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Autore: TheGhostOfYou0    08/02/2018    3 recensioni
A vent’ anni non ce l’hai un vestito da morto, non hai qualcosa di così bello da portarti nella tomba, con cui presentarsi al cospetto di chi deciderà dove andrai a finire poi.
Chiunque sia, sempre che ci sia.
Il problema è che in realtà non ci pensi proprio a morire e comprarsi un vestito da indossare dentro una bara è l’ultima delle tue preoccupazioni, non immagini neppure ci sia bisogno di un bel vestito quando si è morti.
Io non lo sapevo, ad esempio.
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vent’anni
 
A vent’ anni non ce l’hai un vestito da morto, non hai qualcosa di così bello da portarti nella tomba, con cui presentarsi al cospetto di chi deciderà dove andrai a finire poi.
Chiunque sia, sempre che ci sia.
Il problema è che in realtà non ci pensi proprio a morire e comprarsi un vestito da indossare dentro una bara è l’ultima delle tue preoccupazioni, non immagini neppure ci sia bisogno di un bel vestito quando si è morti.
Io non lo sapevo, ad esempio.
Io, che di anni ne avevo ventuno e mi sentivo tanto grande, tanto  saggio, tanto maturo ed in realtà non capivo niente.
 
La morte non ti riguarda quando sei giovane, è un fenomeno lontano.
Un fenomeno, appunto, non una realtà, non l’unica vera certezza della nostra esistenza.
Un fenomeno, come un’eclissi, come un terremoto, come una frana.
Una rarità.  
A vent’ anni ti senti immortale, re del mondo, campione di vita,  credi di essere arrivato al traguardo non appena ti guardi allo specchio e vedi la barba folta, finalmente, e gli occhi più scuri e consapevoli.
Sei un uomo maturo, fatto e finito. Non hai più bisogno di nessuno, ti senti grande, immenso, invincibile e sei convinto di poter spaccare la terra in due con un pugno.
Se ci fosse l’apocalisse ne usciresti superstite, perché sei così dannatamente forte, bello, intelligente e senti nelle vene questa strana potenza, questa vita nuova che ti investe prepotente.
Credi che nessuno possa abbatterti, ma ti sbagli. Ti sbagli di grosso.  
 A vent’ anni sei un feto, un bambino in un corpo da grande, con il cervello perennemente in pappa e tanti sogni, troppi e troppo impossibili per essere realizzati.
E Luca, a vent’ anni, aveva sogni, obiettivi e possibilità.
 Aveva errori da commettere, una decina di strade sbagliate da scegliere, posti da vedere, gente da incontrare e amori da vivere, che fossero un po’ più belli e meno malati dei precedenti.
A vent’anni aveva la pelle arrossata dai graffi di una ragazza, che un giorno amava e il giorno dopo l’avrebbe ammazzata.
Aveva un amico che era  suo fratello, suo padre e suo figlio e facevano a turno per chi dovesse fare da balia all’altro.
 Aveva un amico che era suo fratello e avrebbe dovuto imparare ad arrangiarsi da solo, sopravvivere a modo suo. L’ultimo ricordo di lui sarebbe stata per sempre una telefonata rapida come la sigaretta che stava fumando, fatta dall’altra parte del mondo, e la voce distorta e le parole incomprensibili che somigliavano tanto ad un:“Devo andare, ci vediamo presto”, ma che potevano essere altre duecento cose.
Luca a vent’anni aveva il respiro, un battito nel petto, la vita.
 Il vestito da morto, quello gli mancava e proprio quello gli sarebbe servito. 
 
La vita è un filo sottile, una serie di tante piccole coincidenze e tante piccole mosse che incolpevolmente ci allontanano o ci avvicinano alle fine e lui, con la fine, ha avuto un impatto violento come un pugno nello stomaco. Gli è andato incontro con la furia di un toro così tante volte che lei, alla fine, ha perso la pazienza e ha deciso che quel piccolo bastardo andava messo al tappeto, incornato per bene contro il muro, così che la smettesse di parlare e non potesse più muoversi.
Gli è andato incontro innumerevoli volte, l’ha cercata e forse bramata, in fondo, in cuor suo.
E’ stata l’ultima cosa che ha fatto, perché lei, poi, se l’è preso.  
 
