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Autore: Adeia Di Elferas    04/02/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Voi siete il diavolo!” urlò Perotto, facendo un passo indietro, benché l'argine del fiume fosse ormai davvero troppo vicino: “Siete il demonio! Una bestia! Voi siete il male del mondo!”

“Quante belle parole che conosci...” sussurrò Cesare, il volto in parte coperto dal cappuccio del mantello e un sorriso sinistro che luccicava appena alla luce della luna.

“Anche se mi ucciderete che credete di risolvere?!” continuò imperterrito Pedro, guardandosi intorno disperato.

Il Borja non aveva con sé altri se non un uomo che, coperto com'era da cappa e cappello, era irriconoscibile. Tuttavia, trovando Calderon del tutto solo e disarmato, avevano fatto in fretta a metterlo in difficoltà. In più, in quella fredda notte di febbraio, Roma sembrava una città disabitata.

“Sapete che dicono di lei! Lo sapete! Nessuno crede alle accuse fatte allo Sforza!” proseguì Perotto, appigliandosi all'ultimo stralcio di speranza.

Più indugiavano, si diceva, più erano le possibilità che arrivasse qualcuno che potesse aiutarlo.

“Lasciamo che i vivi parlino.” controbatté Cesare, sfilando dalla fodera una spada lunga e molto stretta, come un grande stiletto: “A me basta che tacciano i morti.”

Anche in un momento tanto tragico, Pedro non riuscì a evitare di sentirsi irritato per la passione che il Borja nutriva verso quel genere di sceneggiate da teatrante. Ormai aveva capito di non aver scampo. Tanto valeva cercare almeno di rovinare la festa al figlio del papa.

“Sapete che dicono di vostra sorella?” lo attaccò, gonfiando il petto e ricacciando indietro le lacrime che la consapevolezza di essere a un passo dalla morte gli stava facendo già sgorgare copiose: “Che del papa sia figlia, moglie e nuora! Dicono che è la più grande put...”

Pedro non terminò la frase, perchè la punta dello spadino di Cesare era entrata nelle sue carni, nel centro della pancia, togliendogli in un solo istante la voce, la rabbia e la vita.

Il Borja, freddo e apparentemente insensibile al fatto di aver appena ucciso un uomo, sfilò l'arma dal cadavere di Calderon e poi, con un colpo del piede ben assestato, lo fece precipitare nelle acque turbolente del Tevere.

“E adesso occupiamoci di quell'idiota di Pantasilea.” disse piano Cesare, dopo aver osservato il copro della sua vittima sparire tra i flutti, esattamente come era successo al cadavere di Juan molti mesi addietro.

 

Le urla strozzate di sedici uomini – di cui due erano da anni membri del Consiglio ristretto del Malatesta – si placarono quasi all'unisono. Le gambe, che si agitavano come pesci appena pescati, e le braccia, legate dietro le schiene, ma così disperate da riuscire quasi a spezzare le corde, diedero l'ultimo guizzo di vita e poi, una dopo l'altra, restarono immobili.

Pandolfo, seduto su un vistoso scranno davanti ai congiurati che aveva catturato e interrogato uno dopo l'altro, osservava il risultato del suo giudizio senza fare una piega.

Tutta Rimini aveva dovuto assistere a quell'esemplare prova di forza. Perfino Violante, benché fosse incinta e da qualche giorno non stesse molto bene, aveva dovuto assistere a quell'esecuzione pubblica.

Il suo volto cereo, assieme all'espressione sofferente, però, non parevano tanto dovute a quel macabro spettacolo, tanto più a qualcosa che sentiva dentro di sé, come la mano che continuava a correrle all'addome lasciava intendere.

Appena i sedici condannati furono inequivocabilmente morti, occhieggiando la piazza immersa nel silenzio, il Pandolfaccio lasciò il suo scranno e ordinò: “Tirate via questi cadaveri.” e, senza aspettare di vedere coi propri occhi i suoi tirapiedi eseguire, tornò verso il suo castello.

