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Autore: _Polx_    28/01/2018    4 recensioni
A sei anni dall'uscita di Skyrim, ormai pilastro videoludico.
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“Perché ti sei arruolato?”.
Il ragazzo si guardò attorno, incerto: “dici a me, signore?”.
“A chi altri?”.
Quello ridacchiò: “be', pagano bene, signore... e, ovviamente, il Concordato”.
“Certo” anche lui ridacchiò “il Concordato”.
“E tu, signore? Perché hai accettato di stanziarti in questa terra vile e fredda?”.
“Il destino mi ha condotto qui”.
La fronte dell'altro si corrugò: “non è la risposta che mi sarei aspettato da te, signore”.
“Auri-El qui prende il nome di Akatosh, o sbaglio?”.
“Non sbagli, signore”.
“Ebbene, lui ha voluto che arrivassi a Skyrim. Aveva un dono per me” sospirò “ho avuto molto da fare”.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het | Personaggi: Dovahkiin, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“È bello, ogni tanto, vederti uscire di casa con abiti normali, anziché bardato in quell'armatura”.
“Eppure quell'armatura mi occorre, se mi avventuro all'esterno. Abbi pazienza con lei: mi ha salvato molte volte”.
Ysolda sbuffò: “non so per quanto ancora avrà intenzione di farlo”.
A tali parole, fu lui a sbuffare: “non ricominciamo, per cortesia”.
“No, certo che no”.
“Combattere è ciò che mi riesce meglio e mi permette di portare a casa ottime somme. All'educazione dei ragazzi fa comodo”.
“E fa comodo al tuo spirito belligerante” gli concesse un frettoloso bacio “prego, immergiti nella tormenta e ricorda di far indossare entrambi i mantelli a Cal: fa davvero troppo freddo per vestirsi alla leggera”.
Lui annuì e mise mano alla porta.
“Ah, ringrazia Elydrel per il pasticcio di mele che ha consegnato ieri a Sofie”.
Annuì di nuovo e premette la maniglia.
“E falle presente che può passare quando più lo desidera a ritirare le lozioni che ha ordinato”.
“Perché non ci vai di persona, se avete tanto da dirvi?” replicò spazientito.
“Non sei in grado di farlo in mia vece? Troppe informazioni da tenere a mente?”.
Dovah storse il naso e si convinse una volte per tutte a darle le spalle, ma un lampo discreto, un lieve bagliore scarlatto catturò il suo sguardo.
Tornò indietro scansando Ysolda, che sospirò esasperata: “tesoro, ti rendi conto che tuo figlio di sei anni ha una soglia d'attenzione superiore alla tua? Che c'è ancora?”.
Scostò la libreria quel tanto che bastava a intravedere una sagoma dietro di essa, impressa sul muro. Una mano di sangue.
Il suo respiro si mozzò. Il silenzio che così aspramente l'aveva turbato al suo risveglio divenne improvvisamente insostenibile, tanto greve e pastoso da contorcergli la mente e squarciargli le orecchie.
Fu un solo istante, poi il buio lo colse e di nuovo precipitò nell'oblio .
 
“Chi diamine ha avuto la brillante idea di lasciare l'occhio in così bella vista?”.
Era il suono d'una voce remota, roca e sgradevole, che tuttavia non riuscì a scuoterlo dal torpore.
“È conservato in un vaso di linfa nera” fu una lontana replica di donna “come può intuire di che si tratta?”.
“Non lo so, ma qualcosa deve averlo riscosso: si sta già svegliando”.
Dovah cominciò ad avere nuovamente percezione del proprio corpo: sentì un gelo graffiante a percorrere la sua schiena e il suo petto, un tedioso formicolio a intirizzirgli le gambe e un dolore pungente ad anchilosargli spalle e polsi.
Poi i suoi occhi si aprirono e distinsero con fatica una sagoma scura, erta a un passo dal suo volto: due occhi d'iridescente ambra lo scrutavano dal basso. Comprese d'esser stato incatenato al soffitto d'una cella sotterranea, in un qualche antico, decadente bastione imperiale.
“Buongiorno, bestione” lo salutò il vampiro e le sue labbra si schiusero in un affilato sorriso “sei proprio una roccia. Tanto tempo sprecato in quel filtro e guarda il risultato”.
Pur non essendo ancora padrone di sé, Dovah agì con la rapidità d'una serpe quando comprese che il suo carceriere stava prendendo fiato per chiamare a gran voce i propri compari: sollevò le gambe già sospese e le avvinghiò attorno alla sua gola con tale forza da impedirne ogni respiro, poi si mosse con scatto letale e lo schiocco funereo d'un collo spezzato decretò la fine dello sciagurato.
Il corpo crollò come un sacco vuoto e Dovah si ritrovò nuovamente solo. Scosse le braccia, ma le catene ai suoi polsi erano ancorate con spessi bulloni che, seppur arrugginiti, parevano ancora ben saldi. Grazie a una secca spinta di reni, ecco le suole delle sue calzature poggiarsi al soffitto e le gambe fare leva con quanta forza vi era in loro, finché i ganci non cominciarono a cigolare e infine il metallo cedette. Cadde schiena a terra con uno schianto che gli scosse le ossa e spezzò il fiato. Solo dopo un lungo istante riuscì a prendere un profondo respiro e un dolore acuto ne morse costole e polmoni.
Attese, pregando che nessuno si fosse avveduto del chiasso che aveva causato e, poiché tutto taceva, arrancò fino al vecchio tavolo d'ebano su cui erano poggiati alcuni oggetti che lui conosceva, primo tra tutti il suo arco: tra i flettenti e la corda giaceva un'ampolla. Sul suo collo sottile era infilata una fede nuziale e una targhetta aderiva al vetro nero: Vaermina era il nome che vi lesse, impresso con inchiostro scarlatto.
Sfilò l'anello e lo guardò stranito: apparteneva ad Ysolda, identico a quello che lui ancora portava al proprio indice destro, ma molto più esile e sottile.
Ripensò alle parole del vampiro che ora giaceva morto ai suoi piedi: prese il vaso poggiato in bilico accanto al filtro daedrico e lo voltò verso di sé. Le sue dita s'aprirono istintivamente e il vetro si frantumò a terra, mentre la melma in esso contenuta s'espandeva pigramente sulla pietra e un bulbo ormai spento scivolava nel sudiciume. Con disgusto e respiro inibito si chinò per osservarlo a dovere.
Le sue gambe cedettero e si ritrovò ad arrancare a terra, retrocedendo inorridito, quando riconobbe l'occhio che tanto macabramente si volgeva verso di lui: un'iride ormai prossima all'appannarsi, ma di cui ancora traspariva il bruno corposo, un lampo smeraldino ad attraversarla da cima a fondo, così da spezzarne il calore terreo con un'ombra di dolce freddezza.
La sua schiena incontrò infine la dura roccia e lui più non seppe dove andare. Vi era pura confusione nella sua mente, un terrore che non conosceva e che, forse proprio per questo, non riuscì a dominare. I suoi pensieri vagavano forsennatamente, eppure non riusciva a capacitarsi del fatto che, di fronte a sé, giacesse quell'occhio. L'occhio di Cal.
Improvvisamente si accorse di essere impietrito, di non controllare più le proprie gambe; si accorse che le sue mani tremavano come foglie e che la sua testa era divenuta pesante poiché respirava tanto affannosamente da intorpidirla. Cercò allora di recuperare lucidità, di riacquistare padronanza di sé e, sebbene non riuscisse a trattenersi dall'ansimare come un cervo che avesse corso per miglia e miglia con un branco di lupi alle calcagna, la sua mente tornò a ragionare.
Pensò e rimuginò, poi espirò profondamente e, chiusi gli occhi, mormorò poche parole in una brezza lieve come rugiada, ma pregna di antico potere.
Laas ya nir.
 
Sedeva su uno scranno erto nell'antico salone della fortezza e alcuni dei suoi seguaci vegliavano su di lui e sul suo lauto pasto, pur non temendo alcuna minaccia. Kvash era il nome del loro signore, un vampiro antico ma rammollitosi nell'ozio della sua alterigia.
Si rizzò sulla propria seduta quando udì dei passi avanzare nelle tenebre. I suoi uomini lo attorniarono, in attesa: una figura imponente si mostrò al lume delle molte candele, un Altmer in vesti stregate che si avvicinava stringendo un ingombrante peso nella destra.
“Il prigioniero” mormorò Kvash “perché il prigioniero è libero?”.
Ma Dovah non concesse loro il tempo per alcuna risposta: lanciò ciò che portava con sé ai piedi del mortifero signore. Una testa orrenda e irsuta rotolò malamente tra le increspature della pietra e infine si fermò, il sangue che ancora sgorgava dalla rozza mozzatura.
