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Autore: rainbowdasharp    23/01/2018    1 recensioni
"Aveva letto un milione di teorie, riguardo la sua scrittura: “un poeta”, lo definivano e Leo davvero non capiva – un poeta di cosa, della sovversione? Della ribellione silenziosa a cui si era condannato?"
| leotsu (e presenza di altre coppie, seppur accennate), soulmate!au |
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Leo Tsukinaga, Tsukasa Suou, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 10: Quello che nessuno sa ancora


“Bastava, a quel punto, una lieve brezza per liberarmi dei cattivi pensieri e ben presto i ricordi, seppur non fossero mai stati chiari, cessarono di bussare alla porta del mio sonno. L'elfo passava intere giornate a mostrarmi nuovi luoghi, prendendosi cura di me con una gentilezza che mi era di difficile comprensione – perché continuava a farlo? Forse, il guerriero di qualche tempo prima avrebbe sospettato di quella sua generosità, ma allora... con i piedi nudi sull'erba fresca, baciato dalla luce del sole e della luna, indistintamente, non potevo far altro che essere felice.”

 

La primavera era ormai scoppiata: le giornate tornavano ad allungarsi, la natura, la più antica principessa addormentata, si risvegliava lentamente dal suo sonno stregato coi primi baci caldi del sole.

L'inizio di ogni nuova stagione era per Leo nuova fonte di ispirazione e, quando Robin non era con lui, non faceva altro che scrivere come se fosse posseduto: gli stimoli erano infiniti, come se il suo animo ghiacchiato si fosse finalmente disciolto come neve, tornando a percepire tutto con la stessa potenza di una volta – tutto sembrava voler dialogare con lui, dargli suggerimenti, aiutarlo a costruire la sua storia che inizialmente non gli piaceva, gli sembrava banale nel suo scontato dolore.

Forse era un po' meteoropatico.

Con soli due caffè in cinque giorni, era finalmente riuscito a mettere insieme la bozza di gran parte della sua avventura: aveva ritoccato quel che aveva già scritto e, con l'unico martellante dubbio circa il finale, su cui non sapeva proprio decidersi, si avviava a scrivere in via definitiva; l'unica vera eccezione era il finale, che lo vedeva combattuto; aveva deciso che avrebbe intanto cominciato a scrivere il resto, lasciando così che fosse la storia stessa a suggerirglielo, come accadeva spesso nel rileggere le sue stesse parole. Come se il Leo del passato suggerisse al Leo del presente che sì, era quello il punto dove voleva arrivare.

Stava per l'appunto riguardando per l'ennesima volta la bozza del primo capitolo, quando il suo cellulare prese a squillare e vibrare contemporaneamente vicino al pc, strappandolo così brutalmente dal suo personale universo parallelo, in cui i personaggi e i paesaggi di cui scriveva divenivano reali.

Di solito, nel pieno del lavoro e del fervore artistico, avrebbe ignorato qualunque chiamata, ma—beh, nel caso in cui Robin avesse finito di studiare e lo stesse cercando...

Aggrottò in fretta la fronte quando, purtroppo, si rese conto che il numero di certo non era quello del suo ragazzo e che, oltretutto, non lo conosceva proprio. Se era di nuovo il suo manager che lo implorava di partecipare agli incontri con i fan, non era sicuro di poter rispondere in modo molto educato.

«Pronto?»

«Parlo con il ragazzo di Robin?»

Leo passò velocemente dall'essere irritato all'essere irritato e confuso – era stato chiamato con molti appellativi in vita sua, ma in effetti “ragazzo di Robin” era una novità (anche se non poteva dire che gli dispiacesse); inoltre, aveva la sensazione che ultimamente il suo numero di cellulare fosse un po' troppo popolare in città.

«Forse» si limitò a rispondere, mantenendosi vago, mentre si alzava dalla poltrona di fronte al pc e si dirigeva verso la finestra come faceva sempre quando si ritrovava a parlare al telefono, quasi il suo interlocutore potesse trovarsi laggiù, per quelle strade. «Io con chi parlo, invece?»

«Mi chiamo Tori Himemiya, erede della casa discografica Fin du Monde». La voce squillante tradiva di certo una giovane età e Leo non faticava ad immaginare che si trattasse di un amico di Robin – dopotutto, anche il moro aveva mostrato di far parte di una famiglia agiata... aveva ben poco di cui stupirsi se, tra le sue conoscenze, ci fosse un ricco ereditiere di qualche grande azienda o simili. «E si dà il caso che io sia il coinquilino di Robin nella nostra noiooosa vita universitaria» aggiunge poco dopo, con tono lamentoso. Era raro che lo pensasse di qualcuno, considerando che lui per primo aveva la tendenza a suonare infantile, ma... questa persona parlava proprio come un ragazzino viziato in tutto e per tutto. Inoltre, il modo in cui si riferiva al suo fidanzato gli faceva istintivamente storcere il naso.

«Quindi? Devo forse chiedere a te la sua mano?» lo provocò infatti, senza avere il tempo materiale per tenere a bada la sua lingua (dopotutto, anche lui era un bambino).

Una risata cinguettante lo raggiunse dall'altro capo del telefono. «Ma no, assolutamente! Puoi prendertelo senza neanche restituirlo. Mi chiedevo solo se ti interessasse un biglietto per il concerto di Robin di domani sera». Ne seguì qualche minuto di silenzio, in cui Leo tentava di assimilare le informazioni (troppe) ricevute in una singola frase – concerto? Di Robin? E di cosa? Non aveva mai sentito parlare di... “concerti” da parte del più giovane. E a quanto pareva, per Tori quel prolungato silenzio fu più che eloquente. «Oooh, non te l'ha detto» lo sentì gongolare.

«Non mi ha detto cosa?» Leo avvertì una brutta sensazione, proprio all'altezza dello stomaco.

C'era ancora una parte di lui, una che si guardava bene dal guardare troppo a lungo, che temeva che Robin fosse troppo perfetto: da quando lo aveva conosciuto, si era sentito finalmente al suo posto, con una persona pronto a sostenerlo al suo fianco – sia come amico che come amante; eppure, lo aveva notato, di rado parlava di sé. Ascoltava, per lo più, lasciava che Leo si rivelasse in tutte le sue sfaccettature sotto i suoi occhi e riguardo a sé rispondeva quasi sempre in modo vago, se non tendeva addirittura ad evitare il discorso. Era elusivo in particolar modo quando si ritrovava a dover affrontare domande sulla sua tirannica famiglia, ma Leo aveva fino a quel momento giustificato il suo silenzio pensando che per lui fosse in qualche modo difficile parlarne.

Eppure, quella sensazione era ancora lì – c'era così tanto che non sapeva, così tanto che a volte aveva la sensazione di guardare solo un guscio vuoto.

«Meglio che tu lo veda con i tuoi occhi, credo. Ti farò avere il biglietto per e-mail! Buona giornata, signor scrittore» e, ancora ridacchiando, concluse la chiamata.

Non gli aveva mai parlato del suo coinquilino – a dirla tutta, non sapeva neanche ne avesse uno. Robin, nonostante fosse lì, al suo fianco, era ancora avvolto nel mistero, alla stregua di un angelo custode impossibile da vedere.

Il biglietto apparve sulla schermata, allegato ad un messaggio, qualche attimo dopo.

 

Il motivo principale per cui si trovava di fronte al piccolo teatro, lo sapeva, era che nonostante scrivesse storie dalla strabiliante speranza, lui ne aveva ben poca in sé. Forse era proprio per questo che cercava di trasmetterle agli altri.

Non credeva nel lieto fine e, visto che non si considerava esattamente il tipico protagonista di una fiaba, dopotutto il sospetto lo aveva sempre accompagnato a braccetto, nonostante quella felicità degli ultimi giorni. Era come un ronzio, un bisbiglio di sottofondo di solito soffocato dal rumore della vita quotidiana a cui improvvisamente era stato alzato il volume fino a renderlo l'unico suono davvero dominante nella sua mente.

Ora voleva conoscere Robin. Qualunque cosa gli stesse nascondendo, rifletté mentre camminava oltre la soglia, sicuramente aveva una ragione per farlo; questo però non cambiava che, da ormai qualche mese, volgeva lo sguardo quando si avvicinavano ad un argomento di conversazione che il suo ragazzo non gradiva, fingendo di non vedere pur di non turbarlo.

Ora, invece, voleva sapere.

Il teatro dove si sarebbe svolto il concerto era uno dei più piccoli della città; lo conosceva solo perché qualche volta Shu glielo aveva rammentato come “l'unico ancora accettabile in questo assurdo frastuono di tecnologia”, drammatico come solo lui poteva essere, ma Leo non ci era mai stato – era una struttura ancora ben curata, seppur mostrasse in modo piuttosto evidente la sua età. Chiunque vi lavorasse, ne era certo, amava quel luogo a tal punto da cercare di farlo brillare persino in mezzo ai diamanti della modernità, come una ricercata ed irregolare spilla dorata in mezzo ad una distesa di enormi gemme dal taglio perfetto e geometrico. Belle, sì, ma anonime.

Il palco non era molto grande e anche la platea era piuttosto contenuta: Leo immaginava che non contenesse più di duecento persone a spettacolo, eppure questo lo rendeva un luogo quasi intimo, persino nel silenzio delle rappresentazioni. Aveva assistito in molte occasioni, da bambino, ai concerti dei suoi genitori e, forse anche perché era molto piccolo, il teatro gli era sempre sembrato un luogo troppo grande perché i suoi occhi vi si abituassero, ancor più nel buio dello spettacolo; invece adesso, con il biglietto in mano, un adulto alla ricerca del proprio posto, non si sentiva così disorientato. C'era quel lieve alone di anticipazione che inebriava l'ambiente, come una musica soffusa che invitava chi entrava a sedersi e ad attendere il proprio turno per lasciarsi andare, per abbandonare la loro vita su quella poltrona... almeno per qualche ora.

Altre persone presero a sedersi di fronte a lui: per lo più, si trattava di signori dall'aria serena e rilassata, ma c'era anche qualche ragazzo (alcuni suoi coetanei, forse; altri addirittura più giovani) e seppur la sala non si fece mai davvero gremita, la platea nel giro di cinque minuti si era fatta abbastanza corposa da poter essere chiamata “pubblico”. Dato che era da solo e che mancava ancora un po' all'inizio del concerto, decise di prestare un minimo di attenzione alle voci che lo circondavano: chiuse gli occhi, dunque, per ascoltare un po' il chiacchiericcio calmo del teatro.

(Lo faceva spesso, nei luoghi affollati; a volte, sprazzi di conversazioni potevano rivelarsi così preziosi, così interessanti che poteva costruirvi un'intera storia dietro. Ricordava chiaramente di aver scritto una decina di brevi racconti su parole afferrate per sbaglio negli stivati scompartimenti della metropolitana.)

«Avevo temuto che avesse smesso!» sospirò a non troppa distanza da lui una voce femminile.

«È davvero un peccato che non voglia tentare qualche concorso».

«Ogni volta che torno ad ascoltarlo c'è sempre più gente...»

«L'ultima volta aveva suonato delle composizioni proprie, vero?»

La curiosità, doveva ammetterlo, era dilaniante – queste persone, ammesso e non concesso che parlassero di Robin e non di chissà chi altri, conoscevano il suo ragazzo sotto un'altra luce che lui non aveva mai colto. Qualunque cosa facesse, su quel palco (perché il suo amico, Tori, non glielo aveva detto ovviamente) sembrava che muovesse l'animo di molti.

