Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Koa__    23/01/2018    10 recensioni
Sherlock Holmes, eccentrico e severo professore di chimica a Oxford, vive la sua vita tra aule, laboratori e violino. Un'esistenza solitaria, senza amici, né amori. Un giorno, però, nella sua routine entra con prepotenza John Watson, un medico ex militare giunto da poco a Oxford in veste di professore.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Schubert, Fantasie in F minor
 
 



Il chiacchiericcio degli studenti che defluivano nei corridoi, era un fastidioso ronzio che il severo professor Holmes avrebbe facilmente paragonato a una stilettata nelle tempie. Massaggiarsi la radice del naso non fu sufficiente ad alleviare il mal di testa e visto che escludere i rumori avrebbe richiesto una massiccia quantità di tempo e un livello di concentrazione che al momento non possedeva, la sola cosa da fare era sopportare e sperare che passasse. Il che era decisamente una di quelle cose che non era capace di fare, Sherlock odiava aspettare. E tollerare la presenza altrui. E fingere che gli stesse bene un qualcosa che in realtà odiava. Era ciò che del suo modo di fare irritava di più gli altri, almeno a sua detta. Si trattava di una teoria priva di alcun fondamento, il più delle volte erano le scomode verità che snocciolava con fare da stronzo, a far fuggire la gente. Era meglio la solitudine, a certi idioti. Idioti come i suoi studenti, per esempio. In quanto a capacità alcuni erano notevoli, e questo non poteva negarlo. Tuttavia anche per loro valeva l’obbligo di tacere quando non gli veniva espressamente chiesto di parlare. E di che accidenti stessero discutendo quando avrebbero dovuto semplicemente andarsene, non ne aveva la benché minima idea. Sperava solo che si sbrigassero a lasciarlo solo o avrebbe seriamente avallato l’ipotesi di riportare con sé la pistola. La difficoltà stava nella consapevolezza di dover riflettere, ma il non riuscire in nulla di concreto. Quindi chiuse gli occhi e inspirò a fondo. Sarebbe stato saggio rintanarsi nello studio e serrare la porta a doppia mandata, però aveva un debole per l’eco che la musica produceva in quell’aula e, inoltre, c’era quel piccolo problemino da risolvere prima di iniziare a correggere i test. Un problemino biondiccio e con un paio di occhi straordinariamente blu. Erano passate più di due ore e John Watson ancora gli stava di fronte e, peggio, Sherlock aveva la sensazione che stesse per parlare con lui. Dopo essersi fatto largo tra la folla di ragazzi, si era fermato a qualche metro dalla cattedra e a guardarlo con quell’intenzione lì che hanno le persone che stanno per dire qualcosa. Al pensiero inspirò nuovamente, forse in cerca di un’idea giusta. Concentrazione. Aveva bisogno di calma e di riacciuffare i fili dei pensieri andati perduti. E fu allora che in suo soccorso, in quel tardo pomeriggio di quel famoso inizio d’ottobre, giunse la logica. La musica era la sola cosa in grado di riparare il suo animo e placare il subbuglio. L’unico mezzo per districare le ragnatele ammuffite del suo cervello.

«Schubert» disse. Poi il mondo intero fu della Fantasia in fa minore.

