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Autore: misstaken    28/01/2018    1 recensioni
ATTENZIONE: AGGIUNTO PROLOGO, NOTE, MODIFICATO PRIMO CAPITOLO
Attraversando le barriere spazio temporali che delimitano la nostra realtà, si giunge in un altro universo, parallelo e contrario al nostro: l’uno si fonda sulla vita e sull’ordine, l’altro sull’anti-vita e sul caos. Le due dimensioni non dovrebbero mai entrare in contatto, e per questo esistono dei guardiani, gli Inbetweeners, che stanno a metà tra i due mondi, preservandone l'equilibrio.
Alice è una solare aspirante ballerina, mentre Max è schiva, taciturna, ma soprattutto dotata di poteri paranormali. Le due sono una il contrario dell’altra, e allo stesso tempo sono complementari. Quando a Newberry cominceranno a verificarsi strani eventi, si renderanno presto conto che l’unione delle loro forze è l’unica speranza di salvezza per il loro mondo. Tra creature malvagie assetate di sangue, portali che si affacciano su altre dimensioni, eroi e traditori, Max ed Alice si renderanno conto che bene e male, luce e buio, ordine e caos non sono poi così distinti.
Questa è la prima storia che rendo pubblica. Mi farebbe piacere avere qualche feedback, anche suggerimenti e critiche, siccome sto scrivendo tutto molto di getto! Grazie a chi spenderà qualche minuto per leggermi!
Genere: Fantasy, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Traduzione | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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CAPITOLO II

Il mio nome è Max Caulfield

Max


Il campus universitario di Heathfeld si trovava nell’entroterra di una delle due penisole del Michigan, e distava circa mezz’ora, in macchina, da Newberry. Per questo, Max aveva deciso di non usufruire dell’alloggio che la borsa di studio le offriva: sarebbe semplicemente stato più comodo tornare a casa, nella sua stanza, che non condivideva con nessuno, e dove teneva tutte le sue cose. Molti ragazzi erano entusiasti, invece, alla prospettiva di cambiare casa, e di vivere per tutto il semestre con i propri compagni di scuola: vagheggiavano di organizzare festini, e passare le serate libere a bere e socializzare. Una prospettiva che non sollecitava minimamente l’interesse di Max. Non era mai stata brava a socializzare, e, a un certo punto, si era arresa del tutto. Si sentiva terribilmente a disagio quando un estraneo le rivolgeva la parola, e rimediava, in genere, solo figuracce. Per questo, era diventata una persona solitaria, che i suoi coetanei non cercavano mai.
Si ricordava il boom di attenzioni ricevute quando sua madre era morta: le mamme costringevano i ragazzini di tutte le età ad invitarla a feste di compleanno, uscite, giochi. La forzatura era evidente persino agli occhi di una bambina, anche perché già a quell’età Max era abituata ad evitare ed essere conseguentemente evitata. Preferiva stare sola, piuttosto che sforzarsi di piacere a gente che si sforzava di stare con lei: non c’era guadagno per nessuna delle due parti. Qualche bullo aveva tentato, per questo suo atteggiamento, di attaccarla, ma lei non era una ragazzina debole, e aveva sempre reagito. Finché, in qualche modo, alle superiori non iniziarono a guardarla tutti con rispetto, senza avvicinarla, come se avesse dieci anni in più di loro. E, in un certo senso, si poteva dire che Max fosse cresciuta più in fretta di loro, vuoi per le sue esperienze, vuoi per il suo modo d’essere. Anche gli adulti faticavano a capirla, a volte. A dire la verità, le uniche persone che, finora, riuscivano ad entrare nel guscio di Max erano Zia Chels e Richie, il suo vicino di casa. Tutti gli altri non la capivano, e lei non dava loro elementi per essere capita: per cui la lasciavano stare, ammirandola, ma provando anche antipatia nei suoi confronti. Chissà chi si credeva di essere, quella Caulfield, pensavano. 