Una volta nascosto agli occhi della cittadinanza, il Malatesta cambiò volto. Da impassibile e quasi annoiato, si fece furente.

Quella mattina era arrivata la notizia di nuovi attacchi perpetrati dalla Sforza sui confini. I suoi soldati, si diceva, agivano con metodo, senza spargimenti di sangue, porgendo, il più delle volte, una mano alla popolazione che, ben felice di togliersi dal giogo malatestiano, accettava senza fare una piega di cambiare padrone.

“Cosa avete intenzione di fare con l'ultimo organista di Ferrara?” gli chiese il suo cancelliere, appena lo incontrò.

Il Pandolfaccio lo guardò un momento. Si era completamente dimenticato di quel prigioniero.

Anche se in un primo momento i quattro organisti gli erano stati indispensabili per uscire vivo dalla chiesa in cui gli era stato teso l'agguato, in un secondo momento il Malatesta si era chiesto come mai nessuno dei congiurati li avesse feriti in modo serio.

Attanagliato dai dubbi e dalla paura di tenersi in casa un nido di aspidi, aveva bandito dal suo stato i tre che erano riusciti a convincerlo maggiormente della loro innocenza. Il quarto, che aveva voluto fare la voce grossa, era rimasto nelle carceri, per schiarirsi le idee.

“Lasciatelo in cella.” decise in un batter d'occhio Pandolfo.

“E con la Sforza?” chiese ancora il cancelliere, dopo aver annuito con gravità nel conoscere la sorte del povero ferrarese.

Il signore di Rimini si grattò il mento appuntito e poi, puntando gli occhi tondi altrove, dichiarò solamente: “Ho già scritto a Venezia. Presto arriveranno i soldati del Doge a rimetterla al suo posto.”

Il cancelliere fece un mezzo inchino e se ne andò, lasciando il suo padrone a ricordarsi di come il giorno prima avesse scacciato l'ambasciatore forlivese dalla città. Non era certo che fosse tornato direttamente dalla Tigre, ma di certo gli sarebbe convenuto.

Con uno sbuffo, l'uomo andò verso le sue stanze, vociando a quanti servi trovava di iniziare a fare i bagagli.

“Che sta succedendo?” chiese Violante, che era appena rientrata e aveva trovato il palazzo sottosopra.

“Stupida donna, cosa credi che stia succedendo?!” sbottò il Malatesta, sentendosela arrivare alle spalle, sui primi gradini della scalinata.

In quel momento sentiva il sangue ribollire. Era stanco, spaventato e non sapeva come sarebbe uscito da quella situazione. Aveva sedato la rivolta, ma subito la cagna di Forlì ne aveva approfittato per rosicargli via terreni e villaggi. Venezia non avrebbe preso di buon grado quello scivolone.

“Stiamo scappando! Ce ne andiamo!” gridò ancor più forte Pandolfo, prendendo la moglie per un polso e storcendoglielo, solo per sfogare in qualche modo la rabbia e il nervosismo.

Violante cercò di divincolarsi, chiedendo con aggressività perché scappare, perchè non restare e dimostrare a tutti che potevano aver ragione della Sforza e anche dei ribelli: “Invece di fare sempre la figura dei codardi!”

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso. Il Pandolfaccio, accecato dall'odio, strattonò la donna con tanta forza da farle perdere l'equilibrio. Prima che potesse rendersi conto di quello che aveva fatto, l'uomo la vide inciampare e ruzzolare giù dalle scale.

Immobile e silenzioso, mentre una manciata di servi correva a soccorrere la donna che, accovacciata e in lacrime, si toccava il ventre e cercava l'aiuto di chi le si avvicinava, il Malatesta fissò la scena dall'alto della sua postazione.

Sentiva la gente gridare, una serva invocare il soccorso di un medico e poi, come in un brutto incubo, incrociò gli occhi di Violante, che si erano fatti di ghiaccio. Non era odio, né disperazione, né tanto meno paura. Distanza, indifferenza, apatia. Era come se con quella spinta, la donna che era stata se ne fosse andata per sempre.