Io, che avevo un anno più di Luca, non avevo un abito da funerale invece.
 Sapevo come mi sarei dovuto vestire, avevo qualcosa adatto all’occasione che non fosse una felpa enorme di quelle che compravamo insieme, tutte uguali ma di colori diversi. Eppure, un abito da funerale, io non ce l’avevo.  Non avevo un vestito che sarei stato pronto ad impregnare di morte, che mi avrebbe ricordato per sempre, come se non accadesse già ad ogni singolo respiro, che il mio migliore amico, quello che mi lanciò la palla di neve più grande che avessi mai visto nell’inverno in cui a Roma nevicò, che mi salvò la vita quando ci perdemmo in un quartiere sconosciuto, era sepolto tre metri sotto terra.
A marcire. A morire ancora, di nuovo, continuamente.
Un vestito che mi  ricordasse che la neve non l’avrebbe più vista  e non ci sarebbero stati altri inverni da vivere insieme, che i nostri tempi d’oro erano finiti e da quel momento in poi noi sarebbe stato semplicemente io. Non ci sarebbe stato più nulla.
Ero io.
E io non bastavo più da solo.
E non avevo un vestito per il funerale di Luca, non credo esista un vestito del genere.
 
    
 Il cognome del mio amico era un cognome bello, di quelli che sono già un passo avanti per essere famosi. Lui, a differenza mia, non si è mai dovuto ingegnare per trovare un nome d’arte che suonasse bene ed avesse un certo significato.
 Luca Orion, in questo, era stato fortunato.
Un giorno, avremmo avuto quattordici o quindici anni, aveva deciso che per diventare Qualcuno con la Q maiuscola doveva avere un nome all’altezza del suo talento. Ai tempi era ancora acerbo però, faceva fatica a controllare il respiro, sbagliava i tempi, si mangiava le parole e nonostante non glielo dicessi mai, pensavo che il rap non facesse proprio per lui.
Luca, comunque, voleva un nome di quelli che quando li senti non ti escono più dalla testa.
Orion era un cognome assolutamente poco comune, strano, ma con un bel suono ed era il nome perfetto.
Luca  non era mai stato un tipo semplice, si complicava la vita perché fare il giro più lungo e difficile lo faceva sentire migliore, più intelligente e coraggioso. Io, invece, ero diretto, odiavo perdere tempo, sforzarmi, sprecare energie per qualcosa che avrei potuto ottenere molto facilmente.
Non so se si trattò di destino, coincidenza, fortuna o stupidità, fatto sta che, con l’idea più banale del mondo, io vinsi.
Luca si grattava il mento come un uomo fa con la sua barba, carezzando quei pochi peletti che iniziavano a spuntare. Tutto serio mi voltai verso di lui, lo guardai negli occhi e gli proposi uno scambio: un nome per una possibilità.
E forse, per me, fu quello l’inizio di tutto.
Io ancora non avevo mai preso un microfono tra le mani, era un cosa nuova che da solo quasi mi vergognavo a fare. Luca invece lo faceva da un annetto e, agli occhi di tutti i nostri amici, se avesse trovato gli agganci giusti sarebbe potuto arrivare lontano.
All’epoca eravamo circondati da un branco di leccaculo.
All’epoca, probabilmente, lo ero anche io, perché Luca era almeno dieci centimetri più alto di me  e volava troppi metri più su.
Mi guardò sospettoso, la bocca ridotta ad una linea diritta ed inespressiva.
“Che intendi per provare Danié, non è una cosa che decidi di fare e la fai. Devi avere talento, devi studiare, devi avere un certo carattere, la battuta pronta e tu, tu non me sembri proprio tipo”
E non lo ero, non lo ero per niente. Piccolo e secco, con una faccia da bimbo che proprio non voleva trasformarsi in qualcosa di più maturo e squadrato. Se avessi iniziato a sparare rime senza senso sulle canne e la vita ribelle, m’avrebbero solo riso in faccia.
Io non volevo assolutamente questo, ma allo stesso tempo mi sentivo attratto dal microfono come una calamita, volevo stare davanti ad una telecamera e gesticolare e raccontare quello che vedevo e quello che pensavo.
Perché a me piaceva pensare.
Perché avevo qualcosa di più da dire.
“ Fammi provare e io ti dico il nome perfetto”
 
Così il giorno dopo ci vedemmo a casa sua, Luca mise una base e mi diede un microfono in mano. Non disse nulla, mi guardò quasi con strafottenza ed io non sapevo che fare, mi domandavo solo cosa diamine avessi  pensato sarebbe successo una volta afferrato il microfono.
Rimasi zitto, muto, nella più totale vergogna.
Niente, non era successo niente.
Luca mi sorrise vittorioso.
“Il nome prego” Ordinò, venendo verso di me.
“Orion”
Lui rise.
 
