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Autore: Adeia Di Elferas    09/02/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Machiavelli si schiacciò più che poté il ciuffo di riccioli sulla testa, ma la sua attenzione, in realtà, era così catturata da quello che si stava gridando alla Signoria da non rendersi nemmeno conto di quanto la sua manovra fosse stata inutile.

“Questo è un ordine del papa! Quel frate deve essere interdetto da ogni possibilità di tenere orazioni e prediche!” stava gridando Lorenzo Medici, indicando con l'indice il documento che il Gonfaloniere Valori aveva messo in bella mostra.

Proprio quest'ultimo, prendendo le parti del frate in modo plateale, come non faceva da mesi, si alzò dal pulpito e, richiamando i palleschi all'ordine, vociò: “Quella del papa è solo una misura cautelare!”

“Il papa dice chiaramente di mandargli Savonarola a Roma!” sbottò Lorenzo, divincolandosi dalla presa dei suoi e portandosi nel centro del salone, sotto agli occhi di tutti che, riconoscendo in lui un carisma che gli era mancato per molto tempo, si erano messi a tacere per ascoltarlo.

Anche Niccolò, che stava in mezzo alla folla di curiosi accorsi per assistere alla diatriba, quasi non fiatava.

Il Popolano non gli era mai piaciuto molto. Lo aveva sempre trovato troppo lento e mesto, rispetto al suo indimenticato omonimo, il Magnifico, ma adesso doveva riconoscergli una notevole capacità di resistenza.

Malgrado i tremendo pettegolezzi che giravano su suo fratello, rimasto ammaliato dalla Sforza in Romagna, al punto da averla messa incinta e da aver cominciato a lavorare per i suoi interessi contro quelli fiorentini senza ricavarvi nulla se non grane, e malgrado le difficoltà non solo con l'opposizione, ma anche con gli stessi sostenitori dei Medici, Lorenzo tirava dritto per la sua strada, senza guardare in faccia più a nessuno.

Aveva trasferito in pianta stabile la famiglia fuori città e anche lui, a volte, passava la notte lontano da Firenze. Dicevano che non avesse altri svaghi se non la politica e che sua moglie non dovesse temere altre signore se non Firenze. Dicevano di lui anche che avesse mandato di proposito il fratello a Forlì nella speranza che fosse lui a sedurre la Tigre e non il contrario, inducendola a piegarsi ai voleri della Repubblica. Dicevano di lui anche che non lo si vedesse ridere da anni, ormai, e dalle sue labbra non uscivano parole che non avessero a che fare con lo Stato o con il suo governo.

Machiavelli non sapeva quanto ci fosse di vero nelle voci che lo volevano taciturno in casa, quanto di grandi discorsi alla Signoria. Sapeva solo che i suoi occhi erano tormentati, le sua guance visibilmente più scavate e che se in anni passati il suo tormento era – a detta di tutti – stato la vendetta verso i cugini, ormai quel pensiero prevalente aveva lasciato il posto al suo degno successore: la ricerca del potere.

“Il papa dice di mandarglielo a Roma o – fece notare il Gonfaloniere di Giustizia, sottolineando in modo molto scenico l'avversativa – di tenerlo a Firenze, a patto che sia controllato!”

“E siccome controllare una simile lingua è un'impresa da Titani, io dico di spedirlo a Roma! Che il papa se ne occupi! Vi rendete conto che se fallissimo nel tenerlo a bada, il Santo Padre ha scritto che lancerà l'interdetto su Firenze? E la confisca dei beni a tutti i mercanti fiorentini al di fuori della nostra città?” rimbrottò subito Lorenzo, seguito da moti di approvazione dei suoi.

Mentre le due parti si scontravano aspramente l'una contro l'altra, Niccolò aveva già intuito da che parte sarebbe andato l'ago della bilancia. Un uomo come Francesco Valori era bravo a fare il bon viso a tutti, quando non si rischiava nulla, ma ora che era in gioco Savonarola, era ovvio che avrebbe fatto pesare il suo volere.

Dopo un po' Machiavelli decise di lasciare la sala, frastornato dalle grida dei fiorentini del pubblico che, da bravi caproni, così come avevano fornito la legna per il Falò delle Vanità, così ora fornivano la cornice a quello scempio della democrazia.

