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Autore: _Pulse_    28/01/2018    3 recensioni
Sherlock, immerso nel buio del laboratorio, fissò ancora una volta la parola che brillava di luce azzurrina sul retro del biglietto da visita: "Fede". [...]
Le luci al neon del laboratorio si accesero di colpo e Sherlock strizzò gli occhi, incrociando lo sguardo sorpreso di Molly, sulla porta.
«Non sapevo fossi qui».
Si alzò in fretta togliendosi gli occhiali di plastica arancione e senza dire una parola si infilò il cappotto, il biglietto ancora stretto in mano.
«Sherlock, stai...?».
«Scusami, devo andare», la interruppe e la superò, avvertendo uno strano peso sul cuore mentre le parole del Ladro Gentiluomo gli rimbombavano nel cranio: «L'amore... L'amore è e sarà sempre ciò che ci renderà diversi, mon ami».
[Post 4th Season - Crossover!]
Genere: Angst, Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Molly Hooper, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Et voilà!
Siamo arrivati praticamente alla fine, anche se manca ancora l'epilogo all'appello. Questo sarà il capitolo degli addii, anche se chissà, magari si tratterà di un semplice arrivederci :')
La storia è nata come una Sherlock X Molly perciò, com'era prevedibile, questi due finalmente si affronteranno. Dico finalmente perché ne sono successe di cose nel frattempo e forse nessuno dei due è la persona che era prima dell'arrivo/ritorno di Lupin nelle loro vite. E bravo il nostro Ladro Gentiluomo!
Non mi dilungo troppo nel ringraziare tutti quelli che sono arrivati fin qui perché lo farò la prossima settimana, ma sappiate che vi adoro tutti, dal primo all'ultimo. E' stato un viaggio pazzesco e so che mi mancherà da morire questa storia, per questo, come ho già anticipato a qualcuno, ho intenzione di scrivere il famoso primo incontro tra Sherlock e Arsène - ispirazione e impegni vari permettendo! Quindi spero che ci rivedremo presto ;)
Un bacione a tutti e vi auguro una buona lettura!

Vostra,

_Pulse_


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23. Stay


Molly aveva deciso di prendersi qualche giorno di ferie per riprendersi da tutto ciò che era accaduto e pensare.
Raramente era uscita di casa, ma aveva avuto modo di tenersi aggiornata sugli sviluppi del caso più sensazionale dell'anno grazie ai notiziari e a Lestrade, il quale l'aveva chiamata spesso per sapere come stesse.
A seguito della spettacolare fuga di Arsène Lupin, uno Sherlock senza memoria aveva negato categoricamente di aver ucciso Charles Augustus Magnussen e la polizia aveva dovuto scagionarlo da ogni accusa in quanto non c'erano prove a sostegno del contrario.
Alla fine aveva vinto l'immagine eroica di Sherlock, anche se Molly sapeva che lui aveva sparato davvero a quell'uomo; non solo perché era stato John a dirglielo, ma perché gli aveva letto negli occhi che anche la storia della perdita della memoria era una bugia architettata con l'unico scopo di scagionarsi.
Per quanto riguardava Arsène invece tutto taceva e le indiscrezioni erano innumerevoli. C'era chi diceva che fosse morto nell'incendio dell'hotel-casinò della signora Dugrival e chi, davanti alla mancanza di un cadavere, sosteneva che fosse riuscito a salvarsi e a fuggire; ancora, c'era chi diceva che quello arrestato dalla polizia non fosse il vero Ladro Gentiluomo, ma una semplice controfigura, e altri che pensavano che non esistesse nessuno di così scaltro e simpatico allo stesso tempo, tanto da gridare ad una trovata pubblicitaria francese per attirare turisti.
Anche in quel caso Molly sapeva la verità e se la sarebbe portata nella tomba.
Erano già trascorsi tre giorni di solitudine ed autocommiserazione quando l'anatomopatologa ricevette una chiamata da un numero sconosciuto. Con cautela si portò il cellulare all'orecchio e rimase in silenzio, in attesa di capire chi fosse il suo interlocutore.
«Ciao Molly».
Lei chiuse gli occhi, sollevata e al contempo addolorata di sentire la sua voce: era stato tutto vero e non un sogno.
«Arsène, sei vivo».
«Ovviamente. Tu come stai? Ho saputo che non sei andata al lavoro... Avrei voluto che ti occupassi tu di Grégorie».
Grégorie. Così si chiamava l'uomo che aveva dato la vita per permetterle di fuggire. Tutti i suoi discorsi sul non voler essere più una pedina, il corso di autodifesa... Ma chi voleva prendere in giro? Lei era scappata e per questo quell'uomo era morto.
«Non ho mai fatto un'autopsia ad una persona che conosco. Non credo ci riuscirei, onestamente», rispose alla fine, a bassa voce.
«E perché no? Guardi dentro l'animo delle persone tutti i giorni, aprire il loro corpo non dovrebbe turbarti».
Quella considerazione la lasciò un attimo stupita, ma com'era abituata a fare ignorò il complimento per scuotere il capo e sospirare: «C'è qualcosa che posso fare per te, Arsène?».
«In realtà ti ho chiamata per dirti che, se vuoi, sono pronto a mantenere la mia promessa».
«Intendi...». Molly si morse le labbra, indecisa.
Quando aveva chiesto ad Arsène di portarla via da Londra le era sembrato così facile, mentre ora che doveva dargli una risposta definitiva era così confusa che si sentiva scoppiare la testa. Inoltre, dopo quello che era successo, perché voleva ancora aiutarla?
«Ascolta... Se pensi che quello che è successo a Grégorie sia colpa tua ti sbagli. La responsabilità è mia e mia soltanto», le disse ad un tratto, rompendo il silenzio. «Detto questo... So che è una decisione difficile e non voglio metterti alcuna pressione, ma io non posso più stare in Inghilterra».
«Sì, certo». Molly tirò su col naso, accorgendosi solo in quel momento di star versando lacrime di cui non ne capiva la ragione. Quella principale, almeno. Si passò velocemente una mano sulle guance per spazzarle via ed abbozzando un sorriso aggiunse: «Non sarò di certo io a trattenerti».
«È un peccato».
«E perché?».
Arsène esitò, per poi ammettere con una breve risata: «Ho sperato fino all'ultimo che mi dicessi di restare».
L'anatomopatologa chiuse gli occhi, realizzando ciò che il ladro aveva voluto dire, ciò che lui aveva capito ancor prima di lei: non sarebbe mai partita e il motivo era uno soltanto, di nome Sherlock. Ed era un vero peccato perché Arsène, ignorando la sua lunga lista di crimini e la sua fama di conquistatore, era un uomo di cui avrebbe tanto voluto innamorarsi.
Contro ogni pronostico lui era stato in grado di darle stabilità in un momento in cui aveva sentito la Terra girare troppo velocemente sotto i suoi piedi. L'aveva stretta quando ne aveva più bisogno e l'aveva amata per davvero, anche se solo per una notte.
I loro due mondi, due universi paralleli all'apparenza incapaci di interagire tra loro, si erano incontrati a metà strada ed era stata un'anomalia, un evento raro ed irripetibile dal quale ne erano usciti entrambi arricchiti.
«Alle dieci di questa sera un'auto si fermerà sotto casa tua e ti aspetterà. Potrai scegliere di salire e raggiungermi, oppure di non farlo. Qualsiasi scelta farai voglio che tu sappia che io...».
«No», lo interruppe Molly, coprendosi gli occhi con un braccio nel tentativo di arrestare le lacrime. «Non lo dire, per favore».
Era certa che in quel momento, se solo fossero stati faccia a faccia, avrebbe visto un sorriso tenero sbocciare sulle sue labbra rosee.
«Allora addio, Molly Hooper. Se mai dovessi cambiare idea...».
La comunicazione si interruppe prima che lei potesse rispondere e questo fu l'ennesimo colpo al cuore. Lanciò il cellulare da parte e si strinse le ginocchia al petto, il volto nascosto tra le braccia e i singhiozzi ora incontrollabili che le squassavano la schiena.
Rimase in quella posizione per diversi minuti, precisamente fino a quando il campanello non la fece trasalire. Il suo primo pensiero fu che Arsène avesse cambiato idea, perciò si precipitò alla porta asciugandosi il volto con le maniche della felpa. Rimase delusa però, dato che sul pianerottolo c'era la signora Lee, appena tornata dalla sua vacanza all-inclusive in Costa Azzurra.
«Tesoro, ti senti bene?», le chiese saltando i saluti, preoccupata.
Molly fece del suo meglio per sorridere. «Sì, io... mi sono commossa davanti ad un film. Lo sa che sono una frignona».
L'anziana vicina sorrise a sua volta e cambiò argomento: «Mi dispiace di essere andata via senza avvisarti. Spero che non sia successo nulla durante la mia assenza e soprattutto che mio nipote non abbia dato problemi».
«Thomas?», chiese Molly, sorpresa dalla tranquillità con cui la donna aveva retto il gioco di Lupin. Ma soprattutto fu spiazzata dalla domanda, alla quale era difficile dare una risposta onesta. Avere il Ladro Gentiluomo come vicino le aveva dato problemi? Molti, ma avrebbe rifatto tutto quanto.
«No, nessun problema», rispose alla fine.
Le due si scambiarono uno sguardo imbarazzato, poi la signora Lee abbassò gli occhi sulla singola rosa rossa che teneva tra le dita e come se si fosse dimenticata di averla esclamò in fretta: «Questa era sul tuo zerbino, tesoro. L'ha lasciata un giovanotto biondo. Gli ho chiesto perché non avesse suonato e mi ha risposto che era meglio così».
«Lui... lui era qui?», balbettò Molly, ma non aspettò di sentire la risposta.
Strappandole la rosa dalle dita corse giù dalle scale in ciabatte e una volta sul marciapiede guardò sia a destra che a sinistra, ma di Arsène non c'era più traccia e il vuoto che sentì all'altezza del petto le diede molto da pensare.