Io e Luca poi diventammo inseparabili. Mi insegnò le basi, cercando di elevarsi a professore quando era poco più che un principiante.
Crescendo però migliorò moltissimo, fino a produrre delle canzoni con un buon numero di visualizzazioni ed avere una certa fama in alcune zone di Roma.
Io lo superai, inaspettatamente presi il volo.
Se avessi continuato sarei diventato uno importante, lo so io e lo sanno gli altri, ma poi mio fratello è morto ed io, il coraggio di realizzare i miei sogni, l’ho perso. 
Ero Wise, il saggio.
A Roma e dintorni mi conoscevano così.
 
 
Benedetta si trasferì nel nostro quartiere che avevo compiuto diciotto anni da poco. La mia era stata una festa enorme, con fiumi d’alcol, tanta erba ed una serie di sconosciuti che mi fermavano per farmi gli auguri senza neppure sapere come mi chiamassi.
 Nel corso di quegli anni ero cambiato incredibilmente, trasformandomi  in uno sfacciato e presuntuoso agitatore di masse, il capo del mio gruppo d’amici, che erano tutti un po’ degli infami, ma sapevano fingere bene.
Ero un coglione insomma, un coglione vero, impazzito per la sua nuova immagine.
Non ero più un ragazzino tutto pelle e ossa, certo non ero molto muscoloso, ma avevo messo su massa, dovevo farmi la barba praticamente ogni giorno e le mie mascelle erano squadrate e definite.
Mi sentivo più uomo di mio padre.  
Ora era Luca a venirmi appresso,  con la sua camminata molleggiante, le spalle curve e tanti rasta sulla testa, anche lui sentendosi Dio sceso in terra.
Conobbe Benedetta in un giorno di luglio, nella solita maniera banale con cui i ragazzi approcciavano con le ragazze.
Dopo settimane di sorrisini e sguardi complici si decise a scriverle sui social, rendendosi conto che fissarla in autobus non avrebbe mai portato a nulla.
Io lo presi in giro a lungo “Senza palle”, lo chiamavo.
Quello era l’approccio dei codardi, di chi ha paura di fallire. Io, il fallimento, nemmeno lo prendevo più in considerazione.  
Ero forte, io.
Ero famoso.
 “Quella mi da un palo clamoroso. Dico, ma l’hai vista? E’ una dea.” Replicava lui, con occhi sognanti.
 
Il loro fu inizio piatto, uno di quelli che non sono fatti per essere raccontati. Ma infondo nulla della vita di Luca Orion è stato epico, o anche solo bello da sentire.
E’ che io e Luca eravamo così: stupidi, immaturi, imperfetti.
 Alla gente i personaggi come noi non piacciono, nei libri sono sempre i cattivi oppure i poveri disgraziati che devono essere salvati.
Ma noi non ci sentivamo persi e neppure malvagi, ci sentivamo solo giovani.
Comunque, tra Luca e Benedetta, è iniziata così e finita peggio e nel mentre, come storia, ha fatto veramente schifo, eppure posso giurare di non aver mai visto Luca così innamorato di qualcuno, per un po’ mi sembrò quasi la amasse più di quanto non amasse se stesso.
Più di quanto amasse me, addirittura.
Finii per odiarla.
 
Benedetta era una ragazza bellissima, forse troppo bella per uno come Luca, uno che non sapeva apprezzare l’arte, la dolcezza di una carezza, il colore rossastro delle guance dopo un bacio improvvisato e per nulla aspettato. Aveva i capelli di un biondo così chiaro che sembrava finto e quegli occhioni verdi che a vederli rimanevi un po’ incantato, occhi furbi, solari, sempre sorridenti.
Era anche una grandissima stronza però, una di quelle che vogliono comandare senza compromessi, una di quelle che sembrano più bambina che donna.
Faceva i capricci, si lagnava dalla mattina alla sera e dalla mattina alla sera Luca le urlava contro di smetterla, che era petulante e fastidiosa, che l’avrebbe lasciata, che gli stava sul cazzo quando faceva così.
Ma poi lei, sul suo cazzo, ci finiva letteralmente e a quel  punto non era più capace di lasciarla.
Sono convinto che Luca la odiasse quanto me, Benedetta, con ogni fibra del suo essere, ma che senza di lei non  riuscisse neppure a respirare a pieni polmoni, schiacciato dal peso della sua assenza.
Era una droga, ogni volta che si lasciavano, dopo nemmeno una settimana cedeva, iniziava la crisi d’astinenza.
E allora decideva che lui, di quella stronza là, era innamorato.
Mi chiedo ancora perché, cosa ci trovasse in lei.
E cosa trovasse lei in lui.
Erano due stupidi, due stupidi ragazzini inesperti e troppo sicuri.
   Erano pazzi, l’uno per l’altra.
 