Aveva raggiunto faticosamente la soglia, quando sentì la voce del Gonfaloniere annunciare: “E sia, allora! Che i canonici del Duomo abbiano cura che Savonarola non predichi più! La seduta è tolta!”

Con un sorrisetto amaro, Niccolò annuì appena tra sé e pensò: 'E adesso mangiati il fegato, caro Lorenzo Medici'.

 

Il vino di Perugia era parso estremamente amaro, a Bartolomeo. Non sapeva dire se fosse colpa della bevanda in sé o solo colpa dei suoi pensieri, che avevano dato un sapore strano a tutto quanto, da quando era lì.

Durante quell'ultima cena di festeggiamenti, l'Alviano aveva bevuto tantissimo, e lo aveva fatto di proposito. Gli era stato detto che, coma da usanza, nella camera degli sposi sarebbe stata presente una manciata di testimoni.

“Una cosa molto discreta – aveva assicurato il cerimoniere – in riguardo anche alla vostra recente vedovanza e alla delicatezza e purezza della vostra nobile sposa.”

Bartolomeo lo aveva ascoltato solo con un orecchio e aveva cominciato a bere. Ragionandoci sopra, si era detto che non essere lucido sarebbe stato l'unico modo per arrivare indenne al mattino seguente.

Tutti, soprattutto chi era stato in guerra con lui come Giampaolo Baglioni, sapevano che non era un uomo dedito al bicchiere, tuttavia, vista la scusa della festa, nessuno parve far caso alla quantità di vino che trangugiò.

Alla fine del banchetto era tanto pieno e perso che dovettero dirgli per tre volte di alzarsi e seguire la sua sposa al talamo nuziale, passando per la messa a letto.

Mentre gli invitati lo spintonavano verso la stanza preparata per lui e Pantasilea, Bartolomeo non riusciva a pensare a nulla se non al ridicolo monile che Todi, la città che lo aveva visto nascere, gli aveva fatto recapitare come dono di nozze.

Un cortigiano dei Baglioni, espertissimo in gioielli, l'aveva osservato con attenzione. Era un cratere d'argento con lo stendardo comunale. Già di per sé sapeva di presa per i fondelli.

“Otto fiorini e non mi sbaglio.” aveva annunciato trionfale, dandolo indietro al legittimo proprietario: “Non può valer più di quella cifra.”

“Otto fiorini...” borbottò tra sé l'Alviano mentre, gli abiti quasi del tutto sfilati via, veniva trascinato dalla ressa verso la sua nuova camera da letto.

Quando lo buttarono dentro con risate e battute grasse, per un istante, malgrado il vino e malgrado il ricordo dell'economico regalo di nozze fatto da Todi, Bartolomeo ebbe un momento di smarrimento.

Pantasilea era già coricata, in sua attesa. Non la guardò. Sentiva gli occhi dei testimoni designati nascosti nel buio della stanza. Si sentiva rallentato e incapace. Inciampò in quello che doveva essere uno sgabello o forse un'ottomana. La sua vista annebbiata per via del vino gli serviva poco in quella misera penombra...

Quando trovò il materasso, vi si gettò sopra con un sospiro, desideroso solo di dormire. Ma sentiva i testimoni vociare. Sapeva cosa doveva fare e cosa tutti, perfino Bartolomea, si aspettavano da lui.

Bastò quel piccolo ricordo, quello di sua moglie che, ancora viva e abbastanza in salute, lo svegliava nel cuore della notte per dirgli che avrebbe dovuto risposarsi.

Si ricordò di quanto e di come si erano amati negli anni del loro matrimonio e il desiderio di averla di nuovo si fece strada nel suo petto.

Reso cieco e sordo dal vino e dai ricordi, non trovando in Pantasilea una donna difficile da convincere, Bartolomeo serrò gli occhi e fece quello che tutti volevano che facesse, anche se con la mente fu solo Bartolomea che cercò, solo lei e solo il suo corpo. Tutto il resto, per quanto apparentemente reale e tangibile, per lui era solo un inganno.

 

Qualcuno bussò alla porta dello studiolo del castellano. Caterina, che vi era rintanata assieme a Cesare Feo e al Capitano Mongardini per discutere delle risorse ulteriori da mandare a Rimini, diede il permesso di entrare a chi bussava. Era Giovanni.

“Te puoi anche non annunciarti.” gli ricordò la moglie, tornando a sedersi sulla poltrona che un tempo era stata di Giacomo.

Il Medici allargò appena le braccia: “Preferisco farlo, non si sa mai.”

Non capendo se fosse una facezia o una considerazione più seriosa, la Contessa notò la lettera che il marito portava con sé e chiese: “Novità?”

Il fiorentino annuì e guardò un momento la Tigre, come a chiederle il permesso di parlare anche davanti al castellano e al Capitano. Ricevendo il suo silenzioso via libera, l'uomo si schiarì la voce e riassunse in fretta quello che Semiramide gli aveva scritto in merito all'ingiunzione papale contro Savonarola.

“E quindi finalmente lo manderanno a Roma per processarlo?” chiese Caterina, ravviandosi i capelli biondi e bianchi, tenuti sciolti, come li teneva ormai praticamente sempre, salvo durante gli impegni più formali.

“No, no...” dovette ammettere il Medici, andandosi a sedere sul bracciolo della poltrona, accanto a lei: “Lo tengono a Firenze, per il momento. Gli si impedirà di fare discorsi pubblici, ma per il momento nulla di più.”

Il castellano e il Capitano, nel vedere il fiorentino sistemarsi tanto vicino alla Sforza, si scambiarono uno sguardo particolare. Non erano particolarmente scandalizzati, né sorpresi. In fondo sapevano come tutti che il merito del pancione della Leonessa era dell'ambasciatore, tuttavia, ogni volta che i due si mostravano con semplicità a quel modo, i presenti venivano messi sempre un po' in difficoltà.

Il loro matrimonio non era stato un vero e proprio matrimonio clandestino, anche se nessuno ci aveva tenuto a sbandierarlo, e anche il figlio che avevano concepito non era mai stato tenuto davvero segreto – come invece si era fatto con Bernardino – ma nemmeno se ne parlava mai in modo troppo aperto.

Insomma, nessuno capiva mai fino a che punto la Contessa e il Popolano fossero disposti a mettere in mostra la loro unione né fino a che punto preferissero che restasse in secondo piano.

“Be', comunque sia – riprese la Sforza, appoggiandosi una mano sul ventre, l'espressione corrucciata – il papa ha dimostrato una certa buona volontà, per il momento.”

Giovanni annuì e poi soggiunse: “Se riuscisse a fare qualcosa in più, potremmo prendere in considerazione in modo più serio le sue proposte, non credi?”

La donna annuì e poi disse al castellano e al Capitano: “Potete lasciarci soli un momento?”

Tanto Cesare Feo quanto Mongardini annuirono subito e voltarono i tacchi senza nemmeno provare ad approfondire la questione.

Rimasti soli nello studiolo del castellano, Caterina afferrò per il colletto del giubbotto il Medici e lo tirò a sé per baciarlo. Giovanni, ovviamente, la lasciò fare, ma poi la fissò, tra il divertito e l'interrogativo.

“Li hai fatti uscire solo per questo? Ci hanno visti mentre ci baciavamo anche altre volte...” le disse, con un mezzo sorriso.

“No, non solo per questo.” rispose la Contessa, mentre ogni traccia di ironia svaniva dal suo viso, lasciando il posto a una grande serietà: “Sono giorni che non piove. Gli astrologi dicono che potrebbe andare avanti così fino a quest'estate. Le gelate di dicembre e gennaio hanno già rovinato buona parte dei campi e la siccità potrebbe fare altrettanto con quelli ancora produttivi.”

“Temi una carestia?” parafrasò il fiorentino, appoggiando una mano sulla spalla della moglie.

Caterina, istintivamente, fece correre lo sguardo alle dita del marito. La mano destra, per il momento, era stata quasi del tutto risparmiata dalla gotta, eccezion fatta che per il quinto dito. Anzi, adesso era sull'anulare destro che portava il nodo coniugale, perché a sinistra non ci stava più.

Rapido nel sottrarsi alla vista della moglie, come ogni volta in cui la trovava assorta nel fissare ciò che la sua malattia gli stava silenziosamente facendo giorno dopo giorno, il Medici ritrasse la mano e si alzò, fingendo che quel gesto repentino fosse dovuto solo al suo bisogno di andare alla scrivania per appoggiare la lettera che portava con sé.

