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Autore: Adeia Di Elferas    14/02/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Antonio Landi si passò la mano sulla fronte, trovandola coperta da un velo di sudore. Quel marzo, a Venezia, il clima era tutt'altro che primaverile.

Le barche ormeggiate sbatacchiavano contro il bordo dei canali e la piazza era così umida e fredda da ricordare al membro del Consiglio dei Dieci una landa desolata e spersa di qualche paese lontano.

Stringendosi nella cappa come meglio poteva, infreddolito anche per colpa degli abiti bagnati di sudore, Landi avanzò a passo deciso verso il palazzo del Doge, chiedendosi il perché di una convocazione a quell'ora.

Nella bisaccia aveva ancora gli ultimi soldi che Trevisan gli aveva passato quella mattina in cambio di nuove informazioni. Anche se era danaro del tutto normale, ad Antonio pareva che pesasse il doppio e aveva quasi paura che quegli anonimi ducati potessero apparire a chiunque come un'ammissione di colpa.

Quando varcò la soglia del palazzo, passando con noncuranza accanto alle guardie, da un lato si sentì meglio. Almeno si era tolto dal gelo innaturale che batteva la piazza quasi deserta.

La luce delle torce lo accecò un istante, mentre si allentava il mantello e faceva un paio di profondi respiri per calmarsi.

Non aveva ancora avuto modo, però, di guardarsi in giro, che sentì la voce prepotente del capo delle guardi intimargli di stare fermo. Istintivamente, Landi sollevò le braccia, cominciando all'istante a invocare pietà.

Quando due soldati lo presero, uno da una parte e l'altro dall'altra, Antonio cominciò a pregare sommessamente tra sé. Lo frugarono e trovarono la bisaccia piena di monete. Di per sé non era una prova, ma il modo in cui il Consigliere provò subito a schermirsi fu l'accusa più lampante possibile.

“Portatelo in cella.” decretò Barbarigo, che era arrivato alle spalle delle sue guardie: “Domani verrà processato all'istante per aver divulgato notizie riservate discusse nel Consiglio dei Dieci. Vedete di scoprire chi è esattamente il suo mandante.”

 

Su Forlì era sceso un vento gelido che spazzava via tutto, dalla polvere delle strade ai cappelli dei passanti.

Caterina aveva deciso di uscire dalla rocca quando ormai era quasi sera. Voleva andare da Bernardi, e voleva farlo in un'ora tranquilla.

Sapeva che era da molto, troppo tempo che non gli faceva visita e in un certo senso temeva di vedersi accogliere con freddezza. Tuttavia, ormai era prossima a partorire e mai come in quei giorni si sentiva vulnerabile.

Anche se non aveva mai voluto prendere seriamente in considerazione l'ipotesi, doveva rendersi conto infine che un parto era un grosso rischio, soprattutto alla sua età. Giovanni non le aveva più detto apertamente di essere in ansia, visto anche quello che era successo a sua madre nel darlo alla luce, ma da certi suoi atteggiamenti la moglie aveva ben compreso quanto fosse in apprensione.

Senza volerlo, anche la Tigre aveva cominciato a condividerne alcuni piccoli nervosismi e così si era trovata a pensare a che ne sarebbe stato dei suoi figli, compreso quello che stava per nascere, e di suo marito, se fosse morta.

Aveva un discreto giro di Consiglieri che, ne era certa, avrebbero aiutato Giovanni a venire a capo delle questioni più grosse, ma sapeva anche che ai suoi familiari sarebbero servite persone ancor più fidate. Il Novacula ne era un esempio.

Nel corso degli anni, malgrado certe piccole o grandi incomprensioni, era sempre stato un validissimo alleato della Sforza e un suo fidatissimo confidente.

Quando si trovò davanti alla porta della barberia, la Contessa fece un sospiro ed entrò.

Il barbiere, di spalle, non la vide subito. Stava sbarbando un uomo sulla quarantina ed era totalmente assorto nel suo lavoro.

Convinto che a essere appena entrato fosse un avventore un po' ritardatario, sollevò un momento la mano in cui teneva il rasoio e borbottò: “Un momento e sono da voi.”

Caterina, senza rispondere a quella frettolosa rassicurazione, si mise su una delle sedie che stavano contro la parete, in attesa. Aveva il ventre teso all'inverosimile. Secondo il suo medico, quel bambino doveva essere già molto grande, più di tutti quelli che la donna aveva partorito fino a quel momento.

“È perché è già l'ottavo.” aveva detto il dottore, con fare di ovvietà.

La Leonessa non aveva commentato e aveva solo sperato che, proprio perché era già l'ottavo, tutto filasse liscio come le prime sette volte.

“Ecco qui.” esclamò il Novacula, passando lo straccio sul mento ben rasato del cliente e mettendosi subito in tasca la moneta con cui era stato pagato: “E adesso, prego...” iniziò a dire, ma la voce gli morì in gola quando, nel voltarsi, si rese conto di chi era l'ultimo avventore della giornata.

Il cliente appena sbarbato ringraziò di nuovo e uscì, non senza lanciare uno sguardo incuriosito alla Contessa e al barbiere che, senza dire una parola, si fissavano in silenzio.

“Avete bisogno di qualcosa?” chiese dopo un bel po' Andrea, mettendosi a pulire il taglio della lama contro il suo straccio di cuoio.

La donna si morse il labbro, una mano sulla pancia e lo sguardo evasivo.

“Immagino non vi servano i miei servigi per trovarvi compagnia per la notte.” la punzecchiò il barbiere: “Direi che avete già accanto un uomo che sa far quel che deve.” e indicò con fare malizioso il ventre prominente della sua signora.

Infastidita tanto dal tono, quanto dall'argomento, la Tigre, senza riuscire a evitare di arrossire, ribatté: “Sono qui solo per ringraziarvi per quello che avete sempre fatto per me e...”

“E..?” la incalzò il barbiere, sempre senza guardarla.

“E chiedere se in città va tutto bene.” mentì la Contessa, rimangiandosi subito quello che avrebbe voluto dire.

Il Novacula, dopo aver occhieggiato verso la porta ed essere stato certo che nessuno sarebbe entrato a breve, si sedette laddove poco prima stava l'ultimo cliente e fissò la Sforza: “Volete sapere se c'è qualcuno che ronza attorno a vostro marito? Attorno al padre di vostro figlio?”

Solo in quel momento la Tigre comprese la vera radice di tutto quell'astio. Non era tanto il lungo periodo che aveva lasciato passare dalla sua ultima visita. Non solo quello, almeno.

“Ve l'avrei detto, ma...” cominciò a dire la Tigre, alludendo alla propria gravidanza.

“Ma non ne avete trovato il tempo, tra una festa e una battuta di caccia. Posso immaginare.” fece il Novacula, piccato.

Caterina non riuscì a trovare nulla da dire in propria discolpa, perciò si mise semplicemente in attesa.

“Io sentivo le voci sul figlio che portavate in grembo, e basta. Se voleste davvero che io difenda la vostra immagine pubblica, certe cose dovreste dirmele. Fino a un paio di anni fa, me l'avreste detto, come avete fatto quando aspettavate Bernardino. Non avere una conferma da voi è stato...” Bernardi strinse i denti, incrociando le braccia sul petto.

Anche cercando di sforzare la memoria, la Contessa non riusciva a ricordare un altro momento in cui l'avesse visto tanto furente. Il suo viso, di norma disteso in un'espressione bonaria, a tratti curiosa, al massimo stupita, adesso era contratta in una smorfia di rabbia.

“Tutti mi parlavano convinti che io ne sapessi di più.” proseguì il Novacula, nervoso: “Mi chiedevano, anzi, mi chiedono ancora, quando nascerà, se è figlio concepito fuori dal matrimonio o meno, se è vero che è di quel maledetto fiorentino...”

“Attento a come parlate.” lo riprese la donna, senza particolare enfasi.

Andrea fece un cenno di impazienza e poi aggiunse: “Ve lo concedo, vi siete scelta un uomo ricco, e anche di bell'aspetto.”

Caterina cominciò a scuotere la testa, per dire che si potevano anche evitare certi discorsi, ma il Novacula travisò e così insistette.

“Qualche volta è venuto da me a farsi sbarbare.” disse il barbiere, valutando tra sé come in effetti fosse da un po' che non lo si vedeva alla barberia: “Vedo tante donne di Forlì allungare l'occhio verso di lui, quando entra ed esce di qui. Mi sembrano molto interessate a questo forestiero...”

“Forse le altre lo guardano, ma per lui esisto solo io.” precisò la Leonessa, mentre un sorriso involontario le faceva capolino sulle labbra: “Lui le altre non le vede nemmeno.”

Bernardi fu tentato di fare qualche commento caustico, ma poi la serenità con cui la Sforza aveva parlato lo fece desistere.

Con un sospiro plateale, si rimise in piedi e concluse: “Mia signora... Per me è venuta l'ora di chiudere bottega, ormai è sera. Se non avete altro da dirmi...”

Anche Caterina lasciò la sua sedia e, un po' sconfortata per non essere riuscita nel suo intento iniziale, allargò le braccia e disse: “Volevo solo farvi sapere che vi considero un amico prezioso e che mi spiace, se vi siete in qualche modo sentito messo in secondo piano.”

“Prima mi chiedevate spesso consiglio, ma si vede che ora avete consiglieri migliori di me.” fece il Novacula, cercando di non lasciare trasparire di nuovo l'irrazionale gelosia che gli inacidiva la voce.

“Giovanni è mio marito.” fece notare la Contessa, senza accennare ad avvicinarsi all'uscita.

“Lo era anche il Barone Feo, eppure quando c'era lui, era da me che correvate per un consiglio o per due chiacchiere.” buttò lì il barbiere, senza riuscire a trattenersi.

“Giovanni è un uomo molto diverso da Giacomo.” ribatté Caterina.

Il Novacula la guardò per un lungo istante. Era invecchiata, da quando si erano conosciuti. Non solo per via dei capelli bianchi o dei lineamenti un po' cambiati del viso. I suoi occhi erano diversi.

Era stata la morte del Feo a renderli così. Già prima avevano una luce particolare, ma da quando il Barone era stato assassinato, la luce e le ombre che li animavano si erano fatte molto più accentuate.

“Intendete dire che messer Medici è un uomo migliore del Barone Feo.” la corresse Andrea, sicuro di non sbagliare.

Forse era proprio per quello che si sentiva molto più geloso del Medici di quanto non fosse mai stato del Feo. Finché l'uomo della Contessa era un inetto, capace solo a farsi guardare per la sua bellezza, Bernardi poteva almeno tenersi la prerogativa di essere l'interlocutore prediletto dalla sua signora.

Arrivato il fiorentino, per lui non c'era stato più posto.

La Tigre, però, a quell'affermazione pesante non ribatté. Fece solo un mezzo sorriso triste e poi, con un'alzata di spalle, andò finalmente alla porta.

“Se non vi infastidisce troppo – soggiunse, appena prima di uscire – tornerò a trovarvi.”

“Siete libera di farlo, se vi aggrada.” rispose prontamente il barbiere, sperando in tutta sincerità che la Contessa lo facesse davvero.

 

Benché la figlia del papa fosse stata sistemata nella stanza più riparata e isolata del convento, le sue urla risuonavano senza tregua in ogni dove a San Sisto.

Suor Girolama Pichi, che aveva espressamente voluto che le sue consorelle rimanessero in un'altra ala dell'edificio in preghiera, si aggirava terrorizzata appena fuori dalla porta, indecisa se entrare o meno ad assistere la partoriente.

Le grida strozzate della giovane Borja, le sue invocazioni che scivolavano di continuo tra il sacro e il profano, tra la lingua della sua terra e quella di Roma, stavano rimescolando le viscere della suora come avrebbe potuto fare una tempesta in mare aperto.

Suor Girolama era una donna rigida, dura. C'erano poche cose che la scomponevano e l'idea del parto era una di queste.

Tuttavia, all'ennesimo grido disperato della ragazza, la badessa strinse le mani ossute l'una nell'altra e, raddrizzando il mento, si decise a entrare.

La posta in palio, in fondo, era alta, da ambo le parti. Da un lato, infatti, aveva promesso a Lucrecia di starle vicina, di pregare per lei e di aiutarla come poteva. Dall'altro, se per caso la giovane fosse morta, il papa avrebbe di certo voluto spiegazioni. E dunque, se non fosse stata presente, come avrebbe potuto suor Girolama rendere conto al Santo Padre di quanto accaduto?

Chiudendosi subito la porta alle spalle, la badessa si avvicinò, dapprima titubante e poi con decisione al letto della partoriente.

Lucrecia era in un bagno di sudore, svestita e contratta, il viso arrossato e un'espressione di dolore e paura a deformarle il bellissimo viso. Stringeva il lenzuolo con una mano e con l'altra tormentava quella di una delle assistenti della levatrice.

Quando vide la badessa, sgranò gli occhi e provò a parlarle, senonché una nuova contrazione la scosse con violenza, togliendole le parole e ridandole un grido disarticolato e ancestrale.

Prendendo il rosario dalla tascona dell'abito, suor Girolama si inginocchi accanto al letto e, mentre la levatrice dava i suoi ordini alla giovane, la badessa cominciò a pregare.

Dopo qualche minuto, però, non sapeva nemmeno più lei per cosa. Di certo il papa sarebbe stato mille volte più contento se il bambino fosse morto e Lucrecia fosse sopravvissuta. Quella, per lui, sarebbe stata la soluzione ottimale.

Forse anche per Cesare.

Un giorno, senza che nessuno se ne avvedesse, Pantasilea, la dama prediletta dalla Borja, era sparita dal convento e di lei non si era saputo più nulla. Si era pensato, all'inizio, che fosse fuggita con Pedro Calderon. Poi il povero Perotto era stato ripescato gonfio e bluastro dal Tevere e così si era stati certi che nelle acque fredde del fiume dovesse esserci almeno un altro cadavere.

Forse il corpo era rimasto impigliato nel fondale, forse era arrivato al mare, forse galleggiava da qualche parte vicino alla costa o forse era stato mangiato dai pesci. Poco importava. Anche in assenza delle spoglie su cui piangere, tutti erano certi che Pantasilea avesse fatto la medesima fine di Calderon.

Lucrecia non aveva ma chiesto nulla sulla scomparsa della sua amica. La badessa non aveva ancora capito, però, se non ne parlasse perché già al corrente della sua reale sorte o perché troppo atterrita al pensiero di quel che forse le era capitato.

Di certo, almeno così avevano detto le consorelle che erano presenti quando le era stata data la notizia della morte di Perotto, la ragazza non si era scomposta nel sentire dell'omicidio del suo amante.

“Era come se se lo aspettasse.” aveva detto una delle suore: “Come se non le stessimo dicendo nulla di nuovo.”

Pur contro ogni logica cristiana, nel pensare agli occhi di brace di Cesare Borja, suor Girolama Pichi si trovò a pregare con tutta se stessa che il piccolo morisse. Che la madre si salvasse, per carità, ma che quella piccola testimonianza vivente della sciocchezza di una ragazza si spegnesse così come era stato concepito: per un capriccio del fato.

“Un bellissimo maschietto!” esclamò la levatrice, controllando il piccolo, mentre armeggiava ancