Prologo
Camminava sul freddo
pavimento di pietra, scavalcando i cadaveri e facendo attenzione a non
calpestare le pozze di sangue. Raggiunse il fondo della stanza, dove
una grossa
finestra proiettava uno spettrale raggio di luce all’interno. Lasciò
che la
luna accarezzasse il suo volto, i boccoli ramati, il graffio
insanguinato che
le scalfiva la guancia. Trasse un profondo respiro, cercando di fermare
il
tremito alle mani.
“Sarà meglio muoversi, prima che arrivino le Sentinelle”. La voce di
Byron
risuonò alle sue spalle, producendo un leggero eco nella stanza vuota.
Lei la
ignorò, restando rivolta verso la finestra, gli occhi serrati.
“Non farne un affare di stato, come al solito: erano Ribelli, era
necessario
che morissero”.
A quel punto, spalancò i freddi occhi verdi, fissando Byron dritto in
volto.
“Allora, forse, faremo meglio ad andare”, disse semplicemente, calma,
mascherando le emozioni che le si ribellavano nel petto.
Attraversarono una porta, sul lato della sala, entrando in un lungo
corridoio.
Camminarono in silenzio, finché Byron non parlò di nuovo. “Dai troppa
importanza a questo genere di cose”, brontolò.
“Alla vita? Vuoi dire che do troppa
importanza alla vita?”,
rispose lei, a denti stretti, le mani che iniziarono nuovamente a
tremare,
mentre si apprestavano ad attraversare il passaggio. Byron non lo notò,
nel
buio. “Alla loro vita, sì”,
rispose, indifferente. “Alcuni
esseri nascono per essere sacrificati, altri sono semplicemente
inutili, altri
ancora meritano la morte…”. “Era mio amico”.
Si voltò, premendo il
pulsante che chiudeva il muro di sicurezza, che scese velocemente
dall’alto,
schiantandosi su Byron ed immobilizzandolo a terra. “ERA MIO AMICO!”.
Byron emise un gemito strozzato, senza fiato, metà del corpo incastrato
oltre
al muro di contenimento. “CHE DIAMINE FAI?” ansimò, dolorante. Lei
trasse un
respiro profondo, chiudendo gli occhi, e, finalmente, riuscì a
calmarsi. Quando
riaprì le palpebre, la sua espressione era pacata, calma, ma un fuoco
sembrava
animare le sue pupille. “Che diavolo stai facendo?”, Byron tossì. “Apri
questa
roba, prima che arrivino…”.
“Perché dovrei aprire?”, chiese lei, candidamente. “Tu sei pazza”,
ansimò lui.
“Non dovrebbe esserti concesso di prendere parte a questo genere di
missioni.
Sei completamente pazza. Apri questa porta! Mi uccideranno, per Dio!”.
“Ti
uccideranno?” il volto della ragazza si illuminò di un sorriso, un
sorriso
freddo, che non raggiunse gli occhi. “E dov’è il problema? Non stai
dando
troppa importanza alla tua vita, Byron?”.
“Non è la stessa cosa…!”
disse lui. “Non lo è? Perché la tua vita è degna di essere salvata, e
quella
altrui no? Chi lo decide, Byron, il criterio? Tu?”. Si accovacciò di
fianco
all'uomo, che si contorceva come un verme, tentando inutilmente di
liberarsi.
“Senti, mi spiace, okay? Mi spiace. Ma è così che funziona. Noi li
uccidiamo
perché siamo dalla parte del giusto, e loro tentano di contrastarci.
Ora, per
favore, tirami fuori, prima che arrivino quei mostri”. La voce di Byron
si
spezzò sull’’ultima frase, tradendo la paura. “Chi uccide non è mai
dalla parte
del giusto, Byron”. Fece per voltarsi ed andarsene, quando lui la
trattenne,
afferrandola per una caviglia. “ASPETTA! DOVE STAI ANDANDO? NON PUOI
LASCIARMI
QUA!”. “Posso, a dire il vero. Lo sto facendo”. “E CHE COSA DIRAI AL
QUARTIER
GENERALE? COME GIUSTIFICHERAI IL FATTO CHE SONO... CHE SONO MORTO?!?”.