“Una carestia, e anche un'epidemia di qualcosa. Vanno sempre di pari passo, lo sai.” fece Caterina, sentendo i propri timori ingigantirsi, ora che aveva rivisto davanti a sé l'ombra del futuro che li attendeva: “E io ho paura.”

Siccome le sue mani erano corse di nuovo al suo pancione, Giovanni comprese che quella paura era estesa anche al futuro del loro figlio non ancora nato e gli si strinse il cuore al pensiero.

“Posso provare a cercare di assicurarci almeno il grano, ma quest'anno si preannuncia di magra per tutti. Non so cosa riuscirò a trovare.” si propose subito il Medici.

“Pandolfo è scappato a Ravenna. Ha chiamato i Veneziani. Dicono che appena la rivolta in città sarà sedata, tornerà.” proseguì la Sforza, dando voce a tutte le cose che la stavano tormentando quel giorno: “Ho deciso di ritirare le mie truppe sul confine. Almeno finché ci sono di mezzo gli uomini del Doge.”

“Hai fatto bene.” fece Giovanni, appoggiandosi alla scrivania e incrociando le braccia sul petto.

La Tigre si immaginava un commento del genere. Suo marito era stato contrario a quell'azione offensiva fin dall'inizio. Probabilmente, si trovò a pensare, sarebbe stato il genero ideale per sua madre Lucrezia. Anche lei premeva sempre affinché si facesse la pace.

“C'è altro?” chiese il Medici.

Guardava la moglie in modo strano. La donna non capiva fino in fondo se fosse una semplice richiesta per esserne messo al corrente o se ci fosse sottesa anche una minima vena di insofferenza.

Appena incrociò le sue iridi chiarissime, si rese conto che non era insofferenza, la nota strana che aveva sentito nella sua voce, ma solo stanchezza.

Anche se era giovane e pieno di voglia di vivere e di fare, in quelle ultime settimane il Medici era parso un po' appesantito, come se qualcosa lo impensierisse più del solito. Il suo passo si era fatto ancor più claudicante, e di reazione, aveva ripreso una dieta strettissima, che gli lasciava poca scelta nei cibi e poca libertà nelle quantità. Come risultato, spesso alla sera era stremato e il suo fisico si era fatto ancor più asciutto di quanto già non fosse.

La Tigre aveva osservato questo lento deperimento con attenzione. Ogni volta che lo spogliava, ogni volta che se lo trovava accanto nel letto, quando seguiva l'onda delle sue coste sul petto, la trovava sempre più delineata. Evitava di controllargli le gambe e i piedi, perchè sapeva che Giovanni si sentiva debole, nello scoprirla mentre valutava lo stato della sua malattia e, per un uomo come lui, sentirsi debole davanti alla donna amata era una delle cose peggiori al mondo.

“Solo una cosa.” fece Caterina, rispondendo con un certo ritardo alla domanda del marito.

Il Popolano restò in attesa, mentre la moglie, puntellandosi un po' sui braccioli, si rimetteva in piedi e gli si avvicinava.

La Tigre prese la mano destra del marito tra le sue e le posò sul suo pancione e disse, con voce bassa: “Lui ha voglia di conoscerti.”

La serietà con cui l'aveva detto e poi il sorriso che l'aveva accesa, suscitarono una breve risata nel fiorentino, facendogli riacquistare quel velo di allegria che aveva sempre avuto, da che Caterina lo conosceva. Era una delle cose che, più di tutto il resto, avevano conquistato la Leonessa.

“Anche io.” confermò il Medici: “Vorrei che fosse già nato. Così potremmo passare più tempo insieme.”

Ancora una volta l'ombra scura gettata dalle sue parole fece capire alla Contessa che nemmeno Giovanni era facile da mettere di buon umore, quando non lo era per conto suo.

Stando attenta all'ingombro dovuto al pancione, Caterina abbracciò il marito e poi lo baciò, dapprima con dolcezza, poi sempre con maggior convinzione. Anche se non era stata quella la sua prima idea, in breve si trovò a cercare di più.