Ricordò come, da bambino, si fermasse per ore a sentire sua madre esercitarsi con il violoncello: lui si metteva per terra, percorso dalla musica come se fosse la sua guida e pasticciava con le matite su fogli e fogli – prima scarabocchi, poi disegni infantili e infine parole. Seppur non chiaramente, ricordava come quella musica riuscisse a guidare le sue mani e le sue dita, almeno finché sua madre non aveva dovuto smettere di suonare; allora, quasi come un muto segno di rispetto, rivide il sé bambino limitarsi a scriverle tante storie, così che potesse comunque impiegare il tempo che non poteva più utilizzare con il suo compagno di una vita, quello strumento giunto ancor prima di suo padre.

Dopotutto, la perdita del suo compagno di vita era proprio ciò che Leo aveva temuto fino all'incontro con Robin: quell'espressione negli occhi di sua madre, quando il suo sguardo si posava sul grande strumento che, se ben ricordava, ora giaceva nello studio in una teca... non voleva provarla. Non osava immaginare cosa avrebbe fatto, se avesse perso quello che la scrittura gli trasmetteva.

Le luci della sala si spensero all'improvviso e con esse anche le voci, strappandolo così ai suoi pensieri; riaprì subito gli occhi, puntati sul palco che già era stato illuminato con due riflettori non troppo forti tendenti al bianco, anche se il sipario era ancora chiuso.

«Signori e signore, ho il piacere di presentarvi ancora una volta Robin, giovane talento del violino. Vi auguriamo una buona serata» annunciò una voce calda proveniente dagli altoparlanti e mentre Leo finalmente comprendeva il segreto di Robin - “suona il violino...”, buffo, pensò e “io vengo da una famiglia di musicisti...” - ecco che il sipario si apriva e si trovò inaspettatamente a trattenere il respiro.

Era davvero Robin? Se lo chiese più volte mentre, con lo sguardo puntato sulla figura quasi imponente che avanzava con passo deciso, sotto i riflettori, con le mani strette intorno allo strumento, cercava di associare il suo giovane cavaliere al ragazzo che stava vedendo. Si portò al centro del palco, dove le luci lo seguirono evidenziando ogni singolo particolare che Leo riconosceva ma non accettava, come se quella persona non fosse... sua.

Forse era proprio colpa di quell'illuminazione artificiale, ma sembrava così grande su quel palco. Come se, nella sua vita quotidiana, non fosse che la metà di ciò che poteva davvero essere nella magia di un teatro; il completo elegante, nero, risaltava perfettamente le spalle larghe, così come la vita stretta e le gambe affusolate. Il suo naturale portamento leggiadro era pieno di una dignità che era difficile cogliere se non lo si conosceva, ma che lì non faceva fatica a brillare.
E poi—i capelli. Erano decisamente più corti, non gli toccavano più neanche le spalle – eppure, fino a qualche giorno prima (era passata solo una settimana dall'ultima volta che si erano visti) era ancora lì, la sua chioma liscia, tenuta sempre bene a bada in una coda bassa. E adesso era sparita, come d'incanto e Leo si sentì, di nuovo, lasciato indietro da chi amava. Un po' come quando la piccola Ruka, truccata, gli aveva aperto la porta della sua stessa casa.

Poi, però, Robin iniziò a suonare.

Era una musica modesta, ma ricca di carica. Sembrava che le note passeggiassero sotto le dita abili di Robin, che, come un burattinaio esperto, manovrava da solo un intero teatrino dando ai suoi personaggi forma, movimento, voce. Le note si susseguivano con naturalezza, neanche fossero nate per stare insieme e ben presto il ritmo si fece più frenetico: adesso erano dotate di vita propria, dell'instancabile brio di una città mai dormiente, forti di sogni e speranze; e ancora, nuove note, come figli delle unioni precedenti, che ora si correvano dietro, giocando, nascondendosi, ricomparendo all'improvviso.