***

Sherlock aveva firmato i moduli per la dimissione il giorno prima, tuttavia si trovava ancora all'ospedale, davanti alla porta chiusa della stanza di Irene Adler.
Ormai andarla a trovare era diventata un'abitudine, specie quando si era accorto che nessun altro l'aveva fatto.
La Dominatrice era sola al mondo, proprio come lo sarebbe stato lui se non avesse avuto dei genitori amorevoli, un fratello maggiore che nonostante il carattere freddo e presuntuoso non poteva fare a meno di preoccuparsi per lui e degli amici che per qualche motivo a lui ancora sconosciuto avevano deciso di rimanergli accanto nel bene e nel male.
Per questo capì subito che c'era sotto qualcosa quando una delle infermiere si presentò con un mazzo di gerbere colorate.
La fermò sulla porta chiedendole chi gliele avesse mandate e lei gli indicò il bigliettino attaccato al bouquet, poi portò il vaso all'interno e lo sistemò sul comodino.
Quando tornò in corridoio Sherlock era già andato via.

Dopo il suo ritorno nel mondo dei vivi la sua tomba avrebbe dovuto essere abbattuta in modo da poter usare quel fazzoletto di terra per il riposo eterno di qualcuno di veramente morto, ma Sherlock si era opposto e aveva concordato di pagare uno sproposito - sottoforma di affitto mensile - per tenerlo.
Tutti, chi prima e chi dopo, gliene avevano chiesto il motivo e la sua risposta era sempre stata la stessa: «Mi piace il posto». In realtà però la vera motivazione era un'altra: ogni tanto gli piaceva andare lì, sedersi contro la fredda lapide di marmo nero e pensare alla propria vita. Era uno dei pochi posti in cui riusciva ad apprezzare davvero ciò che aveva, in cui capiva quanto fosse stato fortunato, e in qualche modo Arsène doveva averlo scoperto. O forse, più semplicemente, aveva deciso di dargli appuntamento lì solo perché gli sembrava poetico.
Il detective, giunto davanti alla propria lapide, si guardò intorno confuso. Estrasse il bigliettino allegato al mazzo di fiori per Irene e lo rilesse per sicurezza. Non l'aveva mal interpretato, eppure di Arsène non c'era traccia.
All'improvviso lo squillo di un cellulare gli fece rizzare le orecchie e con cautela aggirare la lapide, dietro la quale trovò un prepagato e una rosa rossa. Infastidito si chinò a raccogliere entrambi e posandosi il telefono contro l'orecchio esordì: «Teatrale come al solito, vedo».
«Lo sai che è la mia specialità, ma questa volta ha anche un fine pratico. Gli addii non sono mai stati il mio forte, dopotutto».
Sherlock si sedette sulla sommità della lapide e si rigirò la rosa tra le dita, poi se la portò al naso per aspirarne il profumo.
«Sembri triste, mon ami. Volevi sincerarti delle mie condizioni di salute, per caso?».
Sherlock abbassò subito la rosa e tornò a guardarsi intorno, le labbra arricciate sui denti come un cane rabbioso. «Mi stai guardando?».
«Forse», replicò Arsène, divertito. «È davvero così importante per te? Rischio di illudermi, Sherlock caro...».
«'Sta zitto».
«Ecco, ora ti riconosco».
Nessuno parlò più e Sherlock provò a concentrarsi sui rumori provenienti dall'altro lato del telefono, in modo da poter cogliere degli indizi sull'ubicazione di Arsène, ma a parte qualche interferenza ogni tanto e il rumore del traffico non aveva elementi che potessero aiutarlo.
«Voleva che ti dicessi che le dispiace», disse ad un tratto il ladro, triste come se gliene fosse davvero importato qualcosa di Irene.
Sherlock strinse forte il gambo della rosa, pungendosi con una spina e preferendo quel dolore a quello che sentiva in mezzo al petto.
«Me lo dirà di persona quando si sveglierà», affermò.
«Lo spero tanto», sussurrò, ma per il detective fu fin troppo facile capire che non ci credeva veramente.
Non era da Arsène augurare a qualcuno la morte, ma non lo biasimava nemmeno: era colpa di Irene, d'altronde, se lui, Geneviève e Molly avevano rischiato la vita; era colpa sua se Grégorie la vita l'aveva persa.
«Perché hai provato a salvarla?», gli chiese quindi. «Avresti potuto lasciarla tra le fiamme, invece...».
«Lei l'avrebbe preferito senz'altro», lo interruppe, lasciandolo senza parole.
Irene Adler... la stessa Irene che lottava fino allo stremo delle forze e calpestava chiunque pur di ottenere ciò che desiderava, davvero lei...?
«E io non potevo permetterlo», aggiunse Arsène. «Lo sai come la penso sul suicidio. E poi se fosse morta tu ne avresti sofferto, quindi...».
«Presumo che il mio debito con te non si sia ancora estinto, anzi...».
«Debito? Quale debito?».
«Non scherzare».
«Mai stato più serio in vita mia. Tu, piuttosto, hai avuto proprio una bella idea a far finta di aver perso la memoria: ti ha tolto un bel po' di gatte da pelare».
«Credi che abbia fatto finta?».
«Oh, avanti!».
Sherlock rimase in silenzio e sollevò le sopracciglia, certo che Arsène lo stesse ancora guardando. Ma da dove? Se solo avesse avuto un indizio, uno solo...
«Mi stai dicendo che davvero...?». Il ladro ora sembrava davvero agitato. «E il nostro bacio, te lo ricordi?».
«Ho perso i ricordi degli ultimi diciassette anni, quindi purtroppo quello me lo ricordo ancora».
«No, no, no! Noi ci siamo baciati un'altra volta, dopo la nostra evasione!».
«Non prendermi in giro. Ho giurato a me stesso che non sarebbe più accaduto e se è successo davvero, allora tu devi esserti approfittato di me».
«Cosa? No, assolutamente! Tu avevi preso un po' di scosse elettriche, questo è vero, ma eri perfettamente cosciente e consapevole delle mie intenzioni! E non ti sei allontanato, tu...!».
Alla fine non ce l'aveva fatta: non era bravo come Arsène a mentire e un ghigno gli aveva sollevato impercettibilmente l'angolo sinistro della bocca, tradendolo.
«I miei complimenti!», gridò Arsène, ridendo. «Hai buone possibilità di prendere per il naso Scotland Yard, la regina e la nazione intera, ma dovrai fare di meglio con Molly Hooper».
Sapeva che prima o poi avrebbe aperto l'argomento, tuttavia Sherlock si ritrovò a stringere i pugni lungo i fianchi e a cercarlo con ancora più foga: dietro gli alberi e le statue tombali, nel campanile della cappella, negli edifici che si innalzavano oltre entrambi i lati del parco.
«Dovevi continuare a fingerti morto per far sì che mantenessi la promessa. Un errore grossolano da parte tua», gli disse il detective.
«No, sappiamo entrambi che non l'avresti mai fatto comunque. È per questo che hai usato il trucco dell'amnesia: pensavi che, nella peggiore delle ipotesi, avresti finto di non ricordare di averle detto "Ti amo" pur di non darle spiegazioni».
Sherlock girò in tondo come una trottola, tanto da farsi venire il mal di testa. «Come...? Chi ti ha raccontato la fine della storia? È stata lei?».
«No, l'ho semplicemente dedotta. Allora, com'è successo? Scommetto che tu hai chiesto a Molly di dirti quelle tre parole e lei ti ha costretto a dirle per primo. Dimmi, ci ho preso?».
«L'ho fatto solo perché pensavo ci fosse una bomba nel suo appartamento!».
«Non ho alcun dubbio che tu l'abbia fatto per salvarla. Avresti detto qualsiasi cosa anche per salvare John, la signora Hudson o Lestrade. Quelle parole però... una volta pronunciate non si desidera altro che ripeterle se la persona davanti a noi è quella giusta, vero? Rimangono lì, sulla punta della lingua...».
Sherlock se la morse, perché era vero. Erano innumerevoli le volte in cui, incrociando Molly e leggendo la tristezza nei suoi occhi, aveva voluto gridarglielo in faccia fino a farle capire che era vero anche per lui, che quelle parole non erano affatto prive di significato come pensava.
«Beh, è stato bello chiacchierare con te», esclamò Arsène, con quel suo tono allegro tanto caratteristico. «Adesso però devo andare: la pausa pranzo è quasi finita e sarebbe un bel guaio se il signor avvocato mi trovasse ancora qui».
Avvocato?
Sherlock si voltò di scatto verso il grattacielo alla sua destra, il quale, si ricordò, ospitava lo studio di un importante divorzista, uno dei migliori e più pagati di Londra. Da qualche tempo girava anche voce che nella sua cassaforte conservasse per una delle sue clienti fedifraghe una collana di perle dei Mari del Sud.
Lassù, appeso ad una semplice imbragatura, c'era un lavavetri che lo stava osservando con un potente binocolo.
«Ops, penso di essermi fatto scoprire», esclamò Arsène, per poi salutarlo con la mano con cui teneva la spatola.
Sherlock corse via dal cimitero, attraversò la strada facendosi quasi investire e poi entrò nell'elegante hall dell'edificio. Il portinaio fece per fermarlo, ma non appena lo riconobbe lo lasciò passare e il detective, dopo avergli chiesto a che piano si trovasse l'ufficio dell'avvocato, prese l'ascensore.
Il tragitto, per quanto breve, lo innervosì tanto da picchiare un pugno contro la parete ed imprecare. Non l'avrebbe sopportato se fosse arrivato tardi.