In realtà, Max non si credeva d’essere proprio un bel niente, se non una ragazza timida, chiusa, ma soprattutto sincera: se non trovava elementi degni di interesse, non vedeva il perché fingere e mescolarsi tra la folla. Ingranò la marcia con un gesto brusco. Lei era una brava persona, ma non poteva lasciare avvicinare proprio chiunque: si proteggeva, per istinto di sopravvivenza, e in questo modo si evitava delle delusioni. Esattamente quello che non aveva saputo fare sua madre. Frenò all’ultimo momento, quando si accorse che stava per oltrepassare lo svincolo giusto, e imboccò una strada in salita. A maggior ragione, dunque, Max si era convinta a star lontana da chi non le trasmettesse le vibrazioni giuste, anche al college: aveva tutti gli elementi per farcela da sola, senza bisogno di amici. Certo, se, per caso, ne avesse incontrati un paio lungo la strada, ne sarebbe stata felice, ma non c’era bisogno di sforzarsi e di conoscere gente su gente. Max sapeva di essere diversa, di non essere normale. Al momento giusto, la persona giusta, animata dal giusto desiderio di entrare in sintonia con lei, sarebbe arrivata. E se così non fosse stato, sarebbe sopravvissuta, come sempre.
Sul filo di questi pensieri, Max entrò nel parcheggio del campus. Era già quasi tutto occupato. Imprecando ripetutamente tra sé e sé, Max iniziò a girare a cerchi come un falco, finché non individuò un bel posto comodo, sotto alla tettoia, tra un fuoristrada di lusso e una Mercedes nera. Si infilò nello spazio alla perfezione, e in quel momento realizzò che forse la sua vecchia Golf sfigurava, tra quel colosso e l’altra berlina. Probabilmente, lei stessa si sarebbe sentita così tutto l’anno in mezzo alle altre persone, pensò, ridacchiando tra sé. Beh, per lo meno vi ho fottuto il posto figo, ricconi, ghignò, e uscì dalla macchina, avendo cura di chiuderla prima di allontanarsi.
Sfilò il programma dalla borsa e lesse. Dalle ore otto alle ore dieci, gli studenti sarebbero stati fatti accomodare nei loro alloggi. Alle ore dieci e trenta, era obbligatorio ritrovarsi in aula magna per il discorso di benvenuto. Max controllò l’ora dallo schermo bloccato del suo cellulare. Erano le 9:47. Avrebbe avuto tempo per un caffè, ma andare nella caffetteria, in un buco vuoto dell’orario delle attività del primo giorno di scuola di un college, significava trovare orde di matricole a caccia di relazioni sociali, e a Max non andava di essere una preda a cui sottoporre un sacco di noiose ice-breaking questions, tipo come ti chiami, come mai sei qui, cosa vorresti studiare di più, che lezioni segui, siamo insieme in questa qui, facciamo un gruppo studio!
Decisamente no. Max si voltò e si diresse verso l’aula magna, una stanza da conferenze piuttosto grande, che si trovava al centro del piano terra dell’edificio principale. Entrando, scelse un posto vicino all’estremo centrale di una delle file più in alto: era la prima arrivata, e i sedili erano tutti vuoti. Lasciò solo un posto tra sé e il corridoio. In quel modo, non le sarebbe stato comodo alzarsi, di conseguenza difficilmente sarebbe stata scelta per fare qualche attività, ma allo stesso tempo era difficile che qualcuno si sedesse, perché erano tutti fuori a conoscersi e sicuramente avrebbero voluto un posto vicino ai nuovi amici, lasciando quel sedile per un altro emarginato poco fastidioso. Con la faccia perennemente seria che si ritrovava Max, era difficile che un gruppetto di studenti decidesse di mettersi intorno a lei, includendola a forza nel gruppo. Così, trovato il posto perfetto, aspettò. Verso le dieci, e più consistentemente verso le dieci e un quarto, la sala cominciò a riempirsi, e l’aria vibrava del chiacchiericcio di matricole eccitate. Come previsto, nessuno faceva l’atto di raggiungerla: la sua bolla funzionava anche al college, e di ciò era grata. Continuò ad esaminare il flusso delle persone. Nella sua fila, gli unici posti rimasti liberi erano i due a fianco a lei, sicuramente nessuno li avrebbe pretesi entrambi. Qualche ritardatario, magari, avrebbe voluto il posto esterno, ma…
"Scusami...". Incredula, Max si voltò lentamente verso la fonte di quella voce esitante. Proveniva da una ragazza con i capelli neri, leggermente protesa verso di lei. Max alzò un sopracciglio, in attesa, e forse l’espressione sul suo viso colse di sorpresa l’avventrice, che si ritrasse impercettibilmente, ricomponendosi poi subito. "Scusami, ci stavamo chiedendo se questi due posti fossero occupati". Non era sola: a pochi passi di distanza c’era un ragazzo identico a lei, non fosse per la lunghezza dei capelli. Max gettò un’occhiata sconsolata intorno all’aula, notando infinite file mezze vuote, poi si voltò a guardare il gruppo che aveva occupato la sua: l’ultimo ragazzo le dava le spalle, parlando animatamente con gli altri. Indicando la sua schiena con un cenno, disse: "Sono vostri amici?" "Ehm, no", rispose la ragazza. Max sospirò. Perchévolevano sedersi proprio lì? "Senti, i posti sono liberi, ma se volete stare seduti vicini vi conviene andare più su, perché io non voglio spostarmi dal mio posto…" Max cominciava a essere inquieta, il suo piano rischiava di non funzionare. La ragazza sorrise. "Non c’è bisogno. Alex può sedersi alla tua sinistra, e io alla tua destra, così non perdi il posto tattico". Questo era il worst case scenario, l’apocalisse: un gruppo che si posizionava per includerla. Per quanto si sentisse a disagio, però, Max non se la sentì di dire o fare qualunque cosa che potesse ferire quella ragazza dal viso gentile, e così si limitò a bofonchiare: "Beh, immagino che vada bene, se a voi non dà fastidio…". "Assolutamente no!" trillò il ragazzo che doveva chiamarsi Alex, scavalcando le gambe di Max e sprofondando nella sedia alla sua destra. "Molte grazie!" aggiunse la ragazza, prendendo posto alla sua sinistra. Ora si presenta, pensò Max. Dio per favore, se esisti… "Hey". La ragazza la stava guardando, un sorriso sulle labbra. "Comunque, piacere di conoscerti, quello è mio fratello Alexander", Alexander fece un cenno e un sorriso "e io, invece, sono Alice". Sorrise, tendendo la mano. Per la prima volta, Max l’aveva guardata negli occhi, ed erano di un blu scuro, a tratti quasi violaceo, un colore peculiare, che assomigliava al mare in tempesta. Occhi che potevano appartenere solo ad una persona, dal suo punto di vista. 
Lei non era brava in questo genere di cose. Sapeva che avrebbe dovuto stringerle la mano, e dire qualcosa come “Il mio nome è Max Caulfield”, ma perché, in quel momento, quella frase sembrava così difficile da pronunciare? Coraggio, Max, si disse, mentre il sorriso sul volto di Alice cominciava a trasparire la preoccupazione,prendile la mano e dì qualcosa. Ma non riuscì a stringerla. Era come se una forza la trattenesse, obbligandola a non avvicinarsi a quella ragazza. "Tu sei Alice" disse infine Max, come in una trance. "Noi andavamo alle elementari insieme", aggiunse, voltandosi, in modo da guardare di fronte a sé. "Davvero?" Alice era palesemente sorpresa. Vedendo la reazione di Max, abbassò la mano, imbarazzata. "Mi spiace, faccio un po’ di fatica a ricordare, com’è che hai detto che ti chiam-".
"Silenzio" tuonò la voce profonda del Preside. Max sospirò: salvata in extremis.
"Grazie" continuò Mr. Chamberman. "Come sapete, siete tutti qui per celebrare l’inizio del vostro percorso universitario. Siamo orgogliosi di dire che Heathfeld sforna ogni anno giovani professionisti, eccellenze divenute tali dopo aver ricevuto una formazione di prim’ordine proprio qui, in una delle migliori Università degli Stati Uniti. Da matricole, siete chiamati a scegliere il vostro futuro: a decidere in quale ambito concentrare il grande talento che vi ha concesso di essere ammessi in questa scuola…". Era il classico discorso pomposo che le grandi Università private statunitensi propinavano ai loro alunni. “Noi siamo i migliori, dovete diventare come noi, dovete eccellere, dovete essere il nostro futuro”, dovete, dovete, dovete. Mai una volta che si parlasse di passione, pensò Max. Erano discorsi tipici, già scritti ogni anno, non dedicati a loro, e quindi perché prestare attenzione? Bastava restare in silenzio, così che il preside potesse sfogarsi, e poi accarezzare il suo ego, nonché quello di chi credeva nelle sue parole, con uno scroscio di applausi. A Max interessava solo che in quel posto le insegnassero qualcosa di buono, e poi, come usarlo, l’avrebbe deciso lei, senza bisogno di discorsoni. 
Il suo sguardo vagò, e si ritrovò a indugiare sul viso di Alice, che invece ascoltava corrucciata. Max si chiese a cosa stesse pensando. Non era cambiata di molto da come se la ricordava: ora portava i capelli lunghi fin sotto le spalle, con un ciuffo che le ricadeva sulla fronte. Aveva il naso piccolo e fine, leggermente all’insù, e la bocca morbida e molto rossa, che contrastava con la sua carnagione chiara. Sembrava Biancaneve, pensò Max, divertita. In fondo, viveva in una villa in periferia, che, agli occhi di Max, assomigliava ad un castello, quindi il paragone con una principessa era d’obbligo. Ma qualche trasformazione, nel suo corpo, c’era stata: il viso si era leggermente affilato, e soprattutto i fianchi si erano allargati un pochetto, e indubbiamente le erano cresciuti i seni. Max arrossì: era una donna, ora, Alice, diversa dalla bambina che le aveva portato i biscotti cotti nel dolce forno, la sera in ospedale, mentre sua madre era attaccata a degli apparecchi che monitoravano il suo stato vitale.  
Era stata la mamma di Alice a dare le ultime cure a sua madre morente. Max, nell’ospedale, era terrorizzata, non riusciva nemmeno a piangere. Siccome la madre dei gemelli Dawson era un chirurgo di grande fama, era stata chiamata nel cuore della notte, nonostante non fosse di turno, e aveva dovuto portare i figli con sé all’ospedale, come capitava ogni tanto, non sapendo a chi lasciarli. Loro avevano la loro stanza e alcuni giochi nell’ufficio della madre, e così Alice, vedendola nella sala d’attesa, doveva aver pensato che il Dolceforno potesse tirare un po’ su Max. Così le offrì un biscotto, e poi le mostrò come farne altri, e giocarono tutta la sera, fino ad addormentarsi, Max abbracciata a lei. Le aveva svegliate proprio la madre di Alice, che poi aveva portato Max in un posto appartato, per comunicarle della morte di sua madre. 
Quel gesto, a Max, aveva fatto effetto. Era così diverso da tutti i regalini che aveva ricevuto dai bambini, che si avvicinavano a mani tese, bofonchiavano qualcosa e poi tornavano dalla mamma che li teneva sott’occhio. La mamma di Alice era in sala operatoria. Quella era una cosa che aveva voluto fare lei, da sola, per aiutarla.
Che strana persona, pensò. All’improvviso, la stanza si riempì di applausi e ovazioni, e Max vi si unì in ritardo, stordita. Alice si voltò sorridendo. "Che mucchio di cazzate, eh?" disse, sorridendole. "Eri fortissima prima. Ogni tanto ti guardavo. Ti eri incantata su qualcosa, forse ho qualcosa tra i capelli, e stavi palesemente pensando a tutto meno che all’onore, all’orgoglio…" enfatizzò le ultime parole con fare parodico, mentre Max sentiva un profondo bollore risalire lungo il collo. L’aveva guardata. E si era accorta che la stava fissando. "Va tutto bene?" Alice la guardò incerta, il viso leggermente inclinato. "Ma sì, sì" disse Max, sbrigativa. "I tuoi capelli sono a posto, comunque, a volte mi capita di fissare lo sguardo in punti a caso, quando penso a qualcosa…". E prima che lei avesse il tempo di chiederle a cosa stesse pensando, Max sgusciò fuori dal sedile, oltrepassandola. "Beh, ci vediamo in giro, Alice, Alex" e repentinamente si voltò, dirigendosi verso l’aula di inglese.

 

Alice


Interdetta, Alice seguì con lo sguardo la ragazza dai lunghi capelli ramati, che in pochi secondi scomparve, attraversando la porta doppia dell’ingresso dell’aula magna. Corrucciata, tornò a sprofondare nella sedia, pensando a cosa mai potesse aver detto di male per far correre via una persona. Si era comportata in modo bizzarro, però. Forse era una questione di timidezza. I gemelli lasciarono che l’aula si svuotasse un pochino, prima di apprestarsi all’uscita. "Beh, dovremmo muoverci" esordì Alex, ad un certo punto. "La prima lezione è inglese, e a quanto pare l’aula si trova dall’altra parte del campus. Alice, mi stai ascoltando?". La ragazza fissava intensamente un punto di fronte a sé, mordendosi il labbro inferiore. Il fratello le diede un colpo sulla nuca, scuotendola dal torpore, e lei rispose con un pugno sulla spalla. "Ouch! Dai, Al, dobbiamo muoverci!". "Lo so". Afferrando la borsa, Alice si alzò con un movimento fluido, e si diresse a grandi passi verso l’uscita. Alex le trotterellò a fianco. "Hey, ma che ti prende!" sbottò, all’improvviso. "Non è colpa mia se quella ragazza è corsa via, sai? Non sono così brutto! E, se anche fosse, hai la mia stessa faccia, quindi direi che la responsabilità ce la dividiamo equamente". Alice alzò gli occhi al cielo. "Sarebbe scappata più in fretta, se ti avesse sentito parlare" ribatté. Sospirando, aggiunse: "Non è quello… si è comportata in modo strano. Mi ricorda qualcuno, ma non riesco a collegare il suo viso a nulla…". Alzando un sopracciglio, Alice guardò il fratello. "Non si sarà offesa perché non mi ricordavo di lei, vero? Non mi ha nemmeno detto come si chiamasse". "Nah". Alex calciò una pigna. "Le persone a volte sono strane. Neanche io mi ricordo di lei. Chiunque sia, deve essere cambiata troppo dai tempi delle elementari". "Mmmh…". Alice continuava a tenere la fronte corrugata, concentrandosi.
"Cerca di non surriscaldarti i neuroni. Ti verrà in mente, alla fine. Oppure, potrai chiederglielo. Sono sicuro che la rivedrai, prima o poi, in giro per il campus. Anche se, a giudicare da come è scappata, forse non vuole essere tua amica. Non la biasimo: hai scritto rich, basic white girl su tutta la faccia" Alex rise. "O forse oggi puzzavi particolarmente, e non riusciva a starti vicino", lo rimbeccò Alice. Continuando a battibeccare, i gemelli oltrepassarono la soglia dell’aula di inglese. E indubbiamente, in primo banco, sedeva la ragazza senza nome. Alice si bloccò a metà frase, a bocca aperta, mentre lei la scrutava, gli occhi di un verde intenso di una serietà e freddezza incredibili mentre scivolavano su di lei, dandole la sensazione di venire trapassata da lame gelate. Senza-nome alzò le sopracciglia, inclinò le labbra in un mezzo sorriso dall’aria beffarda, e si voltò, scrutando fuori dalla finestra. Sentendosi irrimediabilmente giudicata, Alice sentì la sua faccia iniziare a scaldarsi, e si affrettò a prendere posto nella fila centrale, dove quella ragazza non poteva vederla. "Stai bene, sis?". Alex scivolò nel posto accanto a lei. Invece di rispondere, Alice iniziò a scrivere data e intestazione sulla prima pagina del suo quaderno, furiosa. Erano entrati in classe litigando come due bambini. Però, a pensarci bene, che diritto aveva quella ragazza di prendersi gioco di loro? Non ne aveva nessuno. Chissà chi si credeva di essere.