La musica di Robin parlava all'anima. E nonostante scintillasse nella sua bellezza dignitosa quasi al punto di accecare, su quel palco, Leo si costrinse a chiudere gli occhi, ad allontanarsi dall'inganno degli occhi così che la musica potesse avvolgerlo come una persona gentile che lo invitava a ripararsi dalle intemperie della realtà. Gli offriva qualcosa di dolce, di incredibilmente buono e poi lo spronava, ancora, ad immaginare: di nuovo delicatezza, di nuovo un sussurro al cuore, a volte note così leggere che lo scrittore si chiese se fosse possibile toccare a quel modo delle corde. Erano vibrazioni che, seppur sommariamente, conosceva... eppure, da quelle mani, sembravano aver tutt'altro aspetto.

Non era il tocco imperioso di sua madre, pieno della volontà di sottomettere la musica alle sue regole, di educarla come solo una donna avrebbe potuto fare – no, Robin dava loro un nome, le lasciava volteggiare, permettendo al ritmo di insinuarsi naturalmente tra di loro e allora loro, le note, si prendevano per mano, formavano un cerchio e danzavano insieme.

Sembrava la versione musicale della Primavera di Botticelli.

Lo spettacolo durò un'ora e mezza. Ogni composizione aveva una forma diversa ma, sotto ogni velo, era possibile sentire sempre quell'armonia così classica, quasi rinascimentale, che Robin riusciva a creare, suono dopo suono: il pubblico gli dedicò un elegante ma sentito applauso, a cui Leo si unì con tutta la sincerità che poteva provare.

Libero dall'incanto della musica, poté finalmente scorgere il sorriso di riconoscenza (un sorriso nuovo, pieno di un'energia fanciullesca che coglieva ora per la prima volta) sul volto del moro: continuava ad inchinarsi, quasi fosse stupito di tanto affetto e tanti complimenti ricevuti.

Ricordò di aver ipotizzato più volte che Robin potesse celare l'animo dello scrittore acerbo – beh, ci era andato vicino: dopotutto, la musica era o non era il linguaggio universale? Sapeva creare, sapeva costruire e trasmettere quel che faceva agli altri così bene che l'applauso parve interminabile. Alcune persone, poi, forse spettatori abituali, si avvicinarono al palco per parlare col ragazzo – si trattava per lo più di signore distinte, a dirla tutta; con un po' di imbarazzo, Leo si accodò a loro, aspettando la sua occasione per... per fare cosa? Salutarlo? Parlargli? Gli sembrava assurdo.

Questo era davvero il Robin che aveva imparato ad assaporare al suo fianco, quello che al mattino si chiudeva a riccio sotto le coperte, che non conosceva i film cult della sua generazione, che mangiava dolci di continuo? Non ne era certo, non più: stava forse invadendo involontariamente un mondo che il suo compagno non voleva fargli conoscere?

Era ancora assorto in questo dilemma esistenziale quando si rese conto che le signore, fino a qualche momento prima di fronte a lui, si erano allontanate e che—Robin lo stava fissando, gli occhi pieni di una sorpresa che forse non era proprio di felicità e il colorito del volto pallido, quasi avesse visto un fantasma.

«Leo... ?» azzardò, con lo stesso tono con cui qualche tempo prima gli aveva chiesto che stesse facendo col suo telefono tra le mani. Sembrava davvero preoccupato, se non terrorizzato. «Che—ci fai qui? Cioè, non... eri nel pubblico?»

Leo annuì e poi, mascherando tutti i suoi dubbi (ancora, lo stava facendo ancora; chi era di loro che nascondeva di più, dunque?) sfoggiò un sorriso brillante, chiudendo con un brusco gesto mentale le sue ansie e i suoi dubbi in un cassetto della sua mente. «Non avevo idea che... suonassi il violino. Sei davvero... bravo».

