CAPITOLO
II
Il mio nome è Max
Caulfield
Max
Il campus universitario di Heathfeld si
trovava nell’entroterra di una delle due penisole del Michigan, e
distava circa
mezz’ora, in macchina, da Newberry. Per questo, Max aveva deciso di non
usufruire dell’alloggio che la borsa di studio le offriva: sarebbe
semplicemente stato più comodo tornare a casa, nella sua stanza, che
non
condivideva con nessuno, e dove teneva tutte le sue cose. Molti ragazzi
erano
entusiasti, invece, alla prospettiva di cambiare casa, e di vivere per
tutto il
semestre con i propri compagni di scuola: vagheggiavano di organizzare
festini,
e passare le serate libere a bere e socializzare. Una prospettiva che
non
sollecitava minimamente l’interesse di Max. Non era mai stata brava a
socializzare, e, a un certo punto, si era arresa del tutto. Si sentiva
terribilmente a disagio quando un estraneo le rivolgeva la parola, e
rimediava,
in genere, solo figuracce. Per questo, era diventata una persona
solitaria, che
i suoi coetanei non cercavano mai.
Si ricordava il boom di attenzioni ricevute quando sua madre era morta:
le
mamme costringevano i ragazzini di tutte le età ad invitarla a feste di
compleanno, uscite, giochi. La forzatura era evidente
persino agli occhi
di una bambina, anche perché già a quell’età Max era abituata ad
evitare ed
essere conseguentemente evitata. Preferiva stare sola, piuttosto che
sforzarsi
di piacere a gente che si sforzava di stare con lei: non c’era guadagno
per
nessuna delle due parti. Qualche bullo aveva tentato, per questo suo
atteggiamento, di attaccarla, ma lei non era una ragazzina debole, e
aveva
sempre reagito. Finché, in qualche modo, alle superiori non iniziarono
a
guardarla tutti con rispetto, senza avvicinarla, come se avesse dieci
anni in
più di loro. E, in un certo senso, si poteva dire che Max fosse
cresciuta più
in fretta di loro, vuoi per le sue esperienze, vuoi per il suo modo
d’essere.
Anche gli adulti faticavano a capirla, a volte. A dire la verità, le
uniche
persone che, finora, riuscivano ad entrare nel guscio di Max erano Zia
Chels e
Richie, il suo vicino di casa. Tutti gli altri non la capivano, e lei
non dava
loro elementi per essere capita: per cui la lasciavano stare,
ammirandola, ma
provando anche antipatia nei suoi confronti. Chissà
chi si credeva di
essere, quella Caulfield, pensavano.
In realtà, Max non si credeva d’essere proprio un bel niente, se non
una
ragazza timida, chiusa, ma soprattutto sincera: se non trovava elementi
degni
di interesse, non vedeva il perché fingere e mescolarsi tra la folla.
Ingranò
la marcia con un gesto brusco. Lei era una brava persona, ma non poteva
lasciare
avvicinare proprio chiunque: si proteggeva,
per istinto di
sopravvivenza, e in questo modo si evitava delle delusioni. Esattamente
quello
che non aveva saputo fare sua madre. Frenò all’ultimo momento, quando
si
accorse che stava per oltrepassare lo svincolo giusto, e imboccò una
strada in
salita. A maggior ragione, dunque, Max si era convinta a star lontana
da chi
non le trasmettesse le vibrazioni giuste, anche al college: aveva tutti
gli
elementi per farcela da sola, senza bisogno di amici. Certo, se, per
caso, ne
avesse incontrati un paio lungo la strada, ne sarebbe stata felice, ma
non
c’era bisogno di sforzarsi e di conoscere gente su gente. Max sapeva di
essere
diversa, di non essere normale. Al momento giusto, la persona giusta,
animata
dal giusto desiderio di entrare in sintonia con lei, sarebbe arrivata.
E se
così non fosse stato, sarebbe sopravvissuta, come sempre.