Sedeva alla sedia della scrivania con fare composto. Un fascio di fogli perfettamente ordinati erano stati sistemati alla sua destra. Gli occhiali da lettura calati sul naso gli conferivano un’aria matura e ancor più severa. Una penna rossa era stretta tra le dita e con il di lei cappuccio picchiettava nervosamente sulla superficie liscia del legno. Lo sguardo che correva svelto a leggere scritte disordinate sul primo dei compiti da correggere. Schubert risuonava da un piccolo stereo, nascosto in uno dei cassetti più bassi. Aveva congedato l’assistente, quindi non avrebbe avuto nessuno tra i piedi e sarebbe rimasto solo. Con lei. Sherlock Holmes adorava poche cose come la musica. Amava la Fantasia in fa minore, e in quella versione l’adorava ancor di più. Anche in quel tardo pomeriggio e con fin troppi pensieri da riallacciare, la delicatezza della melodia riuscì a placarlo. Come un balsamo, Schubert lenì i suoi nervi tesi, scacciando l’ombra di mal di testa che ancora persisteva. Delicate e leggere, riusciva a figurarsi le dita di Levine correre sulla tastiera e andare a comporre quell’armonia che scalfiva la durezza del suo cuore. Rilasciò un sospiro, quasi due. Mugolii impercettibili si levarono mentre, a occhi chiusi, tamburellava le dita sulla scrivania. Il suo trasporto era totale, si poteva dire assoluto. Di certo il sintomo di una felicità che era capace di rasserenargli la mente e metter fine al caos. Perfetta, quella Fantasia era perfetta. L’armonia era sapientemente incastrata alla melodia, adatta a sorreggere un canto dai risvolti imprevedibili. Fu solo dopo che ebbe riaperto gli occhi, che la grazia di quel prezioso istante si ruppe frantumandosi in mille e più pezzi. Con prepotenza, Sherlock Holmes tornò alla realtà e in una maniera brutale e meschina riprese coscienza di sé. Già perché ancora c’era John Watson con lui, se ne stava in piedi a pochi passi e lo guardava così come lo aveva guardato da che era entrato. Con un malcelato senso di rapito stupore. Nonostante la lontananza riusciva a sentire il suo respirare. Il profumo che si portava impregnato addosso. Il ticchettio dell’orologio allacciato al polso destro, che non era più abituato a mettere. Studiando il modo in cui permetteva alla penombra di avvolgerlo, Sherlock ebbe sensazione che la presenza stessa di quel professor Watson riuscisse a riecheggiare al pari di una eco, riverberando nel suo palazzo mentale. Sebbene stesse fermo e zitto e non facesse nulla di riprovevole, il disturbo che provava si accentuò, stringendogli di prepotenza stomaco e viscere. Il cuore mancò un battito e sul suo viso si dipinse l’alone del dubbio. Provò a distogliere le attenzioni, riportandole alla chimica e stando attendo a che non si notasse la confusione che lo divorava, ma non sapeva se fosse riuscito in qualcosa. Sherlock si sentì stupido, un idiota colossale. Era come se stesse posando gli occhi su quell’uomo per la prima volta, anche se lo aveva osservato per tutte e due le ore di lezione e al punto da poter dire di conoscerne ogni più piccolo segreto. Ad esempio, era certo si sarebbe fermato oltre l’orario di lezione e che non si fosse presentato semplicemente per assistere a chimica avanzata. Ma adesso che lo vedeva lì solo per lui, Sherlock riuscì a stupirsene. C’era qualcosa in quell’uomo che non capiva, che fuggiva al raziocinio. Al pari di una nota che schivava la melodia d’insieme, finendo per rendere stonata l’armonia. L’assurdo paradosso risiedeva nel fatto che John Watson era fondamentalmente un uomo ovvio. Lo era in tutte quelle parti di se stesso che sbandierava con così tanta determinazione, e probabilmente senza neanche saperlo. Lo era in quei cerchi scuri sotto agli occhi, segno di una notte al pub. Nei pantaloni mal stirati. Nel suo essere mancino. Nell’assenza di una fede nuziale, nelle macchie di caffè sul polsino sinistro della camicia. Era banale nel modo che aveva di usare un bastone da passeggio, per una ferita che non c’era. Era come se una miriade d’insegne luminose gli capeggiassero sopra la testa. Strano, pensò Sherlock, la più brillante di tutte riguardava proprio una di quelle domande a cui non era riuscito a rispondere.

Afghanistan o Iraq?