Alla fine le porte si aprirono, silenziose, e come aveva detto Arsène tutti quanti erano in pausa pranzo, rendendo il piano deserto.
Passò la reception e si lanciò contro la porta dell'ufficio, trovandola aperta. A sorprenderlo quindi non fu la cassaforte svuotata, bensì vedere il Ladro Gentiluomo ancora dall'altra parte della facciata di vetro, che fischiettava mentre lavorava col braccio sinistro. Perché non era scappato?
Sherlock si avvicinò alla vetrata e lo chiamò col cellulare prepagato che stringeva ancora in mano.
Arsène premette un tastino sul dispositivo bluetooth che aveva all'orecchio e rispose col sorriso: «Sherlock, sei qui di fronte a me vero?».
«Sì».
«Vetro riflettente, mi dispiace. Ma tu mi vedi, perciò... sei contento?».
Sherlock lo esaminò e posò una mano sul vetro all'altezza del suo viso, appurando che stava dicendo la verità: tutto ciò che Arsène vedeva, da fuori, era la propria immagine riflessa.
Sul volto del ladro poté contare lividi nuovi su quelli vecchi, diverse abrasioni e un taglio sul labbro che doveva fargli parecchio male ogni volta che sorrideva.
«Ti hanno sparato alla spalla destra, ma per il resto sembri stare bene», gli disse, ignorando l'incomprensibile desiderio di toccarlo per convincersene al cento percento. «Perché hai aspettato tre giorni prima di farmi sapere che eri vivo?».
«Gesù è risorto il terzo giorno».
«Ti stai paragonando a Gesù?».
«No, la mia era solo una battuta. Però si trattava di certo di un uomo straordinario».
Sherlock strinse gli occhi. «Mi rifiuto di credere che sia esistita una persona in grado di fare miracoli, o che sosteneva che gli ultimi sarebbero stati i primi».
«Io sono cresciuto come un bravo cattolico, quindi credo in Dio e nelle seconde occasioni», rispose tranquillamente il ladro. «Tutti meritano di poter rimediare ai propri errori».
«Certi peccati non dovrebbero essere perdonati, invece. Certe persone...».
«Sei troppo duro con te stesso», lo interruppe Arsène, abbassando la spatola per rivolgere lo sguardo verso dove credeva che fosse. Sbagliò di pochi centimetri.
«Riconosco che tu abbia commesso un errore, ma anche che le tue intenzioni erano buone: hai agito per salvare la famiglia del tuo migliore amico e per quanto mi riguarda sei perdonato».            
Sherlock avrebbe tanto voluto che il suo perdono potesse alleviare il senso di colpa che si sarebbe portato dietro per tutta la vita.
Sarebbero potuti stare lì a parlarne per ore, senza convincere l'altro a cambiare opinione, per questo decise di affrontare un altro argomento.
«Perché tutto questo disturbo per una collana di perle? Tu soffri di vertigini!».
Arsène ridacchiò e ammise: «Sto cercando di vincere le mie paure. Magari tu dovresti fare altrettanto, prima che sia troppo tardi».
«A cosa ti riferisci?», gli chiese il detective, di nuovo sulle spine e con un brutto presentimento. «Parla chiaro per una volta!».  
Arsène sospirò e con una smorfia di dolore si sporse per raggiungere un angolo alla sua sinistra. «Devo proprio imboccarti! Sto parlando di Molly, stupide. Era solo una questione di tempo prima che raggiungesse il limite e quando noi due... sì, insomma, quando ci siamo avvicinati mi ha confessato di volersene andare».
Sherlock sentì il mondo crollargli sotto i piedi. «Andare?», ripeté, come inebetito. «Non capisco. Dove dovrebbe...?».
«Lontana da te, Sherlock. Col tuo atteggiamento scostante l'hai portata all'esasperazione, tanto da convincerla che trascorrere del tempo all'estero l'avrebbe aiutata a dimenticarti. Ho provato a dirle che...».
«Se se ne andasse sarebbe la cosa migliore».
A quelle parole, pronunciate con tono di voce fermo e privo di qualsiasi emozione, Arsène si infuriò e lo guardò - più o meno - con tutta la cattiveria di cui era capace.
«Per chi? Dannazione Sherlock, proprio non lo vuoi capire che il cuore non si può controllare! Se le permetti di andarsene vivrete entrambi nella sofferenza!».
«Se si trattasse di Geneviève non faresti tutto quanto è in tuo potere per tenerla al sicuro? O se avessi potuto evitare che Grégorie morisse...».
«Smettila!», gridò ancora il Ladro Gentiluomo, picchiando un pugno sul vetro. «È ovvio che voglio che Geneviève non corra alcun tipo di pericolo! E so che è colpa mia se Grégorie non c'è più! Tu non sai quante volte... quante volte l'ho pregato di stare nelle retrovie e di non rischiare la sua vita! Lui conosceva i rischi, eppure ha deciso di stare al mio fianco ed è questo! - è questo che non puoi impedire! Non puoi costringere qualcuno a fare ciò che vuoi tu, perché non è giusto! E nel caso di Molly, costringendola a partire la condanneresti ad una vita ancora più miserabile. È questo che vuoi, Sherlock?».
Il consulente investigativo abbassò gli occhi e non rispose, profondamente turbato. Anche John, non molto tempo prima, gli aveva fatto un discorso simile.
Arsène sospirò e scosse mestamente il capo, poi guardò l'orologio che portava al polso e si infilò la spatola in uno dei passanti del marsupio.
«Sarà meglio filarcela ora», esclamò, per poi appoggiare la mano sinistra e guantata sul vetro appena pulito. «Molly ha tempo fino a questa sera alle dieci per decidere. Spero che tu faccia la cosa giusta, Sherlock».
Abbozzò un sorriso venato di malinconia e posò anche le labbra sul vetro, in un bacio casto. «Au revoir, mon ami».
Il detective si lanciò contro il vetro, come a volerlo afferrare, ma Arsène tirò la leva dell'argano a cui era imbragato e il cavo d'acciaio si srotolò dal verricello che si trovava sul tetto del grattacielo, permettendogli di scendere rapidamente.
«Arsène, aspetta!», gridò il detective e si precipitò fuori dall'ufficio, imbattendosi nell'avvocato di ritorno dalla pausa pranzo. Questi, infuriato, gli chiese che cosa ci facesse lì e chi l'avesse lasciato passare, ma Sherlock lo ignorò per correre giù dalle scale.
«È inutile affannarsi in quel modo», gli disse il ladro, ancora all'altro capo del telefono. «Non riuscirai a raggiungermi».
«Allora dimmi almeno che ne sarà di Geneviève! Ha deciso di seguirti?».
«Giusto, me ne stavo quasi dimenticando! Ha scelto di accettare la proposta di Mycroft e mi ha raccomandato di salutarti e di dirti che tornerà a Londra per le vacanze pasquali».
Sherlock sorrise, felice di sentire finalmente una buona notizia. «Farò in modo di organizzarle una caccia alle uova».
«Credo che le farebbe più piacere fare una caccia al criminale, se capisci cosa intendo».
Delle urla di sorpresa costrinsero Sherlock ad arrestare la sua corsa per entrare negli uffici di un call-center.
«Mi scusi madam, non volevo spaventarla», esclamò Arsène davanti alla finestra che doveva aver in precedenza manomesso perché sembrasse chiusa all'apparenza ed apribile con un semplice calcio. Quindi si sganciò il cavo dall'imbragatura e fece lo slalom tra le varie postazioni per raggiungere l'ascensore.
Sherlock si precipitò all'inseguimento, ma non fu abbastanza veloce: il ladro ebbe il tempo per premere il pulsante del pian terreno e salutarlo con un'occhiolino prima che le porte si chiudessero, lasciandolo fuori.
«Maledizione!», gridò il detective, battendovi i pugni con rabbia.
Ritornò alle scale, rifiutandosi di gettare la spugna, e Arsène rise sentendo il suo respiro affannoso.
Una volta giunto alla reception la gola gli bruciava, ma era riuscito a fare prima dell'ascensore, le cui porte si aprirono davanti a lui per riservargli l'ennesima cocente delusione: Arsène si era tolto imbragatura e vestiti da lavavetri e aveva smontato uno dei pannelli del soffitto per poter scendere ad un altro piano senza che lui se ne accorgesse.
Furente, Sherlock si riportò il cellulare all'orecchio ed esclamò: «Non ti sembra un trucco visto e rivisto?».
«Banale, vero? Beh, sai quello che si dice: a volte bisogna sapersi accontentare. Alla prossima!».
Arsène terminò la comunicazione e Sherlock gettò il prepagato a terra, rompendolo in mille pezzi. Uscì dall'edificio e guardò a destra e sinistra alla ricerca del ladro o almeno del suo mezzo per la fuga. Stava per arrendersi quando notò un grosso SUV nero, con tanto di finestrini oscurati, uscire da un vicolo laterale per immettersi nella strada principale. A confermare i suoi sospetti fu lo stesso Arsène, il quale uscì dal tettuccio e lo guardò sorridendo, tirandosi indietro i capelli scompigliati dal vento con una mano e salutandolo con l'altra.
«Mi mancherai!», gli gridò prima che il SUV svoltasse, scomparendo alla sua vista e diventando impossibile da raggiungere.
Sherlock si piegò sulle ginocchia, senza fiato, e ad un tratto scoppiò a ridere, ricevendo le occhiate stupite e confuse dei passanti. Quando si sollevò, con una mano sullo stomaco, aveva le lacrime agli occhi.
«Anche tu mi mancherai», mormorò. «Anche tu».