Sul filo di questi pensieri, Max entrò nel parcheggio del campus. Era
già quasi
tutto occupato. Imprecando ripetutamente tra sé e sé, Max iniziò a
girare a
cerchi come un falco, finché non individuò un bel posto comodo, sotto
alla
tettoia, tra un fuoristrada di lusso e una Mercedes nera. Si infilò
nello
spazio alla perfezione, e in quel momento realizzò che forse la sua
vecchia
Golf sfigurava, tra quel colosso e l’altra berlina. Probabilmente, lei
stessa
si sarebbe sentita così tutto l’anno in mezzo alle altre persone,
pensò,
ridacchiando tra sé. Beh, per lo meno vi ho fottuto
il posto figo,
ricconi, ghignò, e uscì dalla macchina, avendo cura di
chiuderla prima di
allontanarsi.
Sfilò il programma dalla borsa e lesse. Dalle ore otto alle ore dieci,
gli
studenti sarebbero stati fatti accomodare nei loro alloggi. Alle ore
dieci e
trenta, era obbligatorio ritrovarsi in aula magna per il discorso di
benvenuto.
Max controllò l’ora dallo schermo bloccato del suo cellulare. Erano le
9:47.
Avrebbe avuto tempo per un caffè, ma andare nella caffetteria, in un
buco vuoto
dell’orario delle attività del primo giorno di scuola di un college,
significava
trovare orde di matricole a caccia di relazioni sociali, e a Max non
andava di
essere una preda a cui sottoporre un sacco di noiose ice-breaking
questions,
tipo come ti chiami, come mai sei qui, cosa vorresti
studiare di più,
che lezioni segui, siamo insieme in questa qui, facciamo un gruppo
studio!
Decisamente no. Max si voltò e si diresse verso l’aula magna, una
stanza da
conferenze piuttosto grande, che si trovava al centro del piano terra
dell’edificio principale. Entrando, scelse un posto vicino all’estremo
centrale
di una delle file più in alto: era la prima arrivata, e i sedili erano
tutti
vuoti. Lasciò solo un posto tra sé e il corridoio. In quel modo, non le
sarebbe
stato comodo alzarsi, di conseguenza difficilmente sarebbe stata scelta
per
fare qualche attività, ma allo stesso tempo era difficile che qualcuno
si
sedesse, perché erano tutti fuori a conoscersi e sicuramente avrebbero
voluto
un posto vicino ai nuovi amici, lasciando quel sedile per un altro
emarginato
poco fastidioso. Con la faccia perennemente seria che si ritrovava Max,
era
difficile che un gruppetto di studenti decidesse di mettersi intorno a
lei,
includendola a forza nel gruppo. Così, trovato il posto perfetto,
aspettò.
Verso le dieci, e più consistentemente verso le dieci e un quarto, la
sala
cominciò a riempirsi, e l’aria vibrava del chiacchiericcio di matricole
eccitate. Come previsto, nessuno faceva l’atto di raggiungerla: la sua
bolla
funzionava anche al college, e di ciò era grata. Continuò ad esaminare
il
flusso delle persone. Nella sua fila, gli unici posti rimasti liberi
erano i
due a fianco a lei, sicuramente nessuno li avrebbe pretesi entrambi.
Qualche
ritardatario, magari, avrebbe voluto il posto esterno, ma…
"Scusami...". Incredula, Max si voltò lentamente verso la fonte di
quella voce esitante. Proveniva da una ragazza con i capelli neri,
leggermente
protesa verso di lei. Max alzò un sopracciglio, in attesa, e forse
l’espressione sul suo viso colse di sorpresa l’avventrice, che si
ritrasse
impercettibilmente, ricomponendosi poi subito. "Scusami, ci stavamo
chiedendo se questi due posti fossero occupati". Non era sola: a pochi
passi di distanza c’era un ragazzo identico a lei, non fosse per la
lunghezza
dei capelli. Max gettò un’occhiata sconsolata intorno all’aula, notando
infinite file mezze vuote, poi si voltò a guardare il gruppo che aveva
occupato
la sua: l’ultimo ragazzo le dava le spalle, parlando animatamente con
gli
altri. Indicando la sua schiena con un cenno, disse: "Sono vostri
amici?" "Ehm, no", rispose la ragazza. Max sospirò. Perchévolevano
sedersi proprio lì? "Senti, i posti sono liberi, ma se volete stare
seduti
vicini vi conviene andare più su, perché io non voglio spostarmi dal
mio
posto…" Max cominciava a essere inquieta, il suo piano rischiava di non
funzionare. La ragazza sorrise. "Non c’è bisogno. Alex può sedersi alla
tua sinistra, e io alla tua destra, così non perdi il posto tattico".
Questo era il worst case scenario, l’apocalisse: un gruppo che si
posizionava
per includerla. Per quanto si sentisse a disagio, però, Max non se la
sentì di
dire o fare qualunque cosa che potesse ferire quella ragazza dal viso
gentile,
e così si limitò a bofonchiare: "Beh, immagino che vada bene, se a voi
non
dà fastidio…". "Assolutamente no!" trillò il ragazzo che doveva
chiamarsi
Alex, scavalcando le gambe di Max e sprofondando nella sedia alla sua
destra.
"Molte grazie!" aggiunse la ragazza, prendendo posto alla sua
sinistra. Ora si presenta, pensò
Max. Dio per favore, se
esisti… "Hey". La ragazza la stava guardando, un sorriso
sulle
labbra. "Comunque, piacere di conoscerti, quello è mio fratello
Alexander", Alexander fece un cenno e un sorriso "e io, invece, sono
Alice". Sorrise, tendendo la mano. Per la prima volta, Max l’aveva
guardata negli occhi, ed erano di un blu scuro, a tratti quasi
violaceo, un
colore peculiare, che assomigliava al mare in tempesta. Occhi che
potevano
appartenere solo ad una persona, dal suo punto di vista.
Lei non era brava in questo genere di cose. Sapeva che avrebbe dovuto
stringerle la mano, e dire qualcosa come “Il mio nome è Max
Caulfield”,
ma perché, in quel momento, quella frase sembrava così difficile da
pronunciare? Coraggio, Max, si
disse, mentre il sorriso sul
volto di Alice cominciava a trasparire la preoccupazione,prendile
la mano e
dì qualcosa. Ma non riuscì a stringerla. Era come se una
forza la
trattenesse, obbligandola a non avvicinarsi a quella ragazza. "Tu sei
Alice" disse infine Max, come in una trance. "Noi andavamo alle
elementari insieme", aggiunse, voltandosi, in modo da guardare di
fronte a
sé. "Davvero?" Alice era palesemente sorpresa. Vedendo la reazione di
Max, abbassò la mano, imbarazzata. "Mi spiace, faccio un po’ di fatica
a
ricordare, com’è che hai detto che ti chiam-".
"Silenzio" tuonò la voce profonda del Preside. Max sospirò: salvata in
extremis.
"Grazie" continuò Mr. Chamberman. "Come sapete, siete tutti qui
per celebrare l’inizio del vostro percorso universitario. Siamo
orgogliosi di
dire che Heathfeld sforna ogni anno giovani professionisti, eccellenze
divenute
tali dopo aver ricevuto una formazione di prim’ordine proprio qui, in
una delle
migliori Università degli Stati Uniti. Da matricole, siete chiamati a
scegliere
il vostro futuro: a decidere in quale ambito concentrare il grande
talento che
vi ha concesso di essere ammessi in questa scuola…". Era il classico
discorso pomposo che le grandi Università private statunitensi
propinavano ai
loro alunni. “Noi siamo i migliori, dovete diventare come noi, dovete
eccellere, dovete essere il nostro futuro”, dovete, dovete,
dovete. Mai
una volta che si parlasse di passione, pensò Max. Erano
discorsi tipici,
già scritti ogni anno, non dedicati a loro, e quindi perché prestare
attenzione? Bastava restare in silenzio, così che il preside potesse
sfogarsi,
e poi accarezzare il suo ego, nonché quello di chi credeva nelle sue
parole,
con uno scroscio di applausi. A Max interessava solo che in quel posto
le
insegnassero qualcosa di buono, e poi, come usarlo, l’avrebbe deciso
lei, senza
bisogno di discorsoni.
