Angolo dell’autrice:
Buongiorno
a tutti! Come state? Io mi godo ancora per un po’ la pausa universitaria,
divertendomi a scrivere e mangiare dolcetti. Vi lascio il capitolo nuovo,
sperando che vi piaccia!
Buona
lettura a tutti!
Nemamiah
Verity
si risvegliò immersa nel buio, mentre galleggiava dentro qualcosa di
inconsistente. Provò a muoversi un paio di volte e scoprì che bastava
desiderare uno spostamento e questo avveniva, anche se molto lentamente. Lo
spazio in cui era immersa rispondeva ai suoi impulsi e desideri, faceva
esattamente quello che lei voleva. Ripeté infinite volte nella testa la parola
sinistra e alla fine sbatté la testa contro una parete. Quello spazio non era
illimitato. Fece la stessa cosa a destra, in alto e in basso: si trovava in una
specie di tunnel. Camminava tenendo una mano fissa sulla parete, mentre
ordinava con la mente al suo corpo di andare avanti, sperando di aver preso la
direzione giusta. Man mano che avanzava, il mal di testa cresceva: inizialmente
non aveva sentito nulla, poi un ronzio leggero e in quel momento la testa le
pulsava dolorosamente. Il dolore aumentava proporzionalmente alla forza che
attraeva in avanti il suo corpo e diventa sempre più fastidioso. Quando non
riuscì più a resistere decise di lasciarsi trasportare. Non fu per niente una
buona idea. Sentiva l’aria tagliarle il viso e chiuse gli occhi, riaprendoli
appena in tempo per urlare un “FERMATI!”.
Si era fermata a pochi centimetri da un’affilatissima punta nera. La sfiorò con
le mani, opponendosi alla forza la spingeva verso di essa. Aveva una forma
conica e la punta l’avrebbe trafitta senza troppi problemi se non fosse
riuscita a fermarsi. Pensò allora ardentemente ai movimenti che desiderava
compiere e lentamente raggiunse la base del cono, tastandola con le dita. Percepì lettere scolpite, lettere come quelle che
usava per scrivere e che formavano, insieme, una frase: “È uno scherzo della natura”. Spostò la mano sulla parete e la fece
scorrere verso l’alto. C’era un altro cono con un'altra incisione. La decifrò,
lo fece con ogni cono che incontrò nella salita. Erano tutte frasi, buone o
crudeli, che aveva pensato o che le erano state rivolte dalle persone più
disparate. L’ultima frase Verity ricordò di averla detta un Natale di tanti
anni prima, quello che aveva passato da sola, quando era andata in centro a
trovare Babbo Natale: “Vorrei non essere
mai nata”.
Una
fitta alla testa più forte delle altre la fece piegare in due e lasciò la presa
sul cono, mentre la forza che prima la sospingeva verso l’alto la fece precipitare
verso il basso, come se si fosse lanciata da una scogliera a capofitto nel
mare. Affondò in quello spazio che ora era viscido e melmoso fino a che la
forza non la trasse fuori, di nuovo. Ricordava tutti i dettagli di ogni frase,
non solo chi l’avesse pronunciata, ma anche in quali circostanze, che età
avesse in quel momento, lo sguardo di chi parlava. E ogni frase le si
appiccicava addosso, su braccia e gambe, sulla pancia; si attorcigliava intorno
al collo e alle dita; si intrecciava nei riccioli e a ogni contatto sentiva
nuovamente la sensazione che aveva provato, riviveva quel momento e, anche se
avrebbe preferito dimenticare tutto, non riusciva a staccarsi di dosso quelle
scritte. Tuttavia non pianse. Nel turbinio di emozioni contrastanti che le affollavano
l’anima e che avrebbe fatto impazzire chiunque lei era rimasta lucida: gli
occhi vedevano, le orecchie sentivano. Parlava, balbettava, chiedeva scusa, ma
non piangeva. Allora tutte le scritte tornarono al loro posto, incidendosi
nuovamente sui quei coni che cambiavano forma e diventavano scalini, scivolosi
e instabili, ma pur sempre scalini. Li salì, con attenzione, uno alla volta,
puntando alla luce che scendeva dall’alto e si faceva sempre più intensa,
diradando le ombre. Era tanto intensa che non riuscì a tenere gli occhi aperti
quando raggiunse la cima e uscì guidata dal tatto e dai suoi piedi che sapevano
dove andare senza che lei lo pensasse.
