Disclaimers: niente mi
appartiene.
Shameless US è di proprietà di John Wells e della
Showtime.
Questa storia ha
partecipato al “I CONTEST
FANFICTION OBSESSION GALLAVICH: WILL YOU MARRY ME?” classificandosi al primo posto. Il banner vinto come premio è stato creato direttamente dalle admin della pagina Obsession Gallavich.
Titolo della storia: I
Take My Leave Of You
Note
dell’autore: questa one-shot, la
primissima che scrivo in questo fandom (aiuto lol), è nata
grazie
all’iniziativa del gruppo facebook “Obsession
Gallavich” che ha indetto un
contest il cui tema principale è la proposta di matrimonio.
Io, pur non
credendo nel matrimonio, in quanto due persone possono amarsi a
prescindere da esso
– e convinta che Mickey ed Ian siano perfetti anche
‘solo’ come compagni –, ho
voluto partecipare e provare con un tema che, da come avrete capito, mi
è del
tutto nuovo. Ammetto che non è stato molto facile scrivere
su Ian e Mickey –
soprattutto su quest’ultimo – in quanto sono
personaggi molto complessi e dalle
mille sfaccettature, e ho seriamente paura di essere caduta
nell’OOC *sigh*.
Anyway… la mia shot (vi avviso già da ora che
è parecchio lunga lol) è
ambientata a due anni e mezzo dalla 7x11, pertanto non tiene conto
degli
avvenimenti accaduti a partire dall’ottava stagione.
Nonostante il tema sia
romantico e fluffoso, dato che si parla di matrimonio, io ho deciso di
scrivere
con il mio genere preferito in assoluto: l’angst. Quindi
già da ora mi preparo
ad eventuali insulti alla mia persona e variopinte minacce di morte xD
Vi
auguro comunque buona lettura (i commenti e le critiche, se
costruttive, sono
sempre bene accetti) e, in caso la mia storia dovesse farvi veramente
cagare,
vi consiglio di stamparla: magari vi ricorderete di me quando vi ho
tenuto
compagnia al bagno! -Martina-.
I TAKE MY LEAVE OF
YOU
Il forte
russare
di Frank Gallagher – malamente sdraiato a pancia sotto sul
divano del salotto e
con un braccio penzoloni – era l’unico rumore che,
quel tardo mattino d’inizio giugno,
riempiva il silenzio della casa al 2119 di North Wallace. Ian soppresse
uno
sbadiglio mentre, abbottonandosi la divisa blu da paramedico, scendeva
veloce le
scale. Raggiunse il soggiorno e scosse la testa alla vista di suo padre
– o
presunto tale – che proprio non voleva saperne di svegliarsi,
alzare il culo e
fare qualcosa della sua miserabile vita.
«Cristo santo,
Frank!», esclamò, chinandosi a raccogliere una fra
le tante bottiglie di birra
che, riversa a terra, era andata a bagnare il tappeto come una piccola
pozzanghera. «Perché non vai ad ubriacarti da
un’altra parte?»
Domanda
retorica. Frank mugugnò qualcosa di indecifrabile nel sonno
e girò la testa
dall’altra parte, seppellendola fra due cuscini. Se
c’era qualcuno che in
quegli ultimi anni non era affatto cambiato, quello era sicuramente
Frank
Gallagher. Ian alzò gli occhi al soffitto e, sbuffando, si
diresse in cucina.
Buttò la bottiglia nella spazzatura, si sciacquò
le mani e prese qualche
cucchiaiata di cereali che Lip e Carl avevano avanzato nelle rispettive
scodelle. Sbuffò di nuovo, e questa volta lo fece per il
caldo infernale che,
subdolo, aleggiava nell’aria. L’aeratore da
finestra era rotto, così come il
ventilatore sopra la lavatrice, e l’umidità
rendeva l’ambiente quasi
irrespirabile. Ian si asciugò la fronte leggermente sudata
col dorso della mano
e diede una rapida occhiata all’orologio che portava al
polso. Il suo turno
sarebbe cominciato fra meno di un quarto d’ora.
Infilò l’uniforme nei
pantaloni, bevve un sorso di succo d’arancia dal bicchiere di
Fiona per
rinfrescarsi la gola e fu pronto ad andare. Attraversò il
salotto – senza
risparmiare un bel dito medio indirizzato ad un Frank che ancora
dormiva
beatamente – ed uscì di casa.
La Jeep grigio
metallizzata parcheggiata davanti al loro cancelletto aperto
attirò subito la
sua attenzione. Si fermò sull’ultimo gradino in
legno, osservandola con occhio
clinico; quell’auto di grossa cilindrata gli
sembrò familiare. Quando si aprì
la portiera, ogni suo dubbio venne dissipato. Improvvisamente, Ian
Gallagher si
rese conto che quello che sembrava essere un mattino come tutti gli
altri non
lo era affatto. Mandy Milkovich, in tutta la sua straordinaria
bellezza, scese
dalla Jeep e sorrise al suo migliore amico.
«Ciao, Ian.»
Il rosso non
riusciva a credere ai propri occhi. Rimase un attimo a guardarla,
sorpreso, poi
sorrise anche lui e le corse letteralmente in contro. La
abbracciò forte, così
forte che quasi temette di spezzarle le ossa. Erano passati
più di quattro anni
dall’ultima volta che l’aveva vista, nonostante si
sentissero per telefono
circa ogni mese, ma non bastava. Non bastava mai. Lei, la sua migliore
amica di
sempre – l’unica che avesse mai avuto –,
gli mancava come l’aria. Ian sciolse
l’abbraccio e le accarezzò una guancia,
spostandole la lunga frangia dietro
l’orecchio. I suoi capelli, ora, erano scuri come la notte, e
lui si ritrovò a
pensare che il nero fosse il colore dei Milkovich per antonomasia.
«Cosa ci fai nel
profondo South Side di Chicago?», le chiese infine, curioso.
Il sorriso di
Mandy si spense subito e il suo volto si rabbuiò.
«Devi venire con
me, Ian», gli disse, mordendosi nervosamente
l’interno della guancia. «A Los
Angeles.»
Ian aggrottò la
fronte, fissandola come se fosse impazzita tutt’ad un tratto.
«A Los
Angeles?», ripeté, ridacchiando. «Mandy,
ma cosa…?»
«Non c’è tempo
da perdere», lo interruppe lei, afferrandogli un braccio.
«Mickey sta male.»
Il rosso si
pietrificò sentendo quel nome – il nome del
ragazzo che mai aveva smesso di
amare – e il cuore, lo sentì, perse qualche
battito.
«Cosa significa
che sta male?», le domandò, e un brivido gelato
gli corse lungo la schiena. «È uno
scherzo?»
Fu un attimo.
Mandy si aggrappò con i pugni al tessuto della sua divisa e,
appoggiando la
fronte contro la sua spalla, cominciò a piangere. Pianse
come fosse stata una
bambina, e la vide accartocciarsi su sé stessa e rompersi
come una foglia ormai
troppo secca. Capì che, purtroppo, non si trattava affatto
di uno scherzo.
«Mickey sta morendo», singhiozzò, tirando su col naso, e
qualcosa dentro di Ian si spezzò
per sempre. «Io… io so che lo ami ancora,
quindi… ti prego, vieni con me.»
Il rosso le
rialzò dolcemente il viso e, con i pollici,
asciugò quelle lacrime che – ne era
certo – lei aveva pianto anche per lui. La guardò
in quegli occhi pieni di
dolore e tanto gli bastò per mandare a fanculo la ragione,
la parte razionale e
logica di sé: il suo dannato cuore aveva già
deciso e lui non fu capace di
ribellarsi ad esso. Semplicemente, lo ascoltò.
«Aspettami qui»,
le disse, dandole un bacio sulla fronte. «Torno
subito.»
Rientrò in casa,
fece i gradini a due a due e si precipitò nella camera che
divideva con i suoi
fratelli. Afferrò un borsone da sotto il letto, lo
aprì e, alla rinfusa, vi
gettò dentro alcuni vestiti, un po’ di soldi e le
sue medicine. Quando lo
chiuse, il suo cuore sembrò rimbombargli nel petto e nelle
tempie. Con uno
sforzo sovrumano si impedì di piangere. Non poteva farlo,
non in quel momento. Ritornò
di sotto e, sfilando il cellulare dalla tasca dei pantaloni, lo
appoggiò sul
tavolino del salotto. Decise di non lasciare alcun biglietto ai suoi
fratelli
per avvertirli; probabilmente non avrebbero capito la sua scelta.
Così, con un
sospiro, si mise il borsone in spalla e uscì nuovamente di
casa. Frank non si
accorse di nulla.
Mandy
stringeva talmente
forte il volante che le nocche le erano diventate bianche. I finestrini
erano
abbassati e l’aria calda che entrava nell’abitacolo
della Jeep le scompigliava
i capelli corvini. Ian prese il pacchetto di sigarette che aveva nella
tasca
dei pantaloni e lo allungò verso Mandy per offrirgliene una.
Lei distolse un
attimo lo sguardo dalla strada che si snodava davanti a loro e scosse
la testa.
«Ho smesso», gli
fece sapere. «E dovresti smettere anche tu.»
Il rosso alzò le
sopracciglia, sorpreso, e ne prese una per sé. Erano in
viaggio da circa mezz’ora
e Mandy non aveva ancora proferito parola. La osservò con la
coda dell’occhio,
tirando dalla sigaretta, e attese. Non voleva farle alcuna pressione,
non in
una situazione che, da come aveva capito, era molto delicata.
«Mickey ha il cancro
ai polmoni», disse infine lei, dopo qualche altro minuto di
silenzio, ed Ian
preferì che non avesse mai parlato. «È
terminale», si passò il dorso della mano
sugli occhi, cacciando indietro le lacrime.
Ian fece una
fatica immane a deglutire l’enorme groppo che era andato a
formarsi nella sua gola,
levandogli il respiro.
«Quanto… quanto
gli resta?»
Mandy si strinse
nelle spalle.
«Un mese, forse
anche meno», gli rispose, voltandosi per guardarlo dritto
negli occhi. «Ti sto
portando da lui perché prima di andarsene vorrebbe
rivederti.»
Le iridi verdi
di Ian si inumidirono. Dovette scostare lo sguardo e puntarlo fuori dal
finestrino, incapace di sostenere oltre l’espressione di
Mandy. Tirò forte
dalla sigaretta e quasi pregò che il fumo bruciasse quei
suoi dannati polmoni sani.
«Qualche
settimana fa, un mio cliente abituale mi ha portato in Messico per una
vacanza»,
cominciò a raccontare la ragazza, schiarendosi la voce.
«Una sera siamo andati
ad una festa sulla spiaggia e lì il destino ha voluto che
rincontrassi mio fratello.
Non potevo crederci, c’eravamo ritrovati», un
sorriso fra il nostalgico e il malinconico
le piegò le labbra. «Passammo insieme delle
bellissime giornate, nonostante
notai che non avesse affatto una bella cera, ma non ci feci troppo
caso. Un
mattino lo trovai svenuto nella sua stanza, con la bocca piena di
sangue, e
chiamai subito un’ambulanza. In ospedale gli fecero un sacco
di esami e il
giorno dopo scoprimmo tutto. Il mondo ci crollò
addosso», si spostò velocemente
una ciocca di capelli dal viso con le dita e si asciugò una
lacrima. «Mickey rifiutò
le cure ed io capii che non potevo lasciarlo da solo in Messico, non in
quelle
condizioni. Fu così che lo costrinsi ad abbandonare tutto e
venire a vivere con
me a Los Angeles.»
Ian rimase in
silenzio tutto il tempo, assimilando ogni parola. Diede un ultimo tiro
alla
sigaretta, poi la gettò fuori dal finestrino.
«Perché non me
ne hai parlato prima?», le domandò, sbuffando
fuori il fumo dal naso. «Una
settimana fa mi hai chiamato e non hai detto una sola parola a
riguardo.»
«Mickey non ha
voluto. Ha preferito che te ne parlassi di persona, una volta arrivata
a Chicago»,
si giustificò, lanciandogli un’occhiata.
«Per favore, Ian, non essere arrabbiato
con lui. L’unica cosa che chiede è quella di poter
passare il tempo che gli
resta con te.»
Ian la fissò,
appoggiando poi la testa contro il sedile e, straziato, chiuse gli
occhi.
Dopo un giorno
e
mezzo di viaggio, in un pomeriggio particolarmente caldo, Mandy ed Ian
raggiunsero Los Angeles. Parcheggiarono davanti
all’abitazione della ragazza –
un’elegante casa bianca di due piani – e scesero
dalla Jeep. Ian si mise il
proprio borsone sulla spalla e cercò di calmarsi. Si chiese
in quali condizioni
avrebbe trovato Mickey, se sarebbe riuscito a non piangere davanti a
lui, poi
Mandy interruppe il filo dei suoi pensieri prendendogli la mano ed
intrecciando
le dita con le sue.
«Andiamo?», chiese,
in un sussurro, e lui annuì.
Si incamminarono
verso la casa e, una volta entrati, Ian si bloccò sulla
soglia del salotto, il
cuore martellante nel petto. Mickey era seduto su una poltrona, con una
sigaretta che bruciava in bilico tra le sue labbra. Era pallido,
smagrito, a
tratti sembrava persino invecchiato, ma il rosso lo trovò
comunque bellissimo. Mandy
lasciò andare la mano di Ian e si diresse spedita verso il
fratello, strappandogli
di bocca la sigaretta.
«Devi smetterla
di fumare, maledetta testa di cazzo!», lo
rimbrottò, spegnendola nel
posacenere. «Ti fa male!»
«Più male della
merda che ho già nei polmoni?», ribatté
prontamente lui, sfidandola con lo
sguardo.
Mandy sospirò e
strinse i pugni.
«Vaffanculo»,
sibilò, dandogli le spalle e voltandosi infine verso
l’amico. «Vi lascio soli»,
esclamò, salendo veloce le scale che portavano al piano di
sopra.
Mickey la osservò
lungo tutta la rampa e, una volta sparita dal proprio campo visivo, si
sporse
in avanti per afferrare il pacchetto di Marlboro. Si ficcò
in bocca una
sigaretta e la accese. Infine sollevò lo sguardo su Ian,
scrutandolo a fondo
con i suoi occhi di ghiaccio.
«Ti trovo bene,
Gallagher», sorrise, sbuffando fuori una nuvola di fumo.
«Non puoi certo dire
lo stesso di me.»
«Mandy ha
ragione», esordì Ian, mollando il proprio borsone
sul pavimento ed
accomodandosi sul divano. «Dovresti darci un taglio con il
fumo.»
Mickey ridacchiò,
scuotendo la testa.
«Sono già con un
piede nella fossa», proruppe, allargando le braccia.
«Che cazzo possono farmi
delle stupide sigarette?»
«È forse un
gioco per te, Mickey?», sbottò il rosso,
innervosito.
«No», Mickey picchiettò
la sigaretta per far scendere la cenere. «Esattamente come
non è un gioco
chiederti di sposarmi.»
Ian aggrottò la fronte
davanti a quella richiesta del tutto inaspettata.
«Sei serio?»
«Mai stato così
serio in vita mia», gli rispose l’altro.
«Mickey,
ma tu stai…», la sua voce si incrinò e
fu costretto a serrare gli occhi per
reprimere le lacrime. «Tu stai morendo»,
mormorò infine, riaprendo le palpebre
e guardando un punto indistinto del pavimento per non incrociare lo
sguardo del
moro. «Come puoi chiedermi di sposarti?»
«Qualcuno
un giorno mi disse che per lui il matrimonio non era solo un fottuto
pezzo di
carta», Mickey fece un ultimo tiro, schiacciando poi il
filtro nel posacenere.
«Ed ora è lo stesso anche per me.»
Il rosso
non riuscì a credere alle proprie orecchie. Si
passò una mano fra i capelli,
nervoso, e scosse la testa.
«Perché
vuoi che ci sposiamo?», domandò, confuso.
«Devo
proprio dirlo? Non è forse ovvio?», Mickey
sorrise, poi si torturò il labbro
inferiore con i denti e, alzandosi infine dalla poltrona, si
accovacciò davanti
ad Ian. «Sei parte di me», incatenò gli
occhi a quelli del rosso e allungò una
mano per poter passare le dita sul colletto della sua divisa e
stringerla. «Sei
sotto la mia pelle, che cazzo posso farci?»
Ian
deglutì a vuoto. Il respiro gli si mozzò nel
risentire le stesse identiche parole
che il moro, esattamente due anni e mezzo prima, gli disse dopo avergli
proposto di scappare in Messico insieme a lui. Aprì la
bocca, ma Mickey fu più
veloce e gli impedì di dire qualsiasi cosa.
«Ian
Gallagher, vuoi sposarmi?», gli chiese, sollevando le
sopracciglia. «Tanto rimarresti
vedovo nel giro di poco tempo», aggiunse, ironico, cercando
di allentare la
tensione che aleggiava intorno a loro.
Ian volle
soltanto baciarlo. E lo fece. Si protese con la schiena e, prendendogli
il
mento tra due dita, appoggiò le labbra sulle sue con foga.
Mickey si sbilanciò
e quasi cadde all’indietro, ma l’altro lo
afferrò subito per le braccia. Risero
nel bacio e Mickey si aggrappò saldamente alle cosce di Ian
per reggersi. Quando
si separarono i loro respiri erano corti ed affannati, le bocche gonfie
e umide
di saliva.
«Era
forse un sì, Gallagher?», esclamò
Mickey, ridacchiando.
«Sì»,
disse solamente l’altro, allargando il sorriso.
Il moro
sorrise di rimando e, rialzandosi da terra, gli scompigliò i
capelli. Sparì per
qualche secondo in cucina e tornò indietro con due birre
già stappate.
«In
Messico mi sono arricchito parecchio», iniziò,
mentre passava la bottiglia in
mano ad Ian e si sedeva di fronte a lui sul tavolino sgombro.
«Sono riuscito a farmi
un nome, a trovare la mia strada.»
«Davvero?»,
esclamò stupito il rosso.
Mickey
prese un sorso di birra, poi annuì.
«Mi
sono fatto un buon giro vendendo illegalmente droghe ed
armi», gli fece sapere,
alzando beffardo un angolo della bocca, ed Ian lo fissò
subito in tralice,
esasperato. «Non guardarmi così, Gallagher. Non ho
né arte né parte, che cazzo
avrei potuto fare?»
«Non
lo so, provare a sistemare una volta per tutte la tua vita ed evitare i
casini,
per esempio?», lo apostrofò il rosso.
«Hai rischiato grosso. La polizia ti sta
alle calcagna.»
«No,
la polizia ha smesso di cercarmi dopo un anno e mezzo dalla mia
evasione*»,
precisò, appoggiando la bottiglia di fianco a sé.
«E la mia vita è sempre stata
un casino.»
«Anche
la mia vita lo era, ma poi ho messo la testa a posto»,
controbatté Ian,
lanciandogli un’occhiata eloquente. «Sono una
persona nuova.»
«Già.
Però ora sei qui con me», lo stuzzicò
Mickey, facendogli l’occhiolino.
Ian sospirò,
scuotendo la testa.
«Non
sei per niente cambiato.»
«Dovresti
esserne contento, Gallagher», ridacchiò,
mettendosi in piedi. «Con il
matrimonio saremo legalmente sposati. Una volta che sarò
morto, tu erediterai
tutti i miei soldi e potrai aiutare la tua famiglia.»
Il
rosso sbatté le palpebre, la bottiglia a
mezz’aria. Mickey non gli diede nemmeno
il tempo di proferire parola. Salì subito le scale ed Ian,
fissandogli neanche
troppo velatamente il culo, non seppe più cosa diavolo
avrebbe voluto dire.
Quella
sera stessa, Ian disfò velocemente il borsone. Prese una
maglietta ed un paio
di pantaloncini con cui avrebbe dormito quella notte e
riempì l’armadio della
camera di Mickey con i restanti vestiti. Appoggiò le proprie
medicine sul
comodino vicino al letto e sospirò. Mickey entrò
nella stanza mentre si stava sfilando
l’uniforme da paramedico. Gli sorrise e, quasi senza neanche
rendersene conto, si
ritrovò con la schiena premuta contro il materasso, il moro
che lo sovrastava,
seduto a cavalcioni sopra di lui. Ian ridacchiò alla sua
audacia e, con un
colpo di reni, ribaltò le posizioni. Fissò il
compagno negli occhi, poi lo
baciò dolcemente. Mickey rispose con ardore a quel bacio e,
facendo scorrere
una mano tra di loro, la mise in mezzo alle gambe del rosso,
accarezzandolo. Ian
si scostò di scatto, bloccandogli subito il polso,
improvvisamente inquieto.
«Mickey,
forse non dovremmo…»
«Stai
zitto e scopami, Gallagher», lo ammonì subito
Mickey. «Potrebbe essere l’ultima
volta che ho la forza necessaria per farlo. Non sprechiamola.»
Ian
lo guardò, in silenzio. Poi annuì piano alla
richiesta dal compagno. Finì di svestirsi,
gettando pantaloni e boxer a terra, e quando Mickey, dopo essersi
spogliato
anche lui, fece per girarsi a pancia sotto, con delicatezza lo prese
per una
spalla, fermandolo.
«No»,
mormorò, e il moro cercò subito di ribattere, ma
lui gli impedì di dire
qualsiasi cosa. «Voglio guardarti.»
Mickey
non poté fare a meno di sciogliersi in un sorriso. Ian
intrecciò le dita con
quelle del compagno, si fece spazio fra le sue gambe e, lentamente, si
spinse
dentro di lui. Lo baciò sul collo, muovendosi piano, e
Mickey, stringendo le
palpebre, a poco a poco si abituò a quella deliziosa
intrusione. Si aggrappò
alle spalle larghe del rosso, gli strinse i fianchi con le cosce e,
mordendosi
il labbro, respirò forte dal naso. Ian gemette e,
appoggiando la fronte sudata contro
quella del compagno, aumentò la velocità e
l’intensità delle proprie spinte. Mickey,
ora con la bocca spalancata, dovette reclinare la testa
all’indietro, stordito
dal piacere. L’orgasmo arrivò in fretta, in tutta
la sua primordiale potenza,
lasciandoli senza fiato. Ian crollò sul petto del compagno,
nascondendo il viso
nell’incavo del suo collo accaldato. Mickey lo tenne stretto
a sé e, ad occhi
socchiusi, sorrise beato.
«Quanto
mi sei mancato, cazzo», mormorò, passando le dita
fra i suoi capelli.
Ian sorrise
anche lui e, quando il suo respiro tornò regolare,
sollevò lo sguardo per poterlo
guardare. Uno strato sottile di sudore rendeva lucida la pelle del suo
viso, gli
occhi azzurri brillavano e le guance erano leggermente arrossate. Era
uno
spettacolo celestiale, quasi divino. Gli accarezzò la
fronte, in estasi
completa. In quell’istante, Ian pensò che Mickey
non era mai stato così bello.
****
Le
pale silenziose del ventilatore appeso al soffitto giravano lente,
rilasciando
un flebile refolo d’aria fresca nella camera da letto. Ian
aprì pigramente le
palpebre, un ciuffo scompigliato di capelli rossi gli solleticava la
fronte. Il
respiro greve di Mickey, addossato con la schiena al suo petto nudo,
era l’unico
rumore che rompeva la quiete della stanza. Il rosso avvicinò
il viso alla nuca
del compagno e vi lasciò un bacio leggero, prima di infilare
il naso
nell’incavo del suo collo ed annusarne l’odore.
Amava farlo. Amava perdersi nel
profumo naturale della sua pelle. Da una settimana a quella parte, il
suo
risveglio era la cosa più bella del mondo. Le dita delle
loro mani erano
intrecciate ed Ian sorrise, strusciando poi una tempia contro la
guancia dell’altro
come fosse un gatto in cerca di coccole. Mickey si mosse e, lentamente,
si
svegliò.
«Buongiorno»,
gli sussurrò all’orecchio.
Il
moro bofonchiò qualcosa in risposta e con la mano libera si
stropicciò gli
occhi, girandosi infine verso il compagno. Ian allungò
immediatamente un
braccio per potergli accarezzare il volto ancora tiepido di sonno con i
polpastrelli.
«Stavo
pensando ad una cosa», gli disse, a voce bassa.
«Non
è mai un buon segno quando pensi», lo prese in
giro Mickey, un sorriso
canzonatorio stampato sulle labbra piene.
Ian fece
finta di non sentire quel commento a dir poco ironico.
«Pensavo
che potremmo sposarci in un campo da baseball», propose,
puntellando il gomito
sul materasso ed appoggiando così la testa sul palmo aperto
della mano. «Tu sei
già divorziato, quindi il matrimonio in chiesa è
da escludere. Il campo da
baseball sarebbe l’ideale. È il nostro posto,
dopotutto. Basterebbe avere il
permesso dal comune, un’amica qualsiasi di Mandy che mi
faccia da testimone e
il gioco è fatto.»
Mickey
ascoltò tutto quel fiume in piena di parole, poi lo
guardò con un sopracciglio
inarcato.
«Fottiti,
Gallagher!», ridacchiò, dandogli una pacca
scherzosa sul torace.
«Sei
veramente uno stronzo», esclamò il rosso, mettendo
su un broncio talmente
assurdo che l’altro non poté fare a meno di ridere
di nuovo. «Io parlavo sul
serio.»
«Oh,
questo non lo metto in dubbio, ragazzaccio**.»
Ian
sbuffò esasperato e si sistemò dritto sul letto,
incrociando le braccia dietro
la nuca. Quello fu un invito troppo succulento per Mickey, il quale gli
si mise
sopra a cavalcioni e cominciò a solleticargli i fianchi. Il
rosso si contorse
come se fosse stato toccato da un tizzone ardente. Gonfiò le
guance e cercò di
resistere, ma quando il compagno lo stuzzicò sotto al
tatuaggio raffigurante un’aquila
sul fucile, decise di passare al contrattacco. La camera si
riempì di risate e
gridolini soffocati per svariati minuti. Il primo a cedere fu comunque
Ian; con
una spinta leggera fece scendere dal proprio corpo massiccio il
compagno, che
rotolò subito su un fianco. Si guardarono, scoppiando a
ridere di tanto in
tanto, e Mickey immerse le dita nei capelli arruffati
dell’altro.
«Come
se la passa il ciuccia latte?»,
chiese all’improvviso.
Ian
fu sorpreso da quella domanda del tutto inattesa e sorrise, capendo
subito a
chi si stesse riferendo.
«Yevgeny
sta bene», gli rispose. «Ma non è
più un ciuccia latte, ormai ha sei anni»,
aggiunse, scoccandogli un’occhiata divertita. «Ti
piacerebbe vedere qualche sua
foto?»
Mickey
fece spallucce, fingendo nonchalance. Mai avrebbe ammesso che,
nonostante fosse
figlio di uno stupro ai suoi danni, provasse affetto nei confronti di
quel
piccoletto dal nome quasi impronunciabile. Ian si sporse verso il
comodino e,
allungando un braccio, afferrò il portafoglio.
«Svetlana
lo sta crescendo bene», gli rese noto, mentre sfilava da una
delle piccole
tasche interne due istantanee scattate con una vecchia polaroid.
«Adesso mi
permette di vederlo ogni volta che voglio.»
Mickey
prese in mano le fotografie di suo figlio e i suoi occhi,
inaspettatamente, si
fecero lucidi. In una era in braccio a Svetlana, infagottato nel suo
cappottino, durante una giornata invernale passata al parco;
nell’altra era
seduto sulle spalle di Ian, che lo teneva per le gambine, mentre faceva
la
linguaccia ed indicava col piccolo indice l’obbiettivo.
Entrambi ridevano
allegri, e Mickey pensò a tutto il tempo passato lontano da
lui – tempo che più
nessuno gli avrebbe mai ridato indietro –, da quel bellissimo
bambino dai
capelli color del grano.
«Vi
somigliate molto», la voce di Ian spezzò il filo
dei suoi pensieri. «Avete gli
stessi occhi e lo stesso modo di alzare le sopracciglia.»
Il
moro si toccò il naso – come sempre quando era
nervoso o vinto dalle emozioni –
e restituì le foto ad Ian.
«Sono
un padre di merda», esordì, mordendosi il labbro.
«Non sono mai stato presente
nella sua vita, non credo di averlo mai neanche visto muovere i suoi
primi
passi, però… cazzo, io voglio bene a quel bambino
e so che è troppo tardi per
rimediare, ma devo provarci», gli confessò con
estrema difficoltà, guardandolo
negli occhi. «Ho tenuto da parte un po’ di soldi
per lui, per il suo futuro.
Quando non ci sarò più, voglio che tu glieli
dia.»
Ian rimase
sinceramente colpito da quelle parole. Si sciolse in un sorriso, poi lo
baciò
piano sulla bocca.
«Lo
farò», gli promise.
E Mickey
sorrise anche lui.
Erano
da poco passate le nove e mezza di sera. Mandy, seduta intorno al
bancone della
cucina, stava mangiucchiando del gelato direttamente dalla vaschetta
quando
Mickey scese e la raggiunse. Da un cassetto tirò fuori un
coltellino, poi aprì
il frigorifero, afferrò due lattine di birra ed
infilò il tutto nello zaino che
aveva in spalla.
«Dove
vai?», gli domandò subito la sorella.
«Esco
con Ian.»
Mandy
si allarmò.
«Sei
sicuro?»
«Sì,
stronzetta, sono sicuro», Mickey alzò un
sopracciglio, lanciandole un’occhiata
eloquente. «Sto bene. E tu dovresti smetterla di affogare le
tue preoccupazioni
per me nel cibo. Finirai col diventare una palla di lardo piena di
cellulite.»
Mandy,
pur sapendo che il fratello la stava amorevolmente prendendo in giro,
non esitò
a mostrargli il dito medio.
«Coglione»,
borbottò.
Mickey
ridacchiò, scompigliandole i capelli, poi andò in
salotto. Lì scorse il profilo
di Ian che, immerso nel buio e con aria piuttosto annoiata, era
svaccato sul
divano a guardare una stupida commediola romantica.
