Sei
mesi dopo
Ore
5.45 – Santa Monica, Casa di Irina
L'orologio ticchettava a
intervalli regolari, ininterrottamente, scandendo il passare del tempo in modo
inesorabile, nel silenzio della camera da letto, una lama di luce debole e
grigiastra che segnava la parete vuota, facendo sembrare la vernice azzurra stranamente
smorta. Irina ne contava i rintocchi, uno dopo l'altro, fissando il soffitto
buio della sua stanza, sdraiata nel letto gelido, la coperta a coprirle le
gambe, le mani appoggiate sul grembo.
Era evidente che il tempo
non si sarebbe fermato, nonostante le sembrasse scorrere così lentamente.
Tra un suo respiro e
l'altro poteva contare circa quindici ticchettii; tra un battito di palpebre e
l'altro più o meno quattro.
Irina sospirò, mentre
sentiva il rumore di una delle prime auto della mattina che passava davanti
alla strada di casa sua. Poco dopo toccò al camion dei rifiuti, poi l'abbaio
del cane della famiglia che viveva nell'appartamento di fianco al suo, che
veniva portato di sotto per la prima passeggiata della giornata.
Ormai conosceva a memoria
tutta la routine del palazzo e degli abitanti del quartiere; riusciva persino a
riconoscere il suono dei motori delle auto che entravano e uscivano dai garage.
Contava i secondi che
passavano, ma non le notti in cui aveva dormito poco, o quelle in cui si era
svegliata troppo presto.
Si alzò gettando le coperte
di lato, e tirò su le imposte della finestra. La luce fioca di ottobre invase
la sua camera quasi vuota, mentre scostava la tenda e guardava di sotto, sulla
strada ancora deserta. Non amava molto il quartiere di Santa Monica, ma era
tranquillo e molto distante dalla sua vecchia casa con piscina, ed era anche
così modesto da ricordarle quasi i tempi in cui viveva ancora a casa di suo
padre, quando ancora sua madre si ammazzava di lavoro per guadagnare abbastanza
da mettere insieme i soldi per l'affitto e la spesa.
Si appoggiò al davanzale
della finestra, rabbrividendo per lo strano freddo che sembrava sempre permeare
la sua stanza, e guardò il cielo nuvoloso appena rischiarato dall'alba, e capì
che sarebbe stata una giornata lunga e faticosa da affrontare. L'unica cosa che
la consolava era che tutto si sarebbe svolto nella solita routine, prevedibile
e noiosa.
Riassettò rapidamente il
letto, e ripiegò gli abiti che la sera prima aveva lasciato appoggiati sulla
cassettiera. Nonostante si fosse portata lo stretto indispensabile dalla sua
vecchia casa, ultimamente faceva fatica a tenere in ordine, più che altro
perché non ne sentiva la necessità. Non invitava quasi mai nessuno a trovarla,
e chi veniva di solito lo faceva per pochi minuti.
Strisciando i piedi Irina
si diresse in cucina, mentre sentiva oltre la porta di ingresso il raspare del
cane del vicino che tornava dalla passeggiata. Mise su un po' di caffè, la
radio accesa con il volume al minimo, per ascoltare le previsioni del meteo.
Avrebbe piovuto, molto probabilmente.
Buttò giù la tazza di caffè
senza mangiare nulla, poi si infilò un paio di jeans e una felpa, prima di
andare in bagno a lavarsi.
Ormai era abituata a vedere
il suo riflesso nello specchio rettangolare, quindi non faceva più caso alle
ombre nere sotto agli occhi e al pallore della sua pelle. La luce al neon poi
era impietosa, facendola apparire ancora più sbattuta di quanto già non fosse,
ricordandole che quell'estate non aveva passato molte giornate in spiaggia,
come aveva sempre fatto. In sei mesi sembrava invecchiata di dieci anni, eppure
non gliene importava gran che.
Quindici minuti dopo
sfrecciava a bordo della sua Audi TT nera, diretta verso nord, sotto il cielo
grigio dell'autunno, la strada sgombra e la radio spenta, in un silenzio
ovattato solo dal rumore del motore. Era ancora presto per i monovolume che
portavano i bambini a scuola, delle grosse berline luccicanti dei manager
diretti nelle aziende e delle utilitarie degli impiegati che andavano in
ufficio. Era più che altro l'ora di quelli che facevano i lavori duri, gli
operai su turno delle fabbriche o i camionisti.
Irina amava guidare in
quella calma, ascoltando solo il suono del motore dell'auto. La rilassava e la
aiutava a smettere di contare.
Quando arrivò al cimitero
di Los Angeles, non parcheggiò davanti all'ingresso monumentale. I cancelli
erano ancora sbarrati, e non avrebbero aperto prima delle otto del mattino, più
o meno poco dopo che i due fiorai che lavoravano lì davanti avessero piazzato i
loro banchetti. Costeggiò l'alto muro di mattoni rossi che lo delimitava per
circa quattrocento metri, finché non trovò un piccolo spiazzo vuoto, proprio
vicino al marciapiede dove non passava mai nessuno, visto che era una strada
chiusa. Lasciò l'auto parcheggiata vicino al muro e scese.
Incassato nei mattoni
rossi, c'era un minuscolo ingresso, chiuso da un cancello alto circa un metro e
mezzo, senza maniglia ma con una catena spessa e arrugginita a tenerlo
saldamente chiuso. Irina tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una chiave e lo
aprì, sgusciando dentro seguita solo da una folata di vento freddo.
Ogni volta che entrava lì
di nascosto, sapeva di commettere un'infrazione. Un'agente di polizia come lei
avrebbe dovuto dare il buon esempio, ma erano molti mesi ormai che qualcosa in
lei non funzionava più a dovere.