***

«Ehi, va tutto bene?».
Geneviève si voltò verso Maurice, il quale l'aveva raggiunta nella veranda sul retro dove in quei giorni si era rifugiata spesso a pensare a come sarebbe stata la sua vita d'ora in avanti.
Alla fine, dato che in quella villa c'erano diverse camere per gli ospiti, il reporter era stato invitato a restare e lui aveva accettato per rimanere al fianco del Ladro Gentiluomo.
La ragazzina gli rivolse un piccolo sorriso ed annuì, poi tornò a fissare le colline, avvolta in una coperta di pile.
«Con me puoi parlare, lo sai», le disse ancora, sedendosi a cavalcioni della spessa ringhiera di legno, al suo fianco.
Incrociando i suoi sinceri occhi castani, Geneviève cedette con un sospiro.
«Avrei voluto salutare di persona Sherlock, John e Molly, soprattutto».
«Forse tuo padre voleva risparmiarti il dolore degli addii».
Si strinse nelle spalle, imbronciata. «Non lo trovo giusto comunque».
«Prendere decisioni ingiuste per i figli è il lavoro principale di un genitore», esclamò Maurice, ridacchiando.
«Ne parli come se...».
«Come se ci fossi passato. Già...».
Guardandolo a capo chino, Geneviève non potè resistere e posò una mano sulle sue, strette sulla trave di legno su cui erano seduti. A quel tocco Maurice alzò di scatto il volto e le sorrise, ma era fin troppo evidente che si stava sforzando.
«I miei genitori non volevano che facessi il reporter. Avevano deciso per me una vita del tutto diversa, senza chiedermi cosa volessi io, e tutt'oggi non ci parliamo per questo. Ma tuo padre è diverso: ha scelto di stare dalla tua parte qualsiasi strada avessi intrapreso. A proposito, sei proprio sicura di voler frequentare quella scuola?».
Geneviève annuì con un cenno del capo, tornando a guardare le colline.
«Come l'hai chiamata? Scuola per giovani dotati? Tipo quella degli X-Men?».
La ragazzina rise e si guardò le Vans rosse. «Da come l'ha descritta Mycroft Holmes sembra più una Wammy's House: un istituto per ragazzini con un QI superiore al normale oppure con familiari eccezionali che vengono istruiti per diventare risorse utili al Governo».
«Quindi... niente matematica?».
Geneviève, sempre senza guardarlo, gli tirò un pugnetto sul petto.
«Durante la mattinata frequenterò le lezioni di un normale liceo», gli spiegò. «Mentre nel pomeriggio corsi extra in base alle mie... capacità, ecco. Combattimento corpo a corpo, lancio di coltelli, escapologia...».
«Potrò venire a trovarti?».
La ragazzina perse il sorriso per lo shock e lo guardò, confusa e col cuore che le batteva impazzito nel petto.
Maurice parve arrossire e si passò una mano sulla nuca, imbarazzato. «Sarebbe bello scrivere un articolo su una scuola del genere».
«Credo che sia un programma top secret. Io stessa ho dovuto firmare un accordo di segretezza».
«Capisco».
«Però...». Geneviève abbassò gli occhi, tanto nervosa da allontanare la mano da quelle di Maurice per torturarsele in grembo. «Avrò anch'io delle vacanze, quindi potremmo vederci e potrei raccontarti qualcosa... off the record, naturalmente».
Maurice le prese delicatamente il mento tra le dita e la costrinse ad incrociare il suo sguardo. Sorridendo, rispose carezzevole: «Mi piacerebbe molto».
La ragazzina deglutì e fissò quelle labbra che da tre giorni a quella parte erano la sua ossessione. Socchiuse gli occhi e si avvicinò al suo volto, decisa ad andare fino in fondo quella volta, ma la porta alle loro spalle si aprì all'improvviso, facendola allontanare di scatto e con le guance in fiamme.
François si rese conto di aver interrotto qualcosa, ma ne sembrò quasi lieto.
«È pronto in tavola!», annunciò, per poi rivolgere un'occhiata velenosa a Maurice.
Una volta rientrato, il reporter tirò fuori dalla giacca il pacchetto di sigarette e se ne accese una ridacchiando.
«Non gli piaccio proprio, eh?».
Geneviève, imbarazzata, provò a spiegare: «Non sei tu, è che...».
«Lo capisco. Se avessi la sua età mi comporterei anche io così», disse, strizzandole l'occhio. Poi indicò la porta con un cenno del capo, aspirando la prima boccata di fumo: «Vai avanti, io finisco di fumare e ti raggiungo».
La ragazzina deglutì nuovamente, nonostante la gola secca, e non se lo fece ripetere due volte. Sulla porta si fermò ad osservarlo: appoggiato alla colonna, con un ginocchio sollevato e il gomito su di esso, gli occhi rivolti all'orizzonte. Guardando il suo profilo sereno pensò che prima o poi sarebbe riuscita a baciarlo; ormai era una sfida col destino e lei l'avrebbe vinta.