Terrorizzata da quell'impressione, che gli aveva fatto correre un brivido lungo la schiena, il Pandolfaccio se ne andò, chiudendosi in uno dei suoi salotti, senza nemmeno accorgersi della chiazza di sangue che si stava allargando sull'abito chiaro della sua consorte.

 

Caterina quella mattina era uscita presto per andare a caccia. Aveva preso un paio di piccole prede, evitando, solo in riguardo alle accorate richieste del marito, di prendere con sé la nuova lancia da cinghiali.

Quando era tornata, siccome per colpa della pioggerella e della malta, si era inzaccherata come non mai, aveva chiesto che le venisse preparato un bagno caldo.

Non vedendola più come una stranezza così grande, nemmeno calcolando che la sua gravidanza potesse in qualche modo essere messa a rischio da una simile bizzarria, alcune serve si erano adoperate per far quel che era stato loro ordinato e così, in meno di un'ora, la tinozza era stata pronta.

La Contessa, però, a differenza del solito, si sentiva molto stanca per colpa dell'uscita nei boschi.

A volte si chiedeva se fosse l'età, o se fosse il bambino che aveva in grembo – che magari era solo più esigente di quelli che aveva partorito in precedenza – a renderla più affaticabile di prima.

Senza vergognarsi troppo di cercare soccorso presso di lui, aveva chiesto al marito di aiutarla a lavarsi e Giovanni, ovviamente, non si era tirato indietro, ben felice di poter fare qualcosa per lei.

Il Medici, servizievole, le aveva passato la schiena e, dopo solo un brevissimo tentativo di farla desistere, l'aveva aiutata anche a districare qualche nodo dei capelli usando l'acqua calda e uno dei suoi olii profumati.

“Aspettami un attimo qui, senza muoverti – disse l'uomo, quando la Contessa si ritenne soddisfatta del lavoro di rimessa a nuovo – vado a prendere un telo più grande. La serva ne ha portato uno troppo piccolo...”

Caterina annuì e attese che il marito fosse uscito, prima abbandonare l'espressione distesa che aveva tenuto fino a quel momento.

Non avevano parlato quasi di nulla, anche se lei avrebbe voluto chiedergli più apertamente che accidenti stava capitando a Firenze e se la condotta di Ottaviano fosse ancora possibile o meno. E invece, nel sentire le sue mani – ancora belle, malgrado i primi segni di malattia – sulla sua pelle, non aveva avuto il coraggio di sollevare la questione, temendo di trascendere e litigare di nuovo.

Quando qualche giorno prima avevano discusso, nella locanda del quartiere militare, alla fine avevano fatto pace, ma tanto la Tigre, quanto il Popolano a tratti si sentivano tesi, come se avessero il terrore di scivolare in qualche incomprensione che, a differenza di quella prima volta, non si sarebbe potuta appianare con qualche bacio e un'ora d'amore.

Chiedendosi dove fosse finito Giovanni nel cercare un telo adatto, la Sforza, stufa di stare nell'acqua che principiava a freddarsi, si alzò.

Con una certa difficoltà dovuta all'ingombro del pancione – già così grande, benché mancasse almeno un mese e mezzo, forse due, al parto – mise oltre il bordo della tinozza prima una gamba e poi l'altra, appoggiando i piedi sugli stracci che il Medici aveva provvidenzialmente steso in terra.

Avvertendo un piccolo brivido sulla pelle, retaggio della mattina passata sotto al nevischio e all'acquerugiola, Caterina cercò il calore del camino. La sua pelle bagnata stava già iniziando ad asciugarsi, mentre i suoi capelli gocciolavano sulla sua schiena, quando i suoi occhi verdi incrociarono il suo riflesso nello specchio che stava nell'angolo.

Non la mostrava per intero, solo dalle spalle fino ai fianchi. Rendendosi conto che da molto tempo non prestava attenzione alla sua immagine, eccezion fatta per quando a volte la sera si metteva la sua crema per il viso e per le mani, la Leonessa si concentrò sullo specchio con tutta la sua attenzione.

Aveva una carnagione pallida, come l'aveva avuta sempre, e il suo ventre rigonfio non mostrava nemmeno una smagliatura. Più di una volta il suo medico si era detto stupefatto per quel dettaglio, viste le molte gravidanze che la Contessa aveva portato avanti.

Dopo essersi guardata un momento di profilo, Caterina appoggiò le mani a coppa sul pancione, delimitando con delicatezza il rigonfiamento che denunciava la presenza di una nuova vita che cresceva inesorabile dentro di lei.

Sempre rapita da quel riflesso, la Sforza fece un profondo sospiro. Non avrebbe mai creduto di trovarsi in attesa di un nuovo figlio a trentacinque anni. Anche se dopo la morte di Giacomo aveva cercato la compagnia, fugace, ma pur sempre pericolosa da quel punto di vista, di molti uomini, in realtà non aveva mai messo davvero in conto l'ipotesi di avere un nuovo figlio. Almeno, non finché Giovanni non era diventato suo marito.

Lui aveva cambiato tutte le sue prospettive. All'improvviso il pensiero di diventare di nuovo madre non le era più sembrata una cosa così folle...

Nel frattempo, silenzioso, il Medici era tornato con il telo e si era fermato sulla porta, fisso a guardare la moglie che si rimirava allo specchio, le mani che si posavano sul ventre con una delicatezza che raramente le aveva visto usare con qualcuno o qualcosa.

Dopo qualche istante, vedendolo alle sue spalle nel riflesso dello specchio, Caterina si accorse della presenza del fiorentino e si voltò verso di lui, già pronta a scusarsi per non averlo aspettato per uscire dalla tinozza.

Senza darle il tempo di dirle nulla, Giovanni le andò incontro e l'abbracciò a lungo, con una decisione che alla moglie parve un misto di gioia e disperazione.

“Così ti bagni...” gli sussurrò, sentendo lei stessa gli abiti del Popolano che si inumidivano al contatto con la sua pelle ancora coperta di goccioline.

“Sai quanto me ne importa...” bisbigliò lui di rimando.

 

Bartolomeo era quasi contento che quel pazzo di Giovan Battista Danti volesse dare una dimostrazione della sua bravura di matematico mettendosi a provare la sua macchina per il volo.

“L'ho provata con ottimi successi sul Trasimeno!” aveva esclamato la sera prima a cena: “Vedrete, vedrete se non volerò libero e leggero come un uccello!”

Il matrimonio, o meglio, la girandola di feste, banchetti e messinscene che Giampaolo Baglioni aveva voluto per sua sorella, era nel pieno. Da tre giorni l'Alviano si sentiva sul punto di star male, ma ogni dilazione del momento in cui gli sarebbe stato chiesto di consumare le nozze, gli era in fondo molto gradita.

Tutti gli invitati erano con il naso per aria. Danti, con i suoi assistenti ai lati, stava indossando l'imbracatura fornita di ali meccaniche. Essendo sulla cima della chiesa di Santa Maria, quasi nessuno, a parte chi era fornito ancora di ottima vista, come Bartolomeo, poteva vedere chiaramente il matematico che si sistemava lacci e fibbie attorno al corpo.

Dopo un po', fatti tutti i controlli del caso, l'uomo che si era paragonato a un leggiadro uccello, fece un cenno con il braccio a chi guardava e, con una rincorsa abbastanza difficoltosa, saltò giù dal tetto della chiesa.

Per una manciata di secondi, le ali azionate dal suo movimento frenetico, lo ressero, tenendolo a mezz'aria. Stava scendendo, ma lo stava facendo in modo dolce, suscitando gli applausi frenetici di tutti, soprattutto dei Baglioni.

A un certo punto, però, il meccanismo si inceppò. Le ali si bloccarono e Danti, simile a una cornacchia impagliata, precipitò al suolo, colmando la distanza che ancora lo separava dal sagrato in un lampo.