No, non era quella la “nota stonata” che percepiva posando lo sguardo su di lui. Quello lo considerava un semplice dubbio, una lecita curiosità da chiedere a un uomo dal passato così particolare. La sua ignoranza in politica internazionale era una di quelle cose che faceva inorridire suo fratello Mycroft, ma che l’Inghilterra fosse stata in guerra in medio oriente, lo ricordava. Non aveva idea come facesse ad avere simili nozioni per la mente, però era così. Quindi no, la nota a cui faceva riferimento riguardava altro. C’entrava più l’atteggiamento. John Watson aveva un insolito cipiglio addosso, atipico per un medico e una strana dolcezza che mai s’era vista in un soldato. Che fosse entrambe le cose era evidente, ma dove finiva uno e iniziava l’altro, Sherlock Holmes proprio non lo sapeva. La sua formazione militaresca la si percepiva distintamente dalla postura, dalle spalle dritte e il petto vibratamente in fuori. Aveva un accenno di ghigno in volto e le labbra erano incurvate di poco verso l’alto in un sorriso amaro. Lo sguardo, pacificamente rassegnato alla sofferenza, era reso più intenso dalla scarsa luce. Ora aveva rilasciato tutto il peso sul bastone e lo studiava da dietro un paio degli occhi più indecifrabili nei quali si fosse mai imbattuto. Sherlock era certo che non sarebbe mai riuscito a capire che cosa contenessero. Aveva fierezza in sé, malinconia, disillusione. Rabbia. E magari anche un senso di rivalsa? Non poteva dire d’aver capito tutto di lui e per quanto l’irritazione fosse impossibile da sedare, si disse che quello poteva attendere.

Fu con un movimento lento e delicato, pur senza levare l’attenzione dal primo foglio da correggere, che abbassò vistosamente il volume dello stereo. Schubert lo avrebbe ascoltato con attenzione più tardi e non importava il fatto che, di norma, avrebbe lasciato ad aspettare chiunque gli si fosse presentato davanti. Quel John Watson portava con sé fin troppe questioni ed erano tutte da sviscerare.