Sbucò
in un prato, o meglio, in una grande radura circondata fittamente dagli alberi.
Uscì del tutto e si guardò intorno incuriosita. Non era la stessa di prima, di
quello era certa. Ma allora poteva essere solo un luogo…
‹‹Il
Paradiso…››
Lo
sussurrò piano, timorosa che qualcuno potesse sentirla. Era andata qualche
volta in chiesa, con la madre, ma non aveva mai creduto davvero all’esistenza
di Dio, del Paradiso e di tutte quelle belle parole che pronunciava il
sacerdote. Le piaceva discutere con lui, sentirlo spiegare la teologia, gli
angeli, i santi e tutta la storia della religione, ma crederci era un’altra
storia. Adesso però le parole di quell’uomo erano le uniche che aveva in testa,
quelle di quando le aveva parlato del Paradiso come di un luogo meraviglioso
per la vita dopo la morte. Quello lo era. C’era anche una graziosa fonte che
rifletteva le nuvole bianche che volteggiano sopra la sua testa. Parlando di
testa, qualcosa la stava accarezzando… Era il mostro che l’aveva ingoiata, che
adesso le sorrideva e non sembrava più tanto pericoloso.
‹‹Tu
mi hai portata qui? E io che sono scappata spaventata.››
‹‹Già,
Lidwig è stato bravo, vero?››
‹‹Perché
parli di te in terza persona?››
‹‹Forse
perché non è lui a parlare, mia cara.››
Sbirciò
dietro le spalle di Lidwig e vide una donna venirle incontro. Verity quasi non poteva
credere a quello che i suoi occhi stavano vedendo: la donna era quella del suo
sogno con gli stessi capelli rossi, raccolti in un treccia, e gli stessi occhi
di giada incastonati come pietre tra le ciglia. Era sicuramente avanti con
l’età ma non avrebbe saputo dargliene una precisa. L’aspetto suggeriva una
donna anziana, ma c’era qualcosa che la faceva sembrare giovane. Indossava un
abito bianco, molto leggero, stretto in vita da una brillante cintura d’oro
rosa; pareva un dea immortale. La donna le si avvicinò lentamente, per non
agitarla. Ogni passo era una lieve carezza all’erba, l’incedere solenne ma
terreno, umano. Eppure era troppo aggraziata, troppo elegante: semplicemente
troppo. Tutto quello che avrebbe mai potuto sognare di essere era davanti ai
suoi occhi e le sorrideva.
Le
circondò le spalle con un braccio, controllata, dolce, e sussurrò piano nelle
sue orecchie parole di benvenuto in una lingua sconosciuta, traducendole subito
dopo.
‹‹Ben
arrivata in Paradiso, Verity. Ti aspettavamo da molti anni…››
‹‹Mi…
Cosa?››
‹‹Angeli,
custodi, diavoli, ognuno di loro aspettava la quarta luce. Forse gli arcangeli
sono meno interessati a te, ma avrai cose più importanti da fare che stare con
loro per adesso.››
‹‹E
con voi cosa dovrei fare?››
‹‹Crescere,
proteggere, imparare, forse amare. Suvvia, non guardarmi con quello sguardo
scioccato. Sei un angelo e devi comportarti come tale.››
‹‹Cosa
intendete dire?››
La
donna rise dolcemente e la prese per mano, guidandola verso la fonte al centro
della radura.