Camminare nel cimitero
deserto non le faceva più alcun effetto; aveva smesso di guardarsi alle spalle,
e non aveva più la sensazione che ci fosse qualcuno a seguirla. Osservava le
lapidi che spuntavano dal prato, grigie, nere, bianche, più o meno spoglie, più
o meno recenti. Conosceva a memoria tutti i nomi che ornavano quelle al bordo
del camposanto, le date di nascita e le date di morte. Le aveva anche contate.
Irina proseguì a passo
rapido, verso la zona più recente di sepoltura, accompagnata solo dal vento
freddo e dallo stormire delle foglie e dell'erba. Incontrò i soliti due piccoli
pini che erano stati piantati sulle tombe di una giovane coppia dalla madre
della ragazza, e notò che stavano crescendo bene, nonostante il luogo tetro in
cui avevano messo radici. Li superò e raggiunse l'ultima lapide in fondo, di
marmo nero, ancora lucida e splendente come se fosse stata appena posata.
Alexander Went.
Irina inchiodò di fronte
alla tomba, sospirando.
Ogni volta che arrivava fin
lì, qualcosa dentro di lei si rompeva. Era come se segretamente sperasse che su
quella lapida quel nome sparisse e venisse sostituito da quello di uno
sconosciuto. O che, di colpo, si risvegliasse da quel maledetto sogno grigio e
doloroso.
Non era così.
Erano passati sei mesi, da
quando Xander era morto. Le sembrava ieri, il giorno
in cui aveva assistito al suo funerale, distrutta dal dolore e dal senso di
colpa. Il tempo sembrava essersi cristallizzato a quel mattino di marzo, nel
quale aveva aiutato Jenny a scegliere il suo abito da sposa e si era ritrovata
ad aspettare Xander sul bordo del marciapiede, in
ritardo ad un appuntamento con lei per la prima volta nella sua vita.
Dicevano che il tempo
curava anche le ferite più profonde, cancellava i ricordi e faceva dimenticare
il dolore.
Ci aveva creduto,
all'inizio.
Era rimasta chiusa in casa
per settimane, abbandonata nella sua volontaria solitudine, cercando di
elaborare, di accettare, di comprendere quello che era appena successo. Aveva
creduto di essere preda di qualche incubo, di potersi svegliare da un momento
all'altro e scoprire che Xander era vivo, che lei
aveva avuto una tremenda allucinazione.
Xander
era morto in uno modo così stupido che per lei era inconcepibile.
Una rapina. Una sciocca
rapina nella quale era intervenuto solo perché lei non era in servizio, un
inseguimento finito in sparatoria e quattro proiettili che lui non era riuscito
a evitare. Era quello che le avevano detto, che in quel pomeriggio straziante
le avevano riferito, mentre lei gridava che non era possibile, che Xander non poteva essere stato ucciso da un rapinatore da
strapazzo...
Non c'era stato nessun
sopravvissuto, a quella sparatoria. Gli agenti che erano in servizio erano
stati colpiti anche loro, e inizialmente nessuno aveva saputo che pista
seguire. Poi, dopo appena una settimana, quando Irina non aveva ancora davvero
realizzato quello che era successo, un paio di criminali sudamericani erano
stati messi dietro le sbarre con l'accusa di omicidio di pubblico ufficiale. Il
dipartimento di polizia di Los Angeles era stato veloce, nel fare le indagini,
perché c'era il coinvolgimento anche di un agente dell'F.B.I., e Howard McDonall, il Vicepresidente, si era occupato personalmente
di chiedere un rapporto approfondito sull'intera vicenda.
In tutto quel casino, Irina
non era stata in grado di fare altro, se non cercare di lasciarsi consolare dai
genitori di Xander, da Jenny, da Jess, da suo padre,
e da tutti quelli che le volevano bene. Ma niente era riuscito a colmare almeno
un po' l'enorme vuoto che la morte improvvisa di Xander
aveva lasciato dentro di lei. Soprattutto perché ogni mattina si alzava dal
letto, e ricordava a se stessa che in fondo era anche colpa sua.
Se quel giorno fosse stata
in servizio, se fosse stata a pattugliare per strada, molto probabilmente Xander sarebbe stato ancora vivo.
Nell'esatto momento in cui
Eric Senderson, il suo capo, le aveva comunicato
quello che era accaduto, l'unica cosa che lei aveva pensato era che la colpa
era sua. Se lui non l'avesse sostituita, se non avesse preso il suo posto,
nulla di tutto quello sarebbe mai successo.
Le prime settimane, quella
consapevolezza l'aveva resa incapace di parlare, di muoversi, di reagire. Aveva
passato giorni interi a piangere, distrutta dal silenzio che regnava in casa.
Aveva sperato ogni mattina di alzarsi e trovare Xander
in cucina, in bagno, in garage, in qualunque luogo gli fosse appartenuto.
Eppure, ogni volta, la verità le sbatteva addosso ogni volta più forte.
Xander
era morto. Non sarebbe mai tornato indietro.
Poi aveva smesso di
commiserarsi, di incolparsi, di disperarsi. Semplicemente, aveva rinunciato a
combattere il dolore e si era lasciata avvolgere da esso. In qualche modo aveva
iniziato a conviverci, senza saper consolare nessuno, nemmeno i genitori di Xander, che come lei stavano patendo un dolore enorme.
Avevano perso il loro unico figlio per colpa di quella stessa ragazza che lui
aveva salvato quasi quattro anni prima.
Loro però se ne era potuti
andare; erano tornati a New York, ad elaborare il loro dolore nella città in
cui Xander si era fatto le ossa come agente. Non lo
avevano fatto per lei; avevano preferito tornare semplicemente dove avevano i
ricordi migliori della vita del loro figlio.
