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Autore: Nemamiah    05/02/2018    1 recensioni
Dal testo:
Verity sorrise e rispose: ‹‹Io invece credo che ci sia sempre un motivo per il modo in cui si sceglie di agire, indipendentemente dall’essere buoni o cattivi.››
‹‹È un altro modo di vedere la vita, ma penso porti alla sofferenza. Chiunque può tradirti, fingere di essere in un modo e rivelarsi l’opposto. È necessario classificare le persone e scegliere chi non far avvicinare per essere felici.››
‹‹Anche la sofferenza può condurre alla felicità, non è sempre negativa.››
[...]
‹‹Forse è solo questione di scegliere quale rischio correre quando si conosce qualcuno, se tenerlo lontano dal tuo cuore o donarglielo anche se potrebbe distruggerlo, sapendo che significa concedergli la tua fiducia, saltare nel vuoto e sperare che ti prenda prima che tocchi il suolo.››
‹‹Un po’ come l’amore.››
‹‹No. L’amore è saltare nel vuoto e sapere che non toccherai il suolo perché qualcuno ti prenderà prima.››
[...]
‹‹Il problema è questo: fare la cosa giusta non è sinonimo di rendere tutti felici.››
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Sovrannaturale
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nero come il bianco - Raccolta'
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Angolo dell’autrice:

Buongiorno a tutti! Come state? Io mi godo ancora per un po’ la pausa universitaria, divertendomi a scrivere e mangiare dolcetti. Vi lascio il capitolo nuovo, sperando che vi piaccia!

Buona lettura a tutti!

Nemamiah

 

 

 

Verity si risvegliò immersa nel buio, mentre galleggiava dentro qualcosa di inconsistente. Provò a muoversi un paio di volte e scoprì che bastava desiderare uno spostamento e questo avveniva, anche se molto lentamente. Lo spazio in cui era immersa rispondeva ai suoi impulsi e desideri, faceva esattamente quello che lei voleva. Ripeté infinite volte nella testa la parola sinistra e alla fine sbatté la testa contro una parete. Quello spazio non era illimitato. Fece la stessa cosa a destra, in alto e in basso: si trovava in una specie di tunnel. Camminava tenendo una mano fissa sulla parete, mentre ordinava con la mente al suo corpo di andare avanti, sperando di aver preso la direzione giusta. Man mano che avanzava, il mal di testa cresceva: inizialmente non aveva sentito nulla, poi un ronzio leggero e in quel momento la testa le pulsava dolorosamente. Il dolore aumentava proporzionalmente alla forza che attraeva in avanti il suo corpo e diventa sempre più fastidioso. Quando non riuscì più a resistere decise di lasciarsi trasportare. Non fu per niente una buona idea. Sentiva l’aria tagliarle il viso e chiuse gli occhi, riaprendoli appena in tempo per urlare un “FERMATI!”. Si era fermata a pochi centimetri da un’affilatissima punta nera. La sfiorò con le mani, opponendosi alla forza la spingeva verso di essa. Aveva una forma conica e la punta l’avrebbe trafitta senza troppi problemi se non fosse riuscita a fermarsi. Pensò allora ardentemente ai movimenti che desiderava compiere e lentamente raggiunse la base del cono, tastandola con le dita. Percepì lettere scolpite, lettere come quelle che usava per scrivere e che formavano, insieme, una frase: “È uno scherzo della natura”. Spostò la mano sulla parete e la fece scorrere verso l’alto. C’era un altro cono con un'altra incisione. La decifrò, lo fece con ogni cono che incontrò nella salita. Erano tutte frasi, buone o crudeli, che aveva pensato o che le erano state rivolte dalle persone più disparate. L’ultima frase Verity ricordò di averla detta un Natale di tanti anni prima, quello che aveva passato da sola, quando era andata in centro a trovare Babbo Natale: “Vorrei non essere mai nata”.