Ora la
voce di Byron tremava incontrollabilmente. “Dirò loro che le Sentinelle
ci
hanno sorpreso durante l’attacco. Stavano per sfondare il muro, e tu
sei
rimasto indietro per combatterle. Ti farò sembrare molto più eroico di
quanto
tu non sia: dovresti ringraziarmi, ti ricorderanno tutti con orgoglio”.
Lo
guardò dall’alto al basso, con disprezzo. Poi calciò via la sua mano, e
si
allontanò. “ASPETTA! TI PREGO! TI PREGO, NON LASCIARMI QUI!”. In
lontananza, si
udirono ruggiti e versi bestiali. “STANNO ARRIVANDO! TI PREGO, MAX, MI
UCCIDERANNO! NON VOGLIO MORIRE! TIRAMI FUORI DI QUI!”.
Max lo guardò ancora una volta, compassionevole. “Ma guarda: il prode
Byron che
implora per aver salva la sua stessa vita. Che spettacolo
imbarazzante”. “MAX,
MAX TI PREGO…”. “Hai ragione: alcuni esseri sono nati per essere
sacrificati,
altri sono inutili, altri ancora meritano la morte…”. Si udirono
centinaia di
zampe battere sul pavimento di pietra del corridoio. Un attimo dopo,
Byron
iniziò ad urlare, mentre veniva strattonato all’indietro. Iniziò a
vomitare
sangue, emettendo gorgoglii soffocati. “Addio, James”. Max si voltò,
mentre,
con un ultimo strattone, Byron veniva trascinato oltre il muro, che si
richiuse
alle sue spalle.
CAPITOLO
I
Risveglio
---
Diciannove. All’appello mancava una bambina, una
dei
piccoli. I tre capi scout si scambiarono occhiate preoccupate: non
potevano
certo lasciare il resto del gruppo per andare a cercarla, e dividersi
sembrava
un’idea altrettanto poco praticabile. Alla fine, si accordarono: due di
loro
sarebbero rimasti al fiume con gli altri ragazzi, e uno sarebbe andato
a
recuperare la bambina. Si offrì volontaria la ragazza più giovane.
La bambina scomparsa si chiamava Britney. La ragazza iniziò ad urlare
il suo
nome, addentrandosi nel bosco. Era impossibile che si fosse allontanata
troppo,
quindi decise di fare un giro in rotondo attorno al luogo dove si erano
accampati.
Dannati bambini: quante volte avevano ripetuto loro di non allontanarsi
senza
la supervisione di un adulto? Non osava neanche immaginare a che cosa
potesse
succedere se non l’avessero ritrovata subito. Come diavolo ci si può
presentare
davanti ad un genitore e dirgli qualcosa del tipo, “Hey, sai,
mentre eravamo
nel bosco tuo figlio è scomparso, e non siamo più riusciti a ritrovarlo”.
“BRITNEY! BRIT!”. La ragazza urlava a pieni polmoni, ma invano: dalla
foresta
non giungeva alcuna risposta, se non qualche fruscio, o il rumore di un
animale
che calpestava le foglie secche. A un certo punto, inciampò su
qualcosa; cadde
a terra con un tonfo. Si tirò su, ed esaminò l’oggetto che l’aveva
intralciata:
era lo zaino della bambina, ed era macchiato di rosso. Pregò ogni dio
esistente
che non si trattasse di sangue, ma notò che le macchie erano presenti
anche sul
terreno: le seguì, e la quantità di liquido divenne via via più
copiosa.
All’improvviso, scese la nebbia, la luce parve affievolirsi, come se
nuvole
nere avessero oscurato il sole, e l’aria divenne gelida. Tremando e
strofinandosi le braccia, la ragazza fece ancora qualche passo, prima
di
vederlo: ai piedi di un grosso pino, qualcosa di scuro si muoveva,
emettendo
suoni umidicci e schiocchi. “Britney?” la ragazza esitò. Poi, l’essere
si
mosse, e lei si rese conto che stava divorando qualcosa, o meglio,
qualcuno:
qualcuno che indossava una divisa da scout. Arretrò frettolosamente,
incespicando e cadendo, e l’essere si voltò, ruggendo: non aveva né
occhi né
naso, solo un’enorme bocca, che si apriva come uno squarcio lungo tutta
la
parte inferiore della testa. La ragazza urlò, terrorizzata, iniziando a
correre, con l’essere alle calcagna: riuscì a raggiungere il resto del
gruppo,
prima che l’atterrasse. Da ogni dove, sbucarono altre creature,
aggredendo i
superstiti. Il bosco riecheggiò per poco delle loro grida, prima che
anche
l’ultimo essere umano rimasto in vita fosse ridotto al silenzio.