Il professore di inglese varcò la soglia, e un improvviso silenzio calò sulle file di studenti, la cui attenzione si rivolse alla figura appena entrata. "Buongiorno". L’uomo aveva folti capelli neri, occhi penetranti e un’espressione severa. Indossava una giacca marrone sopra ad una camicia azzurra, e pantaloni a coste beige. "Il mio nome è Ferdinand Van Basten, e sarò il vostro insegnante nel corso di letteratura inglese e scrittura creativa". L’uomo si voltò, scrivendo a gesti bruschi il suo nome, la sua email e il nome del corso alla lavagna. "Per qualunque domanda, potete contattarmi, fermarmi a fine lezione, o venirmi a trovare nel mio ufficio, all’ultimo piano dell’edificio C1. Ovviamente, anche gli interventi a lezione sono ben accetti, purché siano costruttivi". Van Basten fece una pausa, scrutando ad uno ad uno le facce degli studenti, alcuni dei quali si scambiarono occhiate sarcastiche. "Molto bene". Van Basten ordinò una pila di fogli, sbattendoli con due sonori tac sul bordo della cattedra, e li consegnò alla ragazza senza nome. "Prendete un foglio e passate il resto ai compagni. Oggi faremo un esercizio per conoscerci meglio. Vi chiedo di comporre un sonetto in stile shakesperiano, sulla base delle vostre conoscenze. Il tema è libero. Avete due ore di tempo, dopodiché consegnerete i fogli, e io leggerò alcune delle vostre produzioni. Non preoccupatevi: non dovrete dichiararne la proprietà, se non è nelle vostre volontà. Cominciate".
Alex rivolse uno sguardo terrorizzato alla sorella. Alice sapeva che non era mai stato bravo in questo genere di cose, ma era veramente l’ultima persona che potesse aiutarlo. Prese la penna e fissò il foglio, alla disperata ricerca di un’ispirazione. Non poteva certo lasciare in bianco e millantare un’ispirazione all’ermetismo, che di shakesperiano non aveva proprio niente.
Due ore più tardi, Alice continuava a fissare il foglio, su cui ora erano scritti una quindicina di versi, tra cancellature e correzioni. Poco dopo, Van Basten ritirò i fogli, e lei iniziò a pregare che, tra tutti, non pescasse proprio il suo. 
Il professore iniziò a leggere i componimenti, correggendo passi di alcuni, e criticandone aspramente altri. Alla fine, lesse un sonetto sull’amore e la morte, che Alice trovò stupendo. Giunto alla fine, Van Basten fece una pausa. Dopodiché, lo rilesse. Sollevando il foglio, disse soltanto: "Di chi è questo?". Dalla prima fila, con grande sorpresa di Alice, Senza-nome alzò la mano. "Nome", disse poi il professore, seccamente. Alice si protese in avanti, ma non riuscì a captare la risposta della ragazza, pentendosi in quel momento di essersi messa così lontana dai primi banchi. "Molto bene, Maxime" disse con calma Van Basten. "Questo è il livello che mi aspetto i miei studenti raggiungano alla fine del corso. Chiunque non sia riuscito a produrre qualcosa di almeno passabile, cominci a lavorare sulla propria creatività… e a ripassare la struttura di un sonetto shakesperiano, perché non mi sembra nota ai più". Cadde il silenzio, e Van Basten iniziò a scartabellare alla scrivania, mentre gli studenti si guardavano intorno con aria incerta, finché la ragazza di nome Maxime non si mosse, apprestandosi ad uscire, e dando il via libera agli altri. Alice si alzò in fretta, risoluta, e, ignorando il fratello che le chiedeva dove stesse andando, scavalcò gli studenti che si attardavano a chiacchierare, e uscì, percorrendo ad ampie falcate il corridoio, finché non individuò la chioma di Maxime che fluttuava, mentre lei svoltava l’angolo a grandi passi. Accelerando, Alice la raggiunse. "Hey" riuscì a dire, senza fiato, ma cercando di non ansimare. La ragazza si voltò, osservandola ad occhi sgranati: in quel momento, assomigliava solo ad un cerbiatto spaventato. Ad Alice sembrava quasi impossibile che da una persona così rigida fosse uscito un componimento così pregno di emozioni, per cui, aveva deciso di darle un’altra chance; o almeno, era questo che si raccontava. In realtà c’era qualcosa, in lei, che nel profondo