***

Arsène si sistemò la cravatta e poi scivolò all'interno del cinema privato di Mycroft Holmes, seduto in prima fila e con un bicchiere di whisky nella mano destra.
Sul grande schermo venivano proiettate vecchie fotografie in cui non c'erano solo i due Holmes a lui conosciuti, bensì anche una bambina coi codini e un bambino pel di carota della stessa età di Sherlock e con una grossa benda da pirata sull'occhio sinistro.
«Quindi sei venuto davvero», esclamò Mycroft, prendendolo alla sprovvista. Era talmente concentrato su quelle diapositive che per un attimo aveva perso il contatto con la realtà.
«Sarebbe stato scortese rifiutare il tuo invito, Myc».
Il Ladro Gentiluomo sorrise e facendo roteare il bastone da passeggio scese i gradini ricoperti di moquette per raggiungere il maggiore dei fratelli Holmes. Quindi si sedette al suo fianco e si portò una mano a sostegno del volto, un dito sulla tempia e gli occhi concentrati.
«Quella bambina... è chi penso che sia?».
«Eurus Holmes», rispose Mycroft, sospirando.
«E il bambino?».
«Victor Trevor. Il migliore amico di Sherlock».
«Ouch. Pensavo di essere io il suo migliore amico».
«Non ti preoccupare, è morto».
Arsène si voltò, scioccato, e poi si alzò per poter guardare meglio le fotografie. La sua ombra copriva una parte dello schermo, ma a lui non importava.
Ad un tratto, con le fronte solcata da profonde ed inestetiche rughe di apprensione, indicò la sorella minore di Sherlock e chiese: «È stata lei ad ucciderlo?».
Mycroft si limitò ad annuire, bevendo ciò che rimaneva del suo drink.
«Perché?».
«Voleva che Sherlock giocasse con lei».
Arsène lo fissò a bocca aperta. «Mi stai prendendo in giro?».
«Temo di no».
«Très bien». Il Ladro Gentiluomo si avvicinò al maggiore dei fratelli Holmes a passo pesante e lo sollevò dalla poltroncina rossa prendendolo per il gilet con entrambe le mani. Avvicinando il volto al suo sibilò: «Parliamo di affari?».
«Ti ho chiamato qui apposta», rispose con calma Mycroft, sorridendo con quel suo fare serpentesco.
Si spostarono nella luminosa sala da pranzo, il cui lungo tavolo in mogano la faceva da padrone, e Mycroft lo pregò di sedersi a capotavola mentre lui frugava in un cassetto per tirarvi fuori una cartelletta e una penna stilografica. Posò il tutto davanti a lui e Arsène sfogliò distrattamente i documenti.
«Lo sai Arsène, mi sbagliavo su di te», ruppe il silenzio Holmes. «Non sei affatto un criminale come tutti gli altri».
Il Ladro Gentiluomo abbozzò un sorriso e si sedette in maniera più composta. «Che cosa ti ha fatto cambiare idea?».
«Diverse cose, in realtà».
Mycroft passeggiò intorno al tavolo, sfiorando con la mano sinistra i pomoli appuntini delle sedie, e alla fine si sedette davanti a lui.
«Il fatto che tu stia affidando a me l'istruzione di tua figlia...».
«Ricordi quando mi dicesti che i figli possono essere una rovina? In questo caso ho capito di essere io la rovina per mia figlia. Voglio solo il meglio per lei e se poi deciderà comunque di seguirmi, tanto di guadagnato».
«Che tu abbia salvato Irene Adler nonostante il tuo disprezzo per lei», continuò il maggiore dei fratelli Holmes. «E che tu abbia impedito a Sherlock di seguirti dopo l'evasione. L'hai fatto per proteggerlo, non è vero?».
«Quello che non hai mai capito, Myc, è che io tengo davvero a Sherlock. Gli voglio bene, gliene ho voluto sin dal primo giorno, e credo che se le cose fossero diverse... se io non fossi ciò che sono... credo che saremmo stati felici insieme».
Mycroft si accigliò e posò con cautela le mani sul tavolo. «E anche Sherlock la pensa così? È per questo che voleva redimerti? Perché... Perché ti ama?».
«Amore... Oh, magari!», esclamò ridendo, per poi abbandonarsi allo schienale della sedia e guardare il soffitto. «Diciassette anni fa, forse, prima che gli spezzassi il cuore...». Tornò a guardarlo negli occhi e sorrise furbescamente, le mani intrecciate sotto il mento. «Ma non sono venuto qui per parlare del passato».
«Giusto, tu sei uno che guarda sempre al futuro». Mycroft indicò i documenti e gli spiegò: «Apponendo una firma lì sotto accetti che tua figlia frequenterà l'istituto per giovani dotati in cambio del tuo silenzio e della distruzione di ogni prova fisica in tuo possesso che attesti l'esistenza di Sherrinford».
«Isola segreta per isola segreta, mi pare giusto», esclamò Lupin con una scrollata di spalle. Prese in mano la penna, ma prima di apporre la propria firma alla fine della pagina scritta fitta fitta disse: «E per quanto riguarda l'omicidio di Magnussen? Ti ricordo che possiedo i filmati non truccati dai tuoi uomini. Vuoi lasciarmi un'arma di ricatto del genere?».
Mycroft si passò una mano sul volto. «Che cosa vuoi?».
Arsène gli rivolse un largo sorriso. Chiuse la cartelletta fermandovi i fogli con la penna e gliela passò facendola scivolare sulla lucida superficie del lungo tavolo.
«Avanti, non fingere di non avere pronto un asso nella manica», gli disse con tono divertito. «Credi mi sia dimenticato del furto di cui mi avete accusato tu e Sherlock?».
Mycroft deviò il suo sguardo, forse per non fargli vedere il sorrisino che gli aveva incurvato gli angoli della bocca. Il ladro allora si alzò e andò a sedersi sul bordo del tavolo, a gambe accavallate e coi palmi delle mani posati sulla superficie in mogano.
«Forse a Sherlock hai detto che si trattava solo di un modo per attirarmi allo scoperto, ma io so che Mycroft Holmes non fa mai nulla per bontà. Ho fatto qualche domanda in giro e sai, un uccellino mi ha detto che l'ambasciata italiana...».
«Hai ragione», lo interruppe l'uomo, incrociando i suoi occhi verdi. «Quando ho organizzato il furto del "Leda col cigno" avevo un doppio fine».
«Triplo fine», lo corresse. Con un sorriso smagliante, aggiunse: «Sii sincero, per favore».
Il maggiore dei fratelli Holmes roteò gli occhi. «E va bene».
«Quindi, se ho fatto bene i conti...». Arsène saltò giù dal tavolo con agilità, nonostante le ferite riportate appena tre giorni prima, e contando sulle dita riepilogò: «Hai rubato la tela al buon professor Melas promettendogli che gliel'avresti restituita e gli hai rifilato una copia, anche se ben fatta. Hai preso accordi con l'ambasciata italiana per uno scambio e anche a loro hai dato un'imitazione. Ora mi chiedo... Dov'è finito l'originale?».
Mycroft si alzò, raggiunse una piccola ma profonda cassaforte nascosta dietro delle mensole della libreria e tirò fuori un cilindro di plastica che fece arricciare il naso del Ladro Gentiluomo quando se lo vide arrivare tra le braccia.
«È così che tratti le opere d'arte?», gli domandò, irritato, mentre con estrema cautela estraeva il dipinto perduto di Leonardo da Vinci e lo srotolava sul tavolo. «Ora capisco perché le donne ti stanno alla larga. Tieniti stretta quella che hai, mi raccomando».
Mycroft rimase in silenzio a guardare Arsène mentre tirava fuori una lente d'ingrandimento oculare e si chinava sulla tela come un perito per verificarne l'autenticità. L'esame durò parecchi minuti, in cui il maggiore degli Holmes ebbe più volte la tenzione di dirgli di darsi una mossa, spazientito. Alla fine però il ladro si sollevò e sorrise, quasi commosso.
«Meraviglioso», esalò estasiato.
«Per l'amor di Dio, è solo un disegno!».
Arsène lo guardò come se avesse appena insultato sua madre, ma decise di soprassedere scuotendo il capo e riarrotolò l'inestimabile dipinto. Poi prese la penna e tolse il cappuccio con i denti, posò la punta sul foglio ma ci ripensò ancora una volta.
«Che altro vuoi, Arsène?!», sbottò esasperato Mycroft, le mani posate sulla nuca.
Il ladro si tolse il tappo della stilografica dalla bocca e, serissimo, rispose: «Voglio incontrare il Vento dell'Est».
Mycroft si esibì in una rarissima espressione di sorpresa ed impiegò diversi secondi per riprendersi e guardarlo con rabbia.
«No. Assolutamente no. Le sono bastati cinque minuti con Moriarty per stravolgere la vita di Sherlock, non oso nemmeno pensare che cosa...».
«Poco fa non hai detto che non sono un criminale?», lo interruppe.
«No, ho detto che non sei un criminale come gli altri!».
Arsène alzò le mani in segno di resa e a passi lenti, senza mai interrompere il contatto visivo, lo raggiunse dall'altro lato del tavolo per poter parlare a bassa voce e con tono quasi rassicurante.
«Anche se firmassi quei fogli niente mi cancellerà dalla mente ciò che so. Potrei andare a farle visita da solo e nemmeno te ne accorgeresti, o lo faresti quando sarebbe ormai troppo tardi. Questo lo sai. Perciò non credi che sia meglio con te come supervisore?».
Mycroft chiuse gli occhi e pensò alle terribili scelte che aveva commesso, ben deciso a non volerne fare altre. Riaprì gli occhi e sospirando col naso annuì con un cenno del capo a cui Arsène rispose con un veloce abbraccio. Il ladro poi si voltò, si allungò sul tavolo per recuperare penna e documenti e firmò con la sua calligrafia elegante e svolazzante.
Con lo stesso sorriso eufurico di un bambino ad un parco divertimenti esclamò: «Allora, quando partiamo?».
«Subito», rispose mogio Mycroft. «Prima è, meglio è. Devo solo chiamare il pilota».
Arsène sussultò a quelle parole. «Pilota?».
Mycroft si voltò, confuso, ma quando lesse sul suo volto la paura si ritrovò a sogghignare. «Sherrinford si trova su un'isola, pensavo lo sapessi».
«Certo, ma è proprio necessario volare? Non potremmo... che so, andare in nave?».
«Ci metteremmo troppo. Ma non ti preoccupare, ti terrò la mano per tutto il tempo».
Arsène strinse i denti e si infilò il cappotto per seguirlo fuori dalla casa.
«Molto divertente», borbottò e guardò il cielo sperando in una bufera di neve, ma il sole del pomeriggio splendeva in un cielo incredibilmente sgombro per il periodo.