«Alza
quel tuo bel culetto bianco, Gallagher», gli
sussurrò all’orecchio, cingendogli
da dietro il collo. «Voglio portarti in un posto.»
Il
rosso lo guardò con la coda dell’occhio.
«Dove
andiamo?», gli chiese, curioso.
«A
rivivere i bei vecchi tempi.»
Ian
aggrottò la fronte a quella risposta vaga, ma non
riuscì comunque a trattenere
un sorriso.
Per
un esperto come Mickey scassinare il lucchetto all’entrata
del campo da
baseball fu un gioco da ragazzi. A lavoro compiuto fece
l’occhiolino ad Ian, il
quale gli sorrise complice. Attraversarono il campetto, guidati dalla
luce dei
fari ancora accesi, e giunsero davanti al reticolato che proteggeva le
gradinate.
Mickey aprì lo zaino, estrasse il coltellino e lo
infilzò con un colpo secco nella
lattina di birra. Il liquido giallastro schizzò fuori mentre
la passava ad Ian,
che fulmineo se la portò subito alla bocca, sollevando la
linguetta e trangugiando
con gusto. Il moro rimase a guardarlo, divertito, poi lo
imitò e bevve anche
lui la sua birra. Si appoggiarono entrambi alla rete, ridendo
soddisfatti e
contenti, i menti gocciolanti.
«Mi
è mancato tutto questo», sospirò Ian,
reclinando la testa all’indietro e
chiudendo gli occhi.
«Anche
a me», ammise l’altro, facendo schioccare la
lingua. «Cazzo, potremmo persino
sposarci per davvero in questo posto.»
Il
rosso riaprì di scatto le palpebre, incredulo.
«Dici
sul serio?»
Mickey
annuì, e il sorriso che gli regalò Ian in quel
preciso istante fu il più bello
che avesse mai visto. I fari del campo si spensero e il moro
approfittò di
quell’atmosfera mite per chinarsi e trafficare nello zaino.
Con immenso stupore
da parte del compagno, tirò fuori una coperta, distendendola
sul terreno. Si sdraiò
sopra di essa e scoccò un’occhiata fugace
all’altro per invitarlo a fare lo
stesso. Ian, con il cuore che batteva all’impazzata senza un
apparente motivo,
non se lo fece ripetere di nuovo e si adagiò di fianco a
lui. Rimasero in
silenzio per qualche minuto, assaporando l’aria tiepida di
quella serata
tipicamente estiva che muoveva leggera le foglie degli alberi
circostanti. Ian
sorrise tra sé e sé: neanche nei suoi sogni
più reconditi avrebbe mai osato
pensare che sarebbero davvero finiti a guardare le stelle sdraiati su
di una
coperta. Si girò con la testa verso il compagno e gli prese
la mano,
intrecciando le dita alle sue.
«Mi
dispiace averti abbandonato al confine col Messico, anni fa»,
gli rivelò
all’improvviso, appoggiando la fronte contro la sua spalla.
Mickey
osservò distrattamente la fetta di luna che era appena
comparsa in cielo.
«Non
ho mai biasimato fino in fondo la tua scelta»,
mormorò, mordendosi il labbro. «Ce
ne saremmo pentiti entrambi. Tu stavi lasciando una famiglia che ti
amava e un
lavoro che ti piaceva, io ero solo un avanzo di galera, un
latitante… che vita
avresti mai potuto fare, con me?», si lasciò
andare ad un sospiro affranto. «Il
solo rammarico che ho è quello di non essere riuscito a
farti vedere la
spiaggia.»
Ian
sollevò lo sguardo su di lui.
«Potremmo
andare in Messico», esclamò. «Come meta
del nostro viaggio di nozze», aggiunse
subito. «Mi piacerebbe stare in spiaggia, a sorseggiare
tequila sotto il sole e
guardare il mare insieme a te come una perfetta coppia di checche
innamorate.»
Mickey
lo fissò e, rifilandogli una gomitata giocosa nel fianco,
scoppiò a ridere. Con
uno scatto balzò sopra di lui, bloccandogli i polsi. Poi,
tutt’ad un tratto,
gli irrigatori spuntarono fuori dal terreno e cominciarono a bagnare il
prato.
La potente gittata d’acqua di uno di essi arrivò a
colpire in pieno volto Ian,
inzuppandogli subito anche i capelli. Cercò di divincolarsi,
ma Mickey,
ridendo, lo teneva giù, saldamente inchiodato a terra. Il
rosso si dimenò,
muovendo la testa di continuo per evitare che tutta
quell’acqua gli bloccasse
il respiro, e alla fine riuscì a liberarsi dalla morsa del
compagno con una
spinta.
«Questa
me la paghi, stronzo», esclamò, tirandosi su a
sedere ed asciugandosi come
meglio poteva il viso.
Mickey,
in tutta risposta, gli fece la linguaccia. Si alzò e
scappò via, proprio come
un bambino dopo essere stato scoperto a combinare una marachella. Ian
scosse la
testa, non trattenendo comunque una leggera risata. Restò a
guardarlo mentre
compiva il giro del campetto, facendo lo slalom fra gli irrigatori, poi
un moto
di paura gli procurò un brivido alla bocca dello stomaco.
«Mickey,
ora basta, fermati!», gli ordinò, urlando per
farsi sentire. «Affaticherai i polmoni!»
Il
moro gli fece il dito medio da lontano, senza la benché
minima intenzione di
arrestare la propria corsa. Ian roteò gli occhi, sospirando.
Fu costretto ad
alzarsi anche lui e partire all’inseguimento di
quell’idiota scriteriato per
fermarlo al più presto. Fortunatamente le sue gambe erano
ben allenate – frutto
degli addestramenti militari – e non gli ci volle poi molto
per raggiungerlo ed
agguantarlo per un braccio. Mickey si piegò in avanti,
appoggiando le mani
sulle cosce. Aveva il fiato corto e pesantemente affannato, ma
sorrideva; la
sua canottiera era leggermente umida di acqua, così come i
pantaloni e le
sneakers consumate che portava ai piedi. Ian si pettinò i
capelli bagnati
all’indietro ed attese che il compagno si calmasse. Quando
sentì che il respiro
di Mickey era tornato regolare, premette una mano sul suo petto e,
delicatamente, lo fece indietreggiare finché non ebbe
toccato la recinzione del
campo con la schiena. Appoggiò la fronte contro la sua,
sorridendo, e infine lo
baciò. Mickey si lasciò trasportare da quel bacio
dolce e profondo e, circondandogli
i fianchi con le braccia, lo strinse forte contro di sé,
felice.
****
Ian si
ficcò una sigaretta in bocca e, infilando una mano nella
tasca destra dei
jeans, cercò l’accendino. Non lo trovò.
Provò nella tasca sinistra e in quelle
di dietro, ma dell’accendino neanche l’ombra.
Aprì il vano portaoggetti della
Jeep, ma si ricordò che Mandy aveva smesso di fumare. Si
maledì mentalmente e
mise la sigaretta spenta sopra l’orecchio, capendo che non
sarebbe mai riuscito
a stemperare la tensione che aveva addosso. Quel mattino, a casa
Milkovich, era
arrivata una chiamata dalla gioielleria in cui li avvisavano che le
fedi
nuziali erano pronte e lui, per l’emozione, era entrato nel
panico. Sbuffò,
mentre i suoi occhi continuavano, imperterriti, a scrutare attraverso
la vetrina
trasparente della oreficeria per poter spiare la figura di Mandy.
Avevano
concordato di andare a ritirare gli anelli insieme, ma la sua migliore
amica aveva
pensato bene di chiuderlo dentro la Jeep per impedirgli di entrare nel
negozio
con lei. Lui l’aveva guardata senza capire, battendo i palmi
delle mani contro
il finestrino in segno di protesta, e Mandy, ridendo, gli aveva fatto
segno con
l’indice di stare zitto prima di sparire oltre
l’entrata.
E
così lui era lì, intrappolato come un topo in
gabbia, ad aspettare. Il caldo
cominciava a farsi insopportabile dentro quella dannata macchina. Si
asciugò la
fronte madida di sudore e decise di accendere il climatizzatore.
Nervoso,
guardò di nuovo fuori dal finestrino e finalmente vide Mandy
uscire dalla gioielleria.
La ragazza corse verso la propria auto, girò la chiave nella
toppa e, aprendo
la portiera, salì al posto del guidatore. Il sorriso che
aveva stampato sulla
bocca era a dir poco sgargiante.
«Posso
sapere perché mi hai chiuso qui dentro?», le
domandò Ian, con cipiglio severo.
«Eri
troppo agitato», rispose lei, alzando le sopracciglia e
ghignando. «Temevo che,
una volta entrato nel negozio, saresti svenuto.»
«Fanculo!»,
sbottò il rosso, incrociando le braccia sul petto e voltando
la testa
dall’altra parte.
Mandy
non poté fare a meno di ridere.
«Sei
davvero una regina del dramma», lo apostrofò
scherzosamente e, aprendo la
scatolina di velluto blu, si sporse verso di lui per sventolargliela
davanti al
naso. «Non sei curioso di vederle?»
Ian
non riuscì a resistere e abbassò gli occhi per
guardare. Con dita tremanti
prese una delle due piccole fedi: era argentata, sottile e brillante,
esattamente come la sua gemella, solo un po’ più
stretta. Capì che quella che
stava stringendo fra i polpastrelli era la fede che avrebbe indossato
lui.
Osservò l’incisione all’interno
dell’anello e notò che vicino al nome del suo
futuro sposo c’era una data. Finalmente scoprì il
giorno – che Mickey non aveva
mai voluto svelargli – in cui si sarebbero sposati: il
ventinove giugno.
«Ti
piace?», gli chiese Mandy, ansiosa di conoscere il suo
giudizio.
Ian non
fu capace di risponderle dalla gioia. Si limitò a sorriderle
e ad abbracciarla;
sapeva che la sua migliore amica aveva sempre avuto ottimi gusti per
quel
genere di cose.
«Grazie»,
le mormorò all’orecchio.
Mandy
sorrise contenta e lo abbracciò ancora più forte.