la attirava, catalizzando la sua attenzione. Il desiderio di conoscerla era molto più grande di qualunque altra cosa, anche se non avrebbe saputo spiegare il perché. Non era mai stata così sconcertata in vita sua, e non capiva perché il fatto che, in aula magna, Maxime non avesse voluto parlarle l’avesse colpita così. Sapeva solo che, in quel momento, era come se non esistesse nessun’altra persona oltre a lei. Maxime rimase in attesa, senza accennare a muoversi o a parlare. "Volevo solo dirti, mi è piaciuto molto quello che hai scritto". Alice riprese fiato, e quando vide che l’altra non faceva l’atto di rispondere, continuò. "Sembrava… sembrava scritto da un poeta professionista". Alice la guardò, cominciando a sentire freddo alle mani. Metterla a disagio sembrava essere il superpotere di quella ragazza. "Mi spiace se prima ti abbiamo infastidita. E’ solo che, mi sembra di averti già vista, e in ogni caso, mi piacerebbe conoscerti, fare amicizia… sai, è tutto nuovo, non conosciamo nessuno…". Alice prese fiato di nuovo, mentre Maxime continuava a fissarla ad occhi sgranati.  Tese la mano. "Maxime, giusto?". "E’ Max". Max parve finalmente riscuotersi dal torpore, suonando lievemente infastidita. "Il mio nome è Max Caulfield". Dopodiché, con movimenti lenti e circospetti, le prese la mano e la strinse. 
Successe tutto in pochi istanti: il corridoio alle spalle di Max sfumò oscillando, e al suo posto comparve una radura. Dalla fronte di Max scendeva un rivolo di sangue, mentre urlava qualcosa di incomprensibile. Con un fragore, la porta di uno sgabuzzino si spalancò da sola, mentre il corridoio si materializzava nuovamente intorno a loro. Le loro mani schizzarono all’indietro, attraversate da una scossa intensa. Alice si guardò intorno, spaesata e spaventata. Cos’era successo? E soprattutto, era successo davvero?
Osservò Max massaggiarsi il palmo della mano, sul viso la sua stessa espressione sconcertata. Qualunque cosa fosse, era successa davvero, e doveva averla sentita anche lei. Guardandosi meglio intorno, si rese conto che il corridoio era deserto. Max la guardò, e si ricompose immediatamente, afferrando e chiudendo la porta dello sgabuzzino. "Heh, dovrebbero controllare queste serrature, eh?". Rise, visibilmente a disagio. "Beh, piacere di averti conosciuta… a domani, Alice!". E prima che Alice potesse urlarle di aspettare, era già scomparsa. Scosse la testa, e in quel momento si rese conto di avere un’emicrania terribile. Reggendosi la fronte, fece dei respiri profondi per calmarsi. Non aveva idea di quello che fosse successo. L’immagine degli alberi, e soprattutto del volto di Max continuavano a galleggiarle di fronte agli occhi. Eppure, nella realtà, Max non sembrava ferita, solo molto sorpresa. Stava diventando pazza? Forse era lo stress. O forse era un tumore. Forse doveva correre a casa, dirlo a sua madre, e fare qualche test: avere le visioni non poteva essere un buon segno… 
Saltò a mezzo metro da terra, sentendosi afferrare per un braccio. "Hey-HEY, calmati, per Dio, sono io". Alex fermò il braccio della sorella, scattato involontariamente per reagire all’aggressione, a pochi centimetri dal suo viso. "Si può sapere che hai, oggi? Stai bene? Dov’eri finita?" chiese, lasciandola andare. Quando si agitava, Alex tendeva a parlare troppo. "Mal di testa" bofonchiò Alice. "Ho solo mal di testa". Alex la scrutò, preoccupato. "Me lo diresti se qualcosa non andasse, vero?". "Ho detto che ho solo mal di testa. Non peggiorare la situazione", ringhiò lei in risposta. Alex alzò le mani. "Okay, okay. Per andare a casa guido io". "Non posso venire a casa" ribatté Alice. "Ho il primo allenamento, oggi". "Pensi che sia una buona idea andarci, in queste condizioni". Alice si raddrizzò. "Non so di che cosa parli. Prendo l’autobus, per tornare, ma domani veniamo con macchine diverse, altrimenti ti tocca aspettarmi per tornare insieme". E lasciò il fratello solo nel corridoio, a domandarsi che cosa diamine frullasse nella testa delle donne di tutto il mondo.

