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Autore: _Pulse_    21/01/2018    3 recensioni
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede". [...]
Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancione e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del Ladro Gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
[Post 4th Season - Crossover!]
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Buona domenica! :)
Allora, temo sia arrivato il momento di avvisarvi: questa storia sta giungendo al termine. In totale i capitoli sono infatti 24, incluso l'epilogo, e in questo leggerete finalmente il faccia a faccia di Arsène e i suoi aguzzini. La storia originale di Maurice Leblanc, per chi volesse leggerla, si intitola "La trappola infernale".
Anche in questo capitolo vengono descritte scene di violenza, perciò attenzione. Preparate anche i fazzolettini, perché leggerlo non sarà affatto facile. E' stato difficile per me scriverlo, perciò... fidatevi.
Voglio citare due canzoni in particolare che mi hanno aiutata molto durante la stesura: "Long defeat" dei Thrice e "Go to War" dei Nothing More. Vi consiglio di ascoltarle, perché meritano. Fanno parte della playlist spotify che ho creato apposta, se volete darci un'occhiata potete trovarla a questo link.
AH! Mi è stato fatto notare che nel capitolo scorso mi sono dimenticata di citare il racconto di Doyle "L'Interprete greco" in cui si parla del professor Melas.
Detto questo mi eclisso per lasciarvi alla lettura. Ringrazio di cuore tutti quelli che sono arrivati fino a qui: siete dei compagni di viaggio meravigliosi. ♥
Alla prossima settimana!

Vostra,

_Pulse_


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22. Les jeux sont faits


Grégorie aveva portato una Molly Hooper in lacrime a casa, accompagnandola addirittura fino all'interno del suo appartamento, e poi ci era rimasto, invitato dalla stessa donna. Lui aveva accettato, stanco di trascorrere ore ed ore in auto.
Molly si era chiusa a chiave nella sua camera da letto e da quella mattina vi era uscita solo una volta, precisamente quando il dottor Watson era andato a farle visita per sapere come stava e scusarsi per tutti i problemi che lui e Sherlock le avevano causato.
A proposito del detective, l'anatomopatologa gli aveva rivolto una sola domanda: «È vero che l'ha ucciso?». John aveva esitato, ma alla fine aveva annuito con espressione rammaricata.
Quando se n'era andato Grégorie aveva sentito Molly piangere, gridare, rovesciare mobili e ancora piangere, per ore, fino a quando la stanchezza non aveva preso il sopravvento.
Lui invece si era accomodato in salotto, davanti alla TV, e aveva seguito tutte le edizioni speciali e gli approfondimenti che i canali di informazione avevano trasmesso a seguito dell'arresto di Arsène Lupin e Sherlock Holmes, due personalità magnetiche e controverse che nel tentativo di prevalere l'una sull'altra erano arrivate a sconfiggersi a vicenda.
Grégorie tuttavia non era d'accordo con i mass-media: Arsène gli aveva promesso che si sarebbero rivisti, perciò era sicuro che avrebbe trovato il modo per uscire di prigione e tornare da lui. L'ultima volta ci erano voluti sei mesi, ma non gli importava quanto tempo ci avrebbe messo: l'avrebbe aspettato fino alla fine dei suoi giorni.
Si stava quasi appisolando sul divano quando gli arrivò la notifica di un'e-mail. La aprì e lesse sconvolto ciò che gli era stato comunicato: l'identità delle persone che volevano vendicarsi di Arsène Lupin. In allegato trovò anche le scansioni di vecchi articoli di giornale che avevano commentato la vicenda e le foto dei protagonisti modificate da François con un programma di invecchiamento. In particolare lo colpì la trasformazione di un ragazzino, il nipote della vittima, il cui identikit non solo combaciava perfettamente con l'aspetto della finta cameriera del Savoy ma anche con quello che avevano sempre creduto fosse un senzatetto assoldato da Sherlock Holmes per tenere d'occhio l'appartamento di Molly Hooper.
Grégorie si alzò di scatto dal divano e corse alla finestra che dava sulla strada, trovando il ragazzo seduto sulla solita panchina. Quella volta però alzò lo sguardo ed incrociò il suo con intenzione, confermando ogni suo sospetto: erano stati fregati.
«Miss Hooper!», gridò, dirigendosi a passo spedito verso il corridoio.
Picchiò alla porta della sua camera da letto con il pugno e la chiamò nuovamente. La donna gli aprì dopo qualche secondo, il volto stravolto.
«Che cosa c'è?», mormorò con poca voce.
«La sua vita è in pericolo. Deve andarsene subito da qui», esclamò afferrandola per un braccio, senza darle nemmeno il tempo per pronunciarsi.
«Deve salire sul tetto e saltare su quello dell'edificio accanto, ha capito? Da lì potrà scappare senza problemi. Raggiunga il Savoy Hotel, là sarà al sicuro».
Le infilò il cappotto e la spinse fuori dalla porta, per poi concentrarsi sulla pistola che aveva estratto dalla fondina che teneva nascosta all'interno della giacca.
Molly però gli afferrò le mani e guardandolo dritto negli occhi gli disse: «Vieni con me».
Grégorie abbozzò un sorriso. «Non posso, madmoiselle. Le devo dare il tempo per fuggire e questo è l'unico modo. Adesso vada, su».
Molly abbassò gli occhi e si avviò verso le scale che portavano al tetto, senza più voltarsi indietro per paura di cambiare idea.
L'uomo coi baffi si fece coraggio con un respiro profondo e con la pistola stretta tra le mani scese lentamente le scale, rasentando il muro.
Giunto nell'androne chiuse gli occhi ed aprì il portone, ma non vide più nessuno sulla panchina dall'altro lato della strada. Fece un passo verso l'esterno e un colpo improvviso al braccio gli fece perdere la presa sulla pistola. Il ragazzo, coi lunghi capelli biondi nascosti sotto il cappuccio della felpa, sfruttò la sorpresa di Grégorie per sferrargli un calcio sul ginocchio destro, facendoglielo piegare verso il pavimento, ma l'uomo coi baffi reagì lanciandosi contro di lui come un rugbista.
Ci fu una violenta colluttazione, in cui entrambi cercavano di prevalere sull'altro e intanto provavano ad avvicinarsi alla pistola, caduta sulla scalinata d'ingresso.
Gabriel - così si chiamava il ragazzo - era all'apparenza magro ed esile, ma aveva una forza notevole, tanto che Grégorie ad un tratto ne fu sopraffatto. Si ritrovò infatti steso sul pavimento, con la testa che sporgeva oltre il primo scalino bagnato di neve, e il biondo, a cavalcioni su di lui, gli serrò entrambe le mani intorno alla gola per strangolarlo. L'uomo coi baffi ne approfittò per allungare un braccio alla ricerca della pistola, ma la mossa non sfuggì a Gabriel, il quale cercando di impedirglielo finì per perdere il vantaggio ottenuto. Grégorie, con un colpo di reni, riuscì a capovolgere la situazione. Entrambi toccarono il calcio della pistola, tuttavia il ragazzo, col volto paonazzo per la mancanza d'aria, non si arrese e riuscì a tirargli una ginocchiata all'inguine che gli permise di avere la meglio.
Partì un colpo che echeggiò per tutta la via e Grégorie alzò il capo per guardare Gabriel negli occhi, incredulo tanto quanto lui; poi li abbassò verso il proprio addome, dove si stava allargando rapidamente una macchia di sangue rosso scarlatto.
«Non è possibile», mormorò, iniziando a sentire il dolore paralizzante della ferita d'arma da fuoco. «No, non posso... non posso morire adesso...».
Il ragazzo lo spinse via da sè e si alzò in piedi per fissarlo con i grandi occhi neri spalancati, il fiato corto e il sangue che colando dal naso tumefatto gli stava macchiando le labbra e i denti bianchi. Quindi lo afferrò per le spalle e lo trascinò all'interno del palazzo, addossandolo contro la parete su cui erano fissate le buche per le lettere dei condomini.
Grégorie si portò una mano sulla ferita nel vano tentativo di bloccare l'emorragia, poi sollevò lo sguardo verso Gabriel, il quale lo evitò per correre su per le scale. Aveva sprecato fin troppo tempo.
Aprì la porta dell'appartamento di Molly Hooper, il suo bersaglio, e lo trovò vuoto. Era riuscita a fuggire e sua zia non ne sarebbe stata felice, per niente.
Quando aveva appreso dell'arresto di Lupin era andata su tutte le furie e gli aveva ordinato di tenere d'occhio la figlia e l'anatomopatologa, in modo da poter rapire una delle due e costringerlo ad evadere. Geneviève era stata prelevata da Scotland Yard dagli assistenti sociali, mentre Molly era stata semplicemente mandata a casa con un solo uomo di Lupin a proteggerla, rendendola l'obiettivo perfetto.
Gabriel si portò le mani tra i capelli, pensando alla prossima mossa da fare. Non poteva tornare da sua zia a mani vuote, l'avrebbe di certo punito.
Il televisore ancora acceso in salotto, sintonizzato su un canale di informazione, gli fornì l'aiuto di cui aveva bisogno: la polizia era stata appena informata che il furgone blindato su cui viaggiavano Arsène Lupin e Sherlock Holmes, diretti verso il carcere di massima sicurezza di Belmarsh, era stato dirottato dallo stesso Ladro Gentiluomo, il quale ora era in fuga.
Forse era stato proprio lui ad avvisare il proprio uomo. Che finalmente avesse trovato il bandolo della matassa?
In quel caso Gabriel non aveva più tempo da perdere. In cucina svuotò i cassetti fino a trovare un pezzo di carta e una penna e con scrittura frettolosa lasciò un messaggio al ladro, nella speranza che si precipitasse lì. Quindi tornò dall'uomo a cui aveva dovuto sparare e lo trovò semi-svenuto, col cellulare stretto nella mano destra, macchiata di sangue.  
Per quanto gli dispiacesse doverlo lasciare lì così, in bilico tra la vita e la morte, doveva scappare prima dell'arrivo dei rinforzi, limitandosi a pregare perché non morisse.

***

Arsène sapeva che il furgone blindato era dotato di GPS e che avrebbe attirato l'attenzione, perciò una volta rientrato in città era riuscito a cambiare mezzo tagliando la strada ad un motociclista il quale, riconoscendolo, gli aveva gentilmente prestato il veicolo a due ruote.
Con la moto si era diretto verso l'appartamento di Molly Hooper, sfrecciando in mezzo al traffico dei nottambuli, ma capì di essere arrivato tardi quando togliendosi il casco notò delle macchie di sangue fresco sugli scalini che portavano all'androne del palazzo.
Imprecò in francese ed entrò, trovandosi di fronte ad una scena che si sarebbe presto aggiunta a quelle che già infestavano le sue notti, costantemente agitate nonostante i sonniferi.
«Grégorie», mormorò, crollando in ginocchio al suo fianco. «Grégorie, mi senti? Grégorie, rispondimi!».
Guardò il sangue che gli impregnava la camicia e la spaventosa pozza al suo fianco, sentendo il cuore battergli furiosamente in gola mentre le lacrime iniziavano a bagnargli le guance.
«Grégorie!», singhiozzò cingendogli la testa con le braccia.
«Padrone...».
Il Ladro Gentiluomo sbarrò gli occhi e trattenne il respiro, prendendogli il volto per trovarlo ad occhi socchiusi e con un debole sorriso sulle labbra.
«Grégorie, grazie al cielo!».
«Avete... mantenuto la promessa», aggiunse, tossendo e macchiandogli la camicia di sangue.
«Ma certo, certo che l'ho mantenuta. Una promessa è una promessa».
L'uomo si aggrappò alle sue braccia con le ultime forze rimastegli e col capo sulla sua spalla sussurrò il suo nome: «Arsène».
Il ladro sentì il proprio cuore frantumarsi in mille pezzi.
Grégorie non l'aveva mai chiamato per nome, mai, e Arsène ne era stato in parte contento, dato che quello non era il suo vero nome. L'uomo aveva trascorso dieci anni al suo fianco, eppure non gli aveva mai rivelato nulla di sé, nemmeno un dettaglio insignificante come quello, a cui però il compagno teneva particolarmente. Per assurdo l'aveva fatto con Molly Hooper, la donna amata dal suo più grande rivale. Era pazzo? Forse.
«Raoul», singhiozzò, posando la fronte contro la sua. «Il mio vero nome è Raoul».
Grégorie parve rianimarsi: i suoi occhi si fecero più grandi e luminosi, il suo sorriso più bello.
«Raoul», ripeté.
Pronunciò il suo nome di battesimo fino a quando ne ebbe le forze. Poi, quando la morte lo prese con sé, si abbandonò contro il suo petto e Arsène lo strinse più forte, piangendo e fremendo di rabbia allo stesso tempo.
Fu quella rabbia cocente a dargli la forza per lasciare il fianco del compagno e correre nell'appartamento vuoto dell'anatomopatologa.
Sul ripiano in marmo dell'isola della cucina trovò un biglietto indirizzato a lui che diceva: "Se vuoi rivederla viva vieni a questo indirizzo. Da solo". Lo memorizzò, poi si lavò le mani del sangue dell'amico e col telefono fisso chiamò il Savoy Hotel per impedire ai suoi uomini di mettersi in mezzo.
Quindi scese le scale a precipizio, salutò Grégorie con un delicato bacio sulla fronte, raccolse la moto che aveva lasciato sul bordo del marciapiede e, deciso ad affrontare il proprio passato una volta per tutte, sfrecciò di nuovo nella notte resa più silenziosa grazie alla neve.

***

Molly era appena riuscita a saltare sul tetto dell'edificio che ospitava un altro condominio quando sentì l'eco dello sparo.
Il cuore le salì ancora più su nella gola e si sforzò di pensare che fosse stato l'uomo coi baffi a sparare, ma qualcosa le diceva che non era così. Tuttavia non si fermò e corse e corse, senza nemmeno sapere quale direzione avesse preso. Alla fine non andò al Savoy Hotel, bensì in un luogo in cui per forza di cose sarebbe stata al sicuro: Scotland Yard.
Un paio di agenti la riconobbero e vedendola così turbata le chiesero cosa fosse successo, ma lei disse che avrebbe parlato solo con l'ispettore Lestrade. L'uomo, nonostante fosse ormai notte fonda, era rimasto nel suo ufficio a pensare e una volta avvisato si presentò alla reception, dove Molly si rifugiò tra le sua braccia e cedette ad un pianto liberatorio.
Greg la portò subito nel suo ufficio ed aspettò che si calmasse, poi si fece raccontare nei minimi dettagli tutto quello che era successo.
Molly aveva giusto terminato il proprio racconto quando un agente bussò alla porta per avvertire l'ispettore che, primo, un uomo era stato trovato morto nel palazzo della donna, ucciso da un colpo d'arma da fuoco all'addome (rendendo purtroppo veritiera la sua deposizione), e che, secondo, la persona che stavano cercando di passargli al telefono fisso - che aveva lasciato squillare a vuoto per parecchi minuti - era Mycroft Holmes.
«Sembra piuttosto urgente, ispettore».
Greg sospirò pesantemente, pensando che quella giornata non sarebbe mai finita, e dopo averle chiesto scusa per l'interruzione andò a tirare su la cornetta.
«Che cosa c'è?», sbottò, ma lentamente la sua espressione scocciata venne sostituita dalla preoccupazione.
Dopo due minuti di conversazione in cui lui non aprì più bocca, Lestrade tornò a fissare Molly, la quale tirò su col naso e chiese: «Che cos'è successo?».
«Sherlock. A quanto pare Lupin ha dirottato il furgone blindato su cui viaggiavano e ha lasciato lui e i poliziotti della scorta sul ciglio della strada. Adesso sono tutti all'ospedale e Sherlock... Sherlock sembra grave».
L'anatomopatologa abbassò gli occhi sulle mani unite sulle gambe, strette intorno ad un fazzoletto appallottolato, poi si alzò e mostrò una nuova forza nello sguardo.
«Che cosa stiamo aspettando?», gli domandò, serissima. «Andiamo da lui».
«Sei sicura? Forse sarebbe meglio se tu...».
«Sto bene. Andiamo».
Lestrade sospirò ed annuì, seguendola fuori dall'ufficio col cappotto appeso al braccio.

***

«Signora, è arrivato».
Dietro il pc portatile posato su un angolo della scrivania, la zia di Gabriel sorrise maligna e guardò Arsène Lupin mentre veniva seguito dalle varie telecamere di sorveglianza installate in ogni angolo dell'hotel-casinò.
Pigiò il tasto dell'interfono con le sue dita tozze e con tono quasi divertito disse: «Molto bene. Dite agli addetti del ricevimento di consegnargli il buono per il casinò. Là ci sarà Gabriel ad attenderlo».
Il nipote, sentendosi nominare, irrigidì la schiena e con mani ancora tremanti si sistemò la coda di cavallo, pronto ad andare al suo posto.
«Te la senti?», gli chiese la donna all'improvviso, gli occhi fissi sulle inquadrature delle telecamere: Lupin si era appena accostato al bancone della reception e l'uomo dall'altro lato gli stava porgendo una carta dorata.
«Sì, certo», rispose Gabriel, stupito dalla sua domanda. Sua zia non chiedeva mai, ordinava e basta.
«Aspetto questo momento da vent'anni», spiegò, rispondendo alle sue inespresse perplessità. «Se qualcosa dovesse andare storto non te lo perdonerò».
Il ragazzo deglutì, ma fece del suo meglio per non mostrare il nervosismo. Chinò un poco la testa ed affermò: «Non ti deluderò, zia».
Dopo un grugnito, la donna gli fece segno di andare e Gabriel non perse tempo: lasciò l'ufficio, chiudendosi delicatamente la porta alle spalle, e prese l'ascensore dipendenti per raggiungere il quinto piano, dov'era situato il casinò.
Entrò nella grande sala, piena di gente seduta intorno ai tavoli da gioco, ai banconi dei tre bar e alle slot-machines. Decine di cameriere in succinti vestitini rossi e verdi e papillon al collo giravano con vassoi di flûte e stuzzichini, offrendoli agli ospiti. Gabriel impiegò poco per individuare Arsène e ad un certo punto, come se avesse avvertito il suo sguardo su di sé, il Ladro Gentiluomo si voltò con precisione verso di lui, inquadrandolo coi suoi occhi verdi. Nonostante la folla non si persero mai di vista e insieme giunsero davanti al tavolo della roulette, dove si fronteggiarono divisi dal lungo tavolo dal tappeto verde.
Gabriel fermò bruscamente il giro della roulette e prendendo di mano il rastrello dal collega fece piazza pulita di tutte le fiches posizionate sui vari numeri, scatenando il malcontento dei giocatori. A Gabriel però bastò uno sguardo, nero come la pece, per farli tacere intimoriti e costringerli a cambiare tavolo.
Arsène guardò i precedenti giocatori allontanarsi, poi tornò a posare gli occhi in quelli del ragazzo e con cautela si sedette sullo sgabello che gli era stato indicato.
«Non sono in vena di giocare», disse, tenendo a freno la rabbia.
Gabriel non rispose e gli consegnò una pila di fiches, squisitamente rosse. Arsène ne prese una e se la rigirò tra le dita, poi chiuse un occhio per prendere la mira e gliela lanciò addosso con precisione, colpendolo in fronte.
Il croupier, a parte alzare lo sguardo su di lui con fare annoiato, non reagì.
«Sei stato tu ad uccidere quella cameriera e a rubare il quaderno di mia figlia, dico bene? Perché? Chi sei?».
Gabriel gli rivolse un candido sorriso ed indicando il tavolo verde esclamò in un francese perfetto: «Faites vos jeux».
Arsène strinse i pugni e respirò profondamente col naso per calmarsi. «Se giocherò... poi mi porterai da Molly Hooper?».
Il ragazzo gli ripeté di puntare sui numeri e il Ladro Gentiluomo non poté fare altrimenti. Avrebbe giocato e avrebbe vinto, ad ogni costo.

***

Mycroft odiava vedere Sherlock in un letto d'ospedale e gli ospedali in generale: gli ricordavano i tempi in cui avevano provato a far internare sua sorella e quelli in cui suo fratello veniva ricoverato d'urgenza almeno una volta a settimana per overdose.
In quell'occasione gli tornò alla mente il giorno in cui era giunto alla conclusione che solo una distrazione, un nuovo stimolo, potesse tenerlo lontano dalla droga e aveva deciso di organizzargli un viaggio in Francia, dove il nome di Arsène Lupin stava iniziando ad essere sulla bocca di tutti. Di certo aveva ottenuto il suo scopo - il Ladro Gentiluomo l'aveva tenuto sufficientemente occupato - ma allora non avrebbe mai immaginato che metterlo sulla sua strada li avrebbe portati a quel punto.
«Mycroft!».
L'uomo si voltò e sforzò un sorriso. «Ispettore Lestrade, dottoressa Hooper», li salutò. «Non era necessaria la vostra presenza».
«Scherza, vero?», esclamò Greg, imbronciato.
«Come sta?», chiese invece Molly, sporgendosi verso la finestrella da cui si poteva intravedere l'interno della stanza: una lampada da comodino dalla luce calda, quasi rosata, illuminava il volto inespressivo di Sherlock, addormentato.
«I dottori dicono che è in una specie di coma».
Lestrade rimase letteralmente a bocca aperta. «Che cosa?».
«Il neurologo ha intenzione di effettuare ulteriori esami, ma l'ipotesi più valida al momento è che si sia ridotto in questo stato per via di una dose eccessiva di scosse elettriche».
«Non capisco. Com'è potuto succedere?».
Mycroft scosse il capo, afflitto. «Temo sia di nuovo colpa mia. Avrei dovuto immaginare che Arsène ne avrebbe approfittato...».
Il maggiore degli Holmes raccontò loro delle manette high-tech ricevute in prestito dalla CIA, del loro funzionamento e di ciò che avevano raccontato i membri della squadra di trasferimento che, poco ma sicuro, sarebbero stati degradati a lavori d'ufficio per il loro comportamento sconsiderato.
«A quanto pare Lupin e Sherlock si sono messi d'accordo per evadere e mio fratello si è fatto folgorare appositamente parlando dei suoi sentimenti per lei, dottoressa Hooper».
Molly, con una mano posata sul vetro freddo, si voltò verso Mycroft con gli occhi grandi e pieni di lacrime.
«Quindi sarebbe colpa mia se Sherlock subisse dei danni permanenti o, peggio, non si dovesse più risvegliare?», domandò con voce tremante, ad un passo dallo scoppiare in singhiozzi.
«Non lo pensare nemmeno», provò a rassicurarla Greg, ma lei cacciò via la sua mano e guardando negli occhi il maggiore dei fratelli Holmes chiese di poter andare da lui.
Mycroft acconsentì con un breve cenno del capo e Molly non se lo fece ripetere due volte: superò i due agenti armati di guardia alla porta, l'aprì e delicatamente se la chiuse alle spalle. Respirò profondamente per farsi coraggio e posò gli occhi sul suo corpo immobile, sentendo una fitta all'altezza del cuore quando si rese conto che aveva entrambi i polsi ammanettati alle sbarre del letto. Era in coma, per l'amor di Dio!
Portò una sedia al lato sinistro del letto, in modo da dare le spalle alla finestra che dava sul corridoio, e con le lacrime che ormai le rigavano il volto gli prese una mano tra le sue.
«Sherlock», sussurrò. «Ti prego, apri gli occhi. Ti scongiuro».
Il detective non ebbe alcuna reazione e lei nascose il viso nell'angolo del braccio posato contro la sbarra, col cuore a pezzi e la gola in fiamme.
«Mi dispiace. Mi dispiace per non averti ascoltato, per averti dato del codardo, per non averti capito... Io volevo solo... volevo che le cose tornassero come prima».
Rimase in quella posizione per tanto, troppo tempo; esaurì le lacrime ed era quasi sul punto di addormentarsi, provata da quella giornata infinita, quando le dita di Sherlock si mossero, facendola sobbalzare. Le sue ciglia fremettero e Molly le guardò trattenendo il respiro, fino a scorgere le sue iridi azzurre.
«Sherlock. Oh, grazie a Dio!». Le scappò persino una risata mentre si chinava sulla sua mano per baciarne il dorso.
Il consulente investigativo ricambiò il suo sguardo e la sua fronte si increspò.
«Ci conosciamo?», le chiese poi, con la voce arrochita.
Il sorriso le abbandonò la bocca e lo shock le fece mollare la presa sulla sua mano, la quale cadde inerte sul materasso. Molly si alzò dalla sedia ed inciampandoci si diresse verso la porta, sotto lo sguardo più che confuso di Sherlock.
Di nuovo in corridoio, lo percorse fino ad imbattersi in Mycroft e Lestrade, vicini al distributore automatico di bevande. Al maggiore bastò leggere la sua espressione per capire che il fratello si era svegliato, mentre Greg la prese per le spalle e le chiese perché fosse tanto turbata. Molly scosse il capo, incapace anche solo di dirlo ad alta voce, e si lasciò stringere in un abbraccio.

***

«Va bene, grazie».
Victoire terminò la chiamata con espressione stizzita e si voltò verso Maurice Leblanc, addossato allo schienale del divano con le braccia conserte e gli occhi che l'avevano seguita passeggiare su e giù per tutta la durata della conversazione telefonica.
«Hanno detto che Arsène li ha contattati dicendogli di starne fuori», gli riassunse, tornando a sedersi al suo fianco con un diavolo per capello.
«Che cos'ha intenzione di fare?», le chiese il reporter.
La donna sospirò. «Mi fiderò di mio figlio anche questa volta, non posso fare altrimenti».
Geneviève si ritrasse e tornò nella camera da letto a passo felpato. Ne era uscita circa venti minuti prima e aveva origliato gran parte della storia raccontata da Victoire, scoprendo così l'identità delle persone che volevano vendicarsi di suo padre. Il loro era un rancore che si era alimentato con gli anni e per raggiungere il loro scopo si erano spinti ad uccidere, perciò dubitava che lui da solo potesse sconfiggerli. Gli uomini dell'organizzazione e la stessa Victoire come facevano a non rendersene conto? Ma lei non se ne sarebbe stata con le mani in mano, non avrebbe potuto.
Recuperò lo zainetto con i pochi effetti personali che la polizia le aveva permesso di prendere con sé prima di portarla a Scotland Yard e che Alain le aveva lasciato in stanza mentre dormiva e tirò un grande sospiro di sollievo quando all'interno di una tasca nascosta trovò il cellulare usa e getta che le aveva dato Grégorie. Il suo numero era il primo della rubrica, sotto il nome di "Baffoni", e fu lui che chiamò.
Il telefono squillò e squillò, tanto da farle temere che non le avrebbe risposto, ma alla fine una voce familiare esclamò un timoroso: «Hello?».
Geneviève si avvicinò alle ampie finestre che davano su un prato che si estendeva a perdita d'occhio e cercò di fare mente locale. Alla fine ricordò a chi appartenesse, nonostante l'avesse visto una volta sola.
«François?», chiese stupita. Uno degli hacker di suo padre, un ragazzo di pochi anni più di lei e di fatto il più giovane membro di tutta l'organizzazione.
«Miss Geneviève! Mi ha riconosciuto!».
Aveva intuito subito che si era preso una cotta per lei e il suo tono di voce leggermente stridulo ne fu la conferma definitiva. La ragazzina abbozzò un sorriso, lusingata, ma al momento non aveva tempo per flirtare.
«Come mai hai risposto tu? Dov'è Grégorie?».
«Lui... ehm... ecco, lui è...».
«François, ti prego, ho bisogno di parlargli. Mio padre è in pericolo e...».
«Grégorie è morto, miss».
Geneviève sentì il cuore batterle a rallentatore nel petto, pesante come un macigno, e fu costretta a sedersi sul bordo del letto per paura di non riuscire a reggersi in piedi.
«Ha permesso a miss Hooper di scappare, ma è stato ferito. Quando l'abbiamo raggiunto, poco prima della polizia, non c'era più niente che potessimo fare. Mi dispiace molto», aggiunse François, il cui ultimo desiderio era quello di rendere infelice la ragazza che gli piaceva. «Posso... posso aiutarla in qualche modo?».
Geneviève lottò ferocemente contro le lacrime, ma un paio le scivolarono inarrestabili lungo le guance. Non avrebbe mai immaginato che un giorno avrebbe pianto per lui, ma la notizia della sua scomparsa le provocò un dolore che le fece capire fino in fondo quanto, senza nemmeno volerlo, si fosse affezionata a lui. Grégorie le era stato accanto ogni giorno, quasi più di suo padre, ed era buffo come il loro rapporto fosse cambiato, trasformandosi come un bruco in una farfalla, passando dall'insofferenza di due rivali all'attaccamento quasi familiare. Sì, Grégorie era stato quasi uno zio per lei e le sarebbe mancato, ma se l'avesse vista in quelle condizioni l'avrebbe di certo rimproverata.
«Piangere non serve a niente», le avrebbe detto, imperturbabile come suo solito.
Grégorie aveva passato dieci anni della sua vita accanto a suo padre, servendolo e facendo del suo meglio per proteggerlo, e Geneviève era certa che non l'avesse fatto solo per ripagare il debito, ma anche e soprattutto perché lo amava profondamente.
Questa volta ci penserò io, Baffoni, promise ad occhi chiusi.
Si asciugò il volto e tirò su col naso, ricomponendosi. «Ci sei ancora, François?».
«Yes».
«Bene. So che mio padre vi ha ordinato di non immischiarvi, perciò capisco se non vuoi disubbidirgli...».
«Mi dica cosa vuole che faccia e io lo farò, miss».
«Ne sei sicuro?».
«Al cento percento. Il big boss si è preso cura di me quando nessun altro voleva farlo, incluso il qui presente, ed è tempo che io ricambi il favore».
Geneviève sorrise, commossa, ma decise di metterla sul ridere: «Quindi non lo fai perché speri che io mi senta in debito con te».
«C-Cosa? No, miss, non mi permett-».
«Stavo scherzando, François», interruppe il suo balbettare, divertita. «Are you ready?».
«I was born ready, babe», rispose in automatico, accorgendosi troppo tardi della propria audacia. Cercò di rimediare balbettando delle scuse, ma Geneviève lo azzittì e, confrontate le informazioni in loro possesso, gli spiegò cosa voleva che facesse.
Sarebbe stata una lunga, lunghissima notte.

***

Arsène perse anche l'ultima delle sue fiches e aprendo le braccia in segno di resa sorrise rivolto al pubblico che si era col tempo radunato ad entrambi i lati del tavolo da gioco per assistere a quella partita one-on-one.
«Come si dice? Sfortunato nel gioco, fortunato in amore!», gridò, sentendosi estremamente rilassato.
Nel corso di quell'estenuante partita di roulette aveva bevuto un solo bicchiere di champagne, consapevole di non potersi ubriacare nel covo del nemico, ma si sentiva lo stesso leggero ed insonnolito.
Prese tra le dita lo stelo del flûte vuoto ancora al suo fianco e lo esaminò alla luce per vedere se ci fossero residui di sostanze stupefacenti. Poi si ricordò del modo in cui era stata uccisa la cameriera del Savoy: prima le era stata inettata della morfina e poi avevano inscenato un suicidio.
Scoppiò a ridere, realizzando che anche a lui sarebbe toccato lo stesso destino.
«Adesso ho capito», esclamò, alzandosi ed avvicinandosi al croupier facendo roteare il bicchiere tra indice e medio. «L'ultima volta che ti ho visto eri solo un bambino, Gabriel. O dovrei chiamarti Gabrielle? Sono confuso».
A quelle parole il giovane dai capelli biondi sorrise cortese. «Credo che abbia bevuto un po' troppo, signore».
«Dici? Sì, forse è così... D'altronde per quale ragione dovresti fingerti maschio?».
Gabriel serrò i pugni e chiamò la sicurezza. Due omoni in smoking afferrarono Lupin per le braccia e tentarono di sollevarlo per trascinarlo verso uno degli ascensori. Arsène si dimenò, gridando che poteva camminare benissimo sulle sue gambe, e il bicchiere che aveva in mano si infranse contro il bordo del tavolo.
La scena creò un po' di panico tra gli altri avventori del casinò, ma Gabriel calmò subito le acque scusandosi per l'inconveniente ed offrendo a tutti una consumazione gratuita. Mentre la gente si accalcava verso i banconi dei bar, ad Arsène venne tappata la bocca e fu trascinato fino all'ascensore dei dipendenti. Una volta all'interno Gabriel selezionò l'ultimo piano, strisciando la propria tessera magnetica ed inserendo il codice a sei cifre che Arsène ebbe modo di vedere con la coda dell'occhio, fornendogli l'ultima e definitiva prova utile a confermare l'identità dei suoi nemici.
La password era una data: un giorno, un mese e un anno che Arsène non avrebbe mai dimenticato, nonostante avrebbe dato di tutto per riuscirci.

Per raccimolare qualcosa in quel periodo di magra, Lupin si era recato personalmente al casinò per vincere qualche mano di black jack e magari tentare la fortuna alla roulette.
Quella sera era pieno di gente, tanto che si faceva addirittura fatica a spostarsi da un tavolo di gioco all'altro, e Arsène decise di sfruttare l'occasione per spennare qualcuno. Non impiegò molto ad individuare l'obiettivo: un omone rosso di pelle, dall'aria gioviale ma preoccupata per via del gruzzolo che doveva avere nella tasca interna della giacca, che controllava ogni dieci secondi.
Arsène stava per affiancarlo al bancone del bar quando l'uomo fu raggiunto da una donna grassa tanto quanto lui, dalla fisionomia volgare e con indosso un discutibile vestito color prugna, e da un ragazzino sette-otto anni, sottile e pallido, con gli occhi neri e dei corti capelli biondi che si arricciavano dietro le orecchie e sulla fronte.

Il Ladro Gentiluomo si avvicinò comunque al bancone del bar ed ordinò un Martini, allungando l'orecchio per sentire cosa si stavano dicendo.
«Forse è meglio se li tengo io», esclamò arcigna la donna, indicando la borsetta che teneva tra le mani.
«No, è più facile infilare la mano in una borsa. Dico bene, Gabriel?».
Il ragazzino abbassò il volto, stringendo gli occhi come se ne fosse intimorito, quando la grande mano dell'uomo gli arruffò i capelli.
«Sarà, ma non mi fido. Questa sera è davvero affollato».
«Non ti preoccupare, cara».
Dalla tasca destra della giacca tirò fuori un orologio a cipolla che catturò l'attenzione del ladro: ormai non se ne vedevano quasi più in giro, perciò doveva essere per forza un cimelio di famiglia.
Controllò l'ora e aggiunse: «Mezz'ora ancora e ce ne andiamo».
La moglie grugnì e si allontanò col ragazzino, diretta verso le slot-machines. L'uomo tornò a sorseggiare il proprio whisky con ghiaccio, mentre Arsène aspettava il momento giusto per agire.
Furono suoi complici un gruppo di ragazzi americani, forse in vacanza a Parigi, che dopo una vincita alla roulette si ammassarono davanti al bancone per ordinare da bere e peggiorare la loro sbronza. Circondarono il suo obiettivo da entrambi i lati, mettendolo ancora più in agitazione, e Lupin fu rapido e preciso nell'infilargli la mano sinistra nella tasca della giacca.
Quando i ragazzi si dispersero e tornò a regnare la quiete, Arsène non c'era già più.
Deluso dalla patacca che aveva sgraffignato, giocò una mano di baccarat senza perdere mai di vista il suo uomo e i ragazzi americani. Quindi lo raggiunse nuovamente al bancone qualche minuto prima dell'orario a cui si era dato appuntamento con la moglie.
«Mi perdoni», attirò la sua attenzione dandogli una gentile pacca sulla spalla. «È suo questo orologio?».
L'uomo sussultò e si portò istintivamente una mano sulla tasca interna della giacca, dove conservava il vero tesoro. Trovandolo ancora lì, si rilassò e riuscì persino a sorridergli: «Sì, è mio! Vede, ci sono le mie iniziali sul retro: N.D. Nicolas Dugrival. Ma lei dove l'ha trovato? Ce l'avevo nella tasca!».
Lupin si fece più vicino e con discrezione tirò fuori dalla tasca posteriore dei jeans il tesserino della Polizia Nazionale che si portava sempre dietro, giusto per trovarsi sempre preparato. Non gli diede il tempo di guardare bene la foto - l'avrebbe trovata diversa da come si era truccato quella sera - e si presentò: «Agente Delangle, molto lieto. Io e l'ispettore Marquenne siamo stati mandati sotto copertura a seguito dei vari furti che si sono registrati in questo casinò».
Dugrival stirò un altro sorriso, nonostante stesse sudando copiosamente. «Dice davvero?».
«Sì, abbiamo anche dei sospettati».
«Ah. E chi sarebbero?».
Lupin indicò con un cenno del capo il gruppetto di ragazzi americani, seduti in un salottino poco distante a fare baldoria.
«Crediamo che sia un'intera banda», spiegò. «Al momento sono solo cinque perché uno è andato al bagno, ma lì c'era il mio collega ad attenderlo e ora stiamo cercando di farlo parlare».
«Sì, sono di certo loro!», confermò l'uomo, annuendo con vigore. «Prima sono venuti qui e hanno fatto un gran casino, mi hanno persino urtato! Dev'essere stato allora che mi hanno rubato l'orologio! Non vale molto, ma me l'ha regalato mia moglie e ci sono affezionato».
Lupin non poté impedirsi di rivolgergli uno sguardo impietosito, per poi esclamare: «Ad ogni modo, sa come sono queste questioni... prima di restituirglielo dovrebbe venire con me dal mio capo ed aiutarci ad incastrare questi ladruncoli».
«A-Adesso? Noi stavamo per andare via...».
«Su, avanti, ci vorranno solo pochi minuti! Non vuole evitare che quella gente derubi qualcun altro?».
«Certo, però...».
Arsène non ascoltò altro ed afferrandolo per un braccio lo fece scendere dallo sgabello, per poi trascinarlo con sé verso i bagni.
A causa del fiume di alcool che ogni sera veniva servito ai clienti, la zona antistante ai servizi, quella degli uomini tanto quella delle donne, era ancora più affollata. Un aspetto che il ladro aveva calcolato e che lo facilitò enormemente. Messe le mani sul portafoglio gonfio dell'uomo, finse di ricevere una chiamata dall'ispettore Marquenne.
«Che cosa? Vi siete spostati? Ma come, io sono qui fuori dai bagni e non vi ho visti passare! Ah. E va bene, arriviamo subito».
Con espressione dispiaciuta lo fece voltare verso l'uscita, esclamando: «Sono desolato signor Dugrival, ma l'ispettore e il sospettato sono fuori che ci attendono. Mi segua da vicino, mi raccomando!».
Nicolas fece del suo meglio per stare al passo dell'agente Delangle, ma la sua stazza e la calca non lo agevolarono. Alla fine lo perse di vista tra la folla, ma in compenso venne raggiunto dalla moglie e da Gabriel, i quali gli domandarono dove fosse stato. L'uomo raccontò loro della vicenda dell'orologio e dei ragazzi americani, ma la donna, sentendo puzza di bruciato, gli chiese: «I soldi ce li hai ancora?».
«Certo, certo, sono stato attent-». Dugrival, con una mano sulla tasca interna della giacca, divenne pallido come un lenzuolo: il portafoglio con tutti i guadagni della serata era sparito. Come in trance alzò gli occhi verso il salottino privato e vide il sesto ragazzo americano avvicinarsi agli amici, battendo i cinque mentre si vantava di essere riuscito a farla tutta nel vaso. Era stato fregato: il vero ladro era il finto agente di polizia e lui ci era cascato in pieno.
La moglie, capendo la situazione, iniziò a gridare al ladro, attirando l'attenzione degli avventori del casinò e delle guardie. Sbraitò e prese a spintoni chi cercava di calmarla, senza accorgersi che Nicolas, con sguardo spento e fisso davanti a sé, aveva tirato fuori dall'altra tasca della giacca una pistola.
«Zio, no!», urlò un Gabriel terrorizzato, cercando di aggrapparsi al braccio dell'uomo, ma non riuscì a fermarlo.
Il colpo partì e il silenzio piombò nella sala da gioco, tanto profondo che Arsène, il quale non aveva ancora raggiunto l'uscita, si sentì raggelare sul posto. Lentamente si voltò, orripilato, e vide Nicolas Dugrival steso ai piedi della moglie, con un buco sulla tempia e una pozza di sangue che si allargava sotto di lui ed impregnava la moquette. Gabriel, l'unico che si era reso conto delle intenzioni dello zio, era in ginocchio al suo fianco, col volto pallido sfregiato da schizzi di sangue, gli occhi neri spalancati e i palmi delle mani rivolti verso il cielo, come se stesse recitando il Padre Nostro.
Quel surreale silenzio venne ben presto sostituito dalle grida disperate della signora Dugrival, da quelle dei bodyguard che chiedevano l'intervento di un'ambulanza e della polizia e dalle esclamazioni dei clienti, i quali abbandonarono i tavoli da gioco e si accalcarono verso l'uscita spinti dalla paura della morte, quasi fosse un virus in grado di infettarli.
Arsène si lasciò trasportare dalla fiumana di gente e solo quando fu fuori dal casinò, all'aria fredda della sera, riuscì a riprendere possesso del proprio corpo.
Corse, corse più veloce che poté, e quando raggiunse uno dei ponti che attraversavano la Senna gettò nel fiume il portafoglio rubato. Si chinò a guardarlo mentre veniva trascinato via dalla corrente e con una mano a stringere il crocifisso che portava al collo cercò di regolarizzare il respiro, affannato per la corsa e l'agitazione. Si disse che non era stata colpa sua, che lui non era responsabile della morte di quell'uomo, ma il suo stomaco evidentemente non era dello stesso parere e lo costrinse a rimettere, piegato oltre la balaustra e con le lacrime che gli rigavano il viso.
 
Le porte dell'ascensore si aprirono con un ding che fece alzare la testa di Arsène, permettendogli di vedere il lungo corridoio che terminava con una porta chiusa.
Non era ansioso di scoprire cosa ci fosse dietro di essa, ma ribellandosi avrebbe messo in pericolo la vita di Molly, perciò si lasciò trascinare fino all'interno di quello che si rivelò essere un ufficio dalla moquette verde, proprio come i tavoli da gioco, e con delle enormi vetrate da cui si poteva godere della vista, anche se in lontananza, del luminoso skyline di Londra.
All'interno, seduta dietro una massiccia scrivania di mogano, c'era solo una persona: la vedova Dugrival.
Nonostante fosse visibilmente invecchiata, Arsène non avrebbe mai scordato quel brutto muso che per una settimana almeno era stato mostrato da tutti i canali di informazione per via delle sue accuse contro il sistema giudiziario e del voto di vendetta che aveva pronunciato subito dopo aver sepolto il marito.
Adesso che aveva tutti i pezzi del puzzle si sentiva così stupido per non esserci arrivato prima!
«Il tempo non è stato clemente con lei, cara la mia signora», esordì il ladro quando fu al suo cospetto.
La donna si alzò dalla poltrona e fece il giro della scrivania per scrutarlo da vicino, le mani sui larghi fianchi e un sorriso sadico sul volto.
«Farei poco lo spiritoso se fossi in te, Ladro Gentiluomo».
«La mia non era una battuta».
Lo schiaffo con cui lo colpì in pieno volto gli fece perdere del tutto il sostegno sulle gambe, già molli per via dell'anestetico. La vedova Dugrival scoppiò a ridere e lo afferrò per i capelli, tenendogli alzato il volto perché potesse guardarla negli occhi.
«Ah, che bella visione! Arsène Lupin in ginocchio davanti a me, come un bravo cagnolino ammaestrato! Nemmeno nei miei sogni immaginavo che sarebbe potuto accadere! Dimmi, mi leccheresti le scarpe se te lo chiedessi per favore?».
Arsène strinse gli occhi e chiese: «Dov'è Molly Hooper?».
«Molly Hooper? Non ne ho idea». La donna alzò gli occhi sul nipote. «Gabriel, tu sai dov'è Molly Hooper?».
«No, zia».
«Mi dispiace, ma Molly Hooper non è qui», sogghignò la vedova. «Sei caduto nella trappola, topolino».
Arsène la guardò a lungo, fino a quando non riuscì più a trattenere le risa. Scosso dai singulti, esclamò: «Tutto questo è davvero comico!».
«Lo pensi sul serio, Lupin?», gli domandò la Dugrival, rabbiosamente. «Ci saremmo evitati un sacco di problemi se non avessi rifiutato il nostro passaggio, non trovi? Per esempio, Gabriel non avrebbe ucciso il tuo amico».
A quelle parole Arsène smise di colpo di ridere. 
«È stato lui ad uccidere Grégorie?», sibilò, dando un nuovo senso al suo naso tumefatto, ai lividi e alle escoriazioni sulle sue nocche.
La donna annuì, divertita dalla sua espressione così addolorata. Era convinta che a quel punto il ladro si sarebbe arreso, spezzato nel corpo e nello spirito, ma si sbagliava. Arsène, rinvigorito dalla rabbia, si liberò dalla presa delle guardie e si avventò su Gabriel puntandogli alla gola un pezzo dello stelo del flûte che aveva infranto al casinò e che aveva infilato nella manica.
Una goccia di sangue macchiò la pelle candida della ragazza - perché sotto gli abiti maschili c'era il corpo di una femmina - e Arsène, a cavalcioni su di lei, incrociò i suoi occhi neri, lucidi come ossidiana ma del tutto privi di emozioni.
Gabriel non aveva paura della morte e gliene diede prova quando gli sussurrò: «Avanti, fallo. Uccidimi, cosa aspetti?».
Il Ladro Gentiluomo avrebbe voluto vendicarsi, toglierle la vita come lei l'aveva tolta a Grégorie, ma aveva fatto un giuramento che non poteva infrangere in alcun modo, un giuramento grazie al quale era riuscito a non cedere all'oscurità che più e più volte l'aveva chiamato a sé.
«No», disse, allontanando il pezzo di vetro dalla sua gola. «Solo a Dio spetta decidere chi deve vivere e chi morire».
«Non esiste alcun Dio!», gridò la vedova Dugrival, ma nessuno la sentì a causa di un forte boato.
Il volto pallido di Gabriel, proprio come vent'anni prima, fu sporcato da alcuni schizzi di sangue e Arsène, confuso, fece per alzare una mano per pulirlo, senza riuscirci. Fu allora che capì che quel boato era stato un colpo di pistola, che il proiettile gli aveva attraversato la spalla, impossibilitandogli i movimenti, e che quel sangue era suo.
Gabriel fremette sotto il suo corpo e Arsène distolse lo sguardo per osservare il proiettile che si era conficcato sul pavimento, a pochi centimetri dalla testa della ragazza.
«Vedi?», esclamò sorridendo. «Non è ancora giunta la tua ora».
Poi il buio calò su di lui come un angelo dalle ali nere.

***

John, chiamato da Mycroft per avvisarlo degli ultimi sviluppi, si presentò con tanto di passeggino davanti alla stanza di Sherlock.
«Ehi, è vero che ha perso la memoria?», fu la sua prima domanda.
Lestrade incrociò le braccia al petto e gettando un'occhiata a Molly, seduta su una delle poltroncine appese alla parete del corridoio, rispose piano: «Di noi tre ha riconosciuto solo Mycroft».
«E le sue capacità deduttive? Insomma...».
«Non abbiamo avuto modo di investigare», intervenne Mycroft, il volto provato. «Le infermiere ci hanno costretti ad aspettare fuori per non affaticarlo».
«Capisco. Notizie di Lupin?».
«Sappiamo che si è disfatto del furgone blindato e che ha rubato una moto. Dopodiché abbiamo perso le sue tracce».
«E i suoi uomini? Avete provato a...?».
Mycroft sospirò, afflitto. «Non possiamo costringerli a parlare, dottore».
«Che mi dici di Geneviève allora? Non dirmi che anche lei è svanita nel nulla!».
«Purtroppo sì», rispose quella volta Lestrade. «Per quanto ne sappiamo potrebbe essere dall'altra parte del mondo in questo momento».
John, frustrato dalla scarsità di risposte ottenute, strinse i manici del passeggino in cui riposava la figlia e andò a sedersi accanto a Molly per attendere l'arrivo del neurologo, il quale si presentò mezz'ora dopo, scusandosi per averli fatti aspettare.
Il medico consentì a due persone di entrare con lui e Greg decise di rimanere accanto all'anatomopatologa, la quale non se la sentiva di incrociare di nuovo i suoi occhi incapaci di riconoscerla.
«Ciao Sherlock», lo salutò John quando fu alla sua sinistra, le mani strette intorno alla sbarra del letto. «Ti ricordi di me?», aggiunse con un sorriso speranzoso.
Il detective sembrò sforzarsi, con la fronte aggrottata, ma alla fine scosse il capo, dispiaciuto.
«Signor Holmes, saprebbe dirmi dove si trova e che giorno crede che sia?», gli domandò il neurologo, esaminandogli gli occhi con una torcetta.
«In base a ciò che ho visto fuori dalla finestra direi che questo è il Royal London Hospital, anche se non ho idea di come ci sono finito. Per quanto riguarda la data...». Sherlock indicò l'orologio da polso di John e disse: «Qui c'è scritto che è il diciassette dicembre del 2017, perciò le possibilità sono tre: uno, mio fratello vuole farmela pagare per qualche motivo e ha organizzato tutto questo; due, ho dormito per diciassette anni; tre, recentemente ho subìto un trauma che mi impedisce di ricordare gli ultimi diciassette anni della mia vita. Qual è quella corretta?».
Mycroft si portò davanti alla finestra, una mano sul collo. «La terza», rispose.
«Capisco. Quindi queste persone sono...?». Sherlock incrociò gli occhi di John, poi quelli di Lestrade e Molly fuori dalla finestrella che dava sul corridoio.
«Amici», concluse il dottor Watson.
«Amici?», ripeté il detective, con espressione scettica. «Ne siete sicuri?».
John abbassò il capo, cercando di trattenere le risate, e quando tornò a guardarlo in volto aveva gli occhi lucidi. «Sì, purtroppo è così».
Il medico controllò la sua cartelletta clinica per diversi minuti e ad un tratto Mycroft, spazientito, sbottò: «Allora, che cosa ne pensa? Si tratta di una cosa momentanea oppure...?».
«Ci sono buone probabilità che col tempo riesca a ricordare ogni cosa. Domani, a seguito di esami più approfonditi, saprò dirvi di più. E adesso vi chiederei di lasciarlo riposare».
«Sì. Grazie, dottore», rispose Mycroft.
John salutò Sherlock con un sorriso e una pacca sul ginocchio, poi seguì il neurologo fuori dalla stanza. Prima che anche Mycroft se ne andasse chiudendosi la porta alle spalle il fratello minore lo chiamò, chiedendogli di rimanere al suo fianco.
Tutti furono sorpresi da quella richiesta così poco da Sherlock, ma nessuno di loro a parte Mycroft sapeva come fosse diciassette anni prima o come si sentisse in quel momento, perciò non si fecero troppe domande.
«Andate pure a casa», disse l'Holmes più grande. «Vi scriverò se dovesse iniziare a ricordare».
Lestrade annuì e con un braccio ancora avvolto intorno alle spalle di Molly la invitò a scostarsi dalla finestra, ma lei esitò quando il suo sguardo e quello del detective si incrociarono. Fu solo un istante, ma abbastanza per permetterle di dubitare. Non disse nulla però, come spesso faceva, e seguì gli amici fuori dall'ospedale.
Mycroft tornò nella stanza e si lasciò cadere sulla sedia accanto al letto, sospirando stancamente e massaggiandosi gli occhi con la punta delle dita.
«Ottima interpretazione, davvero. Hai quasi fregato pure me».
Sherlock si puntellò sui gomiti e si tolse le canule dalle narici. «Era l'unico modo per poter ritrattare la mia versione ed essere creduto dai media».
«Ganimard, senza saperlo, ha spezzato una lancia in tuo favore dicendo ai giornalisti che è stato Lupin a costringerti a confessare l'omicidio di Magnussen».
«Sì, immaginavo l'avrebbe fatto».
«Quindi la prossima volta che verrai interrogato e ti chiederanno se hai ucciso Magnussen ti fingerai davvero sorpreso e Scotland Yard, senza prove e coi risultati degli esami da me contraffatti, non sapranno che pesci pigliare. Il tuo piano sarebbe perfetto se non ti fossi dimenticato di...».
«Di Arsène? No, non me ne sono dimenticato. Diciamo pure che abbiamo fatto pace».
Mycroft scosse il capo, scuro in volto. Sherlock, riconoscendo la faccia delle cattive notizie, capì che mentre loro due erano impegnati nella fuga doveva essere successo qualcosa in grado di sbilanciare nuovamente gli equilibri.
«Uno dei suoi è morto per proteggere Molly Hooper», gli rivelò.
Il consulente investigativo chiuse gli occhi, i pugni serrati sulle gambe. Per quante volte provasse a liberarsi di lui, finiva sempre con l'essere in debito con Arsène.
«Adesso lui dov'è?», chiese al fratello maggiore.
«Non ne abbiamo idea. Ma di una cosa sono certo, fratello mio: quando tornerà - perché tornerà - dovrete fare pace di nuovo».
Sherlock sospirò ed abbandonò il capo sui cuscini, stanco come non si era mai sentito prima.

***

Ganimard si massaggiò il volto con entrambe le mani e poi, frustrato, con un solo movimento del braccio trasformò la disordinata scrivania in un ripiano su cui avrebbe potuto mangiare. Pensando al cibo il suo stomaco brontolò.
Quel giorno non aveva messo nulla sotto i denti per via dell'arresto e dell'evasione di Arsène e Sherlock e soprattutto per la scioccante confessione del suo amico e superiore, l'Ispettore Capo Dudouis, il quale per quindici anni era stato la talpa del Ladro Gentiluomo all'interno del comando. Per quindici anni e sotto il suo naso! 
Si alzò ed afferrò il trench con l'intenzione di andare a casa per colpevolizzarsi in un posto diverso, ma un leggero bussare alla porta lo fece sbuffare. A passo pesante raggiunse la maniglia, dicendosi che quella volta avrebbe alzato le mani su Folefant per la sua insistenza. Rimase a bocca aperta però, tanto incredulo che dovette sbattere le palpebre più volte per essere sicuro che non fosse una visione.
«Célestine?».
«Ciao, Justin», lo salutò l'ex-moglie, sorridendo. «Sono passata al tuo appartamento e non ti ho trovato, così ho pensato che fossi qui, solo ed affamato».
Alzò il sacchetto che teneva tra le mani, da cui proveniva l'inconfondibile profumo del fast-food, ed inclinando semplicemente la testa gli chiese il permesso di entrare. Ganimard si fece da parte in automatico, ancora convinto che si trattasse di un'allucinazione. Forse aveva ceduto alla tentazione e si era ubriacato.
Guardò la donna posare il sacchetto sulla scrivania sgombra ed apparecchiare in modo molto spartano, stendendo tovaglioli di carta, infilando le cannucce nei bicchieroni di carta ed aprendo le confezioni dei panini.
«Hai intenzione di rimanere lì a fissarmi ancora per molto?», gli chiese ad un tratto, senza nemmeno voltarsi a guardarlo.
Ganimard chiuse la porta, lasciando dietro di essa la razionalità, e finalmente raggiunse la donna per posarle una mano tra le scapole, immergendola in quella cascata rossa e setosa che erano i suoi capelli. Célestine trasalì a quel tocco e si voltò, addossandosi al bordo della scrivania e guardando quegli occhi scuri ed intelligenti, in grado di capirla come nessuno mai.
Che fosse un sogno, un'allucinazione causata dall'alcool o la verità, Justin avrebbe fatto e rifatto la stessa cosa senza mai pentirsene: prese il volto tempestato d'efelidi dell'ex-moglie tra le mani, delicatamente, e la baciò sulle labbra.
Era pronto a ricevere schiaffi, spintoni e grida, ma sapeva che non sarebbe successo. Célestine era lì per un motivo, lo stesso motivo per cui un'altra dozzina di persone di cui aveva dimenticato l'esistenza l'avevano contattato quel giorno: l'avevano visto in TV e volevano sapere come se la passasse, se gli andava di vedersi per una pizza o, più semplicemente, se potevano fare qualcosa per lui. Spinte dalla pietà o dalla notorietà dell'anti-eroico ispettore.
Quale fosse il sentimento che aveva spronato Célestine a cercarlo e a rispondere al bacio con foga non ne aveva idea e nemmeno gli importava: lui l'amava, non aveva mai smesso di amarla, e avrebbe dato qualsiasi cosa per trascorrere la notte con lei.
Come se gli avesse letto nel pensiero, la donna si scostò quel tanto che bastava per sussurrare: «Andiamo da te».
«Théa ed Emélie?», chiese Justin, baciandole il lungo collo candido.
«Dormono da mia madre».
Aveva pensato proprio a tutto.
L'ispettore non si pose ulteriori domande e prendendola per mano la trascinò fuori dalla sede parigina della Polizia Nazionale, salirono sull'auto di Célestine e ripresero a baciarsi sulle scale buie del condominio. Quando arrivarono alla porta erano già accaldati e senza fiato.
Si spogliarono in fretta, sentendosi impazienti come due adolescenti, e una volta sdraiati sul letto cigolante di Ganimard fecero l'amore a lungo, affamati ed insaziabili l'uno dell'altra.
Raggiunto l'apice del piacere Célestine si appoggiò alla sua spalla sinistra e rimase in silenzio, accarezzandogli il petto con un dito. Justin avrebbe voluto chiederle a cosa stesse pensando, ma allo stesso tempo era spaventato dalla risposta. Alla fine non dovette nemmeno aprire bocca.
«Non è stata solo colpa di Lupin se ci siamo separati», esordì lei, a bassa voce.
L'ispettore chiuse gli occhi, portandosi un braccio dietro la testa. «Lo so bene».
Célestine si sollevò su un gomito per poterlo guardare meglio in volto. «Mi vuoi far credere che tu sapevi che l'ho usato come capro espiatorio per lasciarti e non hai mai detto nulla?».
«Che cosa potevo dirti? Te ne saresti andata in ogni caso».
«Ma...».
Justin aprì gli occhi e si sdraiò sul fianco, rivolgendole uno dei suoi rarissimi sorrisi. «Sai, forse è stato meglio così. La tua scelta mi ha fatto tornare in carreggiata: ho capito dove stavo sbagliando e ho cercato di rimediare».
Quelle parole la stupirono e non poco, anche se la sorpresa lasciò ben presto posto alla tristezza. Célestine pianse senza emettere un suono, lasciando che le lacrime bagnassero il cuscino sotto la sua testa mentre l'ex-marito le accarezzava i capelli.
Quando si calmò e il suo respiro tornò regolare, Ganimard smise per paura di svegliarla, ma lei gli afferrò la mano e la riportò sulla sua testa. Quindi gli chiese: «Tutti quei fascicoli nel tuo ufficio... sono vecchi casi di Lupin?».
«Sì».
«Posso aiutarti in qualche modo? Di solito mi raccontavi tutto prima di addormentarti, te lo ricordi?».
Justin sorrise di nuovo e si avvicinò per posarle un bacio sulla fronte. «Mi ricordo tutto, amore mio. Ma se c'è una cosa che ho imparato è che è bene tenere separati lavoro e vita privata».
«Avanti, solo questa volta».
La sua insistenza gli fece fare brutti pensieri, del tipo che anche Célestine fosse dalla parte di Arsène Lupin proprio come Dudouis, ma si costrinse a cacciarli via. Su di lei non aveva alcun dubbio: avevano avuto i loro problemi e si erano separati, ma non l'aveva mai tradito. Forse lo amava ancora, visto e considerato che da quando si erano lasciati non aveva ancora avuto altri uomini, nonostante fosse sicuro ci fosse la fila.
Cedette e le raccontò quello che avevano scoperto fino ad allora, sulla pista trovata da Folefant e che per ora non aveva ancora portato a risultati concreti.
«Lupin deve aver fatto davvero qualcosa di terribile a queste persone se non sono riusciti a perdonarlo in vent'anni», commentò Célestine, guardando il soffitto ed arrotolandosi una ciocca di capelli intorno al dito.
«È proprio questo che non mi spiego. Un caso del genere avrebbe dovuto fare scalpore e non restare nell'anonimato».
«Hai detto che c'era anche una bambina?».
«Sherlock ne è convinto». Ganimard osservò il profilo pensieroso dell'ex-moglie e si sollevò sui gomiti, attraversato da un brivido. «Ti è venuto in mente qualcosa?».
«Forse. Ti ricordi di quella signora che si presentò alla nostra porta affermando che Lupin aveva spinto al suicidio il marito e che poi, a causa dei sensi di colpa, le aveva inviato dei soldi come indennizzo?».
L'ispettore ci pensò su e qualche ricordò riaffiorò. «Vagamente».
«Lupin non era ancora la tua ossessione allora. Io però quella donna la ricordo bene: parlava con un tale odio, una tale rabbia... E al suo fianco c'era un ragazzino dai capelli biondi che mi fece un'infinita tenerezza».
«Ti ricordi per caso un nome?».
Célestine arricciò il naso, in un modo così adorabile che Justin fu sul punto di chiederle di sposarlo di nuovo, ma alla fine sospirò scuotendo il capo.
«Mi ricordo che il marito si è ucciso al Clichy».
«Domani mattina farò una ricerca».
La donna lo guardò mordendosi un sorriso, le sopracciglia inarcate. «Domani mattina?».
«Sì... Che c'è?».
«Ti conosco, Justin, e so che stai fremendo».
Ganimard ricambiò il sorriso. «Hai ragione», ammise e si sedette per infilarsi i boxer. Célestine lo sorprese nuovamente imitandolo.
«Beh? Se è come dico io voglio avere una ricompensa dall'ispettore in persona», esclamò con un sorriso sibillino.
Prese dall'appendiabiti una delle sue magliette e si vestì, poi lo seguì nel piccolo salotto e si sedette al suo fianco sul divano a due posti per guardare lo schermo del PC.
L'ispettore fece qualche ricerca e finalmente trovò un vecchio articolo in cui si parlava del suicidio al casinò Clichy: Nicolas Dugrival si era sparato un colpo di pistola alla tempia a seguito del furto del portafoglio. L'aveva fatto di fronte alla moglie e al nipote Gabriel e un fotografo amatoriale aveva immortalato il momento in cui la signora Dugrival si era piegata sul cadavere del marito e aveva giurato vendetta, il volto deformato dal dolore.
«Sono loro», mormorò Ganimard, con lo stomaco stretto in una morsa.
«Come fai ad esserne sicuro?», gli domandò Célestine.
In risposta le lasciò tra le braccia il PC sul cui schermo era ancora aperta la scheda di ricerca in cui aveva digitato il cognome "Dugrival", scoprendo che la vedova si era trasferita in Inghilterra e aveva aperto il suo hotel-casinò.
L'ispettore recuperò il cellulare e chiamò subito Mycroft Holmes, il quale rispose dopo tre interminabili squilli.
«So dov'è andato Lupin», affermò.

***

Arsène riaprì piano gli occhi, con fatica per via della pesantezza che sentiva in tutto il corpo, come se il sangue si fosse trasformato in piombo nelle vene, e dell'intensa luce che gli stava bruciando le retine.
«Alla fine, il Paradiso?».
«No. Benvenuto all'Inferno».
Ricobbe quella voce, ma impiegò un po' a capire da dove provenisse. Facendo del suo meglio per alzare il capo scorse una gabbia dall'altra parte della stanza e al suo interno un'irriconoscibile Irene Adler: struccata, coi capelli arruffati, semi-nuda, col corpo pelle e ossa ricoperto di ferite ed ematomi di ogni genere ed incatenata come un cane.
«Allora sei viva», esclamò, nonostante quella visione gli portasse alla mente altri dolorosi ricordi che aveva cercato in ogni modo di seppellire.
«Purtroppo sì».
«È da molto che sei qui?».
«Ventitré giorni».
Arsène chiuse gli occhi, facendo un rapido calcolo mentale e capendo finalmente che cos'era successo.
«Sei stata tu. È colpa tua e della tua impazienza se io mi trovo qui, se Grégorie è...», deglutì, non riuscendo ancora a dire la parola con la M riferendosi al compagno. «Guarda dove ci ha portati la tua gelosia!».
«Credi che non lo sappia?!», gridò istericamente. «Non mi sono mai sentita così... così impotente!».
Irene scoppiò a piangere e Arsène si abbandonò contro il poggiatesta del lettino operatorio su cui era stato legato, chiuse di nuovo gli occhi e sospirò.
«Mi dispiace, ho esagerato», mormorò ad un tratto. «L'amore fa fare cose assurde, io dovrei saperlo meglio di chiunque. Ad ogni modo non è detta l'ultima parola: finché siamo vivi c'è speranza».
«Io non voglio più vivere», sussurrò la Adler, tirando rumorosamente su col naso.
«Che cosa stai dicendo?».
«Sto dicendo che nella mia vita ho causato solo morte e sofferenza, perciò non merito di essere salvata. E se anche dovessi riuscire ad andarmene da qui... mi ucciderei».
Arsène sbuffò, facendo persino una pernacchia. «Sono stanco, davvero stanco di sentire questi discorsi. Sono poche le cose che posso dire di odiare, ma una di queste sono i suicidi. Mi fanno una tale rabbia! La vita è un dono di Dio e voi, solo perché qualcuno non è stato gentile, siete disposti a buttarla, mentre altri darebbero qualsiasi cosa - qualsiasi - per un solo giorno in più».
«Tu parli così perché non sai come mi sento. Non hai idea delle cose che ho visto, delle cose che ho fatto...».
«Come dici?». Il Ladro Gentiluomo rialzò il capo e rise di gusto. «Io non saprei come ti senti? Ah, questa è bella! Se tu avessi vissuto quello che ho vissuto io probabilmente ti saresti ammazzata già quattro volte!».
Irene, scioccata da quelle parole, si asciugò il volto e si avvicinò alle sbarre, aggrappandosi ad esse con le mani.
«E con quale forza vai avanti? Dimmelo, Arsène».
Il ladro non rispose subito. Quando lo fece parlò a bassa voce, tanto che la Dominatrice dovette sforzarsi per sentirlo.
«Ho fatto una promessa a mia madre prima che morisse. Lei mi ripeteva sempre che la cattiveria, la vendetta e l'odio erano veleni capaci di rovinarci la vita, di distruggercela anche. Sul letto di morte mi ha chiesto di vivere la mia vita al massimo, di sfruttare ogni giorno come se fosse l'ultimo, di lottare sempre per le cose in cui credevo e soprattutto di non fare mai del male a nessuno, nemmeno alle persone che avevano o avrebbero fatto del male a me. Io le promisi tutto questo. So di non essere perfetto, che senza volerlo ho ferito molte persone, ma non per questo mi arrenderò: no, finché vivrò cercherò di fare ammenda per i miei errori».
Il rumore di una complicata serratura ruppe il silenzio sceso dopo la fine del discorso di Arsène e Irene trasalì, spingendosi verso il fondo della propria gabbia. Il Ladro, scorgendo la paura nei suoi occhi, strinse i denti e provò a liberarsi, ma le cinghie che lo tenevano legato al lettino erano strette.
«Ma che belle parole!», gridò la vedova Dugrival, facendo la sua entrata. Indicò la telecamera appesa in un angolo della stanza ed applaudendo aggiunse: «Abbiamo sentito tutto e, complimenti, mi sono quasi commossa!».
Alle sue spalle c'era Gabriel, il volto abbassato a voler nascondere l'occhio pesto che però non sfuggì al Ladro Gentiluomo.
«Ah, les jeux sont faits!», esclamò Arsène con un sorriso. «È venuta a terminare il lavoro, signora?».
La donna si avvicinò al lettino ed osservò il suo petto nudo, per poi stringere i denti alla vista del crocifisso d'oro che gli adornava lo sterno. Con un gesto brusco gli strappò la catenina dal collo e Arsène la fissò adirato, non tanto per il dolore ma perché quel crocifisso era tutto ciò che gli era rimasto di sua madre.
«Me lo restituisca», ringhiò.
La vedova sorrise e glielo fece dondolare davanti al volto, poi se lo gettò alle spalle e sorridendo gli strinse le dita simili a salsicce sulla spalla fasciata, provocandogli una fitta di dolore tremendo nonostante l'anestesia.
«Sei pronto a rispondere alle mie domande?».
Arsène sospirò. «Ho scelta?».
«Allora ascoltami attentamente».
«Sono tutto orecchi».
«Perché hai derubato mio marito quel giorno? Perché lui e non qualcun altro?».
«Derubato? Mi dispiace, ma il termine non è esatto».
La vedova lo fissò coi suoi occhi porcini. «Come, prego?».
«Sì, beh, l'ultima volta che ho controllato sul dizionario, "derubare" significava privare qualcuno di ciò che è suo e gli spetta. Quello che lei mi accusa di aver preso a suo marito non era né suo né l'aveva guadagnato onestamente. Dico bene, Gabriel? Tra colleghi bisogna dirsi la verità. Dimmi, è tua zia che ti ha fatto quell'occhio nero? Mi è venuto il sospetto prima, quando ti ho tirato quella fiche e non hai avuto alcuna reazione. Per te quello era niente... Sei abituato a ben altro».
«Non dire una parola, Gabriel», gli ringhiò contro la Dugrival, per poi tornare a concentrarsi sul ladro: «Ebbene sì, mio marito lavorava nel tuo stesso ramo, ma i nostri colpi non erano nulla di spettacolare. Niente a che vedere con quelli del grande Arsène Lupin!».
«Grazie, troppo buona».
«Sta di fatto che sei stato tu, per me è come se l'avessi ucciso tu con le tue mani! E la tua reputazione non ne ha risentito perché nessuno mi ha creduta! Nemmeno quando ho mostrato alla polizia i soldi che mi avevi inviato...».
«Quali soldi? Oh, aspetti!». Arsène chiuse gli occhi, fingendo di sforzarsi per ricordare. «Ne avevano parlato alla TV, vero? La donazione anonima... Non l'ha trovato un nobile gesto?».
La vedova rise nervosamente. «Tu, maledetto... Ti sentivi in colpa per la morte di mio marito e hai cercato di lavartene le mani!».
«Se pensava che quei soldi fossero miei poteva sempre rifiutarli, sa? O darli in beneficienza, magari».
«Invece no. Ho seguito il consiglio di Gabriel e abbiamo saldato i nostri debiti, poi ci siamo trasferiti qui, dove abbiamo aperto questo hotel con casinò. Era il sogno di mio marito».
«E vissero tutti felici e contenti. Posso andare adesso?».
Arsène cercò nuovamente di allentare le cinghie, ma era così debole - sia per il sangue perso che per la morfina somministratagli - che dovette desistere per non svenire dallo sforzo.
La Dugrival lo spinse di nuovo giù sul lettino prendendolo per la spalla ferita, facendo trasalire non solo Arsène ma anche lo stesso Gabriel, rigido come un pezzo di legno alla sua sinistra.
«Eh no. È adesso che inizia la parte interessante», esclamò, maligna. «Per tutti questi anni non ho mai dimenticato la promessa che feci quella notte, china sul corpo di mio marito... Giurai di trovare l'assassino e di fargliela pagare e finalmente adesso sei qui, legato come un salame. Ti farò provare lo stesso dolore che ho provato io quando hai spinto mio marito al suicidio».
«Ci provi pure», rispose Arsène, abbandonando i sorrisi e le battute per un tono sfrontato e rabbioso. «Ma la avverto: c'è poco che non sia già stato fatto a questo corpo».
A quelle parole Gabriel tremò da capo a piedi e i suoi occhi divennero ancora più neri, ma la zia non se ne accorse: fremeva di gioia e mentre si allontanava dal lettino non lo perse mai di vista, come una bestia feroce con la sua preda. Arsène non aveva mai sentito in un essere umano così tanto odio ed efferatezza.
«Non ti toccherò con un dito, Arsène Lupin. Ti lascerò a guardare, impotente come lo fummo io e mio nipote».
Il Ladro Gentiluomo sgranò gli occhi quando capì le sue intenzioni, ma non c'era davvero modo di liberarsi da quelle cinghie, non da solo.
Mentre la vedova Dugrival apriva il lucchetto della gabbia e ne tirava fuori una Irene Adler incatenata e in lacrime, Lupin cercò lo sguardo di Gabriel col proprio implorante. La ragazza tuttavia si voltò, mordendosi a sangue le labbra sottili.
Troppe volte aveva visto casi di vittime di abusi che non trovavano la forza di ribellarsi e Gabriel ne era il tipico esempio: come una marionetta eseguiva ogni ordine del proprio aguzzino e si lasciava molestare senza protestare, nonostante sapesse benissimo che fosse sbagliato ed ingiusto.
Arsène ripensò a quel breve momento in cui aveva visto Nicolas Dugrival posare la mano grande sulla testa del nipote, vent'anni prima, e capì che le violenze, per quella povera ragazza col nome da ragazzo, erano iniziate molto presto e non erano mai finite. Per questo gli aveva chiesto di ucciderla, perché voleva che la salvasse dal suo inferno personale.
«Non sei sola, okay?», le sussurrò, nel disperato tentativo di farle fare la cosa giusta. «Se mi liberi giuro che ti salverò da tua zia. Non dovrai più fare nulla che non vuoi, nessuno alzerà più un dito su di te».
Le spalle di Gabriel tremarono impercettibilmente e Arsène vide un barlume di speranza quando iniziò a girare il capo verso di lui, mostrandogli la singola lacrima che le aveva tracciato un solco sulla guancia, ma tutto si infranse quando la zia urlò il suo nome.
«Dammi la pistola», gli ordinò poi e il nipote obbedì, porgendole una calibro nove.
«La prego, non lo faccia», esclamò Arsène, guardandosi intorno alla ricerca di ispirazione. Solo allora notò il tavolino con sopra gli attrezzi operatori - alcuni ancora sporchi del suo sangue. Se fosse riuscito ad arrivare al bisturi...
«Di' a Sherlock che mi dispiace», singhiozzò Irene, mentre la vedova Dugrival le portava la pistola alla tempia. «Digli...».
Le luci all'improvviso si spensero, lasciandoli nel buio più totale dato che non c'era nemmeno una finestra.
«Gabriel, accendi la luce!», gridò la zia con fare concitato e il nipote si mosse verso la porta, ma nel farlo andò a sbattere contro il tavolino a cui Arsène stava cercando di arrivare, avvicinandoglielo.
Il ladro capì subito che non era stato un colpo di fortuna - Gabriel conosceva ogni centimetro di quella stanza, era impossibile che fosse inciampato - ma lasciò da parte la gratitudine per prendere il bisturi ed iniziare a tagliare la cinghia che gli legava il polso sinistro. Una volta sfilacciata gli risultò molto più facile liberarsi anche il destro, ma a quel punto la vedova Dugrival aveva aperto la porta della stanza trascinando per le catene Irene Adler e chiamando a gran voce due uomini della sicurezza perché prendessero Arsène Lupin e lo portassero nel suo ufficio.
Il Ladro Gentiluomo provò a difendersi usando il bisturi, ma venne ben presto disarmato e ridotto all'impotenza. Di nuovo.
Gabriel lo incatenò con le manette dei carcerati, quelle che legavano insieme mani e caviglie, e così impossibilitato Arsène fu trascinato fino all'ufficio della Dugrival, dove fu messo in ginocchio sulla moquette verde, accanto ad una Irene Adler priva di sensi, probabilmente per via della catena che le aveva lasciato nuovi, orribili segni intorno alla gola.
Il ladro si chinò subito sulle sue labbra con l'orecchio e tirò un sospiro di sollievo quando sentì che respirava ancora, anche se debolmente.
«Non so cosa sia successo, ma qui non verremo più interrotti», esclamò la donna e in risposta le luci si accesero e si spensero tre volte, lasciando lei e il nipote senza parole.
«Sono i tuoi uomini?», gli chiese la Dugrival, afferrandolo per i capelli e guardandolo da così vicino che Arsène avrebbe potuto contare i pori della sua pelle butterata.
Arsène non sapeva davvero che cosa pensare.
Aveva detto ai suoi di starne fuori ed era piuttosto sicuro che non gli avrebbero disubbidito.
Che fosse opera di Sherlock? No... Anche ricevendo tutto l'aiuto possibile da Mycroft non era possibile che avesse scoperto l'identità dei suoi aguzzini ed organizzato un piano di estrazione in così poco tempo. Inoltre non era da lui limitarsi a certi trucchetti.
Non aveva mai creduto ai fantasmi, quindi era da scartare anche l'intervento di Grégorie.
Sherlock diceva sempre che una volta eliminato l'impossibile quello che rimaneva non poteva che essere la verità, ma Arsène trovava la sua ultima ipotesi così assurda che stentava a crederci. Per questo cavalcò l'onda della paura per mettere con le spalle al muro la sua nemica.
«Mi avevate detto di venire da solo se volevo rivedere viva Molly Hooper. Voi mi avete ingannato, perciò mi pare giusto che io...».
La donna gli impedì di terminare la frase, colpendolo col calcio della pistola sullo zigomo. Poi, voltandosi col fiato corto ed espressione folle verso il nipote, gli disse: «Prendi le tue cose e vai a preparare l'auto».
«Cosa?».
«Non ho bisogno di te per finire Arsène Lupin. Avanti, vai! E non lasciare nulla di compromettente».
Gabriel cercò lo sguardo di Arsène, il quale le sorrise con gli occhi, ringraziandola per tutto l'aiuto che gli aveva dato.
Stava per lasciare l'ufficio quando le luci si spensero definitivamente. Tutti si fermarono, col fiato sospeso, ma nulla successe.
Arsène sospirò, afflitto, ed alzando gli occhi verso la vedova, oltre la canna della pistola che teneva con entrambe le mani, esclamò: «Se dovessi incontrare Nicolas all'altro mondo vuole che gli dica qualcosa?».
La donna ringhiò con la bava alla bocca e premette il dito sul grilletto. Click.
«È così la morte?», domandò Lupin. «A me pare proprio di essere vivo, signora».
Lei ci riprovò, sbalordita. Sparò una, due, tre volte, fino a quando Gabriel non le tolse l'arma dalle mani per esaminarla.
«Sono stati tolti i proiettili», le disse, fingendosi strabiliata.
«Com'è possibile?», balbettò la vedova. Lo shock l'aveva resa ancora più stupida, così stupida da non capire che l'unica persona che poteva aver fatto una cosa simile le stava proprio accanto.
Gabriel guardò Arsène, abbozzando un sorriso della durata di un secondo. La donna infatti si avventò sul ladro, gridando che in quel caso l'avrebbe ucciso a mani nude.
«L'ho giurato! Non la scampi, Lupin!», urlò come impazzita, stringendogli la gola. «L'ho giurato a mio marito e ogni mattina e ogni sera rifaccio il giuramento! Vendicare il morto è un mio diritto! Ah, adesso non ridi più, Lupin!».
In quel momento un rumore di pale fece alzare gli occhi di tutti - Arsène compreso, anche se all'incontrario - verso la parete di vetro. Un drone si palesò davanti a loro, portando con sé un fazzoletto da taschino su cui qualcuno aveva scritto con un pennarello nero: "Al riparo!", e il Ladro Gentiluomo fu il primo a notare la piccola bomba sistemata sotto la pancia del velivolo.
Con un calcio allontanò la donna che lo voleva strangolare, poi si tuffò su Gabriel, in piedi alle spalle della zia, e per la seconda volta la protesse col proprio corpo mentre l'esplosione mandava in frantumi le vetrate.
Con le orecchie che gli fischiavano dolorosamente alzò il capo ed accarezzò il volto della ragazza, urlando: «Tutto bene?!».
Lei annuì, tirandosi su dopo di lui, e fu lei ad accorgersi di sua zia che, sanguinante in volto, si avviava verso la cassaforte.
«Che cosa sta facendo?», le gridò Arsène, tossendo a causa della moquette che stava andando a fuoco vicino alle finestre.
«Non ne ho idea! Non mi ha mai fatto guardare là dentro!».
Ebbero presto la risposta alle loro domande: anche la vedova aveva una bomba come piano di riserva. Li guardò con espressione folle e fece partire il timer: avevano tre minuti prima che l'ufficio, o forse l'intero piano, saltasse in aria.
Arsène si alzò per raggiungere la porta prima della vedova Dugrival, ma cadde al primo passo: si era dimenticato delle manette che gli tenevano legati insieme mani e piedi. Fu quindi la donna a raggiungere la porta e a piazzarvisi davanti, impedendo loro la fuga.
«Sarò lieta di morire se trascinerò all'inferno anche Arsène Lupin!», gridò, per poi scoppiare a ridere con frenesia sadica.
Due minuti.
Gabriel lo aiutò ad alzarsi porgendogli entrambe le mani e prima di lasciargliele gli consegnò le chiavi delle manette che lo tenevano imprigionato. Quindi, prima che il ladro potesse fermarla, corse incontro a sua zia.
Le due si azzuffarono, tirandosi i capelli e graffiandosi, ma in qualche modo, forse sfruttando la rabbia e il rancore accumulati in tutti gli anni di abusi, Gabriel riuscì a prevalere grazie ad un colpo alla testa infertole con un soprammobile.
Un minuto.
Arsène, ormai libero, prese Irene tra le braccia, trovandola spaventosamente leggera, e gridò a Gabriel di correre.
«Per andare dove? Non sappiamo se l'elettricità sia andata via solo qui o in tutta la struttura. E anche se ci fosse non riusciremmo mai a raggiungere in tempo l'ascensore!», gli disse. Poi guardò alle sue spalle ed indicò le finestre ormai in frantumi: «Dobbiamo saltare!».
Arsène si avvicinò al bordo e guardò la piscina sotto di lui, venendo subito colto dalle vertigini. Da quando aveva fatto quel colpo che l'aveva costretto a fuggire in mongolfiera odiava l'altezza, ma se voleva salvarsi doveva superare la propria paura.
«E va bene, facciamolo!», si decise quando ormai mancavano trenta secondi alla detonazione. Le porse la mano e Gabriel sorrise afferrandola.
Arretrarono di qualche passo per prendere la rincorsa e contarono insieme fino a tre, poi si lanciarono verso lo skyline londinese.
Ormai mancava solo un passo prima del tuffo nel vuoto quando qualcosa andò storto. La mano di Gabriel scivolò via dalla sua presa e Arsène, incapace di arrestare la propria corsa, temette che la ragazza avesse fatto solo finta di cambiare idea sul suicidio. Forse sarebbe stato meglio quel pensiero della verità che scoprì voltandosi: la vedova Dugrival, rinvenuta, con uno slancio aveva afferrato il nipote per la caviglia sinistra e l'aveva fatto cadere a terra, sui vetri infranti che avevano sfregiato il suo volto pallido e triste, su cui però sbocciò un sorriso quando il suo sguardo e quello del Ladro Gentiluomo si incatenarono per l'ultima volta.
«Grazie», gli mimò con le labbra un momento prima che la bomba esplodesse, avvolgendo zia e nipote nel fuoco e sbalzando via Arsène e Irene, i quali precipitarono a velocità spaventosa verso la piscina e si schiantarono sulla superficie azzurra.
Arsène galleggiò a lungo nell'acqua che sapeva di cloro, tra i detriti delle due esplosioni, col corpo tanto intorpidito e dolorante da non riuscire a risalire in superficie, le orecchie ovattate e le palpebre che gli si chiudevano sugli occhi. Sapeva che sopra di sé c'erano le fiamme e il fumo e di essere scampato ad un vero e proprio Infero, ma a quale scopo? Se non nel fuoco, sarebbe morto nell'acqua.
Pensava davvero che quella fosse la volta buona, il triste epilogo di Arsène Lupin, e da un lato ne fu rincuorato: davanti alle porte dell'aldilà sarebbe potuto tornare a vestire i panni di Raoul e magari rivedere tutte le persone che aveva perso o non era riuscito a salvare, tra cui anche Gabriel, l'angelo le cui ali si erano tinte di nero a furia di vivere a contatto con la cattiveria e l'odio e che, ciononostante, aveva scelto la luce.
Era già in pace, in attesa della fine, quando sentì due braccia afferrarlo da sotto le ascelle e trascinarlo fuori, sull'erba bagnata di neve. Provò ad aprire gli occhi per scoprire chi fosse il proprio salvatore, ma perse coscienza di sé.

***

Il sole aveva appena fatto la sua comparsa, tingendo di rosa il cielo notturno, quando finalmente Mycroft tornò ad aggiornarlo.
Sherlock prese al volo ciò che gli lanciò: il crocifisso d'oro che in più occasioni aveva visto al collo di Arsène e dal quale non si sarebbe mai separato di sua spontanea volontà. Quindi seguì con gli occhi il fratello mentre si sedeva sulla sedia al capezzale del suo letto e chiudeva gli occhi. Non l'aveva mai visto così stanco in vita sua.
«Siamo arrivati tardi», esordì, rendendo realtà ciò che il detective aveva già dedotto sperando di sbagliarsi. «Ho aspettato che i vigili del fuoco terminassero di spegnere l'incendio e mi sono fatto dare le prime stime. Sono stati trovati i resti di due corpi carbonizzati».
Sherlock strinse forte il crocifisso nella mano destra ed abbassò le palpebre, ma non trovò il modo per chiudere le orecchie. Per fortuna non sentì ciò che temeva.
«Entrambi femminili».
Il sospiro che gli sfuggì dalle labbra socchiuse lo fece arrossire di imbarazzo, ma non se ne vergognò più di tanto: l'aveva sempre detto che Arsène non meritava di morire.
«C'è un'altra cosa che devo dirti».
«Che cosa?».
Al silenzio del più grande, Sherlock lo fissò con un velo di preoccupazione e il cuore iniziò a scalpitargli nel petto. Mycroft abbassò gli occhi verso il manico dell'ombrello.
«Parla, Mycroft!».
«Riesci a camminare?».
Sherlock annuì con determinazione. Il fratello maggiore fece entrare una delle guardie armate ed ordinò che gli venissero tolte la manette.
Una volta libero il detective si tolse le coperte di dosso e si staccò i cerotti collegati ai vari macchinari, ma quando mise i piedi per terra le gambe gli cedettero. Per fortuna Mycroft fu abbastanza svelto di riflessi e lo sostenne.
«Ce la faccio», ringhiò il detective, allontanando il suo braccio, ma alla fine dovette arrendersi all'evidenza: era troppo debole per camminare.
Fu portata una carrozzina e Mycroft, seguito dai due poliziotti, scortò Sherlock fino al reparto di terapia intensiva. Si fermarono accanto ad una stanza singola, identica nell'aspetto e nelle dimensioni a quella del consulente investigativo, e l'Holmes più grande gli aprì la porta.
Sherlock impiegò qualche secondo a decidersi ad entrare e quando lo fece si disse che non avrebbe dovuto, tant'era straziante l'immagine che registrarono i suoi occhi: lo spettro di Irene Adler - deperita, ferita, umiliata - giaceva sotto le coperte cadide ed era tenuto in vita da un respiratore e altri macchinari.
Sherlock resistette poco in quella stanza e di nuovo in corridoio si coprì la testa con i pugni chiusi, un grido muto a mandargli in fiamme la gola.

***

In quella casa in mezzo al nulla il silenzio era così profondo che Geneviève credette di impazzire.
François non le aveva ancora fatto sapere nulla e temeva il peggio.
Se anche suo padre fosse morto, lasciandola orfana di entrambi i genitori, non sapeva proprio come avrebbe reagito.
Si alzò dal letto e col pc portatile sotto braccio uscì dalla stanza per dirigersi in salotto, dove le braci del camino producevano ancora un piacevole tepore e Maurice dormiva pacificamente sul divano.
La ragazzina sorrise notando i riflessi dorati tra i suoi capelli castani, colpiti dai primissimi raggi di sole, e dopo aver posato il computer sul tavolino lo ringraziò del prestito con una lieve carezza sul volto. Sentire la sua pelle calda sotto le dita le fece desiderare di più ed ignorando il cuore in gola si avvicinò per osservarlo più da vicino: le ciglia lunghissime contro gli zigomi, il naso fine e le labbra sottili e dagli angoli perennemente arricciati. Geneviève, arrossendo, si domandò cos'avrebbe provato posandovi sopra le proprie. Non aveva mai baciato nessuno e sapeva che fantasticare su Maurice non l'avrebbe portata da nessuna parte. Baciarlo a tradimento non le sembrava tanto meglio, tuttavia...
Come se il ragazzo avesse avvertito la sua presenza si stese supino, un braccio piegato sopra il petto e l'altro che penzolava oltre il bordo del divano. Le sue labbra si erano dischiuse e la bionda lo prese come un vero e proprio invito.
Con una mano gli sfiorò delicatamente i capelli mentre si chinava sul suo volto ad occhi spalancati, troppo agitata per chiuderli. Erano ormai a pochissimi centimetri di distanza quando il rumore di un'auto che percorreva la strada sterrata davanti alla villa la fece trasalire.
Si alzò in piedi e si fiondò fuori, ignorando il freddo pungente che la faceva tremare. Quindi corse incontro al SUV nero e il suo sguardo incrociò immediatamente quello di Fraçois, seduto sul lato del passeggero. Cercò di capire qualcosa dalla sua espressione, con scarsi risultati.
Finalmente il mezzo si fermò e Geneviève poté spalancare la portiera che dava sui sedili posteriori, dove rimase senza fiato davanti alle condizioni di suo padre: era bagnato fradicio, il suo volto portava i segni di diversi colpi ricevuti e le fasciature ormai allentate sulla spalla destra erano intrise di sangue. Soprattutto, era pallido come un morto.
«Geneviève!».
La ragazzina, frastornata, si voltò verso la direzione da cui l'avevano chiamata, senza però riuscire a vedere veramente chi avesse gridato il suo nome. Lo shock l'aveva come imprigionata dentro il suo stesso corpo e per questo non reagì quando Maurice la strinse a sé, coprendola con la sua giacca di pelle e premendole il volto contro il suo petto.
Anche Victoire e Alain, svegliati da quell'improvviso trambusto, si precipitarono fuori dalla villa per dare una mano e ci pensarono i due uomini più forzuti - Alain, appunto, ed Ernest - a portare all'interno un Arsène Lupin privo di sensi, in bilico tra la vita e la morte.
L'anziana donna, la quale grazie al suo lavoro in ospedale aveva avuto modo di imparare sul campo, fece del proprio meglio per fermare l'emorragia alla spalla e poi lo avvolse in diversi strati di piumoni e coperte, riaccendendo persino il fuoco nel camino pur di tenerlo al caldo.
Una volta sistemato si girò verso i ragazzi più giovani con sguardo adirato, ma fu con François che se la prese, tirandogli un orecchio fino a farlo sedere al tavolo della cucina, dove lo costrinse a confessare tutto quanto: dalla chiamata di Geneviève al modo in cui si era introdotto nei sistemi dell'hotel-casinò per collegarsi alle videocamere interne e poter controllare qualsiasi cosa - dalle luci alle porte automatiche - e infine anche del drone kamikaze, la sua ultima spiaggia.
Alla fine del racconto Victoire si alzò e camminò avanti e indietro per diversi minuti, cercando di sbollire la rabbia. Non riuscendoci, gridò: «Vi rendete conto di quello che poteva accadere? Poteva rimanere ucciso!».
La ragazzina, seduta al fianco dell'hacker tremante - anche i suoi vestiti erano inzuppati - e con ancora la giacca di Maurice sulle spalle, abbassò gli occhi, mortificata.
«Ma non è successo».
Udendo quella voce, roca ed indebolita ma inconfondibile, tutti si voltarono di scatto. Geneviève però fu la prima a raggiungere il suo capezzale e a piangergli sul viso, le mani sulle sue orecchie e la fronte contro la sua.
«Papà! Papà, sei vivo!».
Arsène sorrise, scostando i capelli della figlia perché non gli facessero il solletico. «Così pare, tesoro. Senza il vostro provvidenziale intervento sarei sicuramente morto, perciò vi devo dei ringraziamenti».  
Geneviève si inginocchiò al suo fianco per liberargli la visuale e il Ladro Gentiluomo cercò lo sguardo di Fraçois, il quale unì le mani dietro la schiena e gonfiò il petto come davanti ad un generale dell'esercito.
«Sei stato tu a portarmi fuori dalla piscina, vero?», gli chiese, accigliandosi. «Avrei dovuto riconoscere subito le tue braccia rachitiche».
L'hacker vacillò, ma mantenne l'espressione stoica per esclamare: «Yes, Sir!».
«Perché l'hai fatto? Tu odi l'acqua. Fosse per te non ti faresti nemmeno il bagno».
«Io... Lei aveva bisogno del mio aiuto, boss, e la mia fobia è passata in secondo piano».
Il sorriso dolce che Arsène gli rivolse lo fece arrossire, ma non tanto quanto il bacio che Geneviève, in punta di piedi, andò a posargli sulla guancia.
«C'è altro che vorresti in segno di gratitudine?», gli chiese il ladro, sogghignando.
«N-No», balbettò François, stordito come se gli avessero dato una botta in testa.
«Come immaginavo».   
La ragazzina si morse un sorriso e tornò dal padre, il quale le strinse forte la mano sul proprio petto. Quel cuore vivo e pulsante la rese la persona più felice del mondo, anche se non aveva dimenticato quello che lui e Sherlock avevano fatto, abbandonando lei e Molly nel momento del bisogno.
Anche a questo aveva pensato nelle lunghe ore trascorse in attesa: aveva pensato alla scelta che doveva compiere e alla fine aveva preso una decisione. Non era quello il momento per parlarne a suo padre, ma presto o tardi l'avrebbe fatto e l'unico suo desiderio era che lui capisse che aveva bisogno del suo spazio; che avrebbe trovato la sua strada con le sue sole forze; che durante il cammino sarebbe caduta ma avrebbe trovato la forza per rialzarsi; che in fondo era una Lupin e lo sarebbe stata per sempre.   
   
 
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