Quando
tornarono a casa, Mickey non era più sul divano del salotto.
I due amici si
guardarono, allarmati, e corsero su per le scale. Lo trovarono nella
sua camera
da letto, davanti allo specchio, mentre si stava provando il vestito
– comprato
quasi due settimane prima – che avrebbe indossato al
matrimonio. Ian e Mandy,
all’unisono, tirarono un sospiro di sollievo.
«Sembri
un pinguino», esclamò lei, cercando di sciogliere
l’ondata di paura che le
aveva attanagliato la gola pochi secondi prima.
Mickey
si voltò verso la sorella e, molto elegantemente, le
mostrò il dito medio.
«E
tu sembri una stronza», ribatté per le rime.
«Anzi, no, lo sei.»
«Idiota»,
borbottò Mandy, scuotendo il capo e dileguandosi.
Ian
si avvicinò al compagno e gli raddrizzò il
papillon. Lo guardò negli occhi e
non gli ci volle poi molto ad accorgersi che il moro si sentiva in
imbarazzo
vestito in quel modo così lontano dal suo stile.
«Sono
calato di altri tre cazzo di chili, questa settimana», si
lamentò, schiarendosi
la voce e ritornando a guardarsi allo specchio. «Ho voluto
provarlo per vedere
se mi calzava ancora bene», si giustificò.
Ian sorrise
e, appoggiando il mento sopra la sua spalla, lo cinse da dietro.
«Sei
bellissimo», gli disse, fissando negli occhi il suo riflesso.
Mickey
lo fissò di rimando, in silenzio, non sapendo bene come
reagire a
quell’affermazione. Nessuno gli aveva mai detto che era
bellissimo prima di
quel momento. Ian gli diede un piccolo bacio sul collo e lo
liberò dal suo
abbraccio. Guardò Mickey svestirsi, poi lo aiutò
a riporre cautamente il
vestito nel cellophane e ad appenderlo nell’armadio. Si
distesero entrambi sul
letto e Ian tirò fuori dalla tasca dei jeans la piccola
custodia vellutata; la
aprì, rimirando felice le fedi argentate, e infine la
passò a Mickey per farle
vedere anche a lui.
«Perché
hai scelto proprio il ventinove giugno come data per
sposarci?», gli domandò,
curioso, incrociando le braccia dietro la testa.
Il
moro fece spallucce, ma sorrise.
«È
una data come un’altra, Gallagher.»
Ian
finse di crederci, nonostante il sorriso malcelato sulla bocca del
compagno non
gliela raccontava giusta. Si girò verso di lui e gli
circondò la vita con un
braccio, serrando gli occhi. Mickey passò la punta
dell’indice sulle fedi come
per saggiarne la consistenza: erano reali, splendide, ma soprattutto
erano loro. Infine chiuse la
scatolina e la
appoggiò sul comodino. Contemplò il rosso per
qualche istante, poi rivolse lo
sguardo al soffitto e sorrise di nuovo, ripensando a quel ventinove
giugno di
tanti anni addietro in cui smise di avere paura e, per la prima volta,
baciò
Ian Gallagher.***
****
Le
condizioni di Mickey cominciarono lentamente a peggiorare. Il pallore
sul suo
volto si era fatto più marcato, così come la
stanchezza, l’inappetenza e la
forte tosse. Il dolore era quasi diventato insopportabile ed era Ian
stesso a
fargli le iniezioni di morfina quando non riusciva più a
tenerlo sotto
controllo. Ma lui continuava a sorridere, così
maledettamente attaccato a
quelle poche briciole di vita che gli rimanevano. Quella sera erano
seduti sul
divano a guardare uno dei soliti programmi spazzatura tanto adorati da
Ian, il
quale era sdraiato e aveva la testa appoggiata sulle cosce del
compagno. Mickey
gli stava accarezzando piano i capelli – era una cosa che lo
calmava maledettamente
– quando il rosso, tutto ad un tratto, sbuffò una
risata dal naso.
«Che
cazzo hai da ridere?», gli chiese allora, inarcando un
sopracciglio.
Ian
sollevò lo sguardo su di lui, il riflesso della televisione
accesa gli
dipingeva il volto in uno strano gioco di colori azzurrognoli.
«Siamo
in procinto di sposarci, ma ancora non abbiamo avuto il nostro primo
appuntamento», esclamò.
Mickey
lo fissò, sbattendo le palpebre.
«Cazzo,
hai ragione», si passò una mano sulla nuca.
«Beh, possiamo sempre rimediare e
andare fuori a cena.»
«Davvero?»,
il rosso si alzò di scatto con la schiena, puntellandosi sui
gomiti per
sostenersi. «E quando?»
«Anche
questa sera stessa, se vuoi.»
Ian
sorrise, ma la sua felicità si spense non appena
notò che il volto di Mickey
era abbastanza distrutto. Abbassò lo sguardo, rimanendo in
silenzio: mai si
sarebbe permesso che il compagno si affaticasse per un suo stupido
capriccio.
«Ci
stai forse ripensando, Gallagher?», il moro gli
schioccò le dita davanti al
naso. «Non vuoi uscire?»
«Mi
piacerebbe, ma tu sei stanco», gli disse allora.
«Non voglio che…»
«Stronzate»,
sbottò subito Mickey, alzandosi in piedi. «Sto
bene. E questa sera avremo il
nostro cazzo di primo appuntamento.»
Ian
rimase a fissarlo per qualche secondo e capì che, anche se
avesse provato a
protestare, Mickey sarebbe stato irremovibile sulla sua decisione.
«Va
bene», acconsentì, non troppo convinto.
Salirono
in camera per cambiarsi. Il caldo estivo era opprimente anche durante
le ore
serali, così entrambi optarono per delle camicie di seta
chiara e dei jeans
leggeri. Quando furono pronti, andarono nella stanza di Mandy per
avvisarla
della loro uscita. La ragazza non disse nulla, ma guardò con
aria preoccupata
Ian, che le rivolse lo stesso sguardo.
Raggiunsero
il ristorante più vicino dopo circa un quarto
d’ora. La Jeep di Mandy era dal
meccanico, così dovettero usare la vecchia auto di Mickey.
Il locale era
piccolo ma accogliente e un buon profumo si spandeva per
l’aria. Si sedettero ad
un tavolo al centro della sala e, dopo aver dato una fugace scorsa al
menu,
chiamarono un cameriere per ordinare. L’apprensione di Ian
scemò lentamente,
lasciando spazio all’emozione che gli procurava essere al suo
primo, vero
appuntamento con Mickey. Si guardò un po’ in giro,
scrutando l’ambiente
circostante. Le pareti erano in legno, le luci soffuse degli eleganti
lampadari
appesi al soffitto regalavano un’atmosfera romantica e il
lieve chiacchiericcio
dei commensali intorno a loro offriva un sottofondo quasi familiare.
Osservò
Mickey con la testa inclinata da un lato, sorridendo.
«È
davvero un bel posto», apprezzò, sincero.
«Già»,
concordò l’altro. «E anche parecchio
costoso.»
Ian
gli lanciò un’occhiataccia.
«Ti
sembra questo il momento di fare il tirchio?»,
esclamò, prendendolo in giro.
Mickey
non fece in tempo a ribattere. Cominciò a tossire e il
sapore ferroso del
sangue gli risalì lungo la gola. Afferrò veloce
il tovagliolo e, premendoselo
contro la bocca, ne macchiò di rosso il tessuto.
Guardò il proprio compagno
che, paonazzo in volto, lo fissava sconvolto, prima di crollare a terra
svenuto. Ian si alzò di scatto, facendo cadere dietro di
sé la sedia con un
tonfo secco. Si gettò in ginocchio vicino a Mickey, gli
slacciò i primi bottoni
della camicia per aiutarlo a respirare meglio e gli
picchiettò il viso con le
mani cercando di fargli riprendere i sensi. Alcuni dei clienti si
avvicinarono,
bisbigliando parole incomprensibili, e lui sollevò gli occhi
infuocati su di
loro.
«Non
state lì impalati a guardare, cazzo!»,
gridò, disperato. «Chiamate il 911!»
Dopo
una serie di esami ed accertamenti, Mickey fu ricoverato in ospedale.
Ian
avvertì Mandy usando uno dei telefoni della struttura e lei,
servendosi di un
taxi, riuscì a raggiungerlo dopo una ventina di minuti. Si
abbracciarono e
Mandy pianse col viso affondato nell’incavo del suo collo,
bagnandogli la
camicia. Ian le accarezzò la schiena, cercando invano di
calmarla. Si sedettero
sulle poltrone della sala d’attesa, tenendosi forte per mano,
e aspettarono.
Passò circa un’ora prima che un dottore in camice
bianco si dirigesse verso di
loro.
«Siete
i parenti del signor Milkovich?»
«Sono
il suo compagno», disse subito Ian, scattando in piedi.
«Lei è la sorella»,
aggiunse, indicando Mandy, ancora seduta, con un cenno della testa.
«Come sta
Mickey?»
«Ora
è stabile e vigile. Date le sue condizioni preferiamo
tenerlo in osservazione
per le prossime ventiquattro ore», gli rispose il medico,
sistemandosi gli
occhiali da vista sul naso. «Quando avremo gli esiti degli
esami, decideremo
cosa fare.»
«Possiamo
vederlo?», domandò infine Mandy, con un filo di
voce.
«Sì,
ma evitate di affaticarlo troppo. Ha bisogno di riposare.»
Lo ringraziarono
e il dottore, stringendo loro le mani, se ne andò. Ian
circondò le spalle di
Mandy per sostenerla – nonostante stesse cadendo a pezzi
anche lui – ed
entrarono nella stanza. Mickey aveva le palpebre leggermente socchiuse,
ma non
dormiva. Due piccole cannule erano all’interno delle sue
narici per farlo
respirare, una flebo era piantata nel suo braccio sinistro e un monitor
registrava il suo battito cardiaco. Ian volle solo piangere. Si sedette
sulla
sedia vicino al letto, mentre Mandy, troppo straziata,
preferì restare in
piedi, in disparte.
«Ehi»,
sussurrò appena, e Mickey aprì del tutto gli
occhi per guardarlo. «Ci hai fatto
prendere un bello spavento, lo sai?»
«Scusa»,
la sua voce era roca e bassa, così cercò di
schiarirsela. «Siamo destinati a
non avere mai il nostro primo appuntamento.»
«Non
ci pensare», Ian gli prese la mano, accarezzandone piano il
dorso con il
pollice. «Ora dormi.»
Mickey
annuì flebilmente, chiudendo le palpebre. Si
addormentò pochi minuti più tardi e
Ian, appoggiando la fronte sul proprio avambraccio, poté
finalmente liberare
quelle lacrime da troppo tempo trattenute.
Era
pomeriggio inoltrato quando un medico di mezz’età,
con i capelli brizzolati e
gli occhi chiari, varcò la soglia della stanza di Mickey. In
mano stringeva la
sua cartella clinica.
«Potete
lasciarci soli?», chiese, guardando Ian e Mandy.
«Devo parlare col paziente.»
«No»,
rispose per loro Mickey. «Voglio che restino.»
Il
dottore lo fissò un attimo, poi acconsentì.
Chiuse la porta e, mettendosi di
fianco al letto, aprì la cartella.
«Le
sue condizioni sono estremamente gravi, signor Milkovich» gli
disse, sollevando
lo sguardo dal foglio per poterlo guardare negli occhi. «Il
cancro si è
diffuso. Gli esami fatti ieri sera hanno rilevato la presenza di una
metastasi
nel cervello.»
Ian,
esattamente come Mandy, raggelò a quella notizia. Il cuore
saltò un battito; la
consapevolezza che il tempo da passare con Mickey stava per scadere lo
travolse
all’improvviso, come uno schiaffo in pieno volto.
«Le
consigliamo di rimanere in ospedale», continuò il
dottore. «Procederemo con dei
cicli di chemioterapia per…»
«No!»,
lo interruppe il moro. «Non voglio stare un minuto di
più in questo posto!»
«Signor
Milkovich, capisco che lei adesso sia turbato, ma la sua situazione
peggiorerà
di giorno in giorno. Con le nostre cure potrebbe vivere un
po’ più a lungo e…»
«Non
me ne frega un cazzo delle vostre dannate cure!»,
sbottò, con quel poco fiato
che gli era rimasto. «Voglio essere dimesso! Ora!»
Il
medico sospirò.
«Se
è questo quello che vuole...»
«Ma
dottore, lei non può lasciarlo andare!»,
protestò Ian, alzandosi in piedi di
scatto. «Non può farlo!»
«Non
posso nemmeno obbligare i pazienti a restare quando non vogliono.
D’altro
canto, il signor Milkovich è abbastanza adulto per prendere
le proprie
decisioni», soggiunse, chiudendo la cartella. «Ora,
se volete scusarmi, devo
proseguire con le visite», e così si
congedò, lasciando i tre soli nella
stanza.
Mickey
firmò le dimissioni una ventina di minuti più
tardi. Quando tornarono a casa,
Mandy si rifugiò subito nella propria camera, sconvolta e
con gli occhi gonfi
di pianto. Ian, invece, gettò le chiavi della macchina sul
tavolino con un
colpo secco. Era furente con Mickey, con quello stupido cancro che lo
stava
consumando da dentro, con quella vita bastarda che aveva deciso di
portarglielo
via troppo in fretta, ancora troppo giovane.
«Sembra
che non ti importi nulla di morire, cazzo!», gli
sbatté infine in faccia, non
riuscendo più a trattenere la rabbia.
Mickey
si sedette sul divano, stringendosi nelle spalle.
«Anche
se mi importasse, ciò non mi farebbe vivere più a
lungo», replicò, e lo fece con
una tale tranquillità da renderlo ancora più
nervoso. «Morirò comunque,
Gallagher.»
Ian
strinse forte i pugni, piantando le unghie nei palmi. Le mascelle gli
si
contrassero, il respiro era corto ed affannato. Doveva uscire da quella
maledetta casa o sarebbe esploso, dando di matto. Così, con
gesto repentino,
riafferrò le chiavi dell’auto.
«Vaffanculo,
Mickey!»
E
sbatté la porta dietro le proprie spalle.
Ian
reclinò la testa all’indietro, buttando
giù l’ennesimo shot di whiskey. Aveva
perso il conto di quanti shots avesse trangugiato, alternandoli ad un
paio di
boccali di birra. Il bar in cui era finito qualche ora prima era
malconcio e
sgangherato. La maggior parte dei clienti erano tutti dei vecchi
ubriaconi poco
raccomandabili che, seduti ai loro tavolini, strillavano, ridevano e
qualche
volta si pestavano, facendo un chiasso infernale.
«Un
altro», ordinò il rosso, urlando e sbattendo il
bicchierino sul bancone per
riuscire a farsi sentire.
Il
barista, un uomo robusto e con un paio di baffoni scuri, si
rifiutò di
servirlo.
«Mi
dispiace, ragazzo, ma la risposta è no», gli
disse, sistemandosi la salvietta
su una spalla. «Forse è meglio se vai a
casa.»
«Ho
detto che ne voglio un altro», ripeté,
strascicando leggermente le parole.
«No,
hai già bevuto troppo, per i miei gusti.»
Ian
si alzò dallo sgabello e, fuori di sé,
afferrò il barista per il colletto della
camicia. Nessuno, in quell’antro di perdizione e
sregolatezza, fece caso a loro
due.
«Pensa
ai cazzi tuoi e dammi da bere», sibilò, ad un
centimetro dal suo naso.
«Muoviti, stronzo!»
L’uomo
rimase impassibile, ormai abituato alle sceneggiate che, quasi ogni
sera,
l’ubriacone di turno pensava bene di fare nel suo bar. Ian fu
costretto a
lasciarlo andare. Con rabbia afferrò il bicchierino e lo
scagliò a terra dal
nervoso, riducendolo in piccole schegge di vetro.
«Non
verrò mai più qui, pezzo di merda»,
sbottò, prima di decidersi ad andarsene via.
Fuori
era già quasi buio. Ciondolante, raggiunse l’auto
e vi salì a bordo. Nonostante
fosse sbronzo da far schifo, non riuscì a smettere di
pensare a Mickey. Strinse
le mani intorno al volante e, abbassando la testa, cominciò
a piangere. Le lacrime
scesero, bagnando i jeans, e lui rimase a guardare quelle piccole
macchie più
scure impregnate nel tessuto. Poi, stanco, si accasciò
contro il sedile e, col
volto umido di pianto, si addormentò.
Si
svegliò poco dopo l’alba. La sbornia era quasi del
tutto smaltita, così decise
di tornare a casa. Quando rientrò, Mickey era ancora seduto
sul divano. Ian si
bloccò un attimo sulla porta: lo aveva aspettato
lì per tutto il tempo, ne era
più che certo.
«Dove
cazzo sei stato tutta la notte?», gli chiese il moro, con un
tono da brividi,
senza guardarlo in faccia.
Ian
non rispose e, lanciando le chiavi sul tavolino, salì le
scale. Mickey lo seguì
subito e, una volta arrivati in camera, lo afferrò per un
braccio.
«Dove
cazzo sei stato, Ian?», ripeté, scuotendolo.
«Fottiti!»,
gli soffiò in faccia il rosso, liberandosi dalla sua presa
con uno scatto.
Fu in
quel momento che Mickey capì tutto: aveva sentito
chiaramente il forte odore di
alcool nell’alito del compagno. Lo osservò mentre
si toglieva la camicia e
buttava all’aria l’armadio, alla ricerca quasi
spasmodica e maniacale di
qualcosa di pulito da mettere.
«So
che non prendi più le tue medicine da una settimana,
Ian», gli disse allora, e
il compagno si bloccò all’istante. «E so
anche che bere non ti servirà a
nulla.»
Ian
chiuse l’armadio e, ancora a petto nudo, strinse in un pugno
la maglietta che
aveva scelto.
«Perché
non vuoi farti curare, maledetto stronzo?», urlò,
le vene del collo gonfie per
la rabbia. «Perché non vuoi neanche
provarci?»
«Perché
sarebbe tutto inutile», gli rispose Mickey, con una calma a
dir poco
sconcertante. «La chemioterapia mi ridurrebbe in uno stato
pietoso ed io non
posso vederti soffrire a causa mia. Non voglio che tu trascorra le tue
giornate
a farmi da balia, a reggermi la testa mentre sono piegato sul cesso a
vomitare.»
«Ma
io lo farei, Mickey. Farei di tutto pur di averti accanto anche solo un
giorno
in più», la voce di Ian era un rantolo di dolore.
«Farei di tutto per te,
perché ti amo, cazzo!»
Lo
sguardo malinconico del moro si addolcì per un breve istante.
«Se
mi ami, devi accettare la mia decisione.»
«Non
posso…»
«Devi
farlo, Ian. Non voglio passare gli ultimi giorni in un cazzo di
ospedale a
soffrire come un cane… per cosa, poi? Non guarirei
comunque», gli spiegò,
cercando di convincerlo che la sua era la scelta migliore.
«Preferisco morire
prima se ciò significa aver passato i miei ultimi istanti di
vita con te.»
Ian
non ce la fece più. La sua rabbia esplose e, furioso, spinse
Mickey sul letto con
una foga che non credeva possibile. Si sedette sopra di lui a
cavalcioni e gli
bloccò entrambi i polsi con una mano mentre, con
l’altra, si preparò a tirargli
un pugno. Tentò di colpirlo, ci provò davvero, ma
si fermò ad un centimetro dal
suo zigomo. Mickey
lo fissò, sfidandolo con lo sguardo.
«Avanti,
Gallagher, picchiami», lo provocò, pensando che
lasciandolo sfogare lo avrebbe
fatto sentire un po’ meglio. «Forza, che aspetti?
Colpiscimi! O sei forse
diventato una femminuccia cagasotto?»
Il pugno
cominciò a tremare, ma Ian non riuscì a fare
niente. Liberò i polsi del moro e,
respirando affannosamente, lo guardò. E tutto quello che
vide fu un Mickey fatto
di vetro, così fragile e debole sotto il suo corpo.