 

Max


Max sbatté la porta e si accasciò contro la sua cornice, respirando affannosamente. Era tornata a casa alla velocità della luce, e tremava come una foglia. Si guardò le mani, cercando di controllarne il tremito. C’era stato un malfunzionamento, un’interferenza, qualcosa. Ma, se i suoi poteri avevano iniziato a sfuggire dal suo controllo, era un bel problema. Raccogliendo tutto il coraggio di cui era capace, Max decise di testarli. Si concentrò sulla zuccheriera, che si sollevò dalla mensola. Si sforzò al massimo per farla fluttuare, tutti i sensi all’erta per controllare che nient’altro accadesse intorno a lei, dopodiché la riappoggiò al suo posto. Fece la stessa cosa con un libro, un cuscino, poi aprì e richiuse la finestra dal letto, accese e spense la luce del bagno, e infine decise di provare qualcosa di più impegnativo, e sollevò il tavolo. Queste operazioni la stancarono, ma ebbero anche l’effetto di calmarla abbastanza da consentirle di raddrizzarsi e staccarsi dalla cornice della porta. I poteri sembravano rispondere perfettamente alla sua volontà, almeno per ora. Chi poteva dire, però, che cosa diamine poteva succedere in seguito? 
Era grave, perché, se i suoi poteri non erano difettosi, voleva dire che era stata lei a scatenarli incontrollabilmente, in risposta allo sconvolgimento emotivo che l’incontro con Alice le aveva provocato. E questo non andava bene: se, grazie ad un po’ di turbamento, iniziava ad aprire con la mente porte di sgabuzzini chiusi a chiave, chissà che altro poteva succederle in condizioni di forte stress emotivo. Poteva anche fare del male a qualcuno.
Di sicuro, Alice si era accorta che era successo qualcosa. Grazie a quel suo bel teatrino, Max aveva rischiato di farsi scoprire. Poteva solo ringraziare che il corridoio fosse deserto, e sperare che Alice non si facesse troppe domande sull’accaduto.
Però, al di là delle emozioni, sapeva che era successo qualcosa di più. Quando si erano toccate, una scossa fortissima le aveva attraversato il palmo della mano, e, per un attimo aveva perso la cognizione di dove stava, mentre strane immagini le attraversavano la testa: uno scorcio di un bosco, forse? Era durato troppo poco perché potesse distinguerlo con chiarezza. Fatto sta che, a giudicare dall’espressione terrorizzata di Alice, e dal modo in cui le loro mani erano volate all’indietro, aveva dovuto sentire qualcosa anche lei. Forse era quello il motivo per cui si sentiva così strana, così agitata vicino a lei. Forse, il suo inconscio stava cercando di avvertirla: in qualche modo, Alice doveva avere una cattiva influenza su di lei, e su quello che sapeva fare. Forse avrebbe dovuto provare a leggerle la mente, per capire se anche lei avesse qualche strano potere. Però, la telepatia consumava molta energia, lasciando Max quasi incapace di muoversi dopo aver penetrato la mente di un essere umano normale, figuriamoci quella di qualcuno che possedeva poteri psichici. Era troppo rischioso, e l’avrebbe lasciata vulnerabile.
Qualunque cosa fosse successa, Max aveva chiaro in mente che, finché non ne avesse scoperto la causa, avrebbe dovuto fare di tutto affinché non si ripetesse. Non poteva rischiare che qualcuno si accorgesse di lei, o che, ancora peggio, qualcuno rimanesse coinvolto in un incidente che lei stessa aveva provocato. Quindi, in quel momento, Max Caulfield prese la risoluzione di stare lontana da Alice Dawson, a qualunque costo.


   
 
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