“Altri otto dei vostri guerrieri giacciono nelle profondità del bastione” riferì cupamente “nessuno si è avveduto di me finché la lama che ho sottratto loro non ne ha squarciato la gola”.
Dovah non mentiva: si era fatto largo tra i molti carcerieri e, privato pressoché d'ogni avere, non s'era trattenuto dal rovistare in ciò che i vampiri avevano accumulato nel corso delle proprie cacce. Rubò la divisa d'un Inquisitore del Dominio Aldmeri e la indossò, preferendola, sebbene fosse per lui pressoché inservibile, alla lieve stoffa della sua casacca e dei suoi calzoni.
Non fu attaccato, perché Kvash taceva e i suoi uomini non osavano agire senza permesso.
Fu un mastino infernale, privo di costrizioni e di senno, a scaraventarsi contro di lui con le fauci spalancate e la morte a esalare da esse, ma Dovah lo rimproverò con poche, arcaiche parole che risuonarono tra le ampie mura di pietra come un tuono.
Kaan Drem Ov.
Quella bestia non era più una creatura di Kynareth e il Thu'um non le donò pace, bensì dolore. Si contorse in pietosi guaiti prima di ritirarsi nell'ombra con le zampe tremanti.
“Dunque è vero” mormorò il signore delle Mani di Sangue “colui che quei sacerdoti hanno preteso da noi era il figlio del Dovahkiin. In quale sciagura ci siamo gettati?”.
“Già, in quale sciagura, bestia della notte?” Dovah avanzò verso di lui e le mani del vampiro si strinsero frementi ai braccioli dello scranno su cui sedeva.
“Dov'è il bambino che avete preso prigioniero?”.
“Non più in nostra custodia, evidentemente” rispose con sardonica spocchia.
“Dunque di chi?”.
“Di coloro che così profumatamente ci hanno pagati per averlo”.
Dovah avanzò d'un altro passo e Kvash dovette ordinare ai propri uomini di attendere, o questi si sarebbero gettati alla cieca in un combattimento contro il prescelto di Akatosh. Sapeva come sarebbe andata a finire: troppi fratelli, troppi nomi illustri erano caduti sotto ai suoi colpi. Da anni quell'Altmer mieteva vittime tra i seguaci di qualsiasi Principe e lui aveva lo sgradevolissimo sentore d'essere a un passo dal divenire il prossimo.
“Tenevate l'occhio di mio figlio in un vaso” ringhiò Dovah, faticando come non mai a reprimere la propria ira “ditemi perché. Che ne è di lui?”.
“Il suo destino non ci riguarda” lo liquidò Kvash “per quanto concerne l'occhio, è il pegno di sangue e morte che ci spettava: poiché per stavolta non abbiamo potuto infliggere morte, ci siamo accontentati del sangue”.
Dovah non faticò a scorgere i gesti composti e subdoli d'un giovane vampiro che agiva alla sinistra del proprio signore, intento a estrarre una lama dal potere immondo per volgerla contro di lui. Era arrogante e debole.
Lo rimproverò, così come aveva rimproverato il cane che tanto gli pareva simile alle creature della notte cui ubbidiva.
Faas Ru. Solo due parole, ma furono sufficienti.
La mano del vampiro si aprì, tremante. Il pugnale che stringeva sfuggì alla sua presa e precipitò a terra con tintinnio sonoro. Infine lui indietreggiò di qualche passo, sopraffatto dalla paura, e fuggì.
“Renderò ciascuno di voi vile come una pecora” promise in un sibilo “e mentre il vostro corpo sarà sordo alla ragione e non vi darà modo di combattere, vi sgozzerò come maiali. Dimmi dove l'hanno portato”.
“Te ne andrai senza arrecarci altro male?” chiese Kvash e avrebbe provato pietà per sé stesso, se solo non fosse stato tanto sopraffatto dal terrore della morte.
Mai Dovah si era abbassato a un simile compromesso, mai la sua mano aveva esitato di fronte a bestie di tal stampo.
Ne aveva ammazzati di meno crudeli, per dovere, per diletto. La vita di questi gli spettava di diritto, poiché il sangue di colei che amava lordava le loro mani, così come l'orrendo torto d'aver arrecato dolore, d'aver seviziato e torturato il loro figlio. Eppure era una promessa che si ritrovò disposto a concedere, pur di salvarlo.