Il suo sguardo vagò, e si ritrovò a indugiare sul viso di Alice, che
invece
ascoltava corrucciata. Max si chiese a cosa stesse pensando. Non era
cambiata
di molto da come se la ricordava: ora portava i capelli lunghi fin
sotto le
spalle, con un ciuffo che le ricadeva sulla fronte. Aveva il naso
piccolo e
fine, leggermente all’insù, e la bocca morbida e molto rossa, che
contrastava
con la sua carnagione chiara. Sembrava Biancaneve, pensò Max,
divertita. In
fondo, viveva in una villa in periferia, che, agli occhi di Max,
assomigliava
ad un castello, quindi il paragone con una principessa era d’obbligo.
Ma
qualche trasformazione, nel suo corpo, c’era stata: il viso si era
leggermente
affilato, e soprattutto i fianchi si erano allargati un pochetto, e
indubbiamente le erano cresciuti i seni. Max arrossì: era una donna,
ora,
Alice, diversa dalla bambina che le aveva portato i biscotti cotti nel
dolce
forno, la sera in ospedale, mentre sua madre era attaccata a degli
apparecchi
che monitoravano il suo stato vitale.
Era stata la mamma di Alice a dare le ultime cure a sua madre morente.
Max,
nell’ospedale, era terrorizzata, non riusciva nemmeno a piangere.
Siccome la
madre dei gemelli Dawson era un chirurgo di grande fama, era stata
chiamata nel
cuore della notte, nonostante non fosse di turno, e aveva dovuto
portare i
figli con sé all’ospedale, come capitava ogni tanto, non sapendo a chi
lasciarli. Loro avevano la loro stanza e alcuni giochi nell’ufficio
della
madre, e così Alice, vedendola nella sala d’attesa, doveva aver pensato
che il
Dolceforno potesse tirare un po’ su Max. Così le offrì un biscotto, e
poi le
mostrò come farne altri, e giocarono tutta la sera, fino ad
addormentarsi, Max
abbracciata a lei. Le aveva svegliate proprio la madre di Alice, che
poi aveva
portato Max in un posto appartato, per comunicarle della morte di sua
madre.
Quel gesto, a Max, aveva fatto effetto. Era così diverso da tutti i
regalini
che aveva ricevuto dai bambini, che si avvicinavano a mani tese,
bofonchiavano
qualcosa e poi tornavano dalla mamma che li teneva sott’occhio. La
mamma di
Alice era in sala operatoria. Quella era una cosa che aveva voluto fare
lei, da
sola, per aiutarla.
Che strana persona, pensò. All’improvviso, la stanza si riempì di
applausi e
ovazioni, e Max vi si unì in ritardo, stordita. Alice si voltò
sorridendo.
"Che mucchio di cazzate, eh?" disse, sorridendole. "Eri
fortissima prima. Ogni tanto ti guardavo. Ti eri incantata su qualcosa,
forse
ho qualcosa tra i capelli, e stavi palesemente pensando a tutto meno
che all’onore,
all’orgoglio…" enfatizzò le ultime parole con fare
parodico,
mentre Max sentiva un profondo bollore risalire lungo il collo. L’aveva
guardata. E si era accorta che la stava fissando. "Va tutto
bene?" Alice la guardò incerta, il viso leggermente inclinato.
"Ma sì, sì" disse Max, sbrigativa. "I tuoi capelli sono a
posto, comunque, a volte mi capita di fissare lo sguardo in punti a
caso,
quando penso a qualcosa…". E prima che lei avesse il tempo di chiederle
a
cosa stesse pensando, Max sgusciò fuori dal sedile, oltrepassandola.
"Beh,
ci vediamo in giro, Alice, Alex" e repentinamente si voltò,
dirigendosi verso l’aula di inglese.
Alice
Interdetta, Alice seguì con lo sguardo la
ragazza dai lunghi capelli ramati, che in pochi secondi scomparve,
attraversando la porta doppia dell’ingresso dell’aula magna. Corrucciata,
tornò a sprofondare nella sedia, pensando a cosa mai potesse aver detto
di male
per far correre via una persona. Si era comportata in modo bizzarro,
però.
Forse era una questione di timidezza. I gemelli lasciarono che l’aula
si
svuotasse un pochino, prima di apprestarsi all’uscita. "Beh, dovremmo
muoverci" esordì Alex, ad un certo punto. "La prima lezione è
inglese, e a quanto pare l’aula si trova dall’altra parte del campus.
Alice, mi
stai ascoltando?". La ragazza fissava intensamente un punto di fronte a
sé, mordendosi il labbro inferiore. Il fratello le diede un colpo sulla
nuca,
scuotendola dal torpore, e lei rispose con un pugno sulla spalla.
"Ouch!
Dai, Al, dobbiamo muoverci!". "Lo so". Afferrando la borsa,
Alice si alzò con un movimento fluido, e si diresse a grandi passi
verso
l’uscita. Alex le trotterellò a fianco. "Hey, ma che ti
prende!" sbottò, all’improvviso. "Non è colpa mia se quella
ragazza è corsa via, sai? Non sono così brutto! E, se anche fosse, hai
la mia
stessa faccia, quindi direi che la responsabilità ce la dividiamo
equamente". Alice alzò gli occhi al cielo. "Sarebbe scappata più in
fretta, se ti avesse sentito parlare" ribatté. Sospirando,
aggiunse:
"Non è quello… si è comportata in modo strano. Mi ricorda qualcuno, ma
non
riesco a collegare il suo viso a nulla…". Alzando un sopracciglio,
Alice
guardò il fratello. "Non si sarà offesa perché non mi ricordavo di lei,
vero? Non mi ha nemmeno detto come si chiamasse". "Nah". Alex
calciò una pigna. "Le persone a volte sono strane. Neanche io mi
ricordo
di lei. Chiunque sia, deve essere cambiata troppo dai tempi delle
elementari". "Mmmh…". Alice continuava a tenere la fronte
corrugata, concentrandosi.
"Cerca di non surriscaldarti i neuroni. Ti verrà in mente, alla fine.
Oppure, potrai chiederglielo. Sono sicuro che la rivedrai, prima o poi,
in giro
per il campus. Anche se, a giudicare da come è scappata, forse non
vuole essere
tua amica. Non la biasimo: hai scritto rich, basic
white girl su
tutta la faccia" Alex rise. "O forse oggi puzzavi
particolarmente, e non riusciva a starti vicino", lo rimbeccò Alice.
Continuando a battibeccare, i gemelli oltrepassarono la soglia
dell’aula di
inglese. E indubbiamente, in primo banco, sedeva la ragazza senza nome.
Alice
si bloccò a metà frase, a bocca aperta, mentre lei la scrutava, gli
occhi di un
verde intenso di una serietà e freddezza incredibili mentre scivolavano
su di
lei, dandole la sensazione di venire trapassata da lame gelate.
Senza-nome alzò
le sopracciglia, inclinò le labbra in un mezzo sorriso dall’aria
beffarda, e si
voltò, scrutando fuori dalla finestra. Sentendosi irrimediabilmente
giudicata,
Alice sentì la sua faccia iniziare a scaldarsi, e si affrettò a
prendere posto
nella fila centrale, dove quella ragazza non poteva vederla. "Stai
bene,
sis?". Alex scivolò nel posto accanto a lei. Invece di rispondere,
Alice
iniziò a scrivere data e intestazione sulla prima pagina del suo
quaderno,
furiosa. Erano entrati in classe litigando come due bambini. Però, a
pensarci
bene, che diritto aveva quella ragazza di prendersi gioco di loro? Non
ne aveva
nessuno. Chissà chi si credeva di essere.
Il professore di inglese varcò la soglia, e un improvviso silenzio calò
sulle
file di studenti, la cui attenzione si rivolse alla figura appena
entrata.