Capì che se l’avesse
picchiato lo avrebbe distrutto e lui non voleva fargli del male
– Mickey non
aveva colpa alcuna di essersi ammalato –, voleva solo che
guarisse e stesse
bene. Gli occhi gli si riempirono di lacrime e, affondando il viso nel
collo
del compagno, pianse.
«Andrà
tutto bene», lo rassicurò Mickey, abbracciandolo.
«Ma tu devi promettermi che continuerai
a prendere le medicine e che non ti lascerai andare. Tu devi vivere,
Ian, mi
hai sentito?»
Il rosso
annuì appena, il volto ancora premuto contro la sua spalla.
«E
tu non morire, cazzo», sussurrò, soffiando sulla
sua pelle. «Ti prego, non
morire. Fallo per me.»
Mickey
lo strinse più forte. Infilò le dita fra i suoi
capelli rossi, accarezzandogli
dolcemente la testa, e chiuse gli occhi. Una lacrima sfuggì
al suo controllo. Lui
aveva accettato la morte, ormai. L’unica cosa che non voleva
– non poteva –
accettare era il fatto che, una volta morto, non avrebbe mai
più visto Ian.
****
La
vasca da bagno era quasi colma di schiuma quando Ian chiuse il
rubinetto.
Immerse una mano nell’acqua per verificarne la temperatura e
sorrise: era
piacevolmente calda. Si spogliò dei vestiti e
così fece anche Mickey. Il rosso
entrò nella vasca per primo, poi, tenendo il compagno per
una mano, lo aiutò a
fare lo stesso. Si sedettero e l’acqua li immerse fino a
metà delle braccia.
Ian prese la spugna, la bagnò e, dolcemente, la
passò sulle spalle di Mickey,
che chiuse gli occhi.
«Sei
emozionato per domani?», gli chiese, sussurrando.
Mickey
si lasciò andare all’indietro, toccando il petto
del compagno con la propria
schiena.
«Un
po’», ammise, non riuscendo a nascondere un sorriso.
L’indomani
si sarebbero finalmente sposati e la cerimonia si sarebbe davvero
svolta al
campo da baseball. Il comune aveva dato loro il permesso e la migliore
amica di
Mandy avrebbe fatto da testimone a Ian pur non conoscendolo di persona,
ma a
lui non importava: bastava che firmasse, esattamente come avrebbe fatto
Mandy
per suo fratello, e il matrimonio sarebbe stato valido a tutti gli
effetti.
Ian
abbandonò la spugna nell’acqua e
abbracciò Mickey, lasciandogli qualche piccolo
bacio sotto l’orecchio. Rimasero così per quasi
mezz’ora, stretti l’uno
all’altro, finché l’acqua non
cominciò a raffreddarsi e decisero di uscire
dalla vasca. Si asciugarono e, una volta infilatisi canottiera e
pantaloncini,
si diressero nella loro stanza. Non rispettarono le tradizioni
– non facevano
per loro – e quindi, nonostante fosse la notte prima delle
loro nozze, non
avrebbero dormito separati. Si misero a letto e Ian spense la luce.
Mickey,
ormai stanco, gli dava le spalle, e lui gli cinse subito la vita con un
braccio,
prendendogli la mano.
«Domani,
a quest’ora, sarai già la signora
Gallagher», mormorò, ghignando.
«Col
cazzo», ribatté Mickey, sbuffando una risatina
sardonica. «Domani tu
diventerai la signora Milkovich.»
Ian
premette il naso contro la sua nuca, soffocando una risata. Poi, come
faceva
sempre, inspirò il profumo della pelle del compagno, e
infine avvicinò la bocca
al suo orecchio.
«Ti
amo, Mickey», gli disse, in un sussurro.
Il
cuore di Mickey batté più forte a quelle parole
e, protetto dal buio della
stanza, sorrise.
«Ti
amo anch’io, Gallagher», rispose, portandosi la
mano del compagno alla bocca
per poterne baciare il dorso.
Ian si
svegliò di soprassalto. Tese le orecchie, completamente
vigile, e si accorse
che nella stanza c’era troppo silenzio. Quel silenzio
assordante lo allarmò:
non sentiva più il respiro affannoso e pesante di Mickey a
cui, notte dopo
notte, si era ormai abituato. Col cuore in gola accese la luce. Mickey
era
dritto sulla schiena, il volto rilassato e pallido come un cencio.
Notò subito
che non respirava.
«Mickey?»,
provò a chiamarlo.
Il
moro non rispose, non mosse nemmeno un muscolo. Ian appoggiò
due dita sul suo
collo, ma non sentì alcun battito. Il panico lo
assalì e, invano, si chinò su di
lui, cercando in tutti i modi di rianimarlo. Gli praticò il
massaggio cardiaco,
gli fece la respirazione bocca a bocca, una, due, tre, mille volte, ma
fu tutto
inutile.
«Mickey!»,
lo chiamò di nuovo, spingendo nuovamente con le mani sul suo
sterno. «Mickey,
ti prego, svegliati!»
Ian
non riusciva a rassegnarsi, nonostante fosse perfettamente consapevole
che
Mickey era morto e, imperterrito, continuò col massaggio
cardiaco finché la sua
vista non cominciò ad appannarsi di lacrime. Urlò
il suo nome, lo urlò con
tutto il fiato che aveva in gola. Urlò come solo un uomo
devastato dal dolore
avrebbe potuto fare. La porta della camera si spalancò e
comparve Mandy che,
spaventata, si coprì subito la bocca di fronte a quella
scena. Capì tutto e,
straziata, si lasciò crollare in ginocchio. Ian si
sdraiò vicino al corpo di
Mickey e, appoggiando la fronte contro la sua tempia, gli
accarezzò una guancia.
«Domani
dobbiamo sposarci, non puoi morire», gli sussurrò
all’orecchio, ormai fuori di
sé. «Ti prego, non lasciarmi… non puoi
farmi questo.»
Fu
così che Mickey Milkovich, la notte del ventotto giugno, si
congedò dalla vita.
Il
corpo ormai esanime e freddo di Mickey venne successivamente vestito
con il
completo scuro che avrebbe dovuto indossare al proprio matrimonio. I
funerali
si svolsero solo tre giorni dopo, nel tardo mattino del primo
lunedì di luglio.
Il suo desiderio di farsi cremare fu rispettato e le sue ceneri vennero
riposte
in due piccole urne: una destinata a Mandy, l’altra ad Ian.
Qualche
pomeriggio più tardi, stranamente arrivò la
pioggia. Mandy, scrutando fuori
dalla finestra della cucina, pensò che anche il cielo stesse
piangendo suo
fratello. Si voltò e guardò Ian che, in piedi,
stava piegando i propri vestiti
sul tavolo. Era rimasto con lei fino a quel giorno – entrambi
troppo distrutti
per poter restare da soli e alla ricerca di un po’ di
conforto –, ma l’indomani
sarebbe ritornato a Chicago. I suoi fratelli, ne era certa, dovevano
essere in
pensiero per lui.
«Credo
sia giunto il momento di darti ciò che ti spetta»,
gli disse.
Il
rosso alzò lo sguardo su di lei, aggrottando la fronte senza
capire.
«Di
cosa stai parlando, Mandy?»
Lei non
gli rispose. Scese nello scantinato e vi ritornò dopo un
paio di minuti, con un
borsone nero stretto in mano. Lo appoggiò sul tavolo e,
facendo scorrere la
cerniera, lo allargò, mostrandogli ciò che
conteneva. Era pieno zeppo di soldi,
legati in mazzette piuttosto spesse con degli elastici di gomma.
«Sono
circa trecentomila dollari. Mickey voleva che tu li avessi una volta
mo…», la
voce le si ruppe e non riuscì a terminare la frase, ancora
troppo sconvolta
dalla perdita del fratello. «Sono tutti tuoi, Ian»,
continuò, deglutendo
sonoramente, ed aprì una tasca esterna del borsone.
«Qui, invece, ci sono i cinquantamila
dollari per Yevgeny.»
Ian era
senza parole: non poteva credere che Mickey gli avesse lasciato tutto
quel denaro.
Si passò una mano fra i capelli, pettinandosi il lungo
ciuffo rosso
all’indietro.
«Porterò
i soldi per Yev a Svetlana… l’ho promesso a
Mickey», le disse infine, poi
scosse leggermente la testa. «Ma gli altri non posso
accettarli, Mandy.»
«Era
ciò che voleva mio fratello», mormorò
la ragazza, stringendogli una mano nella propria. «Prendili, Ian.»
«Servono
più a te che a me», ribatté subito lui.
Mandy
si lasciò andare ad un sorriso nostalgico.
«Mickey
ha pensato anche a me», gli rese noto, e gli occhi le si
inumidirono.
Ian
la fissò per qualche istante, poi sospirò e
abbassò lo sguardo sul pavimento.
«Perché
mi ha chiesto di sposarlo?», le domandò
all’improvviso. «Perché propormi una
cosa simile se aveva già tenuto i soldi da parte per
me?»
«Davvero
non l’hai ancora capito?», Mandy gli
risollevò il viso, accarezzandogli una
guancia. «Voleva dimostrarti fino a che punto sarebbe stato
disposto ad
arrivare pur di averti accanto, anche se per poco. Voleva dimostrarti
quanto ti
avesse sempre amato.»
Il
rosso deglutì a vuoto. Sovrappose la propria mano al dorso
di quella della
ragazza e chiuse gli occhi. Si costrinse a essere forte e non piangere.
Non
poteva farlo. Avrebbe distrutto Mandy. Quando riaprì le
palpebre, però, vide
che lei stava già piangendo.
«Cosa
farò senza di lui, adesso?», gemette, mordendosi
il labbro.
Ian mise
una mano sulla spalla della ragazza e, delicatamente, se la
tirò contro il
proprio petto. La abbracciò, stringendola forte a
sé, e Mandy nascose il viso
nell’incavo del suo collo. Singhiozzando, si
aggrappò con le dita alla sua maglietta,
piantandogli le unghie nella schiena. Gli fece male, ma Ian non disse
nulla: quel
dolore non era niente in confronto a quello che aveva nel cuore.
