a fare inseguimenti, e trovare la casa vuota, silenziosa, il letto freddo e deserto? Come poteva spiegargli che tutto aveva smesso di avere un senso, da quando Xander se ne era andato?

<< Se abbandoni le cose a metà, sarà peggio >> aggiunse Senderson, << Quello che ti è successo dovrebbe spingerti a scendere in strada e mettere dietro le sbarre tutti i criminali che cercano di terrorizzare questa città, non farti chiudere in te stessa... Il tuo lavoro sarà stato inutile nel momento in cui tu abbandonerai la tua postazione >>.

Irina gli rivolse un'occhiata, sentendo nella voce del suo capo tutto il convincimento che ci stava mettendo. Credeva nelle sue parole, e voleva davvero vederla tornare quella di una volta, ma lui non poteva capire. Irina aveva conosciuto Xander in quella città, insieme avevano dato anima e corpo per catturare lo Scorpione e renderla più sicura, e lei era diventata il miglior agente di polizia in circolazione... Aveva creduto di aver raggiunto un traguardo; aveva creduto di aver smesso di soffrire, invece le era stato strappato nuovamente qualcosa.

<< Non ne ho più la forza >> ribatté, << Non ne sono più capace... >>.

<< Irina, guidi ancora come una pilota clandestina, certo che ne sei capace! >> disse Senderson, spazientendosi. << Solo stamattina sei stata in grado di percorrere seicento chilometri in meno di quattro ore! >>.

Irina non si lasciò spaventare, né intimorire. Diversamente da quanto poteva credere il suo capo, lei aveva le idee molto chiare, e nessuna intenzione di mediare.

<< Comunichi ai suoi superiori che chiedo il cambio di ruolo. Non sarò più agente speciale >>disse, << Non ha senso perdere tempo in questo modo, aspettando che io mi senta pronta per tornare. Non lo sarò >>.

Il capo della polizia la fissò per un lunghissimo istante, che le fece pensare che molto probabilmente non si era spettato una decisione di quel genere. Forse aveva pensato che gli chiedesse ancora tempo, che cercasse una scusa di qualche tipo per avere qualche altra settimana di attesa... O forse, non credeva possibile che avesse perso la voglia di correre.

<< Hai un talento, Irina, e non puoi permetterti di sprecarlo >> disse lentamente, << Sei fatta per questo lavoro. Non posso non chiederti se sai davvero cosa comporta la tua scelta... >>.

Irina fece una smorfia. Significava perdere la possibilità di scorrazzare con la sua auto di notte e di giorno senza essere fermata, significava non sentire più l'adrenalina della velocità, la soddisfazione nell'aver portato a termine il proprio compito. Forse in passato avrebbe avuto qualche dubbio, ma ora non più. Che senso aveva tutto quello se quando tornava a casa era sola? E soprattutto, che senso aveva se la gente che amava veniva ammazzata lo stesso?

<< Lo so cosa vuol dire >> rispose, << So che fin dall'inizio ha avuto fiducia in me, e che insieme abbiamo fatto un ottimo lavoro, ma non credo di essere più quella di una volta. Non riesco a trovare una motivazione abbastanza forte per tornare in strada >>.

Senderson si alzò e si diresse alla finestra, quasi frustrato. Irina sapeva che sarebbe stato difficile convincerlo, era sempre stato testardo.

<< E se ti dicessi che McDonall ha chiamato qui e mi ha detto di dirti che è disposto a prenderti come agente dell'F.B.I., se decidi di tornare immediatamente operativa? >> disse.

Irina inarcò un sopracciglio.

McDonall, il vicepresidente dell'F.B.I., le offriva un posto proprio in quel momento? Proprio quando era più debole? Che senso aveva? Per quanto potesse esserne lusingata, sentì una punta di disgusto bruciarle nello stomaco, non per l'uomo in sé, ma per l'istituzione che rappresentava: un loro agente era stato eliminato, e ne stavano cercando uno nuovo che potesse fare lo stesso lavoro.

<< E cosa dovrei fare? Sostituire Xander? >> sbottò, irritata, << Fare quello che faceva lui? Farmi trasferire di città in città per infiltrarmi tra i piloti clandestini e arrestarli? Crede che ne abbia voglia? McDonall conosce la mia storia e quella di Xander, dovrebbe sapere che non accetterei mai di sostituirlo, in nessun frangente. Può declinare l'offerta al posto mio, non mi offenderò >>.

Senderson tornò a sedersi e afferrò la sua tazza di caffè, sorseggiandone un po'.