Max
Max spinse la porta del bagno con una spallata,
reggendosi la mano sinistra, avvolta in un asciugamano. Aprì il
rubinetto
dell’acqua, e la infilò sotto al getto. Il lavandino si tinse di rosso.
Con una
smorfia di dolore, chiuse l’acqua ed esaminò il taglio più da vicino.
Il dorso
della mano era lacerato in obliquo, in modo irregolare, ma la ferita,
pur
continuando a sanguinare, non sembrava profonda. Max si raddrizzò, aprì
l’anta
del mobiletto appeso sopra al lavabo e recuperò del cotone, del
disinfettante e
delle bende elastiche. Si avvolse con cura la mano, assicurando poi la
garza
con una graffetta. Uscita dal bagno, raggiunse la scatola ai piedi del
letto,
e, con molta attenzione, spostò gli ultimi oggetti rimasti sul fondo,
rinvenendo finalmente quello incriminato: una vecchia cornice, il cui
vetro si
era frantumato. Uno dei pezzi era macchiato di sangue, il suo. Max
rimosse i
vetri dalla foto, cercando di non graffiarla: un’operazione
particolarmente
difficile, perché il vetro pareva essersi appiccicato. Con molta
delicatezza,
ci riuscì. Dopodiché, prese scopa e paletta, raccolse i vetri sparsi
sul
pavimento, e si gettò sul letto, fissando la fotografia.
Era una vecchia foto di lei e sua madre. Si stavano abbracciando,
un’altalena e
un grosso albero sullo sfondo. La cornice doveva essersi rotta quando
Max
l’aveva scaraventata, insieme agli altri ricordi di sua madre, in una
scatola
che aveva rinchiuso in un angolo buio dell’armadio, dopo la sua morte.
Max fissò la foto finché gli occhi non le si riempirono di lacrime: a
quel
punto, si alzò, e la mise con cura in mezzo ad una copia del Giovane
Holden;
doveva ricordarsi di comprare un’altra cornice.
In realtà, era piuttosto orgogliosa di essere riuscita a rimettere in
vista gli
oggetti appartenenti a sua madre. Un vecchio orologio da muro, qualche
libro,
album fotografici, vestiti. Guardando la stanza, ora, vedeva in ogni
angolo
pezzetti di lei. Un tempo, il dolore e la rabbia le rendevano
impossibile anche
solo pensare a quelle cose. Se il tempo non guarisce, per lo
meno rende più
forti, pensò.
Aveva compiuto diciotto anni lo scorso agosto. Ne erano passati nove
dalla
morte di sua madre, e, crescendo, Max era diventata la sua fotocopia.
Era
piuttosto alta, con un fisico asciutto ma robusto, e lunghi capelli
castano-ramati che si ribellavano in larghi boccoli, ricadendole sulla
schiena.
I suoi occhi erano di un verde scuro con pagliuzze nocciola e dorate,
quasi
grigi nei giorni di pioggia. Si divertiva a pensare che fossero del
colore del
bosco. Sul naso dritto portava, di tanto in tanto, occhiali larghi
quadrati,
quando non indossava le lenti a contatto. Le sue labbra erano morbide e
rosse,
il viso ovale, l’espressione perennemente seria.
Tendeva a non indossare vestiti particolarmente femminili, preferendo
felpe e
camicie larghe, magliette e jeans, per cui spesso, quando indossava il
cappuccio, riusciva a passare per un ragazzo. Era un lupo solitario,
Max, ma
questo non le dispiaceva, anzi: tendeva ad essere indifferente alle
persone,
una tendenza che non era cambiata con l’inizio del college.
Raccolse da terra la borsa ricolma di libri, per avviarsi a lezione.
Uscendo,
chiuse a chiave la porta, scendendo poi al piano di sotto per
controllare che
la zia stesse bene. Sullo zerbino, quasi non inciampò su un contenitore
di
plastica posto sul pavimento. Incespicando per non pestarlo, imprecò
sottovoce,
e lo raccolse. Sul coperchio era appiccicato un post-it: “Maxime, sono
andata a
ritirare la giacca in lavanderia. Ti ho lasciato il pranzo, ti voglio
bene. Zia
Chelsea”. Scuotendo la testa, Max infilò il contenitore nella borsa.