«Non ha risposto alla mia domanda.» La sua voce baritonale risuonò per l’aula, risultando più austera di quanto non fosse e sovrastando per intenzioni persino Levine e Kissin e il loro suonare. * Con gli occhi puntati sul foglio impiastricciato di formule, Sherlock non fece caso al leggero sobbalzare, all’espressione stupefatta e colpita che s’andava diramando sul volto di John Watson. Però notò lo stupore che impregnava i toni di una risposta balbettata nervosamente.
«Quale domanda?»
«Afghanistan o Iraq?» mormorò indicando la scritta alle sue spalle, che ancora capeggiava sulla lavagna. «L’avevo indirizzata a lei; non era evidente?» s’azzardò a chiedere, sollevando appena la testa in sua direzione con una certa confusione in viso. Quindi prese a fissarlo con più di un accenno di sincero sconvolgimento. Le persone erano sempre state così lente o era lui a esser sfortunato negli incontri? «Se è a conoscenza del fatto che nel mio corso ci siano ex militari in congedo con una zoppia psicosomatica, me lo dica, professore, perché avrebbe l’onore di vedermi stupito.»
«No, è che» iniziò a farfugliare ma, e probabilmente a causa del non capire, subito si fermò. Uno o due colpi di tosse spezzarono il silenzio sceso fra loro, però non furono sufficienti a dare a John il coraggio di riprendere in mano il discorso. Sherlock, a suo contrario, occupava quel teso non parlare con una muta opera d’attenta deduzione. Studiare le espressioni che s’aprivano sul suo viso era una sfida affascinante e andò avanti per tutto il tempo in cui John restò zitto. Era come se ogni cosa facesse o pensasse avesse un proprio universo alle spalle. Una serie di motivazioni tutte da scoprire. Ad esempio, aveva uno strano tic: si bagnava di continuo le labbra con la punta della lingua e Sherlock iniziò a chiedersi quale fosse la ragione. Un retaggio dell’Afghanistan e del caldo del deserto? O magari era un qualcosa di legato all’infanzia? Avrebbe dovuto sapere anche questo, ma nonostante il desiderio non disse nulla e passò oltre. Stringeva il manico del bastone con una forza decisamente eccessiva, il che era comprensibile data la tensione e quando era nervoso la bocca gli si deformava in una smorfia adorabile. No, buffa. Decisamente buffa, si corresse subito, maledicendosi. Per sua fortuna, a un certo momento John riprese a parlare e i fili dell’intricata mente di Sherlock Holmes si quietarono. Almeno in apparenza, dentro di sé restava sopito il desiderio di conoscerlo più approfonditamente. Una brama accantonata e subito dimenticata, per il momento.
«Non avevo capito fosse per me, e ora mi sento un cretino» riprese, grattandosi la nuca mentre si preoccupava di guardare la lavagna e la grande scritta.
«Il che è scontato, considerato che siamo qui da dieci minuti e ancora non mi ha risposto.» Sì, credeva di essere sulla strada giusta. Difficilmente sbagliava e ormai conosceva a memoria tutti i trucchi per sbrigarsela con le persone. Lì e adesso voleva rimanere solo ed era convinto di aver centrato il punto, che si sarebbe presto liberato di quel professor Watson. Poco importava che una parte di se stesso avrebbe tanto voluto infilare quel John sotto a un microscopio e analizzarlo da capo a piedi. Preferì evitare d’assecondare simili sciocchezze. La solitudine era l’unica cosa importante. D’altronde sapeva perfettamente come mai si era presentato a una sua lezione, attendendo più di due ore per potergli parlare. Inaspettatamente e sconvolgendo ogni geniale piano formulato dalla sua mente eccezionale, John Watson rise. Non era un qualcosa di esagerato o sguaiato, ma un sorriso aperto e spontaneo. Una risata bellissima, per quanto potesse sfiorarlo la cosa, ovvero molto poco. Riprendendo a fissare malamente i fogli da correggere, Sherlock si domandò la ragione di tanto divertimento. Aveva detto qualcosa di comico? Dubitava, perché lui non era mai divertente. In genere le persone ridevano di lui e non per qualcosa che aveva detto. Se fosse stato più avvezzo alle emozioni altrui avrebbe certamente capito che la risatina, che ancora si levava per l’aula, era da addebitare non solo a un animo non troppo dissimile dal suo, ma anche a un crescente nervosismo. Si convinse invece che fosse l’ennesima persona a cui dovevano sembrar ironiche le cose che diceva, chissà poi perché. Magari avrebbe dovuto replicare o dirgli di smetterla e che era pur sempre un professore; al contrario prese a fissarlo di sbieco.
«Io sarei Wats…»
«Continua a rispondere alle domande sbagliate, John Watson» mormorò, mentre tracciava una prepotente linea rossa e correggeva l’errore di un certo Clancy. «Afghanistan o Iraq?» chiese e questa volta si preoccupò di sollevare il viso e di guadarlo diritto in quel paio di grandi occhi blu. Ora, una risposta la pretendeva davvero. Aveva già perso tempo a sufficienza, troppo per i suoi gusti.
«Afganistan, ma come lo sa? Gliel’ha detto qualcuno? Suo… ehm Mike? Gliel’ha detto Mike?»
«Mike? Mike Stamford?» replicò, incuriosito. Interessante, quindi si conoscevano. Ah, giusto, vecchi compagni di studi. Un po’ scontato in effetti. «Proprio no, non l’avevo mai vista sino a due ore fa dopo che è entrato nella mia aula. Tutto quel che so è quanto mi ha riferito il mio assistente. Lei è il professor John Watson e sostituirà lo sfortunatissimo professor McDougall per quest’anno accademico. Mandi dei fiori anche per me al vecchio... bah, comunque si chiami. Ad ogni modo, il resto l’ho dedotto da me. Guardandola non è poi difficile capirci qualcosa.»
«Il resto?» s’azzardò a chiedere con quella che sembrava timidezza, ma su simili dettagli poteva anche sbagliare. Magari la sua era della banale confusione, in fondo si trattava di una mente semplice.