La prima volta che vidi un livido sul faccino angelico di Benedetta le chiesi spiegazioni senza supporre nulla e lei mi disse che era caduta dalle scale.
Le crebbi, perché  Luca non avrebbe mai potuto farle del male e non avrebbe permesso che le venisse fatto. Non presi neppure in considerazione l’idea che il mio amico fosse violento con lei.  A lui non chiesi mai niente.
Ero consapevole che negli anni Luca era diventato un animale, una bestia chiusa in gabbia, che aveva perso la testa, che era stressato per la sua carriera che non decollava, irascibile, rabbioso.
Era un essere umano della peggior specie, Luca, ma con noi, con le persone che amava, era diverso. Almeno mi illudevo fosse così.
Era più facile.
La verità è che il mio migliore amico metteva le mani addosso alla sua ragazza ed io non me ne sono mai accorto, forse non ho voluto.
Dopo che Luca è morto, Benedetta mi ha raccontato tutto piangendo come una disperata.
Mi ha confessato che non gliene fregava nulla se la picchiava un giorno si e quello dopo pure, che si sarebbe fatta ammazzare pur di averlo di nuovo tra le braccia, vivo e caldo.
“Lo faceva per me, perché mi amava come nessun’altro. Io lo facevo preoccupare così tanto Dani.  Lo facevo anche apposta, mi divertiva innervosirlo, esasperarlo. Era l’unico modo che avevo per sentirmi amata. Lo sfidavo e lo provocavo e lui mi amava, allora.
Lo faceva per me.
 Lo faceva per me, Luca non era cattivo lo sai meglio di me”
Io ho scosso il capo per così tanto che poi mi è girata la testa per un po’, l’ho guardata con occhi titubanti e feriti.
Erano malati, tutti e due.
E io non conoscevo minimamente il mio amico.
Poi ho pianto.
 
Luca partì per Londra dopo l’ennesima rottura con Benedetta.
Cercava la fortuna, cercava la vita vera ed io mi sentivo abbandonato, messo da parte, meno importante di quel sogno impossibile che era fare successo.
 Se non ci riusciva qui, come pensava di farcela lì?
Perché, poi, voleva andare così lontano?
Io non lo capivo Luca, non lo capivo davvero più. Preso dall’egoismo e dal rancore gli sputai contro, il giorno della sua partenza, poco prima che salisse su quel dannato aereo, tutti gli insulti e le cattiverie che mi passavano in mente, senza alcun filtro, andando a colpire lì dove sapevo gli avrebbe fatto più male.
Mi sentivo abbandonato.  
“Buono a nulla”                  
 “Stai perso, mangiato dalla droga, come pensi di farcela lì?”
 “Egoista”
“ Mi fai schifo Lu”
 
Luca non è rimasto comunque e quella è stata l’ultima volta che l’ho visto, l’ultima occasione per dirgli che era un bastardo figlio di puttana, il genere di stronzo che ti abbandona in mezzo ad amici falsi, in una città dalle strade troppo grandi per camminarci da solo, ma che gli volevo bene.
Che lo amavo, come si ama un figlio, un fratello, una madre.
Come si ama la persona con cui sei cresciuto, quella che in qualche modo è uguale a te, che è parte di te.
Quella a cui perdoneresti tutto.
Perché questo ho fatto con Luca, prima e dopo la sua morte.
Perché nonostante Benedetta, nonostante la vera natura del mio amico, nonostante tutte le stupidaggini che ha fatto nella sua breve vita, io l’ho amato.
E lo faccio.
E lo farò sempre.
 
Luca è morto poco dopo la nostra ultima telefonata.
Stava fumando una sigaretta con i suoi coinquilini, prima di uscire di casa, salutare la sua nuova città e salire sull’aereo che l’avrebbe riportato a casa.
Era stata sua madre a convincerlo. Voleva abbracciarlo, le mancava terribilmente e anche a me.
“Qui le cose non vanno Daniè. Mi mancate tutti, Benedetta, i ragazzi, tu. Mi sembra di impazzire Daniè, ho fatto una cazzata epica”
Poi si è ammutolito un po’, probabilmente cercando di capire qualcosa nel caos intorno a lui.  
“Devo andare, ci vediamo presto”
Mi ha detto, poi ha attaccato, senza darmi il tempo di replicare.
“Non vedo l’ora, fratello” Ho sussurrato, al vuoto, col sorriso stampato in volto, ignaro che a casa non ci sarebbe arrivato mai.
 
Il volto di Luca è apparso sui giornali, in prima pagina per circa tre giorni, poi la gente si è scordata di lui, di quel ragazzo troppo giovane, troppo innocente, troppo lontano dalla sua famiglia.
Quindici settembre.
Quindici settembre duemiladiciassette.
Luca aveva vent’anni e stava tornando da noi. Nella valigia aveva riposto con attenzione un peluche per Benedetta, che sapeva non sarebbe mai stato abbastanza per farsi perdonare, ed una maglietta del Arsenal per me.
Luca stava tornando a casa quando la metro è esplosa. E’stato un secondo, probabilmente non se ne è neppure accorto, probabilmente è da qualche parte, ancora convinto di essere in viaggio, i rasta malmessi in testa e gli occhi scuri disorientati.
Sono stati i terroristi, è stata la sentenza.
Ma a me non va bene, non andrà mai bene, non mi darà mai pace. Ho un colpevole, ho qualcuno contro cui imprecare, ho qualcuno contro cui bramare vendetta, ma la verità è che non mi interessa, è che non mi basta.
Non ho un nome.
Non ho un nome, un viso, un paio di iridi da collegare alla morte di Luca.
Non ho uno sguardo spietato, non ho una storia, non ho nessuno a cui strappare il cuore nel petto.
Non h0 niente.
Non so niente.
Non so perché Luca sia morto, Luca non ci credeva in Dio, Luca non si interessava di politica, Luca stava tornando dalle persone che lo amavano.
Non so perché dovesse succedere proprio lì, in quel momento e non il secondo prima o quello dopo, perché il suo vagone.
Non so perché sia stata proprio la sua pelle a bruciare, perché sia proprio sua madre a patire quella pena.
So  solo che lei  non è riuscita a riconoscere suo figlio  in un corpo martoriato.
So che Luca è morto e che marcisce sotto terra.
So che la gente come lui non manca, che la gente come lui non dovrebbe mancare, ma io non riesco a levarmi dalla testa l’immagine del ragazzino che mi metteva in mano il microfono, del suo sguardo strafottente,  di sfida.
Non riesco a dimenticare quella volta, quando mi sono rotto una gamba mentre giocavamo nel boschetto vicino casa, lui mi ha preso in braccio e con le gambe traballanti mi ha portato a casa o quando mi ha stretto la mano mentre ero bloccato in letto d’ospedale, dopo un incidente in motorino.
Non dimentico il suo sorriso confortante, quella tacita promessa di esserci sempre.
Non dimentico la prima sigaretta e la tosse che sembrava ucciderci, la prima canna e quel non capirci niente. Non dimentico la febbre che ci colpiva contemporaneamente, perché uno l’ attaccava all’altro, e allora tanto valeva passare le giornate insieme comunque a giocare ai videogames.
Le persone come Luca non mancano, ma io sento di essere morto con lui, quel giorno di settembre.
Sento che la musica non mi piace più, che non mi piace più niente.
Sento che la mia ferità non guarirà mai.
 
A vent’  anni non ce l’hai un vestito da morto. La madre  di Luca ha comprato un bel completo da far indossare quel corpo freddo e mutilato. Quando mi ha mostrato la giacca ho riso. “Almeno ora  non si potrà lamentare” Ho detto. Un secondo dopo ero in lacrime tra le braccia di una donna che aveva appena perso suo figlio, quando avrei dovuto essere io a consolare lei.
 
A ventuno anni avevo un amico che era mio fratello, mio padre e mio figlio, alle volte.
Facevamo a turno per chi dovesse fare da balia all’altro.
Eravamo inseparabili.
Eravamo eterni, come la nostra città.
Non avevo calcolato i rischi. Quando ti leghi così a qualcuno e poi se ne va, perdi un pezzo di te, il migliore, il lato buono, anche se di buono avevamo poco.
A ventuno anni non avevo un vestito da funerale.
La forza di vedere la tomba del mio amico, quella non l’ho avuta mai.
 

 
 
 
 
   
 
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