Una fitta alla testa più forte delle altre la fece piegare in due e lasciò la presa sul cono, mentre la forza che prima la sospingeva verso l’alto la fece precipitare verso il basso, come se si fosse lanciata da una scogliera a capofitto nel mare. Affondò in quello spazio che ora era viscido e melmoso fino a che la forza non la trasse fuori, di nuovo. Ricordava tutti i dettagli di ogni frase, non solo chi l’avesse pronunciata, ma anche in quali circostanze, che età avesse in quel momento, lo sguardo di chi parlava. E ogni frase le si appiccicava addosso, su braccia e gambe, sulla pancia; si attorcigliava intorno al collo e alle dita; si intrecciava nei riccioli e a ogni contatto sentiva nuovamente la sensazione che aveva provato, riviveva quel momento e, anche se avrebbe preferito dimenticare tutto, non riusciva a staccarsi di dosso quelle scritte. Tuttavia non pianse. Nel turbinio di emozioni contrastanti che le affollavano l’anima e che avrebbe fatto impazzire chiunque lei era rimasta lucida: gli occhi vedevano, le orecchie sentivano. Parlava, balbettava, chiedeva scusa, ma non piangeva. Allora tutte le scritte tornarono al loro posto, incidendosi nuovamente sui quei coni che cambiavano forma e diventavano scalini, scivolosi e instabili, ma pur sempre scalini. Li salì, con attenzione, uno alla volta, puntando alla luce che scendeva dall’alto e si faceva sempre più intensa, diradando le ombre. Era tanto intensa che non riuscì a tenere gli occhi aperti quando raggiunse la cima e uscì guidata dal tatto e dai suoi piedi che sapevano dove andare senza che lei lo pensasse.

Sbucò in un prato, o meglio, in una grande radura circondata fittamente dagli alberi. Uscì del tutto e si guardò intorno incuriosita. Non era la stessa di prima, di quello era certa. Ma allora poteva essere solo un luogo…

‹‹Il Paradiso…››

Lo sussurrò piano, timorosa che qualcuno potesse sentirla. Era andata qualche volta in chiesa, con la madre, ma non aveva mai creduto davvero all’esistenza di Dio, del Paradiso e di tutte quelle belle parole che pronunciava il sacerdote. Le piaceva discutere con lui, sentirlo spiegare la teologia, gli angeli, i santi e tutta la storia della religione, ma crederci era un’altra storia. Adesso però le parole di quell’uomo erano le uniche che aveva in testa, quelle di quando le aveva parlato del Paradiso come di un luogo meraviglioso per la vita dopo la morte. Quello lo era. C’era anche una graziosa fonte che rifletteva le nuvole bianche che volteggiano sopra la sua testa. Parlando di testa, qualcosa la stava accarezzando… Era il mostro che l’aveva ingoiata, che adesso le sorrideva e non sembrava più tanto pericoloso.

‹‹Tu mi hai portata qui? E io che sono scappata spaventata.››

‹‹Già, Lidwig è stato bravo, vero?››

‹‹Perché parli di te in terza persona?››

‹‹Forse perché non è lui a parlare, mia cara.››

Sbirciò dietro le spalle di Lidwig e vide una donna venirle incontro. Verity quasi non poteva credere a quello che i suoi occhi stavano vedendo: la donna era quella del suo sogno con gli stessi capelli rossi, raccolti in un treccia, e gli stessi occhi di giada incastonati come pietre tra le ciglia. Era sicuramente avanti con l’età ma non avrebbe saputo dargliene una precisa. L’aspetto suggeriva una donna anziana, ma c’era qualcosa che la faceva sembrare giovane. Indossava un abito bianco, molto leggero, stretto in vita da una brillante cintura d’oro rosa; pareva un dea immortale. La donna le si avvicinò lentamente, per non agitarla. Ogni passo era una lieve carezza all’erba, l’incedere solenne ma terreno, umano. Eppure era troppo aggraziata, troppo elegante: semplicemente troppo. Tutto quello che avrebbe mai potuto sognare di essere era davanti ai suoi occhi e le sorrideva.

Le circondò le spalle con un braccio, controllata, dolce, e sussurrò piano nelle sue orecchie parole di benvenuto in una lingua sconosciuta, traducendole subito dopo.

‹‹Ben arrivata in Paradiso, Verity. Ti aspettavamo da molti anni…››

‹‹Mi… Cosa?››

‹‹Angeli, custodi, diavoli, ognuno di loro aspettava la quarta luce. Forse gli arcangeli sono meno interessati a te, ma avrai cose più importanti da fare che stare con loro per adesso.››

‹‹E con voi cosa dovrei fare?››

‹‹Crescere, proteggere, imparare, forse amare. Suvvia, non guardarmi con quello sguardo scioccato. Sei un angelo e devi comportarti come tale.››

‹‹Cosa intendete dire?››

La donna rise dolcemente e la prese per mano, guidandola verso la fonte al centro della radura.

‹‹Imparerai che non tutti gli angeli sono buoni e generosi e che proteggerli tutti può essere difficile, soprattutto quando non desiderano la tua protezione, ma è quello che facciamo qui in Paradiso, cerchiamo di aiutare tutti, anche chi è ritenuto immeritevole di aiuto, umano, angelo o dannato che sia. C’era un tempo in cui si viveva in pace, ma quel tempo è un ricordo molto lontano…››

‹‹Non vivete in pace adesso?››

‹‹Non esattamente. Il Paradiso non è più in pace da quando ha dovuto cacciare fratelli e sorelle dalle sue radure e…››

‹‹La caduta! Stai parlando della caduta, vero? Con l’istituzione dei tre regni e delle Guardiane, lo so, conosco la storia molto bene!››

La donna la guardò dubbiosa ma ugualmente sorridendo: ‹‹Temo non sia andata esattamente così, ma nemmeno io conosco cosa accadde veramente. Penso però che troverai qualcuno che possa raccontartelo, prima o poi.››

Verity si sentì spaesata. Poteva davvero esserci qualcosa su quella vicenda che davvero non sapesse? Impossibile, categoricamente impossibile. Aveva letto ogni libro, ogni leggenda e storia studiandone analogie e differenze, confrontando i passi comuni. Lucifero voleva diventare il più potente dei beati e allora aveva mosso guerra a tutti coloro che gli si erano opposti, aveva perso e poi erano stati creati i regni. Punto. Stop. Fine del racconto. Non c’era nulla che potesse aver saltato o dimenticato, nulla da aggiungere a una questione già abbastanza complicata di per sé. E lei era morta. Tanto per aggiungere qualcosa di importante ma non troppo. In fondo che dire, suggerirle nemmeno tanto velatamente di dover proteggere mezzo mondo doveva sembrare una bazzecola se confrontata con l’essere ammazzata di fronte a suo padre e alla sua migliore amica. Una cosa da niente.

La donna, vedendola assumere quell’espressione prima spaesata e poi arrabbiata, si chiese se non avesse detto troppo in così poco tempo. Eppure non aveva nominato nessuno, né parlato di fatti macabri o fuori luogo. Forse l’aveva spaventata l’idea di dover proteggere gli angeli o forse ancora era lei a spaventarla, anche se si erano viste nel sogno. In fondo le sembrava quasi di essere un’amica di lunga data di Verity, con tutte le volte che il signor Dante le aveva parlato innalzandole una preghiera. Doveva rassicurarla e calmarla per poter completare la trasformazione in angelo.

‹‹Verity, ascolta, so che ti senti smarrita. Il sogno con me, Lidwig, la tua morte e quello che ti ho detto sono difficili da accettare, da capire e so che ci vorrà tempo perché tu diventi davvero parte di questo mondo… Beh, ci ho messo molto anche io ad ambientarmi all’inizio. Ero decisamente più agitata di te e continuavo ad andare da un parte all’altra urlando per lo spavento, ma volevo che tu sapessi almeno un po’ della verità.››

‹‹Questa verità è sconvolgente.››

‹‹Facciamo un patto, va bene? Io ti racconto esattamente tutto quello che devi sapere, che io so, dall’inizio alla fine, se tu fai il bagno nella fonte, accetti?››

‹‹Dov’è l’inganno? Perché sa, dopo essere stata trascinata e uccisa da un pazzo che mi ha detto di volermi salvare, non mi fido…››

‹‹Qui nessuno ti farà del male, per nessuna ragione al mondo, di questo puoi essere certa.››

Verity fissò la fonte, non vedendo come potesse essere di alcuna utilità fare un bagno lì dentro. L’acqua era cristallina e sembrava fresca, ma non abbastanza invitante da tentarla. La verità però… La promessa di sentire tutta la verità, nient’altro che quella, era allettante. Si ritrovò divisa tra il desiderio di voler entrare e quello di allontanarsi e rifletterci sopra ancora un po’ di tempo. Era così concentrata su quei pensieri che non si accorse della mano in movimento ma sentì solo la spinta.

Altro che fresca! L’acqua era gelida e si infiltrò nelle ossa e nei recessi della sua anima come un guanto ruvido, portando via tutto quello che sentiva appartenerle e sostituendolo con qualcosa di sconosciuto, una leggera pesantezza. Non capiva.

 

C’era del nero, ordinato, come una capigliatura color carbone e una macchia rossa, molto scura, sembrava un vestito, ma non avrebbe saputo definirlo con certezza.

 

Annaspò, sentendo i polmoni bruciare mentre riprendeva fiato a respiri profondi e tossendo per l’acqua ingerita. Quando riuscì a uscire dalla fonte rabbrividì per il freddo, ma c’erano due ragazze a fissarla, giovani e sorridenti.

Le due avevano osservato Verity nascoste dietro un cespuglio fin dal momento in cui aveva salutato Lidwig e l’avevano trovata interessate, così diversa da Mary, ma così simile allo stesso tempo. Si era guardata intorno incredula e aveva addirittura cercato di parlare con Lidwig, cosa mai accaduta prima. Poi era carina. Si vedeva che era interessata a quello che Mary stava dicendo eppure, allo stesso tempo, era stata curiosa e poi arrabbiata e dopo di nuovo curiosa ma dubbiosa.

Verity le osservò attentamente, rimanendo vicina al bordo della fonte.

Non si era sbagliata del tutto. L’abito della ragazza con i capelli neri, che ora notava pettinati in un incrocio di perline colorate dal rosso al viola, era di una calda tonalità porpora stampato con arabeschi neri in velluto, stretto sotto il seno da un nastrino bianco. Era meraviglioso, certo, ma quello che spuntava dalla sua schiena lo era ancora di più. Il cielo, quello che nasce dopo il tramonto del Sole, si era nascosto nelle ali della ragazza. Il blu della notte appena accennato si fondeva con il viola, sciogliendosi nel rosa della stella morente e svegliandosi nell’arancio verso le estremità delle piume. Il trionfo della luce, della natura. Non che, ovviamente, le ali della ragazza al suo fianco fossero meno belle. Ogni singola piuma era di un colore diverso dall’altro, come se fossero la tavolozza di un pittore impressionista. Risaltavano moltissimo sull’abito bianco e corto, stretto dall’alta cintura argentea che indossava.

‹‹Cosa volete da me?››

Mary sorrise divertita. Era certa che Hariel le avrebbe spiate, ma non avrebbe mai pensato che Lelahel si sarebbe aggiunta. Disubbidire agli ordini non era mai un buona idea nel Paradiso, nemmeno in una circostanza speciale come quella. Eppure sorrise ancora e, mentre posava le mani sulla loro spalle, disse a Verity: ‹‹Loro sono Lelahel, custode dell’Inferno e Hariel, custode del Paradiso. Sono tue amiche e dovresti vedere le tue ali, sono magnifiche.››

Ali? Ma lei non poteva avere delle ali, lei non poteva essere un angelo, era solo un’anima…

Tastò la schiena, salendo piano alla loro ricerca e le trovò, spuntavano dalle scapole. Sembravano così resistenti e pesanti al tatto, mentre lei le sentiva leggere e inconsistenti. Si specchiò nella fronte, sperando che riflettesse abbastanza bene da poter distinguere i colori. Erano di un giallo pallido, tenue come un acquerello, e sfociavano, scurendosi, nel verde del muschio. Non erano maestose come quelle delle due ragazze, per niente, eppure le piacquero anche di più. Le davano una strana sensazione di pace interiore ed equilibrio che non credeva di poter provare. Quella sensazione, per lei, valeva più di mille colori meravigliosi.

‹‹Ti piacciono le tue ali, Verity? Secondo me sono bellissime!››

Hariel, scuotendo la coda di capelli bianchi, le fece il complimento e la ragazza ringraziò riconoscente, non abituata a ricevere apprezzamenti e a stare al centro dell’attenzione. Anzi, la fissavano un po’ troppo insistentemente rispetto alle sue abitudini, come se si aspettassero qualcosa di particolare da lei, come una magia spettacolare che sapeva di non poter dar loro.

Mentre era immersa nei suoi pensieri, Hariel e Lelahel si alzarono in aria sbattendo le ali. Verity desiderò ardentemente poterle raggiungere e mosse inconsciamente le proprie, facendo increspare l’acqua della fonte in piccole onde trasparenti. Quando guardò giù, vide Mary salutarla da terra e si bloccò: stava davvero volando! Si girò sorridendo verso la direzione che avevano preso le due guardiane, ma vide solo dei puntini lontani.

Che antipatiche a non avermi aspettato!

Poi il vento la sospinse in avanti e lei rotolò per aria, incastrandosi in una nuvola. Si appoggiò ad essa, stupendosi della consistenza spumosa ma che non la faceva affondare. I batuffoli di panna la tenevano su. Ma il problema non era la nuvola. Non aveva la minima idea su come far funzionare quelle ali che spuntavano dalla schiena. Era impossibile riuscire a controllarle se nemmeno le sembrava di averle attaccate al suo corpo tanto erano leggere. Fece un respiro profondo e saltò fuori dalla nuvola spingendosi con le gambe. Non riusciva a volare in avanti, certo, ma almeno poteva galleggiare.

Due mani abbronzate la presero per i polsi. Erano quelle di Scar.

‹‹Allora avevo ragione a pensare che tu non fossi umano!››

Aveva sempre creduto che quel ragazzo avesse qualcosa di strano, troppo particolare persino per un mago e adesso lo vedeva sotto forma di angelo di fronte ai suoi occhi. Così vicina al suo viso, si perse ancora nei suoi occhi che erano così simili a quelli del Lucifero del suo sogno, solo che i colori erano invertiti e dove ci sarebbe dovuta essere una venatura viola, ce n’era una nera. Erano occhi in cui annegare come nel mare in tempesta, guidati dal lento fluire dell’anima viola dell’iride. Perché erano così simili, anche se opposti, a quelli di Lucifero? E perché, soprattutto, lei ricordava così bene quelli dell’angelo caduto? Perché a guardare bene, anche i capelli neri e lisci di Scar erano simili a quelli di Lucifero.

Indossava un camicia bordeaux e pantaloni in pelle strettissima che evidenziavano i muscoli delle gambe. Ma non aveva ali. Come faceva a volare senza ali?

‹‹Scar, ma come…››

‹‹Concentrati. Chiudi gli occhi, senti le tue ali. Se non lo fai, non volerai mai.››

Concentrarsi… Come se fosse facile concentrarsi mentre galleggiava per aria a cento metri da terra, con il rischio di cadere giù e chissà cosa sarebbe potuto accadere. Però chiuse gli occhi lo stesso, stringendo con più forza le mani intorno ai polsi dell’angelo. Ascoltando attentamente riusciva a sentirle, ma non a muoverle.

‹‹Non pensare. La magia non si pensa, si sente. Ascoltala parlare e trova le tue ali.››

Verity si concentrò ancora di più, visualizzando l’immagine delle ali e cercando di percepirne meglio la presenza.

La sentì.

C’era qualcosa, qualcosa che scorreva velocissimo dentro di lei, qualcosa che non aveva mai sentito prima ma che sembrava essere lì da sempre. Era una rete complessa, che attraversava tutto il suo corpo, diramandosi fin sulle punte della dita; ogni terminazione nervosa, ogni fibra del suo essere sembrava essere percorsa da quel fluire magico così potente che si chiese come fosse stato possibile non averlo mai percepito prima.

‹‹Qualcosa scorre… È fresco, come la brezza che sale dal mare, ma più veloce e devastante di una valanga. Mi travolge dall’interno, ma mi dà energia…››

‹‹Usala, comandala. Desidera con essa, così potrai volare.››

Verity lo abbracciò, sorridendogli gentile, ma il sorriso si spense subito. Lui non sembrava per niente felice, tutt’altro. Era come se stesse provando nostalgia per qualcosa o forse qualcuno. Vide Hariel e Lelahel tornare indietro, così prese per mano Scar e si diresse verso di loro, volando in modo incerto.

‹‹Scusaci tantissimo Verity, non avremmo dovuto abbandonarti così›› disse Hariel non appena la raggiunse. ‹‹Se lo desideri, possiamo farti vedere il Paradiso, così da poterlo conoscere. D’ora in poi sarà la tua casa.››

Verity accolse la proposta con gioia, piena di curiosità e di emozione alla prospettiva di conoscere qualcosa di nuovo, ancora euforica grazie all’adrenalina che il volo faceva circolare nelle sue vene. Si girò verso Scar e gli sorrise, di nuovo, chiedendogli di rimanere con lei. Lui tentò di rifiutare, ma alla fine cedette.

Sorvolarono un boschetto minuscolo e poi salirono verso l’alto. Verity faticava a tenere il ritmo delle due ragazze, ma faceva del suo meglio, aiutata ogni tanto da Scar che la spingeva con le braccia, trascinandola poi con sé. Fu però enormemente felice quando la fecero atterrare di fronte a un arco di marmo bianco, nella punta estrema del luogo in cui erano giunte. Sull’enorme arco erano scolpiti innumerevoli fiori: alle basi due piante di rose, insieme all’edera, si arrampicavano intrecciandosi tra loro in un vortice di boccioli, gemme nel culmine della loro bellezza e giovani foglioline. Si aggiungevano margherite minuscole, violette e non-ti-scordar-di-me talmente reali da poter essere sfiorati sentendo la morbidezza dei petali. In alto, incisa tra i fiori, vi era una scritta: “Dobbiamo amare ognuno in modo diverso”.

‹‹Da dove arriva quella frase?››

Lelahel guardò Verity, ma non ebbe il coraggio di dirle la verità.

‹‹Lo disse un angelo tanto tempo fa. Ma agli abitanti del Paradiso non piace ricordare questo. È legato alla guerra.››

Il tono di Scar diceva chiaramente che non avrebbe risposto a nessun’altra domanda. Eppure Verity aveva carpito dolore e una nota di tristezza oltre la rabbia. Era qualcosa che stava nascosto, in fondo all’anima, e che probabilmente nessun altro aveva percepito. Forse gli avrebbe chiesto spiegazioni, quanto meno per conoscere meglio quella storia.

Lelahel la prese sottobraccio, raccontandole qualche piccola interessante notizia per farla ambientare.

Gli angeli vivevano nella parte bassa del Paradiso, precisamente sugli alberi in piccole case che per magia erano più grandi all’interno di quanto paressero all’esterno. Alcuni da soli, altri come famiglie, si ritrovavano l’uno a casa dell’altro per passare il tempo; altri ancora tornavano su una volta ogni tanto, quando riuscivano a prendersi una pausa dal ruolo di custodi, anche se accadeva raramente. Nella parte alta, invece, vivevano gli Arcangeli. Lì era sempre notte, anche se quando brillavano le stelle emettevano così tanta luce da indurre l’osservatore a pensare che fosse giorno. Era un mondo nel mondo, un’atmosfera completamente diversa.

Quando si immersero nel bosco, poco dopo essere passati sotto l’arco, Lelahel continuò a spiegare. Ogni punto del Paradiso era un ingresso e non si doveva necessariamente passare sotto l’arco. Ciascun angelo poteva fare quello che più gli aggradava, andare e venire con la frequenza che preferiva. L’unica regola era che non si avvicinassero per nessuna ragione al portale per l’Inferno.

‹‹E immagino che nessuno lo faccia, vero?››

‹‹No, ma non per rispettare la regola. È solo per paura. Da quando i Nephilim hanno portato qui gli ultimi caduti, tutte le volte che un angelo comune ha attraversato il portale, è stato trovato morto.››

Verity rabbrividì, stringendosi maggiormente al braccio di Lelahel. Avrebbe voluto saperne di più sui Nephilim, sia perché non aveva mai incontrato il loro nome sulla Terra, sia perché sembrava un argomento fondamentale nella storia del Paradiso, ma in quel momento aveva troppa paura per pensare di chiederlo.

Intanto loro continuavano a camminare e in poco tempo Verity cominciò a vedere la natura diradarsi, lasciando posto solo a un grande prato pallido. Prima che questa svanisse del tutto, il gruppo uscì dal sentiero calpestato, seguendo poi un percorso silenzioso. Raggiunsero le rive di un grande lago. Sulla sabbia, disposti lungo il perimetro, si trovavano angeli senza ali, con il volto coperto da un velo azzurro sul cui bordo erano attaccate dracme argentate. Cantavano. Verity si sedette al fianco di una di loro e guardò dentro le acque del lago: adagiate sul fondo, protette dalle alghe verdi, c’erano uova dorate. Alcune erano piccole, come quelle delle galline; altre erano grandi come noci di cocco. Verity, lo sguardo ancora fisso sulle uova, sentì la necessità impellente di distendersi e dormire, una sonnolenza così forte che non sentì le mani di Scar tirarla indietro, prenderla in braccio e riportarla sul sentiero. La depose sull’erba, con la schiena appoggiata al tronco largo di una quercia.

‹‹Cosa mi è successo?››

Hariel, seduta accanto a lei, le rispose con dolcezza: ‹‹Sei rimasta catturata dal canto dei Sognatori. Non sei la prima, succede continuamente, è successo anche a me! Ma io sono riuscita a svegliarmi da sola prima che mi suicidassi affogandomi nel lago: per questo Michele mi ha nominato guardiana… I Sognatori sono angeli caduti che, quando hanno capito che la guerra non stava andando a loro favore, sono corsi dagli Arcangeli a chiedere perdono.››

‹‹Non ne hanno trovato.››

‹‹Dovevano punirli. Li hanno costretti a tagliarsi le ali da soli, poi hanno imposto loro di indossare quel velo. Non possono toglierselo, né vedere attraverso. Sono completamente ciechi. Però sognano, e da qui il nome. Sognano il futuro e il passato ma non possono parlarne con nessuno e quindi cantano. Il loro canto dona energia alle uova che così possono mantenere la barriera che circonda l’Inferno. Se qualcuno si lascia ammaliare dal canto prima si addormenta, poi cerca di uccidersi. Pochi sopravvivono e chi non si sveglia diventa un uovo.››

‹‹È spaventoso…››

‹‹Gli Arcangeli sono stati cattivi con i dannati, ma anche giusti.››

‹‹Quella è crudeltà, non giustizia, Hariel… Ma grazie per avermi spiegato e grazie a te, Scar, per avermi portata via.››

Verity si alzò, affidandosi alla mano che Scar le aveva offerto e raggiunse Lelahel, camminando a fianco lei. Intanto pensava. Forse anche Scar era stato punito in qualche modo e per questo non aveva le ali. Ignorò Hariel, che le si era affiancata, e seguì solo Lelahel.

Eliminato il Lago di Sognatori, il Paradiso si estendeva come un’enorme foresta dove crescevano piante di ogni specie, alberi che non avrebbero mai potuto convivere sulla Terra perché abituati a climi diametralmente opposti; radure su radure che creavano spazi vuoti, coperti solo di erba verde e gialla. E, al di sopra delle cime degli altissimi abeti, si ergevano le guglie del Palazzo degli Arcangeli. Passarono di fronte all’enorme portone nero, chiuso, ma non si fermarono. Hariel disse che l’avrebbe accompagnata in un altro posto, molto più utile. La portò in un punto dove la luce delle stelle splendeva meno anzi, era quasi inesistente. In quel buio in cui Verity non riusciva a distinguere nulla, Hariel si mosse sicura dei suoi passi, accedendo con una scintilla una piccola candela. La luce di questa era appena sufficiente a illuminare una porta di legno scuro con un pomello tondo in ottone al centro.

‹‹Questo è un portale magico: in pochi secondi è in grado di trasportarti nel luogo in cui ti sei svegliata, Eteria. Mi spiace, ma adesso devo proprio andarmene perché ho delle cose molto importanti da fare.››

Li salutò e li lasciò attraversare il portale con un sorriso. Appena il portone fu chiuso, Hariel tornò velocemente indietro, verso la sua casa vicino all’ingresso del Paradiso. Una volta dentro emise un sospiro appoggiandosi alla porta. Nessun arcangelo era all’interno ad attenderla. Raffaele non credeva che una terza guardiana potesse essere di alcun aiuto. Non che fosse realmente cattivo, tutt’altro. Solamente aveva paura che si scatenasse una nuova guerra con Lucifero per la ragazza. Hariel non pensava che il demone avrebbe mai lottato ancora, anzi, secondo quello che diceva Lelahel, lui stava cercando da secoli di calmare gli animi dei dannati per evitare che gli arcangeli intervenissero e commettessero un genocidio. Si accasciò a terra, respirando profondamente e chiuse gli occhi, sperando di non ritrovarsi una brutta sorpresa al risveglio.

 

   
 
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