«Militare in congedo» esordì, a tono deciso e voce elevata, però calma. Parlava con fluidità, come se avesse letto la storia della sua vita su un libro e ora ne stesse facendo un riassunto. C’era anche un accenno d’eccitazione, laggiù a divorargli lo stomaco e un vago desiderio di mettersi in mostra. Di farsi bello, chissà poi perché (o per chi). «Da poco tempo perché il taglio di capelli ancora corto e inoltre è abbronzato. Il colorito è limitato a mani e viso pertanto è stato in luogo caldo e assolato, ma non in vacanza e ha dovuto portare addosso sempre una stessa tipologia di vestito. Una divisa militare, naturalmente.»
«Ha detto che ho una zoppia psicosomatica, come l’ha capito?»
«Vede, si possono intuire molte cose da una macchia su una cravatta o dal quadrante di un orologio; nel suo caso, l’intera sua vita è racchiusa dalla maniera in cui cammina. Se si trova qui a svolgere il lavoro di professore significa che è stato congedato, e di recente se si pensa all’abbronzatura. Credo che la responsabile della sua presenza qui sia principalmente un’arma da fuoco. Statisticamente è più probabile venir colpiti da un proiettile mentre si opera in una zona di guerra, non le è certo caduta in testa una tegola nel bel mezzo del nulla! Almeno lo spero, sarebbe ridicolo essere costretti a lasciare le forze armate per una cosa simile. Nah, dalla logica non si sfugge, professore» sorrise, mentre lasciava cadere la penna sul tavolo, si levava gli occhiali e intrecciava le dita sotto al mento, in una posa meditativa che era solito assumere quando doveva riflettere. Questa volta non si trovava nell’intima solitudine del suo soggiorno, ma nell’aula dove insegnava e al cospetto di un uomo che aveva fin troppe verità da raccontare e che se ne stava semplicemente zitto ad ascoltare.
«Per tornare alla sua zoppia psicosomatica» disse, accennando al bastone puntato a terra con un volteggiare abile di dita «se le avessero sparato a una gamba e fosse costretto in piedi, l’espressione sul suo viso sarebbe differente. Direi sofferta. Chiederebbe una sedia o la troverebbe da sé, sarà anche un soldato ma non confondiamo lo stoicismo con la stupidità. Per quanto possa sembrarlo, lei non è uno stupido. Quindi sì, è un militare in pensione. Medico ovviamente o non avrebbe ottenuto una cattedra in biologia e genetica. Un soldato a cui hanno sparato di recente, non alla gamba, che se ne va in giro con un bastone? Come dicevo... psicosomatico. Se ha necessità di uno psicologo chieda a Mike Stamford, ha sempre una buona parola per tutti e sono certo che potrà aiutarla.»

Quando la fiumana di parole ebbe finito di riversarsi fuori dal suo cervello, Sherlock s’azzittì con altrettanta prepotenza. Il suo non parlare accentuò quasi la forza dei concetti che aveva appena espresso, mentre la fermezza dello sguardo che aveva assunto sarebbe stata in grado di far vacillare il più potente degli uomini. La sola liberà che concesse a se stesso fu un piccolo respiro, come a voler riacquistare il fiato alla fine di una lunga corsa. Raramente si lasciava andare a monologhi di quella portata, spesso le sue deduzioni erano veloci e rapide. Indolori, come le definiva malignamente suo fratello Mycroft. Era insolito persino per lui, il lanciarsi in accorati discorsi sulla vita altrui. Una parte di sé desiderava da sempre avere il dono d’impressionare, era un qualcosa che c’entrava con l’essere geniale e il necessitare di un pubblico. Tuttavia, data la difficoltà del trovare persone disposte a starlo a sentire (o a sopportarlo), aveva finito col perdere ogni speranza. Ora, certe uscite brutalmente oneste, erano unicamente per se stesso o almeno era quanto andava ripetendosi. Questo e il fatto che John Watson fosse un uomo come tanti, banale, ovvio e privo di qualsivoglia sorpresa. Non c’era niente di più lontano dalla realtà. Al contrario, la verità era che quell’alone di misterioso non detto che lo circondava, faceva sì che Sherlock si ritrovasse a nutrire una piccola speranza. Speranza che s’accese d’improvviso qualche istante più tardi.