Lei, invece, era rimasta
immobile, chiusa nel suo bozzolo, a cercare di dare un senso a quello che molto
probabilmente non lo avrebbe mai avuto.
Xander
era morto e non sarebbe mai tornato.
Nel giro di due settimane,
aveva venduto tutto ciò che era appartenuto a lei e Xander.
Il garage della loro casa era stato svuotato: la Ferrari 458 che aveva usato
contro lo Scorpione era stata venduta a un vecchio milionario che voleva farla
riverniciare; la BMW M3, quella che li aveva fatti conoscere, era stata ceduta
a un ragazzino che sicuramente avrebbe ritrovato a qualche gara clandestina, se
lei non avesse smesso di frequentarle; la Maserati Granturismo le era stata
riconsegnata dopo una settimana dall'incidente, pulita e solo un po' ammaccata,
e lei l'aveva fatta demolire. La casa era andata una giovane coppia che si
trasferiva da Boston per lavoro, che si sarebbe sposata da lì a poco.
In un attimo, si era
ritrovata ad avere sul suo conto in banca più soldi di quanti ne avesse mai avuti
in vita sua. Aveva contattato Steve Went e gli aveva
chiesto di ritirare la somma, ma lui non aveva voluto. Xander
sicuramente avrebbe preferito che quei soldi andassero a lei.
Irina aveva diviso la cifra
a metà, aveva costretto Steve a prendere la sua parte, e con l'altra si era
comprata quell'appartamento anonimo e spoglio in Santa Monica, senza portarsi
nulla dalla vecchia casa.
Aveva preso un congedo di
tre mesi dal lavoro, che Senderson le aveva concesso
senza alcun problema, e si era messa ad aspettare che il dolore passasse.
Nel frattempo, Jenny e Jess
si erano comunque sposati. Avevano pensato di rimandare tutto, ma Irina era
stata irremovibile, e aveva convinto Jenny a fare la cerimonia comunque. Era
stata una giornata felice, per la sua amica e Jess, nonostante l'ombra
dell'assenza di Xander, e Irina si era sforzata di
presenziare. Aveva patito ogni secondo, mentre si rendeva conto che tutto
quello sarebbe dovuto accadere anche a lei, prima o poi, e invece no. Invece Xander era morto senza nessun senso, quando non lo
meritava. Però era sicura che quel dolore doveva essere solo suo, e non poteva
costringere il mondo a fermarsi per lei.
Il giorno stesso del
matrimonio, Jenny aveva annunciato di essere incinta, cosa che Irina sapeva già
da prima, e Jess aveva lasciato l'F.B.I. per andare a lavorare come tecnico in
una multinazionale di software che aveva sede a pochi chilometri da Los
Angeles. Anche per loro la morte di Xander era stata
uno shock, ma almeno erano in due a consolarsi a vicenda, e in ogni caso
dovevano prepararsi a diventare genitori. Non potevano permettersi di farsi
prendere dallo sconforto.
Todd, suo padre, ormai
lavorava come aiuto cuoco a tempo fisso in un piccolo ristorante nelle
vicinanze della centrale di polizia, ed era in grado di mantenere se stesso, la
casa, e le spese minime per Harry e Denis, i suoi fratelli. Harry era riuscito
a farsi assumere come magazziniere da una ditta che vendeva articoli per
l'edilizia; Denis cercava di frequentare una scuola serale e il mattino dava
una mano al mercato ortofrutticolo.
Dominic e
Sally si erano trasferiti a Oxnard, a una cinquantina di miglia da Los Angeles,
dove Dominic lavorava come operaio in una fabbrica di
farmaci. Era stato in grado di comprare una casa accogliente e un'utilitaria,
mentre Sally faceva la commessa mezza giornata in un negozio di abbigliamento.
Erano felici, finalmente, e sembravano una famiglia normalissima, lontana anni
luce da quella che era stata un tempo. Tommy, il suo adorato nipotino, era
cresciuto molto, e ormai aveva iniziato il primo anno di scuola elementare. Le
sue difficoltà a parlare non erano che un ricordo.
E due settimane prima, era
nato il figlio di Jenny e Jess, Luke.
Insomma, in quei sei mesi
il mondo si era mosso, eppure lei era ancora davanti a quella lapide.
Irina fissò il marmo nero,
le lettere incise in argento, i fiori ancora freschi e il vento che spirava
leggero ma freddo. Faceva male ogni volta, fissare quella tomba, ma era l'unico
modo che aveva per ricordarsi che era morto, e che non l'avrebbe più trovato ad
aspettarla dietro l'angolo della strada a bordo della sua Ferrari.
Sentì le lacrime inondarle
gli occhi, mentre rimaneva immobile.
"Quanto
deve durare ancora, tutto questo?" si domandò, "Quando riuscirò a dare un senso alla tua
morte? Non era così che te ne dovevi andare... Non per una stupida rapina, per
mano di un criminale da due soldi... Chi ha deciso tutto questo?".
Si passò una mano sugli
occhi, cacciando via le lacrime. Fissò l'orizzonte e il cielo grigio che si
stagliava sul camposanto, e scosse il capo. Aveva ancora due visite da fare.
La tomba di sua madre era
sempre la stessa, sempre pulita, sempre in ordine, da quando suo padre veniva
una volta a settimana a trovarla. La fioriera era piena di gigli bianchi ancora
freschi, la cornice che ne custodiva la foto lucida e splendente, un piccolo
abete piantato da poco li vicino.
Irina si fermò poco, giusto
il tempo di augurare a sua madre una buona giornata, poi si diresse dall'altra
parte del cimitero.
Diversamente dalle altre
due, la tomba di William Challagher era spoglia.