“Non infierirò su di voi” assicurò.
“Volgi a Labyrinthian. Lì troverai le risposte che cerchi. Io più di questo non so”.
Forse mentiva, forse vi era di più che potesse esser detto da quelle labbra cineree, ma Dovah non avrebbe creduto ad altre parole, poiché se la meta del suo viaggio era stata estorta con la paura, qualsiasi informazione dopo di essa si sarebbe macchiata di viltà e menzogna.
Voltò loro le spalle, ostentando fiera sicurezza e fingendo di non prestare attenzione alle loro mani frementi, ai loro sibili ferali. Uscì, non dal passaggio interrato e sudicio attraverso cui era stato condotto alle segrete del bastione, a meridione di questi e protetto dalle selve, bensì dal portale macilento eppure magnificente che ancora si ergeva a settentrione.
Qui, quasi l'inesorabile scorrere del tempo si divertisse a farsi beffe di lui, la sua cerca fu interrotta da un nuovo incontro spiacevole: una squadra di agenti Thalmor, tre soldati in armature elfiche, capitanati da un Inquisitore con indosso i medesimi abiti che fortuitamente Dovah sfoggiava in quel momento.
La sua copertura non fu sufficiente: gli sguardi dei Thalmor lo squadrarono con scetticismo, poiché non si aspettavano che uno di loro vagasse solo in quei luoghi perigliosi.
“Chi sei?” chiese l'Inquisitore.
“Non ti pare evidente?” azzardò Dovah.
“Perché ti trovo qui?”.
Decise di non mentire: “sono scampato alla morte, sfuggendo da un covo di vampiri annidati nei meandri di questo bastione”.
“Hai perso la tua squadra?”.
“Tu che dici, fratello?”.
“Non vi è bisogno di essere tanto pungenti. Non conosco il tuo volto e ammetterai che trovarti qui sia sospetto. Chi sei?”.
Dovah era consapevole che azzardare identità fittizie di fronte a un Thalmor di tale rango fosse rischioso, poiché sarebbe stato colto in fallo.
Quasi come se una mano superiore stesse guidando la sua, si ritrovò a frugare nella tasca della lunga casacca ed ecco le sue dita stringersi attorno a una piccola pergamena, sfuggita alle attenzioni dei vampiri. La scorse rapidamente prima di consegnarla all'Inquisitore.
Quello la lesse con sorpresa: “Arilion, Inquisitore di Summerset. Temevamo fossi caduto sul campo, appena messo piede in queste terre infernali, due settimane fa”.
Dovah ridacchiò: “per un attimo l'ho temuto io stesso. Dove siete diretti?”.
“A Morthal, signore” rispose uno dei soldati, una Altmer imponente e severa che pareva squadrarlo con persistente sospetto.
La mente di Dovah vagò freneticamente: per giungere a Labyrinthian senza aggirare i monti, avrebbe dovuto attraversare il Passo Meridionale di Roccia Fredda, nello Hjaalmarch. Mai, in circostanze diverse, si sarebbe abbassato ad affiancare un drappello Thalmor, ma viaggiare in loro compagnia gli avrebbe assicurato una marcia spedita e libera da qualsivoglia inconveniente.
“Posso unirmi a voi?” chiese senza tentennamenti.
L'altro Inquisitore accettò di buon grado: “hai già sperimentato sulla tua pelle quanto ostica sia questa regione di bruti. Non sarebbe saggio viaggiare soli. Io sono Allermo, di stanziamento nel nord di Tamriel da molto più tempo di quanto non sia opportuno”.
Senza perdersi in convenevoli, Dovah s'incamminò e i suoi nuovi compagni di viaggio lo seguirono con malcelata titubanza: non era raro incappare in compagni d'arme, anche di grado considerevole, senza conoscerli in viso, perché i trasferimenti di soldati, Inquisitori e persino Giudici tra Summerset, Cyrodiil e Skyrim avveniva di continuo e a ritmo sincopato. Tuttavia, quel fratello Altmer, vestito da mago ma imponente e solido quanto un guerriero, dal volto sfregiato e lo sguardo tetro, dava tutta l'impressione di nascondere molti segreti nel proprio silenzio: asseriva d'essere sfuggito alla morte, e il luogo in cui l'avevano trovato pareva comprovarlo, eppure non vi era turbamento né paura in lui, solo cocente determinazione, di cui loro non comprendevano le ragioni.
  
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