Il moro si gettò un'occhiata nervosa intorno e poi, con un balzo non proprio agilissimo, forse a causa ancora della tensione che doveva pervadergli le gambe, saltò giù dal palco.

Lo scrittore lo ringraziò mentalmente per la scelta; almeno, adesso, era sicuro di stare parlando col suo ragazzo e non con una strana entità che stentava a riconoscere.

«È un passatempo, niente di più. Ogni tanto ho un amico che mi chiede di esibirmi per... coprire dei buchi di rappresentazione, tiene molto a questo posto».

Passatempo? «Non cambia che sei davvero molto bravo, mia madre ti adorerebbe» sospirò, un attimo prima di cedere alla tentazione di sfiorargli i capelli – corti, incredibilmente... strani. Era così abituato a passare le mani lungo le ciocche corvine, a giocherellarvi fino a farvi delle trecce, che paradossalmente quel brusco cambio di look lo faceva stare persino peggio del suo talento col violino. «Quando li hai tagliati?»

«... Oggi» borbottò il moro, quasi sentendosi in colpa. «Sei arrabbiato?» e la sua occhiata colpevole quasi tradì il suo solito atteggiamento composto; gli sembrò un bambino, pronto ad una bella sgridata dopo aver fatto qualcosa di particolarmente dispettoso.

«Un po'» non poté fare a meno di ammettere il rosso, prima di lasciarsi andare ad un sospiro. «Però sono più confuso perché—beh, non mi hai mai parlato del violino. E né del fatto che volessi tagliarti i capelli» e come Arashi diceva sempre, “quando una persona cambia taglio, è perché vuole cambiare vita!”, anche se stavano insieme da così poco che sembrava ridicolo che lo avesse già annoiato. Perché la sua mente doveva ricordargli le cose peggiori nei momenti meno adatti?

«... Mi dispiace. Tendo a... non parlare quasi mai della musica, mi sono disabituato» mugugnò mortificato il più giovane.

«Colpa dei tuoi genitori?»

«Più o meno. Sono loro ad avermelo fatto studiare, per loro faceva parte della mia... buona educazione. Però non dovrei più pensarci ormai. Ho l'università, l'azienda e—gli hobby sono per i ragazzini, come dice mio padre».

«Mi adorerebbe, allora» e questo causò un leggero moto di risa in Robin, che aveva colto lo scopo della battuta: alleggerire l'atmosfera. Non era nelle intenzioni di Leo fargli un interrogatorio, ma per un momento si era chiesto se conoscesse davvero la persona che stava frequentando, che accoglieva in casa propria così spesso, che era sicuro fosse... importante, per lui. Era stato uno shock.

«Avrei dovuto smettere da tempo, ma poi Mashiro mi ha chiesto un aiuto per il teatro e... beh, mi piace suonare in luoghi come questo». Il romanziere non ne aveva dubbi: tutta quell'atmosfera anticata faceva parte di ciò che Robin considerava sempre “bello” e di quel suo gusto così minuziosamente retrò. «Sei capitato qui per caso... ?» gli chiese un attimo dopo.

Leo scosse la testa. «Il tuo adorabile coinquilino mi ha fatto avere un biglietto». Il ragazzo lo guardò, inizialmente senza capire, poi il rosso lo vide portarsi una mano sul volto in un misto di irritazione e rassegnazione; sembrava aver già indovinato cosa era successo in realtà. «Ho la sensazione che non andiate molto d'accordo, o sbaglio?»

Per un attimo, Leo ebbe di nuovo quel brutto presentimento: adesso Robin, immaginò, avrebbe risposto in modo elusivo, per poi far cadere bruscamente il discorso, lasciandolo così con un pugno di mosche riguardo la sua vita privata.