Nessuno a parte lei doveva mai essere andato a trovarlo, in quei due anni. I
fiori erano gli stessi che aveva lasciato lei quattro giorni prima, come
capitava sempre. Li rassettò solo un po', salutò anche lui e se ne andò.
Quando si richiuse il
cancelletto del cimitero alle spalle, Irina si sentì diversa. All'inizio aveva
sempre definito quella sensazione "tranquillità", ma ora sapeva di
cosa si trattava: era rassegnazione. Una rassegnazione che l'avrebbe resa meno inquieta
fino al calare della sera, fino a quando non sarebbe tornata a casa,
ritrovandosi di nuovo da sola.
Ogni mattina era così, da
sei mesi a quella parte: cercare un modo di anestetizzare il dolore almeno per
qualche ora, giusto il tempo di vedere come il mondo stava andando avanti e
dove era rimasta lei.
Guardò l'orologio,
scoprendo che erano quasi le sette e mezza. Goccioline di pioggia si stamparono
sul parabrezza della TT, quando lei mise in modo e si diresse verso il centro
di Los Angeles. Sarebbe andata direttamente verso la centrale di polizia,
affrontando distrattamente il traffico mattutino, zigzagando appena tra le auto
in coda.
Mentre aspettava di
superare un incrocio particolarmente trafficato, sentì il suo cellulare
vibrare.
"Se
vuoi passare a cena stasera, dovrebbe esserci Harry. Preparo le scaloppine in
salsa verde".
Era un messaggio di suo
padre. Irina scosse il capo, mentre rispondeva rapidamente. Nella sua mente
ricordò che poteva essere multata, per quello che stava facendo: uso di
telefono cellulare alla guida.
"Grazie,
ma dovrò fermarmi a lavoro. Saluta mio fratello".
Mentiva, e lo sapeva
benissimo. Il suo lavoro non era più lo stesso, visto che erano sei mesi che
era praticamente fuori dal servizio attivo. Le serate di pattuglia, quando
tornava a casa alle quattro del mattino dopo inseguimenti in autostrada e corse
tra le vie cittadine, erano solo un ricordo. Tornare a casa sua, quella dove
era cresciuta, ultimamente le metteva una certa inquietudine, perché anche lì
c'erano luoghi che la legavano a Xander e le
risvegliavano ricordi dolorosi. E le occhiate addolorate di Todd non facevano
che renderla ancora più triste.
La stazione di polizia era
già brulicante di vita, anche alle otto del mattino. Parcheggiò la TT,
incrociando Ted Warner, un collega che aveva fatto i
turni di pattuglia notturni con lei ogni tanto, che tornava verso casa. Gli
rivolse un cenno di saluto, poi si diresse verso l'ingresso, salutando con un
buongiorno tirato i poliziotti che la riconoscevano quando passava.
Era stata quasi una star,
nel dipartimento, prima della morte di Xander. Lo era
ancora, anche se al telegiornale non si vedevano più le immagini dei suoi
arresti e dei suoi inseguimenti.
<< Irina... >>
la salutò Onsow, l'anziano poliziotto che presidiava
l'ingresso dietro il suo bancone, portandosi una mano al cappello, << Sto
facendo portare dei caffè, vuoi qualcosa? >>.
<< No, grazie, sono a
posto così >> rispose Irina, nonostante non mangiasse nulla di solido
dalla sera prima, << Senderson? >>.
<< E' già in ufficio >>
rispose Onsow, << Forse ti cercava >>.
Irina ringraziò e salì le
scale, diretta verso il suo ufficio. Percorse il corridoio bianco sul quale si
affacciavano diverse porte, la sala d'attesa, l'ufficio per le deposizioni, la
saletta ristoro.
Il suo ufficio era in
fondo, proprio di fianco a quello di Senderson. Aprì
la porta, trovando la scrivania occupata da enormi faldoni di carta, documenti
e plichi di vario tipo. Aveva decine di archiviazioni da fare e doveva
visionare un sacco di profili di potenziali piloti clandestini. Era un lavoro
noioso, ma le consentiva di tenere la mente occupata e soprattutto di stare
lontana dalla strada.
Lasciò cadere la borsa sul
pavimento, quando sentì bussare all'ingresso.
<< Sei già arrivata?
>>.
Irina si voltò di scatto, trovando
Eric Sanderson in uniforme, una tazza di caffè bollente in mano e
un'espressione indecifrabile dietro la barba scura. Aveva all'incirca
cinquant'anni, ma il suo passato da giocatore di rugby lo faceva mantenere
ancora atletico e tutto sommato attraente.
<< Ho del lavoro da
smaltire >> rispose lei, facendo un cenno verso la scrivania.
Senderson
scosse il capo, come se non fosse convinto della sua risposta. Si frugò nella
tasca dei pantaloni, estraendo un mazzo di chiavi.
<< Guarda caso sei
arrivata in tempo per risponde a una chiamata dall'ospedale >> disse
l'uomo, << C'è da trasportare un organo per un trapianto urgente. Te ne
occupi tu? >>.
Le lanciò le chiavi prima
ancora di ricevere risposta, e Irina le afferrò al volo, sapendo di non poter
rifiutare.
<< Ti aspettano al
Los Angeles Hospital tra venti minuti. Do loro conferma che stai partendo
>> aggiunse Senderson, sparendo oltre la porta.
Irina raccolse la borsa e a
passo rapido ripercorse il corridoio della stazione di polizia, scendendo nel
garage, dove venivano parcheggiate le pattuglie. Salutò un paio di colleghi che
stavano per uscire di ronda, e raggiunse le auto parcheggiate in fondo, in
un'ala separata.