Arsène scese dall'elicottero e rimase per qualche secondo accucciato a terra, con le mani strette a pugno nella sabbia e gli occhi chiusi, il respiro che andava a ritmo delle onde che si infrangevano sulla riva.
«Non vomiterai, spero», esclamò Mycroft.
Il ladro lo azzittì in francese e poco dopo si sollevò, si sfregò le mani per levare i granelli di sabbia dai guanti candidi e poi lo raggiunse alzando il bavero del cappotto grigio.
Mycroft non commentò il suo comportamento orgoglioso - d'altronde c'era abituato con suo fratello - e dalla spiaggia, dove li attendevano diversi uomini armati e il nuovo direttore, furono scortati all'interno della struttura di contenimento top secret nella quale erano rinchiusi i peggiori criminali mai visti, la feccia della feccia, gli irrecuperabili il cui unico scopo era quello di servire - in svariati modi - il governo britannico.
Una volta superati diversi livelli di sicurezza raggiunsero il cuore della prigione e infine la cella di vetro di Eurus Holmes, la quale, con indosso la solita divisa bianca e i lunghi capelli sciolti, dava loro le spalle.
Arsène si avvicinò piano, scrutandola con le stesse movenze di un felino, e si fermò quando raggiunse la linea tratteggiata sul pavimento. Nonostante ci fosse un vetro antiproiettile a dividerli era comunque richiesta una distanza di sicurezza:  questo a dimostrazione di quanto quella donna fosse pericolosa.
Le luci si accesero sopra la sua testa, rendendo l'ambiente ancora più claustrofobico, ed Eurus si alzò dalla panca di pietra per osservare il nuovo visitatore.
«Sorella, ti presento Arsène Lupin», ruppe il silenzio Mycroft, schiarendosi la gola. «Arsène, questa è mia sorella minore, Eurus».
Arsène sollevò una mano in segno di saluto, le labbra tirate. «Non posso dire che è un piacere, lo ammetto».
La donna non sbatté nemmeno le palpebre e il ladro guardò il maggiore degli Holmes in cerca di spiegazioni.
«Si rifiuta di parlare con chiunque. L'unico che riesce a comunicare con lei, tramite il violino, è Sherlock».
Arsène accettò quella risposta e tornò ad osservarla. I due rimasero in silenzio a guardarsi per più di trenta secondi, fino a quando il Ladro Gentiluomo non sospirò esclamando: «No, non ci riesco. Mi dispiace».
«Di che cosa stai parlando?», gli domandò Mycroft, aprendo e stringendo i pugni dietro la schiena, in ansia.
Ma Arsène non lo degnò nemmeno di uno sguardo ed abbozzando un sorriso riprese: «Ed è buffo, lo sai? Perché proprio questa mattina ho detto a Sherlock di credere nelle seconde occasioni, mentre lui sostiene che certi errori non possono essere perdonati. Guardandoti, cercando di immaginare i motivi per cui hai fatto soffrire così tanto Sherlock... non riesco proprio a perdonarti. I ruoli si sono invertiti, a quanto pare. Spero almeno tu ti renda conto di che fortuna sfacciata hai avuto nell'avere due fratelli del genere». Le rivolse un'occhiata severa e le puntò il dito contro: «Comunica questo a Sherlock la prossima volta che viene a trovarti».
Arsène abbassò lo sguardo, scuro in volto, e fece per tornare da Mycroft, bisognoso d'aria, ma successe qualcosa di incredibile: Eurus parlò.
«All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne / Confortate di pianto è forse il sonno / Della morte men duro?», recitò con voce monocorde, arrochita dal lungo silenzio ma decisa, con l'unico intento di attirare la sua attenzione. La ottenne.
Arsène si paralizzò sul posto, gli occhi sbarrati e un brivido ad attraversargli la spina dorsale. Si girò piano ed incrociando il suo sguardo, ancora fisso su di lui, riprese da dove lei si era interrotta: «Ove più il Sole / Per me alla terra non fecondi questa / Bella d’erbe famiglia e d’animali».
E insieme conclusero quei primi, famosi versi dell'opera "Dei Sepolcri" di Ugo Foscolo: «E quando vaghe di lusinghe innanzi / A me non danzeran l’ore future, / Nè da te, dolce amico, udrò più il verso / E la mesta armonia che lo governa».
Arsène si ritrovò col volto rigato di lacrime e se lo asciugò distrattamente col fazzoletto da taschino, tanto sconvolto ed investito dai ricordi da tremare.
Durante le settimane trascorse come prigioniero di quei trafficanti di bambini, i quali venivano venduti oppure sfruttati in un giro di prostituzione minorile, Raoul aveva avuto tra i suoi numerosi clienti fissi un professore di letteratura il quale aveva preso l'abitudine di portargli in regalo delle raccolte di poesie.
La prima volta che si era imbattuto in quel componimento poetico non ci aveva capito molto - aveva solo tredici anni allora - ma era rimasto affascinato dai significati che era riuscito a cogliere. L'aveva letto e riletto, tanto da impararlo a memoria in francese quanto in italiano, e quando, dopo il primo tentativo fallito di fuga, uno dei bambini più piccoli gli aveva chiesto di cantargli una ninna nanna, le parole di quella poesia erano state le prime gli erano venute in mente. Così era nata la canzone che canticchiava sottovoce quando era nervoso o preoccupato: lo calmava all'istante.
Poche persone conoscevano quella storia - tra cui Victoire e Clotilde - e non si spiegava come Eurus Holmes avesse scoperto quel dettaglio così intimo della sua vita passata. Che fosse davvero così intelligente come gli aveva detto Mycroft durante il breve viaggio in elicottero? Tanto da sembrare all'apparenza divina?
Arsène, sotto lo sguardo confuso e sempre più agitato del maggiore dei fratelli Holmes, si riavvicinò al vetro e quella volta oltrepassò la linea per posare una mano sulla superficie trasparente.
«E così mi conosci», le sussurrò, tirando su col naso con un lieve sorriso. «Questo non cambia le cose però. Devi dire a Sherlock che ti dispiace per aver ucciso il suo migliore amico, per averlo ingannato e per averlo costretto a strapparsi il cuore dal petto. Va bene anche una bugia per quanto mi riguarda. Fallo come regalo di Natale».
Il Vento dell'Est annuì con un brevissimo cenno del capo e Lupin, ritenendosi soddisfatto, si allontanò dal vetro. La sua voce lo raggiunse di nuovo quando aveva ormai affiancato Mycroft.
«Grazie per averlo salvato, diciassette anni fa».
Arsène abbassò il capo, scosso da una lieve risata. «Come diavolo fai?».
«Salvato? Di che sta parlando?», gli chiese Mycroft, pallido.
«Il passato è passato», replicò, posandogli una mano sulla spalla. Poi, rivolgendo lo sguardo verso Eurus, aggiunse: «Non c'è bisogno che mi ringrazi. È stato un piacere».
«Esigo delle spiegazioni», disse ancora Mycroft, contenendo a stento la rabbia.
Arsène sbuffò e lo prese a braccetto per avviarsi verso l'ascensore.
«Sherlock mi ha chiesto di mantenere il segreto, non parlerò di certo dopo diciassette anni».
Salirono e prima che le porte si chiudessero il Ladro Gentiluomo salutò Eurus con un cenno della mano, senza però riuscire a liberarsi dell'idea che lui fosse proprio come lei: imprigionato sotto una campana di vetro, inavvicinabile per chiunque tranne poche, rare eccezioni. Entrambi erano rimasti due bambini, feriti nel corpo e nell'anima da quel mondo che non li comprendeva, e in qualche modo Sherlock era riuscito ad avvicinarsi ad entrambi, facendo da tramite ed aiutandoli a sentirsi meno soli.
«Arsène...».
Il ladro sbatté le palpebre, tornando alla realtà, e si rese conto di aver ripreso a piangere. Guardò Mycroft con la coda dell'occhio e si asciugò le lacrime col fazzoletto.
«Sto bene», mentì abbozzando persino un sorriso. «Grazie per avermi portato qui, è stato molto... istruttivo».
Holmes sospirò. «Mi prometti che manterrai il segreto?».
«Non ti preoccupare, sono bravo a mantenere i segreti».
Gli diede un'altra pacca sulla spalla e gli strizzò l'occhio, poi uscì dalla porta blindata ringraziando gli uomini di guardia sollevandosi un cilindro invisibile.
Arsène venne inglobato dalla luce del sole e Mycroft lo guardò aprire le braccia, il volto alzato al cielo, e respirare avidamente. Era inutile però: menti come le loro, e lui lo sapeva bene, avrebbero sempre avvertito il mondo circostante come una prigione.

***

Ganimard salì all'ultimo piano del comando ed entrò nell'ufficio di Dudouis. Si avvicinò alla scrivania e prese il segnaposto placcato d'oro con scritto il nome dell'Ispettore Capo, lo strinse tanto forte tra le mani da sbiancarsi le nocche e poi si diresse verso la finestra da cui poteva vedere in lontanza la Torre Eiffel illuminata a festa, ancora più bella nel cielo venato dei colori del tramonto: rosa, viola e blu.
Era contento che Sherlock fosse stato scagionato da ogni accusa, ma non aveva osato chiedere a lui o peggio ancora a Mycroft come fosse morto Magnussen: non l'avrebbe sopportato se avesse scoperto di essere stato ingannato da qualcun altro che aveva preferito agire al di sopra della legge perché era più facile, o più proficuo. Anche lui si sarebbe risparmiato un sacco di drammi se avesse lasciato perdere la battaglia intrapresa contro Arsène Lupin, ma ne andava della sua integrità di poliziotto. Gli avevano insegnato che la legge era uguale per tutti e ci credeva fermamente, per questo sarebbe stato un dolore troppo grande se Sherlock si fosse rivelato un assassino.
Un leggero bussare contro lo stipite lo fece voltare verso la porta aperta, dove incrociò lo sguardo di Folefant.
«Che cosa ci fai tu qui?», gli domandò Ganimard. «Non ce l'hai la ragazza?».
Il giovane scosse il capo, senza perdere il sorriso. «Nossignore».
«Meglio così», sussurrò, così piano da non essere sentito.
«Sono venuto a cercarla perché ho appena ricevuto una chiamata da Sherlock Holmes. Ha detto che ha provato a chiamarla, ma...».
«Ho dimenticato il cellulare a casa», mentì. «Che cosa voleva?».
«Avvisare che Arsène Lupin rienterà a Parigi nella notte. Non sa ancora con quale mezzo, ce lo farà sapere».
Ganimard grugnì in segno di assenso e tornò a guardare la sua città, quella città bella e maledetta che col suo fascino avrebbe attirato a sé chiunque vi fosse nato e cresciuto, senza distinzione di razza, ceto sociale o fedina penale.
«Va tutto bene, ispettore?», gli chiese ad un tratto Folefant, cauto.
«No, non va tutto bene», ammise.
«C'è... C'è qualcosa che posso fare per lei?».
Ne dubitava. Dopo le vacanze Dudouis avrebbe rivelato alla stampa di essere stato nel libro paga di Arsène Lupin, si sarebbe addirittura addossato la colpa della sua evasione salvandolo così da un ulteriore scandalo, e poi, non contento, l'avrebbe proposto come suo successore al posto di Ispettore Capo.
Justin si voltò e gli rivolse uno dei suoi rari sorrisi. «Potresti rispondere ad una domanda con sincerità?».
«Sempre, ispettore».
A quella risposta Ganimard si avvicinò alla poltrona di Dudouis, la girò verso di sé e vi si lasciò cadere con tutto il proprio peso, poi la ruotò verso la scrivania e con le mani intrecciate sullo stomaco gli chiese: «Mi ci vedi come Ispettore Capo, Marcel?».
La domanda lo stupì tanto che non riuscì a dare una risposta immediata. Inoltre, il cellulare dell'ispettore iniziò a squillare nella tasca interna della giacca - smascherando la sua bugia sul perché non avesse risposto alla chiamata di Sherlock Holmes - e gli impedì di parlare.
«Cèlestine», esclamò l'uomo, raddrizzandosi sulla poltrona. «Ciao, va tutto bene? Stasera? Ma sì, certo, va benissimo. Sarei pazzo a rifiutare. Allora a dopo».
Con gli occhi più sereni, Ganimard si alzò e fece il giro della scrivania per andare a posare la mano sulla spalla destra del poliziotto.
«Pensaci, per favore», gli disse. «Hai tempo fino alla fine delle vacanze di Natale per darmi una risposta».
Dopodiché uscì dall'ufficio e con una sigaretta tra le labbra andò alla ricerca di un fioraio ancora aperto.

***

Molly, ferma davanti alla finestra che dava sulla strada, fu scossa da un brivido quando alle dieci in punto un SUV nero si fermò davanti al suo palazzo. Ne scese un uomo vestito in giacca e cravatta, dalle spalle larghe e la testa rasata, il quale senza esitazioni alzò gli occhi verso la sua finestra per rivolgerle un timido sorriso nonostante la stazza. Non c'erano dubbi: era uno degli uomini di Arsène.
Lasciò andare la tenda e si appoggiò allo schienale del divano con le mani, gli occhi stretti a frenare le lacrime. Quando si tirò su andò a passo sicuro verso la propria camera da letto, dove aveva già preparato un trolley con dentro l'indispensabile.
Senza soffermarsi a guardare all'interno della camera degli ospiti in cui, più di una volta, aveva trovato Sherlock rannicchiato sul letto, tornò in salotto trascinandosi dietro quella valigia che sembrava contenere il peso del mondo.
Anche il salotto e la cucina erano pieni di ricordi che lo riguardavano, perciò cercò di concentrarsi su quelli in cui lui non c'era: quando aveva fatto entrare Arsène per la prima volta, quando avevano cenato insieme a Geneviève, quando aveva trovato padre e figlia seduti sotto l'albero di Natale che avevano addobbato per farle una sorpresa e quando lei e il ladro si erano ritrovati insieme su quel divano a parlare fino a notte fonda.
Un sorriso le increspò le labbra salate per via delle lacrime che alla fine non era riuscita a trattenere, ma quando spense le luci del finto abete i ricordi in cui Sherlock era il protagonista tornarono a prevalere, prepotenti e dolorosi.
Spostò gli occhi verso il bancone in marmo dell'isola della cucina, lo stesso bancone dietro il quale quel giorno si stava preparando il té e il detective più famoso d'Inghilterra le aveva chiesto di dirgli "Ti amo".
Si portò le mani sulla bocca per soffocare i singhiozzi e rimase così, ferma immobile, per diversi secondi. Raccimolando il coraggio aprì la porta e senza più guardarsi indietro portò fuori il trolley. Chiuse a chiave e poi andò dalla sua vicina, la quale si presentò in vestaglia.
«Tesoro, che cosa ti è successo?», le chiese la signora Lee non appena si accorse delle sue condizioni, preoccupata.
«Non è nulla», cercò di rassicurarla stirando un sorriso. Quindi le porse le chiavi del suo appartamento e una busta chiusa: «Devo andare via per un po'. Se qualcuno dovesse cercarmi può dargli questa da parte mia?».
«Qualcuno? Qualcuno chi, cara?».
Molly sorrise amaramente. «Non so nemmeno se passerà. Adesso vado, grazie di tutto e scusi se l'ho disturbata a quest'ora».
«Ma no, figurati...».
L'anziana rimase sulla porta fino a quando le porte dell'ascensore non si chiusero e Molly, guardandosi allo specchio, si asciugò il volto ed assunse un'espressione decisa.
Non c'era tempo per i ripensamenti. Doveva pensare a se stessa, pensare a stare bene, e aveva preso la decisione giusta.
Aperta la porta dell'androne, l'uomo di Arsène le andò incontro per aiutarla col trolley e mentre lo seguiva le suonò il cellulare nella tasca del cappotto.

Rimani.
SH

E così Arsène l'aveva avvisato.
Molly strinse forte il cellulare e guardò il cielo scuro in cui non brillava nemmeno una stella. Il suo sospiro si condensò in una nuvoletta di vapore.
«Andiamo, miss Hooper?», le chiese l'autista, aprendole la portiera del SUV.
Questa volta un SMS non era sufficiente.
Molly annuì con un cenno del capo e salì sul mezzo. L'uomo si sedette dietro il volante e mise in moto, ma dopo appena un paio di metri fu costretto a frenare a causa di un'auto sportiva color rosso scuro che sopraggiunse a folle velocità e con una sgommata si fermò di traverso in mezzo alla strada, impedendo loro di passare.
Molly si sporse tra i sedili anteriori per vedere chi ci fosse alla guida e riconobbe immediatamente Sherlock, per questo fermò l'uomo di Lupin quando questi si infilò la mano destra all'interno della giacca, molto probabilmente per estrarre una pistola.
«Ci penso io», lo rassicurò e scese dal SUV per andare incontro al detective, il quale era sceso dall'Aston Martin della signora Hudson e si stava arruffando i capelli con una mano.
«Che cosa pensi di fare?», lo fronteggiò, stupendo persino se stessa per l'aggressività della sua voce.
«Ti impedisco di commettere l'errore più grande della tua vita».
«Oh, grazie ma no, grazie. Levati di mezzo, per favore».
Gli aveva già dato le spalle, intenzionata a risalire sul SUV che l'avrebbe portata lontana da lui una volta per tutte, quando il detective l'afferrò per il polso e l'attirò a sé fino a trovarsi petto contro petto e i volti a pochissimi centimetri di distanza l'uno dall'altro.
«Sherlock, ti prego...».
Ma lui non la lasciò continuare: le portò una mano sulla nuca e la baciò sulle labbra, quasi con irruenza. Molly fu altrettanto rigida all'inizio, ma lentamente si sciolse e senza osare approfondire quel contatto gli portò semplicemente le mani fredde ai lati del viso.
L'aveva sognato centinaia, migliaia di volte ed era proprio come nei film strappalacrime che le piacevano tanto, se non addirittura meglio.
Quando Sherlock si scostò aprì gli occhi azzurri per incrociare i suoi e le ripeté a parole: «Rimani».
Dopo quel bacio era chiaro che sarebbe rimasta, ma quella era forse l'unica occasione che aveva per farsi dire la verità.
«Perché dovrei?», gli domandò.
«Perché ho bisogno di te nella mia vita, Molly Hooper. Adesso non c'è tempo, ma ti prometto che ti spiegherò tutto quanto».
Molly inarcò le sopracciglia, circospetta. «Tutto?».
«Tutto, te lo prometto».
«Va bene allora. Rimango».
Sherlock sorrise e quel sorriso le fece mancare un battito: non tanto perché era ancora più bello quando era felice, ma perché ne era lei la causa.
Si allontanò dal suo corpo caldo, nonostante fosse l'ultima cosa al mondo che volesse fare, e andò dall'uomo di Lupin per rifiutare i suoi servigi. Mentre lui le recuperava il trolley dal bagagliaio, Sherlock prese qualcosa dal sedile del passeggero e lo consegnò all'autista: un regalo di Natale, con tanto di fiocco rosso.
«Potresti consegnarlo a Geneviève da parte mia?», gli chiese Sherlock.
Il membro della banda del Ladro Gentiluomo afferrò con cautela il pacco e dal bagagliaio ancora aperto estrasse un affare simile ad un metal detector portatile.
«Non si tratta di una bomba», gli disse il consulente investigativo, un po' annoiato.
L'uomo però non si fidò e lo esaminò comunque. Quando fu sicuro che non si trattasse di una minaccia per la sicurezza della figlia del suo capo o del suo staff, promise che gliel'avrebbe portato.
«Grazie tante. Arrivederci!».
Sherlock afferrò Molly per mano e la trascinò all'auto sportiva. Incastrò il suo trolley nel bagagliaio, poi si mise al volante e fece ruggire il motore.
«Dove andiamo?», gli domandò l'anatomopatologa, confusa e al contempo eccitata.
«A prendere John».
«E poi?».
Il detective sogghignò e tirò fuori dalla tasca del cappotto il cellulare, sul cui schermo si vedeva una mappa con un puntino che stava iniziando a muoversi. Molly corrugò la fronte e solo quando il SUV svoltò nella traversa alle loro spalle capì che Sherlock doveva aver messo un localizzatore GPS in quel pacco regalo.
«Andiamo a salutare Geneviève», le disse, confermando la sua ipotesi.
L'anatomopatologa sorrise a sua volta e si abbandonò contro il sedile, felice come non si sentiva da tanto, troppo tempo.
Aveva iniziato a perdere le speranze, ma adesso non aveva più dubbi: i lieto fine esistevano davvero.

***

«Mangia i tuoi broccoli, Théa».
La più piccola mise su il broncio e scosse il capo. I suoi riccioli scuri seguirono ogni suo movimento in modo così adorabile che Ganimard le portò una mano sulla testa per accarezzarli e poi si chinò verso di lei facendo l'occhiolino ad Emélie, la maggiore.
«Mamma, allora pensi che quest'anno Babbo Natale ci porterà tutti i regali che abbiamo chiesto?», le domandò e Cèlestine la guardò sorridendo.
«Siete state delle brave bambine?».
Sfruttando la sua distrazione, Justin aprì la bocca e fece segno a Théa di imboccarlo. La bambina si coprì la bocca con una mano per non ridere e riempì la bocca del padre con i broccoli, ma la madre si voltò prima del previsto e li sorprese.
«Che furfanti!», esclamò fingendosi arrabbiata, con le mani sui fianchi, e reprimendo faticosamente un sorriso.
Ganimard masticò rischiando di soffocarsi per la risata contagiosa delle figlie ed incrociando gli occhi dell'ex-moglie le lanciò uno sguardo carico d'amore a cui lei rispose arrossendo e sistemandosi dietro l'orecchio una ciocca di capelli rossi.
In quell'istante il suo cellulare iniziò a suonare sul bancone da bar che divideva salotto e cucina e le risate di Théa e Emélie si spensero. Justin si alzò e lo prese per controllare chi lo stesse cercando: Folefant. Probabilmente Sherlock gli aveva fatto sapere con quale mezzo Arsène Lupin sarebbe tornato in patria.
«Papà, devi andare al lavoro?», domandò la più piccola, con gli occhi tristi.
Ganimard rifiutò la chiamata e non contento spense il cellulare; quindi sorrise alla figlia ed accarezzando anche i capelli di Emélie tornò a sedersi.
«Possono cavarsela anche senza di me», rispose e lo sguardo che Célestine gli rivolse fu lo stesso di quando aveva detto «Sì» alla domanda: «Mi vuoi sposare?». Al contempo però era anche triste, perché se solo l'avesse capito prima che bastava quello per farla felice - non sempre, giusto ogni tanto - allora si sarebbero risparmiati un sacco di dolore.
«Allora, dov'eravamo rimasti?», esclamò risedendosi. «Li finiamo quei broccoli?».
Théa guardò i piccoli alberelli nel suo piatto, ne prese uno tra le dita e se lo portò alle labbra per sbocconcellarlo.
«Brava la mia bambina», le disse Justin, baciandola sul capo.