«Diciamo che si è appassionato alle mie... vicende. È sempre stato molesto, ma ultimamente sta diventando davvero invadente» e invece, con sua sorpresa, non si nascose stavolta; senza volerlo davvero, Leo tirò un sospiro di sollievo. «Deve avere cercato il tuo numero nel mio cellulare... that brat» sibilò con stizza, prima di schioccare la lingua.

Nonostante tutti i suoi dubbi e le sue paure, sentirlo di nuovo parlare in inglese, vicino a lui, di nuovo raggiungibile, rasserenò l'animo di Leo più di quanto non avrebbe dovuto. Robin non era cambiato – come avrebbe potuto? Come aveva potuto dubitare di lui, quando gli bastava guardarlo negli occhi per cogliere tutti quei tratti che aveva imparato ad apprezzare in quel breve periodo? Era troppo ingenuo per ingannarlo; troppo onesto per nascondergli chissà quali segreti.

Era o non era un piccolo cavaliere in scintillante armatura?

«Qualcosa non va?» E fu proprio la sua domanda a riportarlo distante da tutti i suoi brutti pensieri, di nuovo nel teatro dove, senza rendersene conto, aveva afferrato la sua mano per sentirla più vicina, accanto a lui. Odiava la sua fragilità.

«Adesso no» gli rispose, in uno slancio di sincerità. Un po' di senso di colpa, però, se lo meritava. «Sono gli inconvenienti di avere a che fare con uno studente che si rifiuta di usare qualsiasi tipo di social» osservò, in tono lamentoso, prima di andargli a sfiorare di nuovo i capelli, così corti, già rimpiangendo in parte la mancanza di quella coda bassa a cui adorava aggrapparsi in certi momenti intimi. Ma si sarebbe abituato – si sarebbe abituato ai suoi silenzi, ai suoi capricci e sì, anche al suo violino.

Robin si accigliò. «Non... ti piacciono? I capelli corti, intendo».

«Se vuoi complimenti da me, almeno per stasera, dovrai guadagnarteli».
 


Note: Non ci credo neanche io di essere riuscita a postare, WOW. Nonostante all'apparenza questo sia un capitolo di passaggio (e, in effetti, come quello che seguirà, un po' lo è), ci sono molti... punti critici che saranno poi ripresi più avanti - che non ritengo proprio dei colpi di genio, ma è Leo quello con i paraocchi, non chi legge (...).
Ho sempre cercato di rendere Robin un po' criptico; è anche vero che, descrivendo tutto dal pov di Leo, lui sa ben poco di questo ragazzo: sa che gli piace (e parecchio), sa che i suoi sentimenti sono ricambiati; sa che ha una famiglia un po' complicata, che è un golosone, che ama la letteratura ma non segue i suoi sogni (a differenza di quello che lui, invece, ha sempre fatto) e ha un forte senso del dovere. Questa è l'immagine di Robin che ho cercato di trasmettere, attraverso gli occhi di Leo.
Ma, in effetti, Leo non sa nient'altro. Eppure lui si è aperto così tanto e Robin sa così tanto di lui; Leo ha sofferto troppo, perché viva senza timori. Sa non ha scelto una strada facile, per i suoi sentimenti, che il pericolo potrebbe essere dietro l'angolo. L'esperienza di Izumi brucia ancora, è impressa nella sua mente e nel suo cuore, a fuoco.
Insomma, magari Robin non è neanche così sospetto, ma Leo è sospettoso. E chissà, questo potrebbe essere un bene o un male, per lui? Chissà.

Per il prossimo capitolo, forse, dovrete pazientare un po'! Ho deciso di partecipare ad un'iniziativa di scrittura, quindi dovrò dare la precedenza a quella (che ha una scadenza precisa) prima di tornare a prendere questa long che, davvero, sta diventando una delle cose più lunghe che abbia mai scritto...
Alla prossima!

 

   
 
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