‹‹Imparerai
che non tutti gli angeli sono buoni e generosi e che proteggerli tutti può
essere difficile, soprattutto quando non desiderano la tua protezione, ma è
quello che facciamo qui in Paradiso, cerchiamo di aiutare tutti, anche chi è
ritenuto immeritevole di aiuto, umano, angelo o dannato che sia. C’era un tempo
in cui si viveva in pace, ma quel tempo è un ricordo molto lontano…››
‹‹Non
vivete in pace adesso?››
‹‹Non
esattamente. Il Paradiso non è più in pace da quando ha dovuto cacciare
fratelli e sorelle dalle sue radure e…››
‹‹La
caduta! Stai parlando della caduta, vero? Con l’istituzione dei tre regni e
delle Guardiane, lo so, conosco la storia molto bene!››
La
donna la guardò dubbiosa ma ugualmente sorridendo: ‹‹Temo non sia andata
esattamente così, ma nemmeno io conosco cosa accadde veramente. Penso però che
troverai qualcuno che possa raccontartelo, prima o poi.››
Verity
si sentì spaesata. Poteva davvero esserci qualcosa su quella vicenda che
davvero non sapesse? Impossibile, categoricamente impossibile. Aveva letto ogni
libro, ogni leggenda e storia studiandone analogie e differenze, confrontando i
passi comuni. Lucifero voleva diventare il più potente dei beati e allora aveva
mosso guerra a tutti coloro che gli si erano opposti, aveva perso e poi erano
stati creati i regni. Punto. Stop. Fine del racconto. Non c’era nulla che
potesse aver saltato o dimenticato, nulla da aggiungere a una questione già
abbastanza complicata di per sé. E lei era morta. Tanto per aggiungere qualcosa
di importante ma non troppo. In fondo che dire, suggerirle nemmeno tanto
velatamente di dover proteggere mezzo mondo doveva sembrare una bazzecola se
confrontata con l’essere ammazzata di fronte a suo padre e alla sua migliore
amica. Una cosa da niente.
La
donna, vedendola assumere quell’espressione prima spaesata e poi arrabbiata, si
chiese se non avesse detto troppo in così poco tempo. Eppure non aveva nominato
nessuno, né parlato di fatti macabri o fuori luogo. Forse l’aveva spaventata
l’idea di dover proteggere gli angeli o forse ancora era lei a spaventarla,
anche se si erano viste nel sogno. In fondo le sembrava quasi di essere
un’amica di lunga data di Verity, con tutte le volte che il signor Dante le
aveva parlato innalzandole una preghiera. Doveva rassicurarla e calmarla per
poter completare la trasformazione in angelo.
‹‹Verity,
ascolta, so che ti senti smarrita. Il sogno con me, Lidwig, la tua morte e
quello che ti ho detto sono difficili da accettare, da capire e so che ci vorrà
tempo perché tu diventi davvero parte di questo mondo… Beh, ci ho messo molto
anche io ad ambientarmi all’inizio. Ero decisamente più agitata di te e
continuavo ad andare da un parte all’altra urlando per lo spavento, ma volevo
che tu sapessi almeno un po’ della verità.››
‹‹Questa
verità è sconvolgente.››
‹‹Facciamo
un patto, va bene? Io ti racconto esattamente tutto quello che devi sapere, che
io so, dall’inizio alla fine, se tu fai il bagno nella fonte, accetti?››
‹‹Dov’è
l’inganno? Perché sa, dopo essere stata trascinata e uccisa da un pazzo che mi
ha detto di volermi salvare, non mi fido…››
‹‹Qui
nessuno ti farà del male, per nessuna ragione al mondo, di questo puoi essere
certa.››
Verity
fissò la fonte, non vedendo come potesse essere di alcuna utilità fare un bagno
lì dentro. L’acqua era cristallina e sembrava fresca, ma non abbastanza
invitante da tentarla. La verità però… La promessa di sentire tutta la verità,
nient’altro che quella, era allettante. Si ritrovò divisa tra il desiderio di
voler entrare e quello di allontanarsi e rifletterci sopra ancora un po’ di
tempo. Era così concentrata su quei pensieri che non si accorse della mano in
movimento ma sentì solo la spinta.
Altro
che fresca! L’acqua era gelida e si infiltrò nelle ossa e nei recessi della sua
anima come un guanto ruvido, portando via tutto quello che sentiva appartenerle
e sostituendolo con qualcosa di sconosciuto, una leggera pesantezza. Non
capiva.
C’era
del nero, ordinato, come una capigliatura color carbone e una macchia rossa, molto
scura, sembrava un vestito, ma non avrebbe saputo definirlo con certezza.
Annaspò,
sentendo i polmoni bruciare mentre riprendeva fiato a respiri profondi e
tossendo per l’acqua ingerita. Quando riuscì a uscire dalla fonte rabbrividì
per il freddo, ma c’erano due ragazze a fissarla, giovani e sorridenti.