Le urla di dolore che emise, fecero capire a tutti che non era morto, fortunatamente, ma l'angolazione assurda presa dalla sua coscia lasciava capire anche che almeno un osso – o forse molti più – si era fratturato.

Giampaolo Baglioni, facendosi versare da bere, rise sguaiatamente, dando di gomito a Bartolomeo ed esclamando: “Che fesso! Che fesso!”

L'Alviano, che non trovava nulla di divertente nell'aver quasi visto morire un uomo, si sforzò di affettare un sorriso e poi, inconsciamente, guardò che espressione avesse in volto Pantasilea, la sua novella sposa, con cui ancora non aveva nemmeno scambiato una parola.

Benché le sue piccole labbra fossero sollevate in un accenno di ilarità, i suoi occhi erano puntati verso Danti, che stava ricevendo i primi soccorsi, ed erano intrisi di pena e preoccupazione.

Sentendosi quasi in colpa per i propri pensieri, Bartolomeo tornò a guardare davanti a sé, dicendosi che forse la convivenza con quella giovane donna non sarebbe stata solo un inferno.

 

“Il papa è vulnerabile.” disse l'Oliva, guardando con attenzione il volto della Tigre.

La Contessa stava osservando Ottaviano, che, malgrado le ripetute spiegazioni del maestro d'armi, sembrava incapace di ricaricare una balestra in autonomia.

Era improbabile che avrebbe mai dovuto adoperarne una sul campo di battaglia e, in tutta sincerità, se quell'abilità fosse stata l'unica cosa a dividerlo dalla morte durante uno scontro, a Caterina sarebbe anche andata bene di sentirlo ucciso. Meglio morire a quel modo, per lui, che non rintanato in un palazzo tra donne e vizi, andando a riconfermare la prepotenza del sangue dei Riario nelle sue vene.

Tuttavia, sosteneva la Leonessa, se mai fosse venuta l'occasione di dover ricaricare un'arma del genere di fronte ai soldati fiorentini, era fondamentale che Ottaviano non si coprisse di ridicolo.

E dunque, a costo di vedergli sanguinare le dita a furia di tentativi, gli avrebbe fatto imparare tutto quel che si poteva.

“Hanno ripescato dal Tevere Pedro Calderon, quello che dicevano essere l'amante di sua figlia Lucrecia...” continuò il milanese, sperando che la Contessa lo stesse ascoltando anche solo con un orecchio: “Quella ragazza è irrimediabilmente compromessa. C'è chi dice che sia incinta. C'è chi dice che il padre del bambino sia il papa!”

A quelle parole, Caterina dedicò finalmente uno sguardo al capo delle sue spie, ma poi tornò subito su Ottaviano, facendo segno all'Oliva di proseguire pure.

Il cortile di addestramento era freddo, ma il fatto che non nevicasse né piovesse più aveva dato modo alla Tigre di costringere senza sembrare troppo autoritaria, il figlio maggiore ad allenarsi.

Bernardino e Galeazzo, invece, stavano seguendo delle lezioni teoriche al coperto. Quando Ottaviano, come sempre, aveva provato ad accodarsi a loro, la madre si era opposta con una risata amara.

“Che ci vai a fare sui libri?” gli aveva detto, con tono di scherno: “Sei un ignorante come tuo padre... Nemmeno se studiassi una vita intera, impareresti qualcosa.”

“Il papa di certo premerà presto per combinare un matrimonio con vostro figlio.” andò avanti l'Oliva, imperterrito: “Lucrecia è merce avariata e Ottaviano, con tutto il rispetto, ha una pessima fama. Ormai anche a Roma sono giunte molte voci su quello che fa nei bordelli. Una donna di strada picchiata non fa notizia, a meno che non sia un nobile a gonfiarle la faccia.”

Infastidita dall'eccessiva franchezza del suo consigliere, Caterina cercò di velocizzare la cosa: “E allora che dovremmo fare?”