«È stato fantastico, assolutamente fantastico.»

Sollevò di scatto la testa, dimentico del plico di fogli da correggere e persino dello Schubert che ancora suonava. Sbagliava oppure gli aveva appena fatto un complimento? Ed era la realtà o un frutto della sua mente? Non era possibile, perché aveva dedotto un’intera vita in meno di qualche minuto, insinuando anche piuttosto sgarbatamente che aveva problemi psicologici e uno stress post traumatico, e nonostante ciò lo aveva trovato fantastico? Nessuno lo avrebbe trovato fantastico, nemmeno sua madre. Anzi, specialmente sua madre.
«Davvero?» s’azzardò a dire, sebbene ancora incredulo e quasi bramoso d’averne ancora. Era come se dal nulla fosse spuntato una sorta di orgoglio personale, di desiderio d’averne di più. Sherlock era sempre stato vanitoso. Lui amava essere lodato e osannato, ma il ricevere di rado un qualsiasi tipo di gratificazione gliel’aveva fatto dimenticare. Se ne ricordò lì, con Schubert a suonare lieve e la Fantasia in fa minore a far vibrare più di una nota in quell’intricata mente da genio che possedeva. Cielo, quanto erano irrazionali simili ragionamenti!
«È stato strepitoso. Le sue deduzioni, le cose che… Lei è incredibilmente intelligente, se lo lasci dire.»
«Non è quello che la gente dice di solito» osservò pacatamente, quasi rassegnato. Accennando a un velo di amarezza nelle espressioni del viso altrimenti granitiche.
«Ah, sì? E cosa le dicono?»
«Fuori dai piedi.»

La risata di entrambi s’innalzò per l’aula buia e vuota. Si fuse in un piacevole insieme e infine si perse, finendo in niente. Briciole di divertimento gli rimasero però aggrappate addosso, brutalmente avvinghiate al suo cuore e sembrava non volessero lasciarlo andare più. Era la prima volta dopo tanto tempo che rideva, e lo realizzò in un attimo. In un istante eterno fatto di vuoto, in bilico com’era. Stupidamente a metà tra tristezza aspra di una vita di solitudine e la gioia sincera che ancora provava. Come se il ridere di cuore gliel’avesse ricordato, inondandolo di sensazioni e pensieri. La verità era che non lo faceva più tanto spesso, probabilmente l’ultima volta che aveva riso era stato per Mycroft e per via di una qualche presa in giro. Probabilmente alla tanto odiata (da entrambi) cena di Natale. Adesso però sentiva che c’era qualcosa di diverso nel modo in cui si ritrovava a sorridere, e a chinare un imbarazzato sguardo di fronte a quel certo John Watson. Un ex medico militare che di stupefacente aveva ben più che un paio di occhi blu. Era piacevole, la sensazione che provava adesso era come un’iniezione di fiducia e benessere. Mai si era sentito così prima d’allora, neanche mentre suonava il suo violino. Nemmeno Mozart poteva tanto, e Mozart era speciale. Niente di uguale a questo gli era mai entrato dentro. E pensare che non si trattava di nulla di che, gli ricordò il suo vibrante raziocinio. Era soltanto un complimento, una conferma della sua immensa genialità che veniva finalmente riconosciuta. La certezza del fatto che avesse sempre e comunque ragione. Quindi non aveva senso esser così felici. Proprio nessuno. E smise subito di ridere, in meno di un istante le sue espressioni divennero una maschera di granito. Perché sapeva di avere ragione anche su un’altra questione, una su cui avrebbe preferito non averne e che già gli intristiva l’animo. C’erano diverse cose che aveva capito di quel John Watson, pur non sapendo nulla del suo passato era certo che a sostituzione della cattedra di McDougall ci fossero ben altri nomi. Eppure era stato un semplice medico militare in pensione ad avere quel prestigioso ruolo. Perché? La risposta, purtroppo, Sherlock la conosceva bene. Peccato, si disse, spegnendosi in un sospiro.

«Come mai si trova qui? E non intendo da me ora; perché è qui a Oxford?» gli chiese e subito ebbe la sensazione di aver fatto centro dato che questi si tese appena. Sarebbe potuto andare avanti con la propria deduzione e dirglielo in maniera chiara e diretta, perché era ovvio quel che era successo. Eppure tacque, e decise che un soldato avrebbe anzitutto meritato l’onore delle armi. Pertanto si morse la lingua e tacque mentre John irrigidiva la postura e stringeva con ancor più vigore il manico del bastone. Lo vide annuire, probabilmente più a se stesso in un tentativo d’infondersi coraggio. Poi prese un breve respiro e si mise a raccontare. In un angolo segreto della sua mente, Sherlock Holmes sperò che non fosse davvero la fine. Subito allontanò il pensiero.
«Dopo il mio ricovero ho vissuto in periferia, dove la mia pensione mi permetteva di stare. Volevo trasferirmi in centro e mi sarebbe andato bene un qualsiasi lavoro, anche di pronto soccorso. Ho trovato un impiego in un ambulatorio notturno, nulla di speciale in effetti. Un mese dopo il mio primo giorno, tra la posta ho trovato il biglietto da visita di una persona che non conoscevo. Beh, se è tanto intelligente come mi ha dimostrato poco fa, allora avrà già capito di chi era.»
«Mio fratello Mycroft» annuì brevemente Sherlock. E chi altri avrebbe potuto mai essere? Teatrale, melodrammatico, decisamente esagerato nelle misure di sicurezza. «Sembra gli sia entrata in testa l’assurda idea di tenermi sotto controllo, non so davvero il motivo.»
«Si è presentato nudo a una sessione d’esame» mormorò, occhieggiandolo con fare torvo, ma vagamente divertito.
«Non è vero, avevo un lenzuolo avvolto addosso» tentò maldestramente di ribattere, mettendo subito il broncio. Tutti che se la prendevano per quella stupidaggine, e ancora Sherlock non aveva capito il motivo.
«Terrorizza gli studenti, tratta male gli insegnanti e ha sparato a un muro» replicò prontamente, dimostrando di sapere ben più del suo nome e cognome. Certamente doveva aver letto con attenzione il fascicolo che Mycroft teneva sul suo conto. Fascicolo nel quale erano elencati uno per uno i suoi terribili misfatti, ovvero tutte quelle cose che ogni santo giorno sua madre gli ricordava di non dover più fare.
«Mi annoiavo.»
«Oh, certo, si annoiava» ne rise nervosamente, passandosi una mano sul viso e nascondendo le risate. «Ma tu guarda che tipo. Lei lo sa che suo fratello è stato molto insistente, sì? Ho ignorato il bigliettino da visita e lui me ne ha fatto recapitare un altro con data, ora e un luogo. L’ho strappato e all’appuntamento non ci sono andato. Poi un giorno si è presentata una donna, alta, bella, una certa Ann Thea. Ho detto di andare al diavolo a lei e al suo capo.»
«Mycroft le ha offerto dei soldi?»
«Sì e li ho rifiutati, se è questo che si sta chiedendo.»
«Peccato, avremmo potuto fare a metà. Comunque ha accettato il lavoro, quindi significa che farà la spia per lui. Poteva almeno prendersi quell’assegno, ho sempre trovato divertente spennare mio fratello.»
«Non sarò mai la spia di nessuno» negò, vibratamente e quasi tremando per la rabbia. Gli pareva che fosse pronto a balzare e a spaccare il mondo, e unicamente per far valere la sua ragione. Sherlock invece si sentiva in vena di scherzi, aveva il cuore leggero e la felicità che gli zampettava nel palazzo mentale. Non avrebbe mai sperato in una simile svolta dei fatti. Si era limitato a dedurre che suo fratello aveva mosso dei fili, facendo in modo d’assegnare a Watson la cattedra del professor McDougall e tutto perché gli passasse informazioni, lo controllasse e tenesse al sicuro. Tutto per nulla, Sherlock sapeva badare a se stesso. Probabilmente questo non era stato il suo programma originario, era sicuro che avesse altre idee e che queste fossero cambiate all’ultimo momento. Comunque fossero andate le cose, John Watson lo aveva stupito di nuovo. Invece che scendere a patti con quel viscido serpente di Mycroft l’aveva mandato al diavolo e adesso veniva da lui a raccontare tutto.

