Angolo dell’autrice
Buongiorno
lettori, come state? Io sono finalmente in pausa dagli esami e quindi posso
aggiornare con tranquillità, soprattutto perché non ho esami da dare (paura per
giugno, quando avrò gli esami annuali che non posso dare adesso). Con questo
capitolo inizia una nuova parte della storia, che si sviluppa finalmente verso
l’alto. Spero che vi piaccia! Un bacione a tutti!
Nemamiah
La
prima cosa che vide fu il sorriso sghembo di Edward, poi le sue iridi rosse
come il sangue, e le sembrò strano, perché le ricordava marroni, calde come il
cioccolato fuso. Poi ci fu Scar, accasciato a terra, indifeso, con le braccia
abbandonate lungo i fianchi e le nocche delle mani che sfioravano il pavimento,
i capelli scuri che coprivano in parte il volto. Ed era strano, perché Edward
rideva ma lei era lì, e le sembrava di essere viva, e allora non capiva il
perché di quell’arrendevolezza da parte di Scar. Dakota era al suo fianco, ma
sembrava non vederla. Guardò il padre, che la fissava allibito, eppure le
pareva che non stesse davvero fissando lei. Si alzò, avvicinandosi a lui,
turbata da quello sguardo avvilito. Lo chiamò e lui non si accorse di nulla.
Indietreggiò di alcuni passi e, mentre Edward continuava a ridere, raggiunse
Scar. Nemmeno lui sembrava notare la sua presenza. Tuttavia… Tuttavia lui
piangeva, e anche suo padre, e le lacrime si mescolavano alla pioggia e la
pioggia…
La
pioggia dov’era?
Perché
non sentiva il picchiettio continuo sulla pelle?
La
vedeva, distingueva le gocce una ad una: stava cadendo, lo sapeva! Ciò
nonostante rimaneva asciutta.
Chiuse
gli occhi e contò. Uno, due, tre.
Si
girò verso Dakota. Stava scuotendo il suo corpo, tenendolo per le spalle, le
mani sporche di sangue, impastando il suo nome con le lacrime come se fosse una
litania, un incantesimo complicato. Se avesse saputo che le persone che più
amava avrebbero dovuto vederla morire, sarebbe scappata in un angolo isolato
della Terra pur di evitarlo loro. Ma non possiamo sapere quando moriremo, né in
quali circostanze, né chi sarà con noi nel nostro ultimo secondo. Non possiamo
preparare chi amiamo, né salutarli o abbracciarli o dir loro quanto siano stati
importanti per noi. Non importano le premure e le precauzioni, siamo destinati
a capitolare dal nostro ultimo gradino e l’incapacità di accettarlo ci spinge a
relegare la morte in un anfratto della nostra mente, fino a che non arriviamo a
quel fatidico momento. Un momento, un secondo che ci proietta nell’infinito.
Verity
non era pronta ad accettarlo e urlò contro Dakota, disse di essere lì e di
essere viva e di alzare lo sguardo poiché avevano ancora una lunga vita da
condividere. E urlò a Victor, e a Scar allo stesso modo, rimanendo sempre sola,
sempre ignorata, mentre Edward rideva e rideva come se avesse fiato solo per
quello. Provò a colpirlo, a saltargli addosso in un impeto di rabbia, ma era
tutto inutile: ogni tentativo era un fallimento, ogni volta lo attraversava e
cadeva sul pavimento. Anche questo era strano, era uno spirito, ma oltrepassava
solo le persone, e anche se Edward non reagiva ai suoi attacchi, era certa che
la vedesse, percependo la sua presenza. Camminò all’indietro, senza rendersi
conto di farlo realmente fino a quando non toccò il parapetto. Ci salì sopra,
guardando dall’alto il gruppo e vide due ali blu come la notte spuntare dalla
schiena di Edward. Lo vide prendere il volo e scomparire ignorandola, ma non fu
abbastanza attenta che una folata d’aria la investì e la fece precipitare giù
dal parapetto. Non riuscì a urlare che un’altra folata di vento la trasportò
dall’altra parte della strada, depositandola malamente sul terreno fangoso. Non
era sporca, e nemmeno dolorante, doveva essere stata solo una sensazione, come
l’idea che la pioggia le stesse cadendo addosso. Ne percepiva l’odore, poteva
udire l’ululato del vento e lo stormire delle fronde degli alberi, ma il tatto,
il brivido freddo e il bagnato non li avvertiva. Sentì di voler correre e
corse, a occhi chiusi e a occhi aperti, credendo di piangere ma scoprendo in
realtà di non avere lacrime da asciugare. Non si capacitò del come, ma
raggiunse la sua casa e riuscì ad attraversare tutte le porte fino alla sua
stanza. Non si pose nemmeno la domanda, accettò quella concessione sfruttandola
quanto poteva, ma alla fine non le rimase altro da fare che sedersi vicino a Kai,
senza poter comunque sentire la pelliccia morbida sotto le mani.