Il Medici, puntellato contro la scrivania del castellano, ragionò in fretta, mentre la Tigre si faceva sempre più esplicita nel cercarlo, e alla fine, senza badare troppo alle remore che aveva avuto fino a quel momento nei confronti delle cose che richiamavano alla memoria della moglie il suo amato Giacomo, si sottrasse un istante da lei e andò verso la poltrona. Si sedette, il laccio delle brache già snodato dalle mani veloci della donna, e fece sistemare Caterina sopra di sé.

“Un mese...” gli sussurrò la Sforza, indicando con lo sguardo il proprio ventre prominente che stava tra loro: “Un mese e sarai padre...”

“Non sarò troppo incosciente per essere un padre?” scherzò il Medici, baciandole il palmo della mano e ricominciando a sollevarle le gonne.

Istintivamente la Contessa guardò verso la porta, pensando che in effetti era rimasta aperta. Poi pensò a tutte le altre volte in cui non si erano curati di quel genere di dettagli e così, con una risata spense le ultime – finte – ritrosie del marito.

 

Pandolfo, la mattina precedente, dopo l'esecuzione pubblica di Borso da Ferrara, aveva ripreso possesso del suo palazzo.

I veneziani avevano lasciato una gran confusione in casa sua, ma almeno avevano fatto ripiombare Rimini in una sorte di Pax Augustea ottenuta con la forza, ma apparentemente stabile quanto quella costruita con la pazienza delle parole.

Non aveva fatto sciogliere i suoi bagagli, però, perché il giorno dopo sarebbe ripartito, alla volta di Bologna, assieme a cinquecento cavalieri. Doveva discutere con lui di molte cose. Venezia gli aveva chiesto di mediare con i Bentivoglio, essendo imparentato con loro, e Pandolfo voleva agire prima che quell'impiccione di Violante scrivesse al padre per rovinare tutto.

In realtà era abbastanza certo che sua moglie non scrivesse al padre da mesi, se non da anni. Non lo amava molto, così come Giovanni Bentivoglio non aveva mai amato molto lei. Però, se si trattava di mettere i bastoni tra le ruote a lui, forse sua moglie sarebbe passata sopra al proprio astio verso la famiglia d'origine...

“Oh, proprio voi...” fece il Pandolfaccio, quando incrociò il medico di corte, che era appena stato da Violante: “Quanti mesi pensate che si debba ancora aspettare per la mia consorte, prima di provare ad avere un altro figlio?”

Il dottore, un anziano dalle folte ciglia bianche, fece un'espressione stranita e poi rispose: “Ma io credevo che vostra moglie ve l'avesse detto...”

“Cosa?” domandò il Malatesta, sudando freddo e già temendo il peggio, proprio quando Venezia premeva per una maggior solidità dell'alleanza con Bologna.

“Che malgrado abbia perso da poco il figlio che portava in grembo, madonna Violante è già in perfetta salute e pronta a generare. Una forza della natura, ve lo posso assicurare. Credevo che la vostra sposa ve l'avesse subito comunicato...” fece il vecchio, ma finì il discorso in solitudine, perché il Pandolfaccio era già filato via.

“Ci vorranno mesi!” gridò l'uomo, spalancando la porta della camera della moglie: “Così mi avevi detto, no? Mesi! Il dottore è stato chiaro!”

Violante, immobile nel letto, lo fissò con gli occhi spalancati. Sapeva che prima o poi quel vecchio rimbambito del medico che Pandolfo le aveva messo alle coste si sarebbe lasciato scappare la verità, ma non credeva tanto presto.

“Adesso ti faccio vedere io...” ringhiò il Malatesta, iniziando ad armeggiare con il cinturone, facendolo cadere in terra e sfilandosi le brache.

“Fermo!” fece Violante, saltando giù dal letto: “Ti prego! Aspetta!”

Ma il Pandolfaccio era furente e ferito nell'orgoglio. Si sentiva preso in giro e dileggiato. Da una donna, per giunta.

“Venezia vuole un erede e, dovessi anche ucciderti per farlo, io l'avrò!” sbraitò e, dopo averla inseguita per mezza stanza, riuscì a fermarla, bloccandole le braccia dietro la schiena, e si impose su di lei come aveva già fatto troppe altre volte.

 
   
 
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