«Potresti
ritornare con me a Chicago», le propose, con il mento
appoggiato alla sua
testa. «Tuo fratello Iggy abita ancora nella vostra casa. Gli
farebbe piacere
rivederti. E farebbe piacere anche a Lip.»
«No»,
Mandy scosse il capo e, sciogliendo l’abbraccio, si
asciugò violentemente gli
occhi col palmo delle mani. «Non ce la faccio. Non
adesso.»
Ian
annuì, spostandole la frangia nera dietro
l’orecchio.
«Quando
te la sentirai, chiamami», disse, e sulle labbra di Mandy
sbocciò un piccolo
sorriso. «Io sarò lì ad
aspettarti.»
Ian
partì quella notte stessa con la macchina di Mickey. Mandy,
dopo averlo
abbracciato per l’ultima volta, gli aveva consegnato le
chiavi: ora anche
quella vecchia auto scura apparteneva a lui. Giunse a Chicago la prima
domenica
di luglio, e seppe subito dove andare. Il campo da baseball, quel
mattino, era
aperto; alcuni bambini stavano giocando in mezzo ad esso, vigilati dal
loro
allenatore. Cercò di non farsi vedere e, addossato alla
recinzione, si nascose
vicino alle gradinate. Ian chiuse gli occhi, stringendosi la piccola
urna al
petto per qualche minuto. Infine la aprì e, scuotendola,
gettò via le ceneri di
Mickey. Le guardò volteggiare e spargersi
nell’aria come granelli di polvere, e
un sorriso malinconico gli piegò le labbra. Mickey avrebbe
voluto così, lo
sapeva. Avrebbe voluto sentirsi libero fino alla fine. Lui, che era
sempre
evaso da tutto, persino dalla galera, adesso sarebbe evaso anche dalla
vita.
Alzò lo sguardo al cielo e il sole gli inondò il
volto, lambendogli la pelle
con il tocco del proprio calore. Ian immaginò che quella
fosse la carezza di
Mickey.
«Addio,
Mick», sussurrò, con voce rotta.
E quello
fu l’ultimo saluto al ragazzo che aveva sempre amato.
Svetlana aprì
la porta del suo piccolo appartamento dopo che Ian ebbe bussato per
quattro volte
di fila. Era avvolta in un accappatoio bianco e, con un asciugamano, si
stava
tamponando i capelli umidi.
«Pel di carota»,
esclamò, quasi stupita
di trovarselo di fronte. «Entra.»
Ian le sorrise
e varcò la soglia del salotto. La televisione era accesa su
un canale dedicato
ai bambini, ma Yevgeny stava dormendo beato sul divano. Il rosso gli si
avvicinò, cercando di non fare rumore, e ne
approfittò per accarezzargli
dolcemente una guancia e lasciare un piccolo bacio fra i suoi capelli
biondi. Raggiunse
Svetlana in cucina solo qualche minuto più tardi, trovandola
seduta su uno
sgabello intorno alla penisola.
«Tuoi
fratelli
erano preoccupati. Sono venuti a cercare tua testa rossa anche
qua», gli disse col
suo marcato accento russo, mentre avvolgeva i capelli
nell’asciugamano. «Dove
esserti cacciato?»
«Non
importa»,
Ian aprì la tasca esterna del borsone che aveva in spalla,
tirò fuori cinque
mazzette di soldi e li mise sul bancone. «Sono cinquantamila
dollari. Per
Yevgeny. E anche per te, naturalmente.»
Svetlana
alzò
un sopracciglio.
«Dove
trovato tu
tutti questi soldi?»
«È
una lunga
storia.»
La russa lo
guardò. Gli occhi di Ian, improvvisamente, si erano fatti
lucidi. Capì che, per
qualche assurdo motivo, in quella lunga
storia
c’entrava anche Mickey Milkovich.
«Cosa
combinato
mio stronzo di ex marito?», domandò, incrociando
le braccia sul seno.
Ian prese un
profondo respiro, mordendosi il labbro.
«Mickey
se n’è
andato… per sempre», cominciò, col
cuore che batteva all’impazzata. «Vi ha
lasciato questi soldi per farvi avere una vita dignitosa, per dare un
futuro
sicuro a vostro figlio», continuò con un filo di
voce, e Svetlana, a quelle
parole, comprese tutto. «Ma adesso voglio che tu faccia una
cosa per me.»
«Cosa
io fare
per te, testa rossa?»
«Devi
promettermi che, quando Yevgeny sarà abbastanza grande per
capire, gli parlerai
di Mickey. Promettimi che gli dirai che grande uomo fosse veramente suo
padre e
quanto lui gli avesse voluto bene», disse, trattenendo a
stento le lacrime. «Ti
prego, Svet, promettimi che manterrai vivo il ricordo di
Mickey.»
Svetlana, per
la prima volta in vita sua, rimase ammutolita. Lo fissò
dritto negli occhi e,
infine, annuì.
«Prometto.»
Ian,
sorridendo, la ringraziò.
Il
borsone
sembrava pesare come un macigno sulla spalla di Ian mentre, a passo
deciso,
saliva gli scalini in legno della sua casa. Aprì la porta,
entrò
silenziosamente in salotto e adocchiò Lip, Carl, Debbie e
Liam seduti intorno
al tavolo della cucina. Gli davano le spalle e, come al solito, stavano
facendo
un gran chiasso. Si diresse verso di loro e fu in quel momento che
Fiona, in
piedi dopo aver chiuso il frigorifero, si accorse di lui. Il bicchiere
colmo di
spremuta cadde dalla sua mano, andando a frantumarsi in mille pezzi sul
pavimento. A quel rumore, tutti i fratelli si girarono per capire cosa
fosse
successo. Quando videro Ian, il silenzio scese di colpo nella cucina.
Basiti,
rimasero a fissarlo come se avessero visto un fantasma. Nessuno sapeva
bene
cosa dire o cosa fare. Nessuno, tranne Fiona.
«Brutto
stronzo, dove cazzo eri andato a finire?», gli
urlò contro, intenzionata a
sbattergli in faccia tutta la sua apprensione e la sua ira, e gli diede
una
spinta sul petto. «È passato più di un
mese, maledetto pezzo di merda! Un mese!
Mai una chiamata, mai un messaggio, niente! Ti abbiamo cercato ovunque,
anche
al lavoro, ma nemmeno lì sapevano dove ti fossi cacciato!
Hai una vaga idea di
quanto fossimo in pensiero per te? Dove diavolo sei stato
finora?», gli mollò
un’altra spinta, col respiro affannato a causa dello sfogo,
gli tempestò il
torace di pugni e fece per tirargli un ceffone, ma dovette fermarsi
quando vide
una lacrima rigare la guancia del fratello. «Ian?»,
sussurrò allora, e la
preoccupazione finalmente vinse sulla rabbia.
«Cos’è successo?»
Ian non
rispose. Si sfilò il borsone dalla spalla e, aprendolo, ne
svuotò il contenuto al
centro del tavolo, facendo cadere i soldi di Mickey come una cascata.
«Mickey è
morto», disse, con voce tremante. «Questo denaro
è suo. Ci saremmo dovuti
sposare, ma lui non ce l’ha fatta»,
proseguì, il petto dilaniato dal dolore. «Non
mi importa niente di tutti questi soldi, non li voglio neanche
più vedere perché
non potranno mai riportarmi indietro l’unica persona che io
abbia mai amato»,
stravolto, alzò lo sguardo su ognuno dei fratelli che, in
quell’istante, lo
stavano fissando attoniti. «Sono vostri. Potete farne
ciò che volete.»
Senza dar loro
il tempo di proferire parola, si congedò. Voleva stare da
solo. Salì in camera
e, dopo aver buttato il borsone ormai vuoto a terra, si
sdraiò sul letto. Il
sole caldo filtrava dalla piccola finestra, colpendogli il volto.
D’istinto,
mise una mano nella tasca dei jeans e prese la propria fede nuziale. Se
la infilò
all’anulare sinistro, la baciò, poi si
girò su di un fianco, continuando a
fissare quel piccolo cerchietto argentato. Non riuscì
più a trattenere le
lacrime e, rannicchiandosi in posizione fetale, pianse, bagnando il
fodero del
cuscino. Pianse come mai aveva fatto in vita sua. Pianse, e la catenina
che
portava al collo, a cui era appesa la fede di Mickey,
scivolò fuori dalla
maglietta, brillando alla luce del sole. Ian Gallagher, con gli occhi
gonfi e
pieni di lacrime, strinse forte tra le dita la più grande
prova d’amore che
Mickey Milkovich gli avesse mai dimostrato.
* Da qualche
parte nel deep web, ho letto che la polizia smette di cercare un
detenuto dopo
un anno dalla sua evasione di prigione. Non so quanto questo possa
essere vero,
ma io mi sono basata su ciò. Nella mia storia, Mickey cambia
identità, ma solo quando
si trova in Messico; una volta andato a Los Angeles ad abitare con
Mandy, la
sua identità ritorna ad essere vera (la polizia, in quel
frangente e come
specifica Mickey stesso, non è già più
sulle sue tracce).
** Mickey ha
più spesso ‘apostrofato’ Ian con il
termine tough
guy. Avendo io sempre visto Shameless in lingua originale con
i sub, la
traduzione di quel termine variava da tipo
tosto a ragazzaccio:
nella mia
storia ho preferito usare quest’ultimo, perché
credo che, in un certo senso,
suoni meglio rispetto all’altro.
*** Nella 3x05,
al minuto 8:46, sul calendario appeso al frigo di casa Gallagher, si
vede
chiaramente il mese MAY; nello stesso episodio (e nello stesso giorno,
almeno
in quelle scene), al minuto 11:08, il calendario è sul mese
JUNE. Errore di
distrazione, probabilmente, ma io ho deciso di ambientare la mia storia
a
partire dall’inizio di giugno in modo da coprire ogni
eventualità. Ovviamente
non so il giorno preciso in cui Mickey bacia Ian per la prima volta, in
quanto
nella serie non l’hanno mai effettivamente specificato,
quindi io ho solo
tenuto il mese (al minuto 52:36 si riesce ad intravedere JUNE
nuovamente sul
calendario, poche scene dopo il bacio), ma il giorno l’ho
inventato di sana
pianta.