Sarebbe
dovuto accadere altro? Non c’erano angeli messaggeri o qualcosa di simile che
l’avrebbero portata in un paradiso o in un inferno? O doveva aspettare, e
pregare un dio che non aveva mai sentito vicino, neanche nel momento più
spaventoso? Si sentiva in pericolo, anche se era nella sua stanza, nella casa
dov’era cresciuta. Chiuse gli occhi e poggiò la testa sulle ginocchia, sperando
di riaprirli e non vedere più nulla.
Ma
smise di piovere.
E
sorse la luna.
Poi
il sole tramontò.
Scese
la neve che assorbì il raggi della stella e si sciolse.
Le
api si scontrarono contro il vetro.
La
luce entrò prepotente dalla finestra e illuminò la polvere.
Risentì
quei suoni un’infinità di volte.
E
riaprì gli occhi.
Era
come se si fosse risvegliata da un lungo sonno ma, al tempo stesso, non c’erano
l’intorpidimento e la confusione del primo risveglio. Forse non aveva davvero
dormito, forse era stata solo immobile per ore, ma era strano, perché la porta
era chiusa mentre lei ricordava di averla trovata aperta. Ricordava degli
scricchiolii ad un certo punto, dei sospiri fare avanti e indietro e i guaiti
di Kai, che avrebbero spezzato il cuore anche alla più dura delle pietre. Si
alzò e attraversò la porta prima con una mano e poi con tutto il corpo. Adesso
riusciva ad attraversare gli oggetti: forse era solo un questione di volontà.
Scese al piano di sotto.
La
biblioteca era aperta e c’era una donna, davvero simile a Eleonore, ma meno
curata, che parlava al telefono e gesticolava. La stanza era in disordine, i
libri sparsi ovunque, ma era diversa da come la ricordasse.
La
donna sbuffò e Verity la riconobbe. Solo sua madre sbuffava in quel modo, come
se l’intero mondo cospirasse contro di lei e dovesse combatterlo da sola. La
seguì e riuscì a infilarsi nella macchina prima che la porta si chiudesse. Forse
avrebbe potuto attraversarla, ma meglio non tentare. Riconobbe subito la
strada. Si stava dirigendo al laboratorio di Victor.
Victor
aveva sempre vissuto nel suo ufficio e aveva lavorato con ossessione dalle sue
ricerche: non usciva quasi mai dall’edificio e aveva il minimo contatto umano
indispensabile, ma Eleonore non avrebbe mai creduto di poter trovare la stanza
in quelle condizioni. Sulla poltrona erano accumulati camici da laboratorio e
abiti da lavare, calzini pantaloni magliette e fazzoletti; in un angolo, dove
un tempo ricordava dei libri, c’erano due paia di scarpe che avrebbero tanto
avuto bisogno di vedere la luce del sole; appese in giro c’erano cravatte
colorate ma stropicciate. Sul tavolinetto basso erano impilati libri aperti uno
sopra l’altro, macchiati dai residui unti del cibo pronto. Per terra, fogli di
carta con diagrammi, calcoli incomprensibili e ancora libri su libri. Victor
non si vedeva da nessuna parte, ma la moglie sapeva dove trovarlo. Chiuse la porta.
Era lì dietro, accucciato per terra con ancora la matita in mano ma
profondamente addormentato. Lo svegliò delicatamente e all’inizio, nella
semioscurità, non la riconobbe, boccheggiò qualche suono e scosse la testa.
‹‹E-Eleonore?
Cosa fai qui?›› chiese massaggiandosi le tempie con le mani.
‹‹Sono
venuta per portarti fuori di qui, quasi mi sorprende che tu sia ancora vivo.
Sono mesi che nemmeno ti vedo la notte, che sei rinchiuso qui dentro e-››
‹‹L’ho
sognata, ancora.››
‹‹Victor,
mi ascolti?››
L’uomo
si alzò a fatica e, nonostante inciampasse nei libri sparsi a terra, riuscì a
raggiungere la finestra e a tirare su la tapparella. Poi aprì e respirò l’aria
della calda primavera che tra non molto sarebbe diventata estate.