Una era la sua vecchia
compagna, la sua Fiat Punto bianca con l'aerografia di una fenice, un piccolo
scorpione su un parafango e i cerchi bruniti che aveva fatto cambiare un anno
prima. Erano esattamente sei mesi che non la utilizzava più, e sopra la
carrozzeria si era depositato uno strato di polvere che la rendeva opaca e
quasi grigia. Se non fosse stata parcheggiata lì sotto, nella centrale di
polizia, tutti avrebbero potuto pensare che fosse stata sequestrata a un pilota
clandestino, non che fosse stata promossa a volante.
Le rivolse un'occhiata
fugace, prima di raggiungere l'altra vettura ferma al suo fianco, una
Lamborghini Gallardo nella livrea bianca e nera della
polizia di Los Angeles, con tanto di lampeggianti e sirene sul tetto. I cerchi
da diciotto pollici brillavano sotto le luci dei neon, la carrozzeria filante e
le nervature del cofano a custodire il potentissimo motore V10.
Aprì la portiera e si mise
al posto di guida, accarezzando la pelle del volante e lasciandosi avvolgere
dai sedili sportivi, l'alluminio del cruscotto che scintillava e l'abitacolo permeato
dal profumo della pelle. Infilò la chiave e avviò il motore.
Con un rombo sordo, i cinquecentosessanta cavalli sotto il cofano ruggirono
imbizzarriti, facendo voltare quattro poliziotti di passaggio. Irina trasse un
respiro profondo, mentre assaporava quel suono come musica, le dita che
scivolavano sul pomello del cambio, le spie del cruscotto che si accendevano
indicando che tutto era in perfette condizioni, la lancetta del contagiri che
si assestava sul minimo.
Non aveva più guidato la
Punto, da quando Xander era morto, eppure si rendeva
conto che la velocità faceva parte del suo DNA, che nonostante tutto non aveva
ancora smesso di essere una pilota. Lo sapevano tutti. Lo sapeva Senderson, quando le dava quell'auto da guidare; lo
sapevano i suoi colleghi, che credevano fosse l'unica in grado di portare la Gallardo; lo sapeva lei stessa quando si recava al lavoro.
Era come tornare a
respirare, in modo affannoso, ma era sempre una boccata d'aria per la sua anima
soffocata.
Accelerò, portando la Gallardo lentamente verso l'uscita del garage. Il motore
ringhiava appena, mentre risaliva la rampa e sbucava sulla strada, attirando
l'attenzione dei passanti. Non si vedeva spesso in giro quell'auto, e quando
usciva significava sempre che aveva un compito importante da portare a termine.
In meno di cinque minuti,
Irina si lasciò alle spalle la centrale di polizia, sgusciando tra le auto che
si dirigevano a lavoro, i mezzi pubblici e i pedoni indisciplinati. La Gallardo era docile come un gattino, sotto le sue mani
esperte, fluida nonostante i cinquecento cavalli che da un momento all'altro
potevano imbizzarrirsi.
Raggiunse il Los Angeles
Hospital con cinque minuti di anticipo. Parcheggiò l'auto nella corsia
riservata alle ambulanze, ma non dovette nemmeno scendere dal posto di guida:
le porte di ingresso si spalancarono, e due infermieri che reggevano un grosso
contenitore simile a un frigo portatile uscirono di corsa. Irina tirò fuori dal
portaoggetti il cavo di alimentazione supplementare e lo agganciò alla presa
che era stata istallata appositamente per lo scopo.
Uno degli infermieri, un
signore robusto dalla barba scura spalancò la portiera del passeggero, e con
l'aiuto del collega ancorò la cella frigorifera al sedile, fermandola con le
cinghie. Irina inserì la presa e gli fece un cenno di saluto, mentre la spia
dell'alimentazione sul tunnel centrale dell'auto si accendeva.
<< Signor Black
>> lo salutò.
L'uomo le sorrise,
porgendole un foglio di carta piegato in quattro.
<< Buongiorno agente
Dwight >> rispose, << Ospedale di Fresno. Trapianto di cuore. Il
ricevente è un bambino di otto anni >>.
Irina annuì. Non era la
prima volta che trasportava un organo fino a Fresno: erano circa trecento
chilometri di strada perfettamente dritta, in larga parte in autostrada. Accese
i lampeggianti, controllò che la cella frigorifera fosse ben salda al sedile e
controllò l'orologio.
<< Farò in fretta
>> disse.
<< La aspettiamo
sempre per un caffè >> la salutò l'infermiere.
Irina gli fece un cenno di
saluto con la mano, poi accarezzò l'acceleratore e portò la Lamborghini fuori
dal parcheggio. La delicatezza e la velocità erano tutto, quando trasportava
qualcosa di prezioso come l'organo destinato a salvare la vita di un bambino.
Si diresse verso
l'autostrada, mentre afferrava la radiotrasmittente.
<< Centrale, qui
agente Dwight. Ho appena caricato la cella frigorifera, e sto per imboccare la
superstrada. Sono le otto e trentaquattro minuti. Predisponete corsia
preferenziale direzione Fresno >>.
<< Autorizzazione
accordata, agente Dwight >> rispose la voce di una donna alla centrale,
che lei riconobbe come Sasha Jekson, una delle sue
colleghe, << Accendi i lampeggianti e mettiti per strada. Ti aspettano al
Fresno Hospital per le dieci >>.
Irina lasciò che le sue
labbra si increspassero in un sorriso appena accennato.
<< Se arrivo prima
delle dieci, Senderson mi offre il pranzo? >>
ribatté.
<< Sicuramente, visto
che vuole vederti per mezzogiorno nel suo ufficio... >> rispose Sasha.
Irina sbuffò.
<< Sono già in strada
>> disse, chiudendo la telecomunicazione.