Suo
malgrado, un angolo della bocca le si curvò in un sorriso: non sapeva
resistere
ai gesti carini, per quanto volesse.
Insomma, Max Caulfield era un’adolescente normale, che conduceva una
vita
abbastanza normale, frequentava una scuola normale piena di gente
normale,
aveva interessi normali e hobby normali. E da brava adolescente
normale, aveva
dimenticato le chiavi della macchina. Sbuffando, corse indietro, salì
in due
balzi le quattro rampe di scale, aprì la porta, e le chiavi volarono
dal
comodino, a fianco al letto, fino al palmo teso della sua mano sana.
Un’adolescente normale, Max, che, come tutti gli adolescenti normali,
forse
tanto normale non era.
Alice
Uno, due, tre, quattro. Al centro della stanza,
Alice
effettuava una piroetta dopo l’altra. Trentasei, era quello il suo
record. Era
quello il limite da battere. Venti, ventuno. I muscoli delle gambe
iniziavano a
bruciare. Trentadue, trentatré, trentaquattro. Cadde, sbattendo
violentemente
contro il pavimento. Frustrata, slacciò gli scarpini, scaraventandoli
lontano.
Sbuffò, e si abbracciò le ginocchia, appoggiando il viso sulle gambe.
L’indomani, i lividi avrebbero fatto male. Ma per ora, tutto ciò che le
faceva
male era il fallimento. Desolata, si alzò, uscì dalla palestra, salì le
scale e
raggiunse la sua stanza, dirigendosi verso il bagno. Si sfilò la
maglietta, i
leggings, la biancheria, e si lasciò sciogliere sotto il getto caldo
della
doccia.
Uscendo, si avvolse i capelli corvini che le ricadevano sulle spalle in
un
asciugamano, e si rivestì. Indossò una camicetta azzurra e un paio di
pantaloni
bianchi. Ebbe cura di darsi giusto un filo di trucco, prima di
asciugarsi i
capelli e piastrarseli. Raccolse lo zaino e il borsone con la divisa da
cheerleader prima di uscire, scendendo le scale a saltelli. In fondo
alla
rampa, suo fratello Ben tese una manona per darle uno schiaffo sulla
nuca, che
lei prontamente evitò, chinandosi in uno scatto felino. Lui la afferrò
per un
braccio, costringendola a fermarsi e a voltarsi. “Hey, nana. Dov’è che
corri?”
la apostrofò con un ghigno. “A scuola. Lasciami andare.” Alice evitò il
suo
sguardo per tutto il tempo, cercando di divincolarsi dalla sua presa.
Odiava
essere chiamata nana, seppure sapesse di essere bassina. “Tutta questa
fatica
per inculcarti dei buoni principi, e tu dov’è che corri? A scuola”
Ben
sottolineò l’ultima parola, con tono di scherno. “E dire che pensavamo
ce
l’avessi fatta, a diventare una fallita, quando sei diventata capitano
della
squadra delle cheerleader!”. Il braccio libero di Alice si mosse prima
che lei
stessa potesse pensare a quello che stava facendo. Ma suo fratello le
bloccò la
mano a pochi centimetri dalla sua faccia. Ridendo sguaiatamente, Ben la
bloccò
contro il muro. “Ma che fai nana? Vuoi fare a botte con il
fratellone?”.
“Lasciami” sibilò nuovamente Alice, questa volta fissandolo dritto
negli occhi.
Il ghigno scomparve dalla faccia di Ben, che schiuse le labbra per
minacciare
qualcosa. Ma fu interrotto. “Lasciala andare. Dobbiamo andare a
scuola.” Alex
si avvicinò. Era più basso di Ben di almeno tutta la testa, ma sembrava
fermo e
risoluto. “Ah! Due nani contro di me!” rise. Alex sollevò il cellulare.
“Non
credo che a mamma andrebbe di vedere quello che stai facendo”, disse. A
quel
punto, Ben mollò la presa su Alice, avvicinandosi ad Alex, un passo
alla volta.
“Che cosa c’è, frocetto” sibilò “vuoi metterti contro di me?”.