‹‹Camminava
su quel prato, laggiù, e mi correva incontro e, no, ci correva incontro perché
sai, c’eravamo entrambi, e aveva un cestino in mano. Stavamo organizzando un
picnic ed eravamo così felici e ridevamo così tanto. La sento qui, oggi più di
altri giorni›› Verity rabbrividì e si nascose nell’ombra ‹‹e non va mai via. Ha
quell’abito panna meraviglioso, e gli sfregi delle corde sui polsi, sul collo,
le macchie di sangue sulla gonna, e c’è Dakota al suo fianco, ma piange, e
urla, proprio come quella notte e io sono impotente e inutile e incapace e
inadatto e…››
Eleonore
lo prese per un braccio, facendolo girare verso di sé: ‹‹Basta Victor! Basta
sogni, basta pianti, basta ricordare quel dannato momento. Basta piangerti
addosso ogni giorno della tua vita perché non è stata colpa tua, non potevi
proteggerla. Forse nessuno poteva. Perseguiti te stesso, ma ti ricordi ancora
di me? Sono mesi che non ti vedo, mesi che nemmeno sento la tua voce; sono mesi
che dormo nel letto da sola e piango insieme a quel dannato cane e tuo padre
viene a svegliarmi la notte quando ho gli incubi e mentre mia madre mi guarda e
dice che appassisco ogni giorno di più e che devo riprendermi perché solo così
posso aiutare i bambini della casa e non posso piangere tutta la vita. Ma le
lacrime non si fermano, non ci riesco. Se sono in compagnia mi isolo, sento che
l’unica che vorrei vedere è lei e lei non c’è, e so che avrei dovuto capirlo
prima, ma adesso non riesco a fermarmi dal sentire da sua mancanza, dal volerla
al mio fianco. Vorrei sapere quali fossero i suoi interessi e i suoi
divertimenti, e vorrei sentirli dalla sua voce, vorrei ascoltarla cantare,
suonare il piano e…››
Scivolò
a terra e vi rimase, tremante. Era troppo da sopportare perché anche se non
aveva visto Verity, era bastata la descrizione del marito per sentirsi lì con
lui. Ma come avrebbe potuto aiutare lui se non riusciva nemmeno ad aiutare se
stessa? Era stata superficiale ed egoista, ma aveva un cuore dopotutto, e
questo stava sanguinando ormai da più di tre anni. Non aveva amato la figlia
come avrebbe dovuto, ma non poteva amare il marito se questo la lasciava sola,
non poteva condividere nulla se l’abbandonava in una casa troppo grande per lei.
Doveva alzarsi e reagire.
Il
tremolio diminuì quando Victor le accarezzò la testa dolcemente e scomparve
quando la abbracciò, con lo stesso impeto con cui si abbraccia qualcuno in
procinto di scomparire dalla nostra vita.
‹‹Perdonami,
perdonami, amore. Non avrei mai dovuto scappare da te, ma lavorare mi impediva
di pensare a lei, almeno durante il giorno. Era la nostra unica figlia e mi
sentirò sempre in colpa… Dai vieni, c’è una cosa che devi vedere. Io so che
tenevi a lei, so quanto l’amassi sotto tutta quell’alterigia e credo che anche
lei, in qualche modo, lo sapesse.››
Le
prese la mano, stringendola delicatamente, e la portò fuori dal laboratorio,
verso il sentiero che si inoltrava nel bosco. Costeggiarono per un lungo tratto
il ruscello, ascoltando la monotona ninnananna del gorgoglio dell’acqua.
Eleonore avrebbe voluto fermarsi, cogliere un fiore e annusarne il profumo, ma
Victor camminava troppo veloce e lei voleva tenere il passo per non perdersi
nel bosco. Raggiunsero una radura minuscola, un gioiello nascosto, e in fondo,
dove gli alberi si infittivano nuovamente, c’era una piccola serra in vetro.
All’interno, rose nere, molte e bellissime.
‹‹È
magica…››
‹‹Sì,
più piccola all’esterno, ma enorme all’interno e la possiamo vedere solo noi
della famiglia. Ci sono parecchi sigilli magici sopra, ma doveva essere sua, il
suo rifugio segreto nel luogo più tranquillo del mondo...››
E
Verity lo ringraziò, con parole senza suono che non arrivarono mai alle sue
orecchie. Aveva osservato ogni passo da dietro, scoprendo con piacere che non
faceva rumore nel calpestare il terreno ma che poteva inciampare nelle radici. Avrebbe
voluto essere visibile in quel momento, poterlo abbracciare e ringraziare
perché quel regalo era meraviglioso e si odiava per non poterlo fare. Le
sarebbe piaciuto parlare con la madre, sorriderle e abbracciarla invece di
poterla solo guadare piangere e ridere contemporaneamente. Ma la meraviglia più
grande, ancora più della serra, era che percepiva la magia che permeava i vetri
e usciva da ogni fessura in una nuvola che la investiva violenta. C’era anche
qualcos’altro che non riusciva a identificare, come una presenza che la stava
osservando nascosta nelle ombre degli alberi e che si avvicinava a lei. Cercò
di ignorarla: non poteva essere Edward. Probabilmente gli esperimenti del
laboratorio creavano qualche campo magico che si espandeva fino a lì.