***

La banchina del binario da cui sarebbe partito l'Eurostar diretto a Parigi non era affollatissima visto l'orario, ma diversi passeggeri erano stati accompagnati da familiari o amici che ora stavano attendendo la partenza comunicando a gesti attraverso i finestrini. Anche Geneviève avrebbe voluto qualcuno da salutare, ma sapeva che non sarebbe mai successo.
«Va tutto bene, bonbon?».
La ragazzina si voltò verso Victoire, seduta di fronte a lei ed intenta a sferruzzare una lunga sciarpa che, le aveva già anticipato, sarebbe stata il suo regalo di Natale per lei.
«Sì, è solo questa parrucca... Mi dà fastidio! Era proprio necessaria?».
La donna le allontanò delicatamente la mano con cui si stava grattando la testa. «La polizia ti sta cercando, perciò sì, è necessaria».
Geneviève sbuffò e sfruttò il riflesso del finestrino per osservare quell'irriconoscibile se stessa: oltre al finto caschetto nero portava un paio di occhiali squadrati che François aveva molto apprezzato e Victoire le aveva disegnato delle lentiggini sul naso e sugli zigomi. Chiunque avrebbe avuto difficoltà a riconoscerla, chiunque tranne forse...
«Sherlock Holmes mi ha chiesto di consegnarle questo, signorina».
La ragazzina trasalì e fissò il pacco regalo che Ernest le stava porgendo. Stese le mani per afferrarlo, ma Victoire la batté sul tempo e prima ancora che potesse aprire bocca aveva già strappato via la carta a tema natalizio con cui erano state impacchettate un paio di grosse cuffie bluetooth di un bellissimo rosso lucido.
«Ehi, dammelo subito!», riuscì ad urlare alla fine, senza preoccuparsi di attirare l'attenzione degli altri passeggeri: non sapeva come, ma suo padre aveva prenotato un'intera carrozza per la sua banda.
«Da quanto tempo lavori per mio figlio, Ernest?», domandò con fare autoritario Victoire.
«Un anno, signora».
«Ora capisco perché ti sei fatto fregare».
«Che cosa...?», iniziò a chiedere Geneviève, ma si bloccò quando la donna tirò fuori quella che sembrava in tutto e per tutto una pedina da dama, solo elettronica e con una lucetta rossa che si accendeva e spegneva ad intermittenza.
«Asino!», lo rimproverò ed alzandosi pestò il piccolo segnalatore GPS, rompendolo in mille pezzi. Poi si toccò dietro l'orecchio con naturalezza e con voce di nuovo composta esclamò: «Caro, siamo in pericolo».
Arsène dovette chiederle quale fosse il problema, al che Victoire rispose: «Sherlock Holmes potrebbe essere già qui».
Ed era proprio così. Geneviève vide il detective correre verso il loro binario e non era solo: con lui c'erano John Watson, Rosie e Molly Hooper. Senza pensare alle conseguenze, la ragazzina si alzò e sgusciò tra gli uomini di suo padre prima che Victoire potesse gridare loro di fermarla. Raggiunse la porta del treno, ma fu lì, ad un passo dall'uscita, che si imbatté in un ostacolo che non poteva in alcun modo superare: suo padre.
«Il treno sta per partire, signorina», le disse pacato, ma con espressione intransigente.
«Ti prego, io... devo salutarli», sussurrò, sull'orlo delle lacrime. «Ci metterò due minuti. Solo due minuti, te lo prometto».
«Geneviève!», gridò Sherlock e lei, sentendosi chiamare, passò sotto il braccio di suo padre per saltare sulla banchina e gettarsi al collo del detective, il quale la afferrò e le fece fare addirittura una mezza giravolta.
«Abbiamo fatto in tempo, menomale», esclamò John, sollevato.
Sherlock la riportò coi piedi per terra e la guardò in volto, asciugandole la lacrima che le era scivolata sulla guancia.
«Così ti si rovina il trucco», le disse con un lieve sorriso sulle labbra.
Lei ridacchiò e si scostò a sua volta per lasciarsi stringere da Molly, la quale le baciò la fronte e poi, massaggiandole le braccia, mormorò: «Quello che in realtà voleva dire Sherlock è che sei più bella quando sorridi».
«Sì, l'avevo immaginato».
Giunta davanti al dottor Watson, suo zio, osservò la sua mano stesa e la strinse impacciata.
«So che non abbiamo legato molto in queste settimane, però voglio che tu sappia che fai parte della famiglia ora e che ci sarà sempre posto per te a casa mia. Intesi?».
Geneviève annuì e non riuscì a tenere a freno le lacrime, per questo gettò le braccia intorno al suo collo e nascose il volto contro la sua spalla. John, preso alla sprovvista, impiegò un paio di secondi per ricambiare la stretta ed accarezzarle la schiena.
«E tu, Arsène? Hai davvero intenzione di andartene senza salutare?».
Il controllore che fino ad allora era rimasto in attesa sulla porta della carrozza alzò lentamente il capo ed arricciò il naso sopra i finti baffi biondi.
«Sei davvero fenomenale, Molly Hooper», esclamò e scendendo le scalette si tolse il cappello della compagnia ferroviaria, rivelando i suoi capelli biondo platino e quegli occhi verdi così vivaci e resi lucidi dalle lacrime.
L'anatomopatologa lo strinse forte tra le braccia ed alzandosi in punta di piedi gli sussurrò all'orecchio: «Mi ha baciata».
«Se stai cercando di farmi ingelosire complimenti, ci stai riuscendo».
Ovviamente Molly non poteva sapere che quella frase valeva tanto per lei quanto per Sherlock, avendo entrambi rubato un pezzo del suo cuore.

Arsène cercò lo sguardo del detective, il quale corrugò la fronte domandandosi di che cosa stessero parlando, e sorridendo aggiunse: «Sono felice per te, Molly. Lo terrai d'occhio, oui?».
«Certo. Grazie di tutto». Gli lasciò un bacio sulla guancia e sciolse l'abbraccio, ma prima di allontanarsi del tutto esclamò: «Salutami Raoul, va bene?».
Il Ladro Gentiluomo sorrise e le strizzò l'occhio. «Sarà fatto».
Mentre lei raggiungeva Geneviève e Rosie, John si avvicinò per stringergli la mano.
«È stato un piacere conoscerti, dottore», esordì Arsène.
«Anche per me».
«Dici sul serio?».
L'ex-soldato si strinse nelle spalle, incerto. «L'ho detto una volta, fattela bastare».
«Capisco. Grazie per avermi salvato».
John scrollò il capo e lasciò il posto a Sherlock. Si scrutarono per qualche secondo, poi incredibilmente fu il detective a fare il primo passo aprendo le braccia. Arsène non se lo fece ripetere due volte e strinse i pugni sulla sua schiena, il mento posato contro la sua spalla sinistra.
«Chi è Raoul?», gli domandò Sherlock.
«Stai rovinando il momento».
«È la mia specialità. Allora, chi è?».
«Un amico».
«Pensi che un giorno potrò conoscerlo?».
Arsène si allontanò quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi.
«Un giorno, forse».
Sherlock abbassò lo sguardo, come se si vergognasse, e disse a bassa voce: «Tu hai mantenuto la tua promessa, mentre io non sono riuscito a fare la mia parte. Mi dispiace».
«Ne sei proprio sicuro?».
Il detective alzò il capo, le labbra dischiuse, ma una voce femminile annunciò che il treno stava per partire, interrompendolo sul nascere.
Arsène si costrinse a sciogliere definitivamente l'abbraccio e porse la mano alla figlia, la quale la afferrò e sorrise guardando i volti delle tre persone che in poche settimane erano diventate tra le più importanti e care per lei.
«Grazie di tutto», disse inchinandosi come una vera lady.
Il Ladro Gentiluomo, nascondendo l'orgoglio, la accompagnò fino alla carrozza e le tenne la mano fino a quando non furono entrambi a bordo.
Arsène si voltò un'ultima volta e guardando Sherlock esclamò: «Sai, oggi pomeriggio ho conosciuto tua sorella. Per essere uno che non crede nelle seconde occasioni, devi volerle davvero molto bene».
«Sherlock ha una sorella?», fu il commento di Molly, rivolta a John.
La porta della carrozza si chiuse, impedendo loro di sentire la sua risata cristallina.
Sherlock e Arsène si scambiarono un ultimo sguardo e il detective gli fece segno di controllarsi la tasca della giacca. Il ladro lo fece e i suoi occhi si riempirono di lacrime nel ritrovarsi tra le dita il crocifisso della madre. Se lo portò alle labbra in un bacio e poi aprì la bocca per ringraziare il detective, ma il treno aveva già iniziato a muoversi.
John e Molly salutarono con la mano Geneviève, la quale si stava sbracciando da dietro il finestrino, poi rimasero per qualche secondo in silenzio a fissare la coda del treno che veniva inghiottita dal buio.
«Da quando hai una sorella?», ripeté la domanda Molly, quella volta ponendola direttamente al consulente investigativo, il quale alzò gli occhi verso la volta di vetro sopra le loro teste.
«Sarà una lunga notte», dedusse.
Quindi cinse le spalle della scienziata con un braccio e insieme a John e Rosie uscirono dalla stazione di St. Pancras. 




Note:
Scuola per giovani dotati = Istituto per giovani mutanti di Chales Xavier, X-Men
Wammy's House = Istituto/orfanatrofio frequentato da L, detective di Death Note
   
 
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