Le
due avevano osservato Verity nascoste dietro un cespuglio fin dal momento in
cui aveva salutato Lidwig e l’avevano trovata interessate, così diversa da
Mary, ma così simile allo stesso tempo. Si era guardata intorno incredula e
aveva addirittura cercato di parlare con Lidwig, cosa mai accaduta prima. Poi
era carina. Si vedeva che era interessata a quello che Mary stava dicendo
eppure, allo stesso tempo, era stata curiosa e poi arrabbiata e dopo di nuovo
curiosa ma dubbiosa.
Verity
le osservò attentamente, rimanendo vicina al bordo della fonte.
Non
si era sbagliata del tutto. L’abito della ragazza con i capelli neri, che ora
notava pettinati in un incrocio di perline colorate dal rosso al viola, era di
una calda tonalità porpora stampato con arabeschi neri in velluto, stretto
sotto il seno da un nastrino bianco. Era meraviglioso, certo, ma quello che
spuntava dalla sua schiena lo era ancora di più. Il cielo, quello che nasce
dopo il tramonto del Sole, si era nascosto nelle ali della ragazza. Il blu
della notte appena accennato si fondeva con il viola, sciogliendosi nel rosa
della stella morente e svegliandosi nell’arancio verso le estremità delle
piume. Il trionfo della luce, della natura. Non che, ovviamente, le ali della
ragazza al suo fianco fossero meno belle. Ogni singola piuma era di un colore
diverso dall’altro, come se fossero la tavolozza di un pittore impressionista.
Risaltavano moltissimo sull’abito bianco e corto, stretto dall’alta cintura argentea
che indossava.
‹‹Cosa
volete da me?››
Mary
sorrise divertita. Era certa che Hariel le avrebbe spiate, ma non avrebbe mai
pensato che Lelahel si sarebbe aggiunta. Disubbidire agli ordini non era mai un
buona idea nel Paradiso, nemmeno in una circostanza speciale come quella.
Eppure sorrise ancora e, mentre posava le mani sulla loro spalle, disse a
Verity: ‹‹Loro sono Lelahel, custode dell’Inferno e Hariel, custode del
Paradiso. Sono tue amiche e dovresti vedere le tue ali, sono magnifiche.››
Ali?
Ma lei non poteva avere delle ali, lei non poteva essere un angelo, era solo
un’anima…
Tastò
la schiena, salendo piano alla loro ricerca e le trovò, spuntavano dalle
scapole. Sembravano così resistenti e pesanti al tatto, mentre lei le sentiva
leggere e inconsistenti. Si specchiò nella fronte, sperando che riflettesse
abbastanza bene da poter distinguere i colori. Erano di un giallo pallido,
tenue come un acquerello, e sfociavano, scurendosi, nel verde del muschio. Non
erano maestose come quelle delle due ragazze, per niente, eppure le piacquero
anche di più. Le davano una strana sensazione di pace interiore ed equilibrio
che non credeva di poter provare. Quella sensazione, per lei, valeva più di
mille colori meravigliosi.
‹‹Ti
piacciono le tue ali, Verity? Secondo me sono bellissime!››
Hariel,
scuotendo la coda di capelli bianchi, le fece il complimento e la ragazza
ringraziò riconoscente, non abituata a ricevere apprezzamenti e a stare al
centro dell’attenzione. Anzi, la fissavano un po’ troppo insistentemente
rispetto alle sue abitudini, come se si aspettassero qualcosa di particolare da
lei, come una magia spettacolare che sapeva di non poter dar loro.
Mentre
era immersa nei suoi pensieri, Hariel e Lelahel si alzarono in aria sbattendo
le ali. Verity desiderò ardentemente poterle raggiungere e mosse inconsciamente
le proprie, facendo increspare l’acqua della fonte in piccole onde trasparenti.
Quando guardò giù, vide Mary salutarla da terra e si bloccò: stava davvero
volando! Si girò sorridendo verso la direzione che avevano preso le due
guardiane, ma vide solo dei puntini lontani.
Che antipatiche a non
avermi aspettato!