"Buongiorno". L’uomo aveva folti capelli neri, occhi penetranti e
un’espressione severa. Indossava una giacca marrone sopra ad una
camicia
azzurra, e pantaloni a coste beige. "Il mio nome è Ferdinand Van
Basten, e
sarò il vostro insegnante nel corso di letteratura inglese e scrittura
creativa". L’uomo si voltò, scrivendo a gesti bruschi il suo nome, la
sua
email e il nome del corso alla lavagna. "Per qualunque domanda, potete
contattarmi, fermarmi a fine lezione, o venirmi a trovare nel mio
ufficio,
all’ultimo piano dell’edificio C1. Ovviamente, anche gli interventi a
lezione
sono ben accetti, purché siano costruttivi". Van Basten fece una pausa,
scrutando ad uno ad uno le facce degli studenti, alcuni dei quali si
scambiarono occhiate sarcastiche. "Molto bene". Van Basten ordinò una
pila di fogli, sbattendoli con due sonori tac sul bordo della cattedra,
e li
consegnò alla ragazza senza nome. "Prendete un foglio e passate il
resto
ai compagni. Oggi faremo un esercizio per conoscerci meglio. Vi chiedo
di
comporre un sonetto in stile shakesperiano, sulla base delle vostre
conoscenze.
Il tema è libero. Avete due ore di tempo, dopodiché consegnerete i
fogli, e io
leggerò alcune delle vostre produzioni. Non preoccupatevi: non dovrete
dichiararne la proprietà, se non è nelle vostre volontà. Cominciate".
Alex rivolse uno sguardo terrorizzato alla sorella. Alice sapeva che
non era
mai stato bravo in questo genere di cose, ma era veramente l’ultima
persona che
potesse aiutarlo. Prese la penna e fissò il foglio, alla disperata
ricerca di
un’ispirazione. Non poteva certo lasciare in bianco e millantare
un’ispirazione
all’ermetismo, che di shakesperiano non aveva proprio niente.
Due ore più tardi, Alice continuava a fissare il foglio, su cui ora
erano scritti
una quindicina di versi, tra cancellature e correzioni. Poco dopo, Van
Basten
ritirò i fogli, e lei iniziò a pregare che, tra tutti, non pescasse
proprio il
suo.
Il professore iniziò a leggere i componimenti, correggendo passi di
alcuni, e
criticandone aspramente altri. Alla fine, lesse un sonetto sull’amore e
la
morte, che Alice trovò stupendo. Giunto alla fine, Van Basten fece una
pausa.
Dopodiché, lo rilesse. Sollevando il foglio, disse soltanto: "Di chi è
questo?". Dalla prima fila, con grande sorpresa di Alice, Senza-nome
alzò
la mano. "Nome", disse poi il professore, seccamente. Alice si
protese in avanti, ma non riuscì a captare la risposta della ragazza,
pentendosi in quel momento di essersi messa così lontana dai primi
banchi. "Molto
bene, Maxime" disse con calma Van Basten. "Questo è il livello
che mi aspetto i miei studenti raggiungano alla fine del corso.
Chiunque non
sia riuscito a produrre qualcosa di almeno passabile, cominci a
lavorare sulla
propria creatività… e a ripassare la struttura di un sonetto
shakesperiano,
perché non mi sembra nota ai più". Cadde il silenzio, e Van Basten
iniziò
a scartabellare alla scrivania, mentre gli studenti si guardavano
intorno con
aria incerta, finché la ragazza di nome Maxime non si mosse,
apprestandosi ad
uscire, e dando il via libera agli altri. Alice si alzò in fretta,
risoluta, e,
ignorando il fratello che le chiedeva dove stesse andando, scavalcò gli
studenti che si attardavano a chiacchierare, e uscì, percorrendo ad
ampie
falcate il corridoio, finché non individuò la chioma di Maxime che
fluttuava,
mentre lei svoltava l’angolo a grandi passi. Accelerando, Alice la
raggiunse.
"Hey" riuscì a dire, senza fiato, ma cercando di non ansimare.
La ragazza si voltò, osservandola ad occhi sgranati: in quel momento,
assomigliava solo ad un cerbiatto spaventato. Ad Alice sembrava quasi
impossibile che da una persona così rigida fosse uscito un componimento
così
pregno di emozioni, per cui, aveva deciso di darle un’altra chance; o
almeno,
era questo che si raccontava. In realtà c’era qualcosa, in lei, che nel
profondo la attirava, catalizzando la sua attenzione. Il desiderio di
conoscerla era molto più grande di qualunque altra cosa, anche se non
avrebbe
saputo spiegare il perché. Non era mai stata così sconcertata in vita
sua, e
non capiva perché il fatto che, in aula magna, Maxime non avesse voluto
parlarle l’avesse colpita così. Sapeva solo che, in quel momento, era
come se
non esistesse nessun’altra persona oltre a lei. Maxime rimase in
attesa, senza
accennare a muoversi o a parlare. "Volevo solo dirti, mi è piaciuto
molto
quello che hai scritto". Alice riprese fiato, e quando vide che l’altra
non faceva l’atto di rispondere, continuò. "Sembrava… sembrava scritto
da
un poeta professionista". Alice la guardò, cominciando a sentire freddo
alle mani. Metterla a disagio sembrava essere il superpotere di quella
ragazza.
"Mi spiace se prima ti abbiamo infastidita. E’ solo che, mi sembra di
averti già vista, e in ogni caso, mi piacerebbe conoscerti, fare
amicizia… sai,
è tutto nuovo, non conosciamo nessuno…". Alice prese fiato di nuovo,
mentre Maxime continuava a fissarla ad occhi sgranati. Tese
la mano.
"Maxime, giusto?". "E’ Max". Max parve
finalmente riscuotersi dal torpore, suonando lievemente infastidita.
"Il
mio nome è Max Caulfield". Dopodiché, con movimenti lenti e
circospetti,
le prese la mano e la strinse.
Successe tutto in pochi istanti: il corridoio alle spalle di Max sfumò
oscillando, e al suo posto comparve una radura. Dalla fronte di Max
scendeva un
rivolo di sangue, mentre urlava qualcosa di incomprensibile. Con un
fragore, la
porta di uno sgabuzzino si spalancò da sola, mentre il corridoio si
materializzava nuovamente intorno a loro. Le loro mani schizzarono
all’indietro, attraversate da una scossa intensa. Alice si guardò
intorno,
spaesata e spaventata. Cos’era successo? E soprattutto, era successo
davvero?
Osservò Max massaggiarsi il palmo della mano, sul viso la sua stessa
espressione sconcertata. Qualunque cosa fosse, era successa davvero, e
doveva
averla sentita anche lei. Guardandosi meglio intorno, si rese conto che
il
corridoio era deserto. Max la guardò, e si ricompose immediatamente,
afferrando
e chiudendo la porta dello sgabuzzino. "Heh, dovrebbero controllare
queste
serrature, eh?". Rise, visibilmente a disagio. "Beh, piacere di
averti conosciuta… a domani, Alice!". E prima che Alice potesse urlarle
di
aspettare, era già scomparsa. Scosse la testa, e in quel momento si
rese conto
di avere un’emicrania terribile. Reggendosi la fronte, fece dei respiri
profondi per calmarsi. Non aveva idea di quello che fosse successo.
L’immagine
degli alberi, e soprattutto del volto di Max continuavano a
galleggiarle di
fronte agli occhi. Eppure, nella realtà, Max non sembrava ferita, solo
molto
sorpresa. Stava diventando pazza? Forse era lo stress. O forse era un
tumore.
Forse doveva correre a casa, dirlo a sua madre, e fare qualche test:
avere le
visioni non poteva essere un buon segno…
Saltò a mezzo metro da terra, sentendosi afferrare per un braccio.
"Hey-HEY, calmati, per Dio, sono io". Alex fermò il braccio della
sorella, scattato involontariamente per reagire all’aggressione, a
pochi
centimetri dal suo viso. "Si può sapere che hai, oggi? Stai bene?
Dov’eri
finita?" chiese, lasciandola andare. Quando si agitava, Alex
tendeva
a parlare troppo. "Mal di testa" bofonchiò Alice. "Ho solo
mal di testa". Alex la scrutò, preoccupato. "Me lo diresti se
qualcosa non andasse, vero?". "Ho detto che ho solo mal di testa. Non
peggiorare la situazione", ringhiò lei in risposta. Alex alzò le mani.
"Okay, okay. Per andare a casa guido io". "Non posso venire a
casa" ribatté Alice. "Ho il primo allenamento, oggi".