Calmissimo, Alex
sostenne il suo sguardo, mentre Ben avvicinava la faccia alla sua, fino
a
lasciare solo pochi millimetri tra le punte dei loro nasi. “Vuoi forse
farmi
paura?”. “Alice è la mia gemella”, spiegò, semplicemente. “Tutto quello
che fai
a lei, lo subisco anche io. E oggi non ho proprio voglia di sentire
male”. Ben rise sguaiatamente. “Che stronzata”. “Non dovresti
essere a
scuola anche tu, comunque?” Alice fece un passo in avanti, corrucciata,
i
penetranti occhi blu scuro fissi sul fratello. “O vuoi vivere a casa
per
sempre, per rompere le palle a me?”. Ben stava per ribattere, quando
lei lo
interruppe. “Oh sì, facciamo a botte. Due contro uno, Ben, ti va? E
quando ci
porteranno tutti e tre all’ospedale, potrai spiegare a nostra madre che
cosa è
successo. E come mai non eri a scuola, cosa fai quando sei fuori, e
tutto il
resto”. Ben perse a questo punto ogni voglia di ridere. “Ascoltatemi
bene, voi
due” ringhiò “sarà meglio che iniziate a portare rispetto per i più
grandi,
perché se pensate che io possa aver paura di voi… di un
vostro ricatto,
vi sbagliate. Siete fortunati che oggi non ho voglia di litigare con
femminucce
e frocetti, se no a quest-“. “Andiamo, Alex”. Tirando il fratello per
un
braccio, Alice uscì in fretta e furia dalla porta, inseguita dagli urli
di Ben.
“ALICE JEN DAWSON, STO FOTTUTAMENTE-“. Le grida si attutirono quando
Alice
sbatté la porta della Mercedes. Alex si allacciò la cintura, sul sedile
del
passeggero, guardandola. “Stai bene?” domandò, incerto. “Non so perché
Ben sia
così. Insomma, è quasi come se fosse colpa tua che-“. “Sto benissimo”
Tagliò
corto lei. “Allora, la metti la musica o no? Ma niente roba da froci,
per favore” Aggiunse, lanciandogli uno sguardo divertito. “Roba da
froci? Agli
ordini!” Esclamò Alex. I due risero, mentre Alice metteva in moto, e
ingranava
la retromarcia, facendo scricchiolare il cemento del vialetto.
---
Dentro al guscio, fremeva, si agitava, ribolliva.
L’inquietudine lo divorava dall’interno. L’impossibilità di muoversi lo
distruggeva. “Ancora qualche ssssecondo, padrrrrrone”. Miagolò
qualcuno. “Ne
uscirà rigenerato, è una garanzia!”. Sbuffò. “Ormai sono diversi minuti
che
manca solo qualche secondo”, sibilò. “Gli altri sono tornati?”. “SSSì,
ssssignorrre…”. “Le hanno trovate?”. “…No, sssignorrre…”. “Mandria di
incompetenti” sbottò. “Devono trovarle. Dobbiamo trovarle. Prima del
risveglio”. Sbatté un pugno contro il guscio, frantumandolo. Si alzò;
una
figura imponente, magra, dinoccolata, lievemente deforme. “Aprite il
portale”
ordinò.
Intanto, migliaia di chilometri sotto la crosta
terrestre, qualcosa ribolliva, si agitava, fremeva. Milioni di uova si
agitavano nella lava rovente, nutrendosi del calore del magma,
assorbendo la
linfa vitale della Terra. Erano stati deposti lì quasi due decenni
prima, e ora
il tempo della schiusa era finalmente vicino. Larve, esseri immondi,
informi,
destinati a succhiare la vita dei pianeti su cui nascevano, lasciando
dentro di
sé solo una massa di sterili rocce. Mostri, ecco cosa sarebbero
diventati: di
fattezze e forme differenti, ma dotati di una forza inaudita, e di uno
spiccato
gusto per la violenza. Erano macchine da guerra che sarebbero nate e
cresciute
per distruggere. Era da quando avevano scoperto l’altra dimensione che
aspettavano questo momento. Il loro popolo sarebbe finalmente risorto,
conquistando nuove terre, e diventando il primo conquistatore
dell’altro mondo.
Così, con la schiusa, iniziava la guerra delle dimensioni.
Nel cuore della Terra, a migliaia di chilometri da Max, Alice, Zia
Chelsea,
Alex, e qualunque altro terrestre, il guscio del primo uovo si incrinò.