Sgusciò lungo le strade di
Los Angeles rapida, agevolata anche dal fatto che il traffico andava
diminuendo. Trovò la sbarra del casello già aperta, quando imboccò
l'autostrada. Spense la sirena che l'aveva accompagnata fino a lì e lasciò solo
i lampeggianti accesi.
Quando la strada dritta e
appena soleggiata della CA-99 si stagliò davanti a lei, affondò il piede
sull'acceleratore, facendo ruggire il motore della Gallardo.
L'auto schizzò in avanti incollandola al sedile, ma Irina ormai era abituata a
quelle velocità.
La lancetta del tachimetro
segnò i centocinquanta, e lei stiracchiò il collo e accese la radio, inserendo
il suo cd preferito. Osservò la carreggiata sgombra davanti a lei, il
guard-rail che scorreva già indistinto alla sua sinistra, solo le rade nuvole a
scivolare leggere nel cielo.
Trecento chilometri in due
ore non erano nulla per l'agente Dwight, tutta Los Angeles lo sapeva. Era lei
quella che aveva macinato più miglia di tutto il distretto di polizia messo
insieme. Era lei quella che era in grado di guidare una Lamborghini Gallardo come se fosse un'utilitaria.
In fondo, era pur sempre
quella che una volta chiamavano Fenice.
Ore
12.00 - Los Angeles, Distretto di Polizia
<< Chissà perché non
avevo alcun dubbio che tu arrivassi in perfetto orario, se non addirittura in
anticipo... >>.
Eric Senderson
alzò lo sguardo dal rapporto che stava leggendo, seduto alla sua scrivania di
legno scurissimo, il pc che ronzava sotto il tavolo e una tazza di caffè ormai
freddo appoggiata vicino alla lampada. Si sentiva il rumore della strada
entrare attraverso la finestra tenuta appena appena aperta, e il carrello della
signora delle pulizie che passava per il corridoio.
Irina avanzò nell'ufficio,
le chiavi della Gallardo strette in una mano e la
ricevuta del benzinaio nell'altra. Si sedette di fronte alla scrivania,
vagamente preoccupata.
Quando Senderson
la convocava, Irina sapeva che non era mai un buon segno. Ultimamente non
accadeva più tanto spesso, perché essere fuori dal lavoro "attivo",
quello per strada, significava non avere più molto da pianificare con lui, o
molto per il quale essere ripresi. Questa volta era diverso, ma anche ora
sapeva perché era lì.
Senderson le
rivolse un'occhiata divertita, da dietro la barba scura. Irina gli porse le
chiavi della Gallardo, e lui le prese quasi con
riluttanza.
<< Ho fatto il pieno
>> disse lei, mostrando la ricevuta. Era l'unica a passare sempre dal
benzinaio, prima di riportarla alla centrale, perché era l'unica a ricordare
che un'auto senza carburante, per quanto veloce, fosse inutile.
<< Bene. Sasha mi ha
detto che dovrò offrirti il pranzo, oggi >> iniziò il capo della polizia,
ma Irina non gli diede il tempo di continuare. Non aveva più la pazienza di una
volta.
<< Mi dica quello che
deve dirmi, non giriamoci intorno >>.
L'espressione di Senderson divenne seria, mentre congiungeva le punte delle
dita. Era nell'aria da settimane, quello che stava per dire; lei ne era quella
più consapevole di tutti.
<< Sono sei mesi che
non sei più operativa, Irina >> disse Senderson,
grave, << Sei mesi. Da quando non ti fai vedere più per strada le gare
clandestine sono aumentate. Le rapine anche. Durante gli inseguimenti i
criminali ci sfuggono. Non sto dicendo che le cose vanno a rotoli, ma sicuramente
sono peggiorate. I piloti si sono fatti più aggressivi, in qualche modo osano
di più... L'altra notte mi hanno riferito che un paio di auto che gareggiavano
sono passate proprio qui davanti, fregandosene di essere davanti alla stazione
di polizia. Dieci mesi fa, se fosse accaduta una cosa del genere, l'unica cosa
di cui si sarebbe parlato alla tv era dell'inseguimento da film che Irina
Dwight avrebbe condotto prima di catturarli, non del fatto che quei due piloti
si sono andati a schiantare contro una vetrina nel centro di Los Angeles e
hanno quasi ammazzato un agente di polizia, prima di riuscire a scappare... Non
credo di dover essere io a ricordati che questa è la città della Black List e
dello Scorpione >>.
Irina lo guardò,
stranamente distaccata. In un altro momento, un discorso del genere l'avrebbe
offesa, l'avrebbe fatta arrabbiare per essere stata ripresa in quel modo come
una bambina. Ora no, non le scatenava alcuna emozione: sapeva perfettamente che
Senderson aveva ragione, e non aveva alcuna
intenzione di contraddirlo.
Di fronte al suo silenzio,
il capo della polizia continuò.
<< Ti ho dato i tuoi
tre mesi di congedo per riprenderti, e ho accettato la tua richiesta di
metterti a fare un lavoro d'ufficio per altri tre mesi, per darti tempo di
rientrare nel tuo ruolo, ma tu non puoi rimanere dietro una scrivania. Devi
tornare in strada, subito >>.
Senderson
era famoso per i suoi modi duri, per la sua severità e per il modo di parlare
fin troppo diretto. Molti lo detestavano, ma Irina aveva sempre apprezzato la
sua franchezza. Anche in un momento come quello. Forse le rendeva le cose anche
un po' più facili.
<< Non posso ancora
farlo >> rispose, atona.