No,
non poteva essere vero, lei non sapeva percepire la magia. Doveva solo essere
un’autosuggestione.
In
quel momento nel bosco nulla era più tranquillo e, contemporaneamente, agitato
dell’animo di Verity. Da un lato sarebbe voluta rimanere con i suoi genitori, a
guardarli invecchiare insieme, dall’altro voleva andare via, lontano, dove
nessuno l’avrebbe mai trovata. Magari poteva trovarsi un castello o una casetta
piccola e malconcia da infestare come fantasma. A detta di Eleonore erano
passati mesi della sua morte, non aveva capito esattamente quanti, e lei era
rimasta chiusa in una stanza per tutto quel tempo. Cos’era accaduto nel mondo?
Dakota stava bene o anche lei si era dimenticata di vivere? C’era anche un’altra
domanda, adesso che aveva voglia di pensare, cui avrebbe dovuto rispondere:
perché le era sembrato che per Scar, quella notte, Edward non fosse un completo
sconosciuto? Se assumeva per vera l’idea che Scar non fosse umano, allora era
possibile che lo conoscesse e tutti i fatti strani del passato diventavano
sensati, quasi ovvi, e rimaneva una soluzione sola: o era un demone, come
Edward, o un angelo, sempre che esistessero. Non poteva essere cattivo, in
fondo aveva cercato di proteggerla, e se per caso avesse voluto ucciderla,
avrebbe potuto sfruttare i loro numerosi faccia a faccia solitari. Ma se
esistevano i demoni, anche gli angeli dovevano esistere, angeli con le ali
bianche, grandi e setose. Quindi anche gli Arcangeli e quella sua antenata che
il nonno citava sempre perché identica a lei… Doveva solo trovare lui e tutti i
pezzi sarebbero, in qualche modo, finiti al posto giusto.
Il
problema era tornare indietro: aveva perso completamente l’orientamento e non
riconosceva più il bosco. Il cielo era quasi invisibile tanto fitta era la rete
delle fronde e intorno a lei diventava sempre più umido e tetro. Le foglie
erano di un verde troppo scuro per essere vero, le radici uscivano prepotenti
dalla terra scivolosa, pronte a ghermire una caviglia con la loro stretta. Si
guardò intorno più volte, ma continuava a non ritrovarsi. Allora si voltò,
pensando di fare il percorso all’indietro, ma la strada le fu sbarrata da un
gigante nero che la fissava dall’alto con un paio di occhi bianchi.
Quell’essere la guardava, la vedeva sul serio, come un uomo vede un fiore o un
dipinto, e aveva la bocca profonda spalancata. Un fruscio nell’erba poco
lontano lo distrasse per un secondo e Verity ne approfittò per scappare,
cercando di mettere la maggior distanza possibile tra di loro. Sentì un ruggito
rabbioso e cercò di correre più veloce, inciampando più volte in una pietra o
una radice troppo sporgente, voltandosi per controllare la posizione di
quell’essere. La stava seguendo, era vero, ma era molto più lento di lei e
quando scomparì, Verity si fermò per un secondo a riprendere fiato, stremata.
Si sentiva abbastanza al sicuro: non lo vedeva arrivare da nessuna parte. Un
altro fruscio alle sue spalle la fece trasalire, ma si rivelò essere un
coniglio selvatico, inoffensivo. Rise di se stessa, riconoscendo di aver avuto paura
della creatura più mansueta del mondo.
Si
girò e lo trovò di nuovo a sbarrarle la strada. Non l’aveva sentito arrivare,
non aveva fatto il minimo rumore, ma questa volta era pericolosamente vicino e
Verity ebbe appena il tempo di portare le mani di fronte al viso che la
creatura la inghiottì.
Il
mostro poi tirò un sospiro di sollievo e prese in braccio il coniglietto. Lo
coccolò qualche secondo e, dopo averlo riposato a terra, la creatura scomparve
risucchiata da se stessa.