«Gli ho detto di no» riprese John con convinzione «che non volevo un lavoro del genere e non volevo i suoi soldi. E mi creda, suo fratello sa essere generoso.»
«Qui come c’è finito?»
«Ho già insegnato in passato, fino a due anni fa avevo una cattedra in questa stessa materia. Avrei avuto i requisiti per un posto da professore, ma non avevo più l’intenzione di mettermi davanti a degli studenti. Questo mestiere non fa decisamente per me. Però mi è sembrato che suo fratello apprezzasse più che altro il mio esser stato su un campo di battaglia, che l’aver già fatto il professore.»
«Eppure eccola qui.»
«Certo perché non sono uno stupido, come ha detto anche lei poco fa. Il giorno dopo quell’assurdo incontro ho ricevuto una telefonata dal rettore di questo istituto. Ho detto sì, e l’ho fatto a lui e a lui soltanto. Anche se so benissimo come sono andate le cose, non ho alcuna intenzione di spiarla o di tenere informato un chissà chi dell’MI5 o della CIA dei suoi spostamenti. Non sono qui per farle da balia, né per accollarmi a lei fingendomi suo amico (come mi ha suggerito suo fratello). E ora lo dico a lei, così come stamattina l’ho detto a quel tizio e al suo odiosissimo ombrello: non sono la tata di nessuno e tanto meno la spia.» Detto questo s’avviò a passo claudicante ma deciso verso l’uscita dell’aula. C’era una rabbia vibrante su di lui, al punto che non poteva confondersi con altro. Sherlock era certo nascesse dall’indignazione e dall’orgoglio, mescolati assieme in uno strano cocktail. Era quasi sicuro che non l’avrebbe mai più visto, che si sarebbero incontrati per i corridoi o in sala mensa e salutati appena. Di certo non avrebbe potuto analizzarlo sotto a un microscopio, pensò mestamente. Eppure si sbagliava, per un’ennesima volta, John lo sorprese. Già perché all’ultimo istante, con un passo già fuori, si voltò in sua direzione. Inaspettatamente gli sorrise. E allacciando gli occhi ai suoi, notò che una strana espressione si stava facendo largo. Era come se tutta la rabbia di prima fosse svanita. Evaporata. Ampio, grande, sincero, John sembrava felice in quel momento. Aveva una risata simile alla stessa che aveva già visto soltanto pochi istanti prima. Questa volta gli scaldò il cuore con ancor più prepotenza.

«Professor Holmes?» disse «conoscerla è stato un piacere.» Dopodiché, quello strano medico militare sparì tra i corridoi. Da un attimo all’altro, Sherlock si ritrovò solo. Con gli ultimi accordi della Fantasia in fa minore di Schubert che andavano a sfumare e la mente in pieno subbuglio. Sì, pensò mentre tornava a sedere e metteva il disco da capo, quel John Watson era un uomo interessante. Ciò che in quei frangenti tentò abilmente d’ignorare, ma che forse già sapeva, era che Schubert non sarebbe servito più a niente.
 


 
Continua
 



*Evgeny Kissin e James Levine, qui suonano la Fantasia in fa minore. È un pezzo per pianoforte a quattro mani. L’edizione proposta è stata registrata nel 2005, l’edizione di questo disco è invece del 2010.

Un grazie a tutti coloro che hanno lasciato una recensione, ma anche a chi è semplicemente arrivato a leggere fino in fondo. Non è mai scontato. Devo confessare che mi sto divertendo moltissimo a scrivere questa storia, spero che il sentimento sia in qualche modo reciproco. 
   
 
Leggi le 10 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Koa__