<< Ok, non posso insistere >> ammise lentamente, << Ma adesso ti parlerò non come tuo superiore, ma come amico. Sono passati sei mesi, Irina, e tu non sei ancora riuscita a elaborare il lutto. Suona duro da dire, ma non puoi fermarti. Sei giovane, hai ancora tutta la vita davanti, e non puoi vivere nel ricordo di una persona che sarebbe sicuramente d'accordo nel dirti di ritrovare un po' di felicità, di dimenticare il passato e guardare avanti... Le scelte che stai facendo stanno solo aumentando il tuo dolore >>.

Per un attimo, Irina ebbe la voglia di alzarsi e andarsene, sbattendo la porta. Quante volte aveva sentito quel discorso? Chi glielo aveva fatto? Sicuramente suo padre, Jenny, Max, Sasha, Angie, Katy... Aveva perso il conto. Era vero quello che le avevano detto, eppure era come se le loro parole le fossero passate da parte a parte... Lo stesso era per ciò che le aveva appena detto Senderson. Per quanto le fosse grata che si preoccupasse per lei, non cambiava come si sentiva il quel momento.

<< Lo so >> disse solamente, rimanendo seduta dov'era, << Lo so >>.

Senderson scosse il capo; ultimamente lo vedeva sempre più frustrato, quando aveva a che fare con lei.

<< Sei sicura di non voler accettare nemmeno l'incarico di McDonall? >> le domandò stancamente.

<< No, non voglio accettarlo >>.

Rimasero in silenzio per un momento, poi Senderson tornò a guardarla. Non riusciva a decifrare la sua espressione dietro la barba, ma sembrava quasi arrabbiato.

<< Allora cosa vuoi fare? >> le chiese.

Irina ripensò alle ultime settimane, passate ad archiviare pratiche, a gestire multe e infrazioni al codice della strada, a rileggere interrogatori di piccoli criminali. Non erano stati giorni entusiasmanti, adrenalinici, erano stati giorni lunghi e faticosi, ma erano pur sempre passati. Era riuscita comunque a tenere la testa impegnata per otto ore al giorno, anche se quanto poi tornava a casa ripiombava nello sconforto e nella solitudine.

<< Mi va bene qualunque cosa >> rispose lentamente, fissando il bordo della scrivania, << Mi metta dietro a una scrivania, o a fare l'ausiliare del traffico. Mi metta dove le serve >>.

Senderson annuì e aprì il cassetto sotto la scrivania. Le porse un paio di fogli prestampati, che Irina prese e a cui gettò una rapida occhiata.

<< Compilali e firmali. Mi serviranno per chiedere il cambio di mansione >> le spiegò il capo della polizia, << Stasera lasciali a Onsow prima di tornare a casa >>.

Irina si alzò, stringendo i fogli tra le mani. Improvvisamente si sentiva pesante, nonostante avesse creduto che chiudere definitivamente l'avrebbe resa più tranquilla. Erano mesi che ci pensava, da quando era rientrata dal congedo e si aggirava tra i corridoi del Dipartimento, osservando l'azione solo da lontano.

<< Devo portare via l'auto, immagino... >> aggiunse a bassa voce.

Senderson la guardò in modo strano, e le mise una mano sulla spalla, accompagnandola verso la porta.

<< Non c'è fretta, Irina >> rispose, << E comunque, hai un posto dove tenerla? >>.

Irina annuì. La sua nuova casa era piccola, ma aveva un garage dove adesso teneva la TT. Poteva portare lì la Punto e parcheggiare l'Audi in strada, senza dover per forza scomodare Max chiedendogli un posto nella sua officina.

<< Allora ti devo un pranzo >> disse alla fine Senderson, forse per stemperare la strana tensione che sembrava essersi creata in quel momento, << Altrimenti l'agente Ferson me lo rinfaccerà per settimane >>.

Irina stirò le labbra in un sorriso velato.

<< Le dirò che me lo ha già offerto >>disse, << Credo di avere del lavoro da sbrigare sulla mia scrivania, per oggi >>

 

 

Spazio Autrice

Salve a tutti, lettori! Dopo anni di assenza da questa piattaforma e nel frattempo aver provato Wattpad (fantastico sotto alcuni punti di vista, orribile per altri), torno qui per rendere partecipi chi, nonostante il tempo passato, si ricorda ancora di me ma soprattutto de Il Gioco dello Scorpione e Russian Roulette. La trilogia di Irina si completa, e voglio che anche voi possiate leggerla.

Diversamente da come ho fatto in passato, pubblicherò i capitoli senza rispondere alle recensioni; per lo meno non sempre. Ovviamente voi siete liberi di commentare e chiedere ciò che volete, ogni tanto mi fermerò per rispondere.

Detto questo, spero la storia vi piaccia come vi sono piaciute le due in passato!

Un bacio

 

Lhea

 

  
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