Poi
il vento la sospinse in avanti e lei rotolò per aria, incastrandosi in una
nuvola. Si appoggiò ad essa, stupendosi della consistenza spumosa ma che non la
faceva affondare. I batuffoli di panna la tenevano su. Ma il problema non era
la nuvola. Non aveva la minima idea su come far funzionare quelle ali che
spuntavano dalla schiena. Era impossibile riuscire a controllarle se nemmeno le
sembrava di averle attaccate al suo corpo tanto erano leggere. Fece un respiro
profondo e saltò fuori dalla nuvola spingendosi con le gambe. Non riusciva a
volare in avanti, certo, ma almeno poteva galleggiare.
Due
mani abbronzate la presero per i polsi. Erano quelle di Scar.
‹‹Allora
avevo ragione a pensare che tu non fossi umano!››
Aveva
sempre creduto che quel ragazzo avesse qualcosa di strano, troppo particolare
persino per un mago e adesso lo vedeva sotto forma di angelo di fronte ai suoi
occhi. Così vicina al suo viso, si perse ancora nei suoi occhi che erano così
simili a quelli del Lucifero del suo sogno, solo che i colori erano invertiti e
dove ci sarebbe dovuta essere una venatura viola, ce n’era una nera. Erano
occhi in cui annegare come nel mare in tempesta, guidati dal lento fluire
dell’anima viola dell’iride. Perché erano così simili, anche se opposti, a
quelli di Lucifero? E perché, soprattutto, lei ricordava così bene quelli
dell’angelo caduto? Perché a guardare bene, anche i capelli neri e lisci di
Scar erano simili a quelli di Lucifero.
Indossava
un camicia bordeaux e pantaloni in pelle strettissima che evidenziavano i
muscoli delle gambe. Ma non aveva ali. Come faceva a volare senza ali?
‹‹Scar,
ma come…››
‹‹Concentrati.
Chiudi gli occhi, senti le tue ali. Se non lo fai, non volerai mai.››
Concentrarsi…
Come se fosse facile concentrarsi mentre galleggiava per aria a cento metri da
terra, con il rischio di cadere giù e chissà cosa sarebbe potuto accadere. Però
chiuse gli occhi lo stesso, stringendo con più forza le mani intorno ai polsi
dell’angelo. Ascoltando attentamente riusciva a sentirle, ma non a muoverle.
‹‹Non
pensare. La magia non si pensa, si sente. Ascoltala parlare e trova le tue
ali.››
Verity
si concentrò ancora di più, visualizzando l’immagine delle ali e cercando di
percepirne meglio la presenza.
La
sentì.
C’era
qualcosa, qualcosa che scorreva velocissimo dentro di lei, qualcosa che non
aveva mai sentito prima ma che sembrava essere lì da sempre. Era una rete
complessa, che attraversava tutto il suo corpo, diramandosi fin sulle punte
della dita; ogni terminazione nervosa, ogni fibra del suo essere sembrava
essere percorsa da quel fluire magico così potente che si chiese come fosse
stato possibile non averlo mai percepito prima.
‹‹Qualcosa
scorre… È fresco, come la brezza che sale dal mare, ma più veloce e devastante
di una valanga. Mi travolge dall’interno, ma mi dà energia…››
‹‹Usala,
comandala. Desidera con essa, così potrai volare.››
Verity
lo abbracciò, sorridendogli gentile, ma il sorriso si spense subito. Lui non
sembrava per niente felice, tutt’altro. Era come se stesse provando nostalgia
per qualcosa o forse qualcuno. Vide Hariel e Lelahel tornare indietro, così
prese per mano Scar e si diresse verso di loro, volando in modo incerto.
‹‹Scusaci
tantissimo Verity, non avremmo dovuto abbandonarti così›› disse Hariel non
appena la raggiunse. ‹‹Se lo desideri, possiamo farti vedere il Paradiso, così
da poterlo conoscere. D’ora in poi sarà la tua casa.››
Verity
accolse la proposta con gioia, piena di curiosità e di emozione alla
prospettiva di conoscere qualcosa di nuovo, ancora euforica grazie
all’adrenalina che il volo faceva circolare nelle sue vene. Si girò verso Scar
e gli sorrise, di nuovo, chiedendogli di rimanere con lei. Lui tentò di
rifiutare, ma alla fine cedette.
Sorvolarono
un boschetto minuscolo e poi salirono verso l’alto. Verity faticava a tenere il
ritmo delle due ragazze, ma faceva del suo meglio, aiutata ogni tanto da Scar
che la spingeva con le braccia, trascinandola poi con sé. Fu però enormemente
felice quando la fecero atterrare di fronte a un arco di marmo bianco, nella
punta estrema del luogo in cui erano giunte. Sull’enorme arco erano scolpiti
innumerevoli fiori: alle basi due piante di rose, insieme all’edera, si
arrampicavano intrecciandosi tra loro in un vortice di boccioli, gemme nel
culmine della loro bellezza e giovani foglioline. Si aggiungevano margherite
minuscole, violette e non-ti-scordar-di-me talmente reali da poter essere
sfiorati sentendo la morbidezza dei petali. In alto, incisa tra i fiori, vi era
una scritta: “Dobbiamo amare ognuno in
modo diverso”.
‹‹Da
dove arriva quella frase?››
Lelahel
guardò Verity, ma non ebbe il coraggio di dirle la verità.
‹‹Lo
disse un angelo tanto tempo fa. Ma agli abitanti del Paradiso non piace
ricordare questo. È legato alla guerra.››
Il
tono di Scar diceva chiaramente che non avrebbe risposto a nessun’altra
domanda. Eppure Verity aveva carpito dolore e una nota di tristezza oltre la
rabbia. Era qualcosa che stava nascosto, in fondo all’anima, e che
probabilmente nessun altro aveva percepito. Forse gli avrebbe chiesto
spiegazioni, quanto meno per conoscere meglio quella storia.
Lelahel
la prese sottobraccio, raccontandole qualche piccola interessante notizia per
farla ambientare.
Gli
angeli vivevano nella parte bassa del Paradiso, precisamente sugli alberi in
piccole case che per magia erano più grandi all’interno di quanto paressero
all’esterno. Alcuni da soli, altri come famiglie, si ritrovavano l’uno a casa
dell’altro per passare il tempo; altri ancora tornavano su una volta ogni
tanto, quando riuscivano a prendersi una pausa dal ruolo di custodi, anche se
accadeva raramente. Nella parte alta, invece, vivevano gli Arcangeli. Lì era
sempre notte, anche se quando brillavano le stelle emettevano così tanta luce
da indurre l’osservatore a pensare che fosse giorno. Era un mondo nel mondo,
un’atmosfera completamente diversa.
Quando
si immersero nel bosco, poco dopo essere passati sotto l’arco, Lelahel continuò
a spiegare. Ogni punto del Paradiso era un ingresso e non si doveva
necessariamente passare sotto l’arco. Ciascun angelo poteva fare quello che più
gli aggradava, andare e venire con la frequenza che preferiva. L’unica regola era
che non si avvicinassero per nessuna ragione al portale per l’Inferno.
‹‹E
immagino che nessuno lo faccia, vero?››
‹‹No,
ma non per rispettare la regola. È solo per paura. Da quando i Nephilim hanno
portato qui gli ultimi caduti, tutte le volte che un angelo comune ha
attraversato il portale, è stato trovato morto.››
Verity
rabbrividì, stringendosi maggiormente al braccio di Lelahel. Avrebbe voluto
saperne di più sui Nephilim, sia perché non aveva mai incontrato il loro nome
sulla Terra, sia perché sembrava un argomento fondamentale nella storia del
Paradiso, ma in quel momento aveva troppa paura per pensare di chiederlo.
Intanto
loro continuavano a camminare e in poco tempo Verity cominciò a vedere la
natura diradarsi, lasciando posto solo a un grande prato pallido. Prima che
questa svanisse del tutto, il gruppo uscì dal sentiero calpestato, seguendo poi
un percorso silenzioso. Raggiunsero le rive di un grande lago. Sulla sabbia,
disposti lungo il perimetro, si trovavano angeli senza ali, con il volto coperto
da un velo azzurro sul cui bordo erano attaccate dracme argentate. Cantavano.
Verity si sedette al fianco di una di loro e guardò dentro le acque del lago:
adagiate sul fondo, protette dalle alghe verdi, c’erano uova dorate. Alcune
erano piccole, come quelle delle galline; altre erano grandi come noci di
cocco. Verity, lo sguardo ancora fisso sulle uova, sentì la necessità
impellente di distendersi e dormire, una sonnolenza così forte che non sentì le
mani di Scar tirarla indietro, prenderla in braccio e riportarla sul sentiero.
La depose sull’erba, con la schiena appoggiata al tronco largo di una quercia.
‹‹Cosa
mi è successo?››
Hariel,
seduta accanto a lei, le rispose con dolcezza: ‹‹Sei rimasta catturata dal
canto dei Sognatori. Non sei la prima, succede continuamente, è successo anche
a me! Ma io sono riuscita a svegliarmi da sola prima che mi suicidassi
affogandomi nel lago: per questo Michele mi ha nominato guardiana… I Sognatori
sono angeli caduti che, quando hanno capito che la guerra non stava andando a
loro favore, sono corsi dagli Arcangeli a chiedere perdono.››
‹‹Non
ne hanno trovato.››
‹‹Dovevano
punirli. Li hanno costretti a tagliarsi le ali da soli, poi hanno imposto loro
di indossare quel velo. Non possono toglierselo, né vedere attraverso. Sono
completamente ciechi. Però sognano, e da qui il nome. Sognano il futuro e il
passato ma non possono parlarne con nessuno e quindi cantano. Il loro canto
dona energia alle uova che così possono mantenere la barriera che circonda
l’Inferno. Se qualcuno si lascia ammaliare dal canto prima si addormenta, poi
cerca di uccidersi. Pochi sopravvivono e chi non si sveglia diventa un uovo.››
‹‹È
spaventoso…››
‹‹Gli
Arcangeli sono stati cattivi con i dannati, ma anche giusti.››
‹‹Quella
è crudeltà, non giustizia, Hariel… Ma grazie per avermi spiegato e grazie a te,
Scar, per avermi portata via.››
Verity
si alzò, affidandosi alla mano che Scar le aveva offerto
e raggiunse Lelahel, camminando a fianco lei. Intanto pensava. Forse anche Scar
era stato punito in qualche modo e per questo non aveva le ali. Ignorò Hariel,
che le si era affiancata, e seguì solo Lelahel.
Eliminato
il Lago di Sognatori, il Paradiso si estendeva come un’enorme foresta dove
crescevano piante di ogni specie, alberi che non avrebbero mai potuto convivere
sulla Terra perché abituati a climi diametralmente opposti; radure su radure
che creavano spazi vuoti, coperti solo di erba verde e gialla. E, al di sopra
delle cime degli altissimi abeti, si ergevano le guglie del Palazzo degli
Arcangeli. Passarono di fronte all’enorme portone nero, chiuso, ma non si
fermarono. Hariel disse che l’avrebbe accompagnata in un altro posto, molto più
utile. La portò in un punto dove la luce delle stelle splendeva meno anzi, era
quasi inesistente. In quel buio in cui Verity non riusciva a distinguere nulla,
Hariel si mosse sicura dei suoi passi, accedendo con una scintilla una piccola
candela. La luce di questa era appena sufficiente a illuminare una porta di
legno scuro con un pomello tondo in ottone al centro.
‹‹Questo
è un portale magico: in pochi secondi è in grado di trasportarti nel luogo in
cui ti sei svegliata, Eteria. Mi spiace, ma adesso devo proprio andarmene
perché ho delle cose molto importanti da fare.››
Li
salutò e li lasciò attraversare il portale con un sorriso. Appena il portone fu
chiuso, Hariel tornò velocemente indietro, verso la sua casa vicino
all’ingresso del Paradiso. Una volta dentro emise un sospiro appoggiandosi alla
porta. Nessun arcangelo era all’interno ad attenderla. Raffaele non credeva che
una terza guardiana potesse essere di alcun aiuto. Non che fosse realmente
cattivo, tutt’altro. Solamente aveva paura che si scatenasse una nuova guerra
con Lucifero per la ragazza. Hariel non pensava che il demone avrebbe mai
lottato ancora, anzi, secondo quello che diceva Lelahel, lui stava cercando da
secoli di calmare gli animi dei dannati per evitare che gli arcangeli
intervenissero e commettessero un genocidio. Si accasciò a terra, respirando
profondamente e chiuse gli occhi, sperando di non ritrovarsi una brutta
sorpresa al risveglio.