“Possiamo sfruttare la situazione volgendo le cose a nostro favore.” spiegò l'Oliva, mentre con la coda dell'occhio vedeva il Medici arrivare nel cortile: “Il papa deve impegnarsi a fare qualcosa che ci favorisca, e solo allora prenderemo in considerazione l'idea del matrimonio.”

“Non accetterà mai.” disse subito la Sforza, facendo un breve sorriso a Giovanni che la stava raggiungendo proprio mentre Ottaviano si prendeva uno scappellotto dal maestro d'armi.

“Nessuno vuole più sua figlia. E la vorranno ancora meno, se è vero che è prossima a partorire il figlio del papa.” disse il milanese.

“Cosa potremmo chiedere al papa?” domandò allora la Contessa al marito che, non volendo stare in piedi, si era issato sull'asta per i cavalli e vi si era seduto sopra.

“Chiediamogli di affossare Savonarola. Se Savonarola verrà distrutto una volta per tutte, i Medici torneranno potenti a Firenze, e così nessuno negherà più la condotta a Ottaviano e l'alleanza con il nostro Stato.” disse subito il Popolano.

“Mi pare un'ottima idea.” convenne Caterina, per poi rivolgersi al suo consigliere: “Vedete che possiamo fare in tal senso.”

L'Oliva annuì, ben capendo che quello era un congedo che non ammetteva repliche. Con un inchino abbastanza profondo, lasciò il cortile per andare dal castellano a chiedere il necessario per scrivere.

“Ormai alla Sforza – borbottò tra sé, mentre saliva le scale – interessano più gli affari dei Medici, che quelli dei Riario...”

Mentre diceva così, guardò attraverso l'ultima finestrella delle scale che dava sul cortile, appena in tempo per vedere la Contessa lasciare di corsa il palo per cavalli e andare dal figlio.

Gli gridò un paio di insulti, a voce tanto alta che probabilmente tutta la rocca li sentì e poi, con uno scossone, lo gettò in terra e ordinò al maestro d'armi di punirlo mettendolo nei turni del giorno dopo dei braccianti che stavano finendo i lavori al mastio.

“Spostare sacchi di pietre e travi di legno, nulla di più.” soggiunse la Sforza, appena prima di lasciare il cortile seguita a ruota dal marito fiorentino: “Che se mette le mani nella struttura, si rischia che crolli su se stessa prima di sera...”

 

Francesco posò una mano sulla spalla di Trevisan e gli ribadì: “Sono nelle tue mani.”

“Isabella ti ammazza se fallisci anche questa volta, lo so.” assicurò lui, senza riuscire a nascondere la propria agitazione.

“Se riusciamo a corrompere Landi, il Consiglio dei Dieci non avrà più la maggioranza netta contro di me.” gli ricordò il Gonzaga, abbassando la voce, benché fosse certo che in quel vicolo umido e scuro nessuno li potesse sentire: “Basta solo un uomo, Giovanni. Un solo uomo, e io tornerò nelle grazie del Doge.”

“Non so se riuscirò a usarlo per farti ottenere una nuova condotta...” mise le mani avanti Trevisan, che già sentiva il sacchetto pieno zeppo di denaro pesare troppo alla sua cintola.

“Mi basta, per ora, che mi tenga informato su come va la discussione su di me. Solo questo, in modo di sapere come muovermi.” fece allora il Marchese di Mantova, la voce frettolosa e le mani che tremavano appena: “Per Dio, sono l'eroe di Fornovo, non possono trattarmi così!”

“Va bene, va bene, farò tutto quello che posso – concluse Trevisan – ma non credo che questi soldi basteranno.”

“Te ne farò avere altri.” annuì subito il Gonzaga, benché non fosse certo che avrebbe potuto prendere altri liquidi dai fondi dello Stato senza che Isabella gli chiedesse conto delle sue spese.

Giovanni Battista Trevisan sospirò e poi, con un colpetto sul braccio dell'amico, lo salutò: “Che Dio sia con te, Francesco.”

 
   
 
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