Egoismo
Quanto
tempo era passato? Quante erano state le notti insonni che si erano susseguite
da allora? Due, tre, forse quattro... dio, perché era così difficile
ricordarle?! Si alzò dalla branda guardando fuori dalla finestra. Il cielo
sembrava più nero del solito, né una nuvola, né un gabbiano. Come se l’intera
città fosse stata inghiottita dalle tenebre.
Non lo aveva più visto. Era stato tutto il tempo chiuso in quella stanza. Non
lo aveva più cercato, eppure continuava a chiedersi quale insana forza gli
impedisse di andarsene via, di chiudere una volta per tutte quella pagina della
sua vita che tanto lo stava logorando.
-
Cazzo – si ritrovò a ringhiare fra i denti mentre con la testa fra le mani
cercava di dare un senso a tutto. Forse era davvero così masochista da voler
restare fino alla fine. Nella sua testa c’era l’assurda convinzione che solo
quando l’avesse visto lì davanti, vestito di tutto punto mentre l’aspettava,
solo quando l’avesse visto baciarle la mano avvolta in un guanto bianco, solo quando
le campane avessero suonato a festa sotto una pioggia di riso, solo allora
avrebbe potuto dirgli addio. Eppure qualcosa dentro non riusciva a smettere di
pulsare. Un desiderio, forse un assurdo sogno che stavolta non avrebbe trovato
una realizzazione.
Un
calore insopportabile iniziò a avvampargli il volto. Mise la testa sotto il
getto freddo dell’acqua ma fu tutto inutile. Il suo stesso petto stava andando
in fiamme e lui non riusciva a far nulla per impedirlo. Spalancò la finestra
venendo schiaffeggiando dalle raffiche violente che imperversavano nella notte.
Urlò, urlò più forte di quanto avesse mai fatto, più forte di quando credesse
di esserne capace. Urlò ancora e ancora, incurante delle luci della locanda che
si andavano accendendo, ignorando le grida e gli insulti che gli venivano
lanciati contro. Ancora il vento, ancora insulti. Quelle grida che forse aveva
celato per troppo tempo venivano gettate nell’aria gelida della notte come la
lava di un vulcano. Quel calore insopportabile andava via via
svanendo mentre la gola paradossalmente iniziava a bruciare. Perché si sentiva
così? Perché tutto ad un tratto era diventato difficile anche solo respirare?
Strinse forte con le dita il legno del davanzale, così forte che alcune schegge
gli si conficcarono sotto le unghie, ma non sentiva alcun dolore, come poteva
visto che una sofferenza più grande gli stava lacerando l’anima.
Il
vento soffiava forte facendo sbattere le mandate dell’imponente finestra. Sanji
si alzò dalla sua poltrona chiudendola nuovamente. Era davvero un tempo da
cani. Perfino le luci del porto parevano essersi offuscate, e il mare si era
unito alla pece del cielo dove la luna stessa era sprofondata. Un cattivo
presagio? No, lui non aveva mai creduto a queste stupidaggini. Sarebbe andato
tutto bene, il suo matrimonio sarebbe andato bene. L’avrebbe amata come
meritava di essere amata, e ogni giorno avrebbe ringraziato il cielo per averla
al suo fianco. Avrebbe sacrificato tutto per lei, anche la sua stessa anima per
non farle mancare il sorriso sulle labbra. La felicità di Keira veniva prima di
ogni cosa, e non si sarebbe mai perdonato di farla soffrire o deluderla. Mai,
mai più una donna avrebbe pianto per
lui. Era una promessa che si era fatto anni addietro, e riusciva a ricordare perfettamente quando. Quella
promessa era l’unica cosa che ancora sentiva di poter mantenere. Nella sua vita
aveva fallito in tutto, nel suo lavoro, nel suo sogno, nella sua stessa
felicità. Ma non avrebbe fatto nulla per infrangere quella permessa, non
avrebbe mai permesso a una sola lacrima di rigarle il viso, anche se lui ne avesse
versate mille e poi mille ancora.
Mentre
tornava alla sua poltrona una nuova folata di vento riaprì la finestra. Forte
come un soffio divino il vetro sbatté contro il muro e un vento possente lo
colpì. Si voltò verso la tempesta che imperversava all’esterno quando un
brivido gli percosse la schiena.
Un
grido. Come poteva averlo sentito? Si precipitò a guardar fuori. Nulla, solo i
rami e le insegne mosse dal vento. Non c’era nessuno per le strade e le case
erano chiuse. Eppure cos’era stato? Cos’era quel flebile brivido che gli aveva
fatto vibrare il cuore? Si portò una mano al petto, quella mano che tanto aveva
maledetto come per domare quel battito improvvisamente accelerato. No, non
poteva avere cedimenti proprio adesso, non la vigilia del suo matrimonio.
Lasciò lo studio velocemente incurante del vento che continuava a far sbattere
la finestra e che stava portando sulla sua scrivania una miriade di foglie
morte.
-
Signore, esce con questo tempo? – la voce di un giovinetto gli arrivò alle
orecchie. Neanche si preoccupò di rispondergli, aprì il grande portone e uscì
in strada. Quando la sua pallida pelle incontro la furia del vento si strinse
nel lungo cappotto senza perdere il ritmo dei suoi passi. Lunghi , veloci passi
che lo riportarono al molo, dove qualche giorno prima aveva incontrato Giselle.
Era difficile riuscire anche solo tenere gli occhi aperti con il vento che
tagliava neanche una lama affilata. E fu quel pensiero che lo fece bloccare,
che gli fece abbassare il capo e digrignare i denti. Il semplice pensiero di
una lama.
Stava cedendo, stava cedendo ancora una volta a quel desidero di fuggire, di
lasciare dietro i suoi pensieri, le sue sofferenze, e gli specchi che
riflettevano i suoi errori.
- Non ci provare, non te lo permetterò – gli aveva urlato tenendo le braccia spalancate
per impedirgli di passare. Lui aveva scosso la testa tenendo stretta fra i
denti la sua sigaretta.
- Piantala Rufy, ormai ho deciso –
sospirò senza lasciar trapelare alcun’emozione. D’un tratto la sua camicia
venne stretta nel pugno del suo capitano mentre veniva sbattuto contro la
parete di legno.
- Non ti lascerò andare. Mettitelo in
testa! Sei un mio compagno e io non ti voglio perdere – gli occhi sicuri e in
quel momento colmi di collera si specchiavano in quelli spenti del biondo.
Perché non capiva che per lui non c’era più posto su quella nave?
- Sanji-kun...- la voce di Nami vibrava
come poche volte l’aveva sentita. Il suo cuore si strinse in una morsa che
pareva volerlo uccidere. La stava facendo piangere, stava permettendo alle
lacrime di bagnarle il suo bel viso. Non riusciva neanche a guardarla.
Staccò le mani del suo capitano, quelle
mani forti alle quali in quel momento non accettava di aggrapparsi.
- Perdonatemi se potete – aveva
sussurrato appena saltando giù dalla Sunny. Le urla di Usopp e i pianti di
Chopper, neanche le suppliche di Robin e né quella di nessun altro riuscirono a
dissuaderlo. Ma forse l’unica voce che aveva bisogno di sentire in quel
momento, era l’unica che non riusciva ad udire. Se ne stava fermo, immobile,
con le palpebre serrate e il respiro regolare. Come se non fosse affar suo,
come aveva sempre fatto in fondo. Sanji lo guardò un’ ultima volta pregando che
riuscisse a sentire il suo cuore sussurrargli di girarsi, di guardarlo, di
impedirgli di andare via. Ma nulla. Come una roccia fredda e dura che rimane
indifferenze ad ogni onda che le arriva addosso, lasciando che si schianti e si
infranga sulla sua superficie impenetrabile senza alcun effetto apparente. Ma
ogni roccia ne rimane colpita, anche la più forte. Ogni roccia assorbe
l’effetto di ogni piccola onda, la sopporta, la resiste, l’assorbe, finché non
è ha abbastanza, finché le onde che le si sono abbattute contro non iniziano a
sgretolare la sua superficie, facendo cadere piccole polveri in mare. Uno, due,
poi un’altra onda e alla fine la stessa roccia è costretta a spaccarsi. Ma Zoro
non era neanche una rocca, era qualcosa di più duro, forse duro come la lama
delle sue stesse spade che scalfivano tutto , ma non venivano mai scalfite.
Rimanevano affilate, nonostante il numero di gole e di cuori che andavano a infrangere,
pulite e lucide, nonostante il sangue che le sporcava di continuo.
E così andò via.
Quel giorno il sole era abbagliante,
come se stesse anche lui chiedendogli di non abbandonarlo, di restare a
guardarlo e lasciare che facesse splendere i suoi capelli dorati, così come quel
mare calmo che gli sussurrava con il suo suono malinconico di non lasciarlo
solo, che il suo sogno lo stava ancora aspettando. Ma aveva voltato le spalle a
tutto, non poteva fare altro che fuggire via, via dalla sua sconfitta con la
speranza di riuscire a sopportarla senza più quella sofferenza che gli annegava
il cuore. Non si voltò più indietro, finché le urla di Usopp non scomparvero e
finché le lacrime di Nami non si fossero asciugate. Era stata la decisione più dura che
avesse mai preso. Aveva detto addio a tutto, al suo sogno, alla sua famiglia,
alla sua stessa vita.
Iniziò
ad inebriarsi del sapore amarognolo della sigaretta. Era riuscito ad accenderla
nonostante il vento, e nonostante la sua mano. Era stato forse un piccolo
regalo da parte del cielo, o forse solo un modo per beffarsi di lui, ancora una
volta. La bufera pareva essersi calmata, come se si fosse improvvisamente
accorta che c’era qualcosa che lo stava scuotendo anche più ferocemente delle
sue raffiche di vento. Si poggiò contro la staccionata di legno e sospirò. Quella
volta non sarebbe scappato, se l’era ripromesso. Era la sua seconda vita e non
le avrebbe detto addio. Le strade vuote e desolate come giusto che fossero in
quel momento, a notte inoltrata con una tempesta in corso. Chissà se domani ci
sarebbe stato il sole. Keira amava il sole anche se aveva sempre voluto
sposarsi con la pioggia. Era più romantica, diceva. Sanji sorrise a quel
pensiero. Alzò il capo verso l’oscurità che governava il cielo, pregando le
nuvole di comparire dalle tenebre che le avevano inghiottite e di bagnarlo.
Chiuse gli occhi facendo salire al cielo il fumo della sigaretta e la sua
preghiera, sperando di essere udito, almeno quella volta. Il vento riprese a
soffiare e lui riaprì gli occhi. Sarebbe stato esaudito?
Afferrò la cicca fra le dita e la guardò un’ ultima volta prima di spegnerla
sulla balaustra. Si fece una promessa: sarebbe stata l’ultima. Non avrebbe più
fumato e avrebbe così evitato di mentirle. Era il suo pegno d’amore. Poggiò il
pacchetto che aveva nella tasca sul legno della ringhiera e decise di affidare
al vento la sua sorte. Come le dita abbandonarono la presa, lo vide volare giù
e cadere sulla sabbia, poi iniziò a rotolare. Chissà dove sarebbe arrivato. Lo
guardò allontanarsi e poi si strinse ancora nel suo cappotto. Doveva tornare a
casa, era la vigilia del suo matrimonio e il suo posto era lì.
- Non
ce l’ho con te, solo evita di metterti ad urlare e svegliare tutti – sorrise
Giselle davanti alla porta semi aperta. La testa verde avvolta dal buio che
invadeva la stanza annuì lentamente.
-
Scusi – sospirò poi. La donna sentì il cuore restringersi all’espressione sul
viso di quel giovane. Ma dannazione, perché ridursi in quello stato? No, non
erano affari suoi, ma doveva fare qualcosa.
-
Vieni con me – esclamò sicura afferrando il polso del ragazzo. Due passi. Solo
quello gli fu concesso prima di essere costretta ad arrestarsi perché sembrava
stesse trasportando del piombo.
-
Che diavolo vuole da me? – ringhiò Zoro staccandosi senza mezzi termini da
quella presa indesiderata. Era stanco, stanco e distrutto e senza alcuna voglia
di stare dietro alle pazzie di quella vecchia. Giselle si voltò sospirando. Beh
lui era un po’ più difficile da trattate dell’altro, anzi un bel po’ di più. Ma voleva rivedere quella luce negli
occhi di Sanji, come voleva rivedere la determinazione in quelli dello strano
pirata. Cosa importava a lei della felicità di due perfetti sconosciuti? Nulla, ma forse era l’età che la stava
portando ad una lenta e irrefrenabile pazzia senile, o forse quella vena di
romanticismo che le aveva sempre bagnato l’anima, o sarà stato quell’affetto che
le era mancato sempre, l’affetto di una madre che l’aveva abbandonata e di un
padre sempre assente, l’affetto di un marito violento e di un figlio che non
era mai arrivato. Forse era solo per quell’amore che in tutta la sua vita aveva
sempre così disperatamente cercato e che le era sempre stato negato, che ora
voleva riuscire a regalare a quei due perfetti
sconosciuti la felicità che era davanti a loro, ma che sembravano non
vedere.
-
Mi spiace dirtelo figliolo, ma sei un codardo – una frase diretta, schietta,
senza cedimenti uscì dalle labbra incorniciate dal rosso di un rossetto della
donna.
-
Come? – Zoro guardò con sguardo truce la bionda davanti a lui. La sua
espressione sicura quella strafottenza che non si poteva permettere.
- Ho detto che sei un codardo. Cos’è hai l’udito difettoso per caso? - un freddo colpì violentemente il collo rugoso
di Giselle, ma lei si accorse solo dopo della presenza di una lama alla sua
gola.
-
E così che risolvi le cose tu? – aveva chiesto come se non fosse tenuta sotto
la minaccia di un’arma così pericolosa, ancor più se a tenerne l’impugnatura
era Roronoa Zoro. Il ragazzo inghiottì non aspettandosi una simile freddezza.
Ma che diavolo voleva da lui? Prima si impicciava di fatti che non le
appartavano, e ora si metteva a sputare sentenze e giudizi. Lui codardo? Non
sapeva di cosa stesse parlando. Non sapeva nulla di lui, della sua vita,né
dell’angoscia che era costretto ad affrontare giorno dopo giorno.
-
Che cosa vuoi da me? – sibilò il giovane fra i denti. La bionda sorrise. Un
sorriso materno? Zoro non sapeva definirlo, infondo di materno non conosceva
nulla.
-
Figliuolo, metti via questa cosa e scendi a bere qualcosa. Ti preparo un po’ di
te – la donna si voltò e si avviò per le scale che scendevano in cucina. Zoro
vide la lunga gonna sparire dietro l’angolo e abbassò la sua katana insieme al
capo. Si lasciò cadere con le spalle contro il muro.
Era
possibile che un cuore umano potesse sopportare quel dolore? Era come chiedere
ad una foglia di reggere il corso di un fiume. Si rannicchiò come un bambino
stringendosi le ginocchia con le braccia. Era così che si sentiva. In tutta la
sua vita, fin da quanto si allenava con Kuina, a quando aveva tagliato il collo
di Mihawk, in ogni sfida, aveva affrontato tutto come un uomo, e ora era lì
come un ragazzino impaurito.
-
Sapevo che non saresti sceso – alzò la testa a quelle parole incrociando lo
sguardo di Giselle attraverso il fumo che saliva da una tazza calda.
-
Avanti prendi – la donna si sedette di fronte, sulle assi ammaccate e
scricchiolanti del pavimento e gli allungò la tazza. La mano di Zoro l’afferrò
e la strinse incurante del calore che gli bruciava nel palmo.
-
Non è ancora finita – gli occhi neri del pirata si posarono sulle labbra rosse
della donna per poi tornare ad osservare la tazza.
-
Ha fatto la sua scelta – perché le stava rispondendo? Perché stava aprendo il
suo cuore con quella donna? Si odiò un po’ per questo, ma tutto quell’odio
ormai non faceva altro che ribollirgli dentro e disperdersi nelle sue vene,
attraverso ogni fibra del suo corpo per poi sciogliersi nella sua stessa anima.
- E
tu, hai fatto la tua? – gli chiese Giselle sorridendo. Zoro la guardò di
sfuggita ma non riusciva a permettere ai suoi occhi di lasciare il bordo
fumante della tazza
-
Che vuoi dire? – ormai non aveva nulla da perdere. Se ne sarebbe andato via
l’indomani, avrebbe detto addio a quel posto e a quella donna e mai ci avrebbe
messo più piede. Quella domanda sarebbe morta lì, con la notte, con la tempesta
che faceva sbattere le finestre e nulla sarebbe cambiato.
-
Ah figlio mio, non ti hanno mai detto che bisogna essere egoisti nella vita? –
un sorriso increspò le labbra della donna.
Essere
egoisti... un sapore amaro salì dallo stomaco del giovane. Era stato proprio
per il suo egoismo se ora era in quello stato, se aveva allontanato e perduto
l’amore della sua vita. E ora quella lì gli diceva di essere egoista?
- Grazie
ma non credo siano affari tuoi – come svegliatosi da un incantesimo, Zoro si
alzò abbandonando a terra la tazza fumante e intatta, e lasciando che lo
sguardo di Giselle si perdesse sulla sua schiena. Si avviò verso la sua camera
deciso a non sentire più nulla della baggianate di quella vecchia.
-
Se lo vuoi, riprenditelo – si bloccò a quelle parole.
Giselle
si alzò e raccolse la tazza di tè
-
Se lo vuoi, riprenditelo – ripeté stavolta con un sorriso prima di sparire di
nuovo.
Zoro
rimase immobile sulla soglia della porta. Era questa la soluzione ai suoi
problemi? Andare lì riempirlo di pugni, caricarselo sulle spalle e portarlo
via? Questo avrebbe risolto tutto? Avrebbe sciolto quel nodo che gli legava il
cuore e l’avrebbe lasciato finalmente respirare?
Risentì
il suo profumo solleticargli le narici e le dita strinsero l’aria come fossero
i fili dorati dei suoi capelli. Riprenderselo.. ma quanto era stato davvero
suo? Non aveva mai avvertito quel sentimento che ti tiene legato a qualcuno,
quella sensazione di appartenenza. Come poteva quindi riprendersi qualcosa che
non gli era mai appartenuta. Eppure quella notte, quando l’aveva stretto fra le
braccia l’aveva sentito, aveva sentito che il suo cuore gli apparteneva, e
allora perché l’aveva lasciato andare via, ancora una volta... Erano troppo
tempo che il suo cervello si contorceva sulla stessa domanda e ancora non era
riuscito a darle una risposta che non fosse la sua codardia.
“Riprenditelo”... a quella parola il suo cuore saltò un
battito.
To Be Continued...
Penultimo
capitolo di questa fic. Spero vi faccia piacere che
sia ritornata ^-*
Kiss Kiss Chiara