"Pensi che sia una buona idea andarci, in queste condizioni". Alice
si raddrizzò. "Non so di che cosa parli. Prendo l’autobus, per tornare,
ma
domani veniamo con macchine diverse, altrimenti ti tocca aspettarmi per
tornare
insieme". E lasciò il fratello solo nel corridoio, a domandarsi che
cosa
diamine frullasse nella testa delle donne di tutto il mondo.
Max
Max sbatté la porta e si accasciò contro la
sua cornice, respirando affannosamente. Era tornata a casa alla
velocità della
luce, e tremava come una foglia. Si guardò le mani, cercando di
controllarne il
tremito. C’era stato un malfunzionamento, un’interferenza, qualcosa.
Ma, se i suoi poteri avevano iniziato a sfuggire dal suo controllo, era
un bel
problema. Raccogliendo tutto il coraggio di cui era capace, Max decise
di
testarli. Si concentrò sulla zuccheriera, che si sollevò dalla mensola.
Si
sforzò al massimo per farla fluttuare, tutti i sensi all’erta per
controllare
che nient’altro accadesse intorno a lei, dopodiché la riappoggiò al suo
posto.
Fece la stessa cosa con un libro, un cuscino, poi aprì e richiuse la
finestra
dal letto, accese e spense la luce del bagno, e infine decise di
provare
qualcosa di più impegnativo, e sollevò il tavolo. Queste operazioni la
stancarono, ma ebbero anche l’effetto di calmarla abbastanza da
consentirle di
raddrizzarsi e staccarsi dalla cornice della porta. I poteri sembravano
rispondere perfettamente alla sua volontà, almeno per ora. Chi poteva
dire,
però, che cosa diamine poteva succedere in seguito?
Era grave, perché, se i suoi poteri non erano difettosi, voleva dire
che era
stata lei a scatenarli incontrollabilmente, in risposta allo
sconvolgimento
emotivo che l’incontro con Alice le aveva provocato. E questo non
andava bene:
se, grazie ad un po’ di turbamento, iniziava ad aprire con la mente
porte di
sgabuzzini chiusi a chiave, chissà che altro poteva succederle in
condizioni di
forte stress emotivo. Poteva anche fare del male a qualcuno.
Di sicuro, Alice si era accorta che era successo qualcosa. Grazie a
quel suo
bel teatrino, Max aveva rischiato di farsi scoprire. Poteva solo
ringraziare
che il corridoio fosse deserto, e sperare che Alice non si facesse
troppe
domande sull’accaduto.
Però, al di là delle emozioni, sapeva che era successo qualcosa di più.
Quando
si erano toccate, una scossa fortissima le aveva attraversato il palmo
della
mano, e, per un attimo aveva perso la cognizione di dove stava, mentre
strane
immagini le attraversavano la testa: uno scorcio di un bosco, forse?
Era durato
troppo poco perché potesse distinguerlo con chiarezza. Fatto sta che, a
giudicare dall’espressione terrorizzata di Alice, e dal modo in cui le
loro
mani erano volate all’indietro, aveva dovuto sentire qualcosa anche
lei. Forse
era quello il motivo per cui si sentiva così strana, così agitata
vicino a lei.
Forse, il suo inconscio stava cercando di avvertirla: in qualche modo,
Alice doveva
avere una cattiva influenza su di lei, e su quello che sapeva fare.
Forse
avrebbe dovuto provare a leggerle la mente, per capire se anche lei
avesse
qualche strano potere. Però, la telepatia consumava molta energia,
lasciando
Max quasi incapace di muoversi dopo aver penetrato la mente di un
essere umano
normale, figuriamoci quella di qualcuno che possedeva poteri psichici.
Era
troppo rischioso, e l’avrebbe lasciata vulnerabile.
Qualunque cosa fosse successa, Max aveva chiaro in mente che, finché
non ne
avesse scoperto la causa, avrebbe dovuto fare di tutto affinché non si
ripetesse. Non poteva rischiare che qualcuno si accorgesse di lei, o
che,
ancora peggio, qualcuno rimanesse coinvolto in un incidente che lei
stessa
aveva provocato. Quindi, in quel momento, Max Caulfield prese la
risoluzione di
stare lontana da Alice Dawson, a qualunque costo.