<< Il Governo ha
stanziato dei fondi speciali per te e il programma che ho messo in atto io un
anno fa >> ribatté Senderson, << Senza
non avrei potuto assumerti come agente speciale e metterti a disposizione i
mezzi che hai avuto fino ad adesso. Io capisco che quello che hai passato è
qualcosa che sarà difficile da dimenticare, e che forse hai ancora bisogno di
tempo, ma non me ne daranno altro, per te. Se non porti risultati, se non torni
per strada immediatamente, il nostro programma non verrà più finanziato, e noi
rischiamo di perdere il controllo della situazione in città... >>.
Irina lo guardò per un
lungo momento. Non poteva che dargli ragione su ogni fronte, e non poteva
chiedergli più di quanto avesse già fatto: Senderson
era stato molto severo con lei, ma anche molto giusto. Se in quei sei mesi
aveva avuto la possibilità di riprendersi e non ci era riuscita, non era certo
colpa sua.
<< Io la ringrazio
per la pazienza che ha avuto con me, ma non posso tornare per strada >>
rispose lentamente, sicura di quello che stava dicendo, << Non posso. Non
ci riesco. Ogni mattina mi alzo e l'unica cosa che riesco a pensare è che
nonostante tutto quello che ho fatto, un criminale da quattro soldi ha
ammazzato Xander per pochi spiccioli... Non riesco ad
accettarlo. Non riesco a trovare una motivazione sufficientemente forte per
salire in auto e tornare a girovagare di notte, a fare inseguimenti... Non lo
voglio più fare >>.
Senderson
sembrò non capire, o forse semplicemente non si aspettava una risposta del
genere. Irina sospirò: quella era solo una piccola parte della verità. Come
poteva dirgli che ogni volta che guardava la sua auto, le veniva in mente il
momento in cui lei e Xander si erano incontrati la
prima volta, e tutto quello che li aveva legati? Come faceva a spiegargli che
aveva il terrore di tornare la sera a casa, o peggio la mattina presto, dopo
una nottata a fare inseguimenti, e trovare la casa vuota, silenziosa, il letto
freddo e deserto? Come poteva spiegargli che tutto aveva smesso di avere un
senso, da quando Xander se ne era andato?
<< Se abbandoni le
cose a metà, sarà peggio >> aggiunse Senderson,
<< Quello che ti è successo dovrebbe spingerti a scendere in strada e
mettere dietro le sbarre tutti i criminali che cercano di terrorizzare questa
città, non farti chiudere in te stessa... Il tuo lavoro sarà stato inutile nel
momento in cui tu abbandonerai la tua postazione >>.
Irina gli rivolse
un'occhiata, sentendo nella voce del suo capo tutto il convincimento che ci
stava mettendo. Credeva nelle sue parole, e voleva davvero vederla tornare
quella di una volta, ma lui non poteva capire. Irina aveva conosciuto Xander in quella città, insieme avevano dato anima e corpo
per catturare lo Scorpione e renderla più sicura, e lei era diventata il
miglior agente di polizia in circolazione... Aveva creduto di aver raggiunto un
traguardo; aveva creduto di aver smesso di soffrire, invece le era stato
strappato nuovamente qualcosa.
<< Non ne ho più la
forza >> ribatté, << Non ne sono più capace... >>.
<< Irina, guidi
ancora come una pilota clandestina, certo che ne sei capace! >> disse Senderson, spazientendosi. << Solo stamattina sei
stata in grado di percorrere seicento chilometri in meno di quattro ore!
>>.
Irina non si lasciò
spaventare, né intimorire. Diversamente da quanto poteva credere il suo capo,
lei aveva le idee molto chiare, e nessuna intenzione di mediare.
<< Comunichi ai suoi
superiori che chiedo il cambio di ruolo. Non sarò più agente speciale
>>disse, << Non ha senso perdere tempo in questo modo, aspettando
che io mi senta pronta per tornare. Non lo sarò >>.
Il capo della polizia la fissò
per un lunghissimo istante, che le fece pensare che molto probabilmente non si
era spettato una decisione di quel genere. Forse aveva pensato che gli
chiedesse ancora tempo, che cercasse una scusa di qualche tipo per avere
qualche altra settimana di attesa... O forse, non credeva possibile che avesse
perso la voglia di correre.
<< Hai un talento,
Irina, e non puoi permetterti di sprecarlo >> disse lentamente, <<
Sei fatta per questo lavoro. Non posso non chiederti se sai davvero cosa
comporta la tua scelta... >>.
Irina fece una smorfia.
Significava perdere la possibilità di scorrazzare con la sua auto di notte e di
giorno senza essere fermata, significava non sentire più l'adrenalina della
velocità, la soddisfazione nell'aver portato a termine il proprio compito.
Forse in passato avrebbe avuto qualche dubbio, ma ora non più. Che senso aveva
tutto quello se quando tornava a casa era sola? E soprattutto, che senso aveva
se la gente che amava veniva ammazzata lo stesso?
<< Lo so cosa vuol
dire >> rispose, << So che fin dall'inizio ha avuto fiducia in me,
e che insieme abbiamo fatto un ottimo lavoro, ma non credo di essere più quella
di una volta. Non riesco a trovare una motivazione abbastanza forte per tornare
in strada >>.
Senderson si
alzò e si diresse alla finestra, quasi frustrato. Irina sapeva che sarebbe
stato difficile convincerlo, era sempre stato testardo.
<< E se ti dicessi
che McDonall ha chiamato qui e mi ha detto di dirti
che è disposto a prenderti come agente dell'F.B.I., se decidi di tornare immediatamente
operativa? >> disse.
Irina inarcò un
sopracciglio.
McDonall,
il vicepresidente dell'F.B.I., le offriva un posto proprio in quel momento?
Proprio quando era più debole? Che senso aveva? Per quanto potesse esserne
lusingata, sentì una punta di disgusto bruciarle nello stomaco, non per l'uomo
in sé, ma per l'istituzione che rappresentava: un loro agente era stato
eliminato, e ne stavano cercando uno nuovo che potesse fare lo stesso lavoro.
<< E cosa dovrei
fare? Sostituire Xander? >> sbottò, irritata,
<< Fare quello che faceva lui? Farmi trasferire di città in città per
infiltrarmi tra i piloti clandestini e arrestarli? Crede che ne abbia voglia? McDonall conosce la mia storia e quella di Xander, dovrebbe sapere che non accetterei mai di sostituirlo,
in nessun frangente. Può declinare l'offerta al posto mio, non mi offenderò
>>.
Senderson
tornò a sedersi e afferrò la sua tazza di caffè, sorseggiandone un po'.
<< Ok, non posso
insistere >> ammise lentamente, << Ma adesso ti parlerò non come
tuo superiore, ma come amico. Sono passati sei mesi, Irina, e tu non sei ancora
riuscita a elaborare il lutto. Suona duro da dire, ma non puoi fermarti. Sei
giovane, hai ancora tutta la vita davanti, e non puoi vivere nel ricordo di una
persona che sarebbe sicuramente d'accordo nel dirti di ritrovare un po' di
felicità, di dimenticare il passato e guardare avanti... Le scelte che stai
facendo stanno solo aumentando il tuo dolore >>.
Per un attimo, Irina ebbe
la voglia di alzarsi e andarsene, sbattendo la porta. Quante volte aveva
sentito quel discorso? Chi glielo aveva fatto? Sicuramente suo padre, Jenny, Max, Sasha, Angie, Katy... Aveva
perso il conto. Era vero quello che le avevano detto, eppure era come se le
loro parole le fossero passate da parte a parte... Lo stesso era per ciò che le
aveva appena detto Senderson. Per quanto le fosse
grata che si preoccupasse per lei, non cambiava come si sentiva il quel
momento.
<< Lo so >>
disse solamente, rimanendo seduta dov'era, << Lo so >>.
Senderson
scosse il capo; ultimamente lo vedeva sempre più frustrato, quando aveva a che
fare con lei.
<< Sei sicura di non
voler accettare nemmeno l'incarico di McDonall?
>> le domandò stancamente.
<< No, non voglio
accettarlo >>.
Rimasero in silenzio per un
momento, poi Senderson tornò a guardarla. Non
riusciva a decifrare la sua espressione dietro la barba, ma sembrava quasi
arrabbiato.
<< Allora cosa vuoi
fare? >> le chiese.
Irina ripensò alle ultime
settimane, passate ad archiviare pratiche, a gestire multe e infrazioni al
codice della strada, a rileggere interrogatori di piccoli criminali. Non erano
stati giorni entusiasmanti, adrenalinici, erano stati giorni lunghi e faticosi,
ma erano pur sempre passati. Era riuscita comunque a tenere la testa impegnata
per otto ore al giorno, anche se quanto poi tornava a casa ripiombava nello
sconforto e nella solitudine.
<< Mi va bene
qualunque cosa >> rispose lentamente, fissando il bordo della scrivania,
<< Mi metta dietro a una scrivania, o a fare l'ausiliare del traffico. Mi
metta dove le serve >>.
Senderson
annuì e aprì il cassetto sotto la scrivania. Le porse un paio di fogli
prestampati, che Irina prese e a cui gettò una rapida occhiata.
<< Compilali e
firmali. Mi serviranno per chiedere il cambio di mansione >> le spiegò il
capo della polizia, << Stasera lasciali a Onsow
prima di tornare a casa >>.
Irina si alzò, stringendo i
fogli tra le mani. Improvvisamente si sentiva pesante, nonostante avesse
creduto che chiudere definitivamente l'avrebbe resa più tranquilla. Erano mesi
che ci pensava, da quando era rientrata dal congedo e si aggirava tra i
corridoi del Dipartimento, osservando l'azione solo da lontano.
<< Devo portare via
l'auto, immagino... >> aggiunse a bassa voce.
Senderson la
guardò in modo strano, e le mise una mano sulla spalla, accompagnandola verso
la porta.
<< Non c'è fretta,
Irina >> rispose, << E comunque, hai un posto dove tenerla?
>>.
Irina annuì. La sua nuova
casa era piccola, ma aveva un garage dove adesso teneva la TT. Poteva portare
lì la Punto e parcheggiare l'Audi in strada, senza dover per forza scomodare Max chiedendogli un posto nella sua officina.
<< Allora ti devo un
pranzo >> disse alla fine Senderson, forse per
stemperare la strana tensione che sembrava essersi creata in quel momento,
<< Altrimenti l'agente Ferson me lo rinfaccerà
per settimane >>.
Irina stirò le labbra in un
sorriso velato.
<< Le dirò che me lo
ha già offerto >>disse, << Credo di avere del lavoro da sbrigare
sulla mia scrivania, per oggi >>
Spazio
Autrice
Salve a tutti, lettori!
Dopo anni di assenza da questa piattaforma e nel frattempo aver provato Wattpad (fantastico sotto alcuni punti di vista, orribile
per altri), torno qui per rendere partecipi chi, nonostante il tempo passato,
si ricorda ancora di me ma soprattutto de Il Gioco dello Scorpione e Russian
Roulette. La trilogia di Irina si completa, e voglio che anche voi possiate
leggerla.
Diversamente da come ho
fatto in passato, pubblicherò i capitoli senza rispondere alle recensioni; per
lo meno non sempre. Ovviamente voi siete liberi di commentare e chiedere ciò
che volete, ogni tanto mi fermerò per rispondere.
Detto questo, spero la
storia vi piaccia come vi sono piaciute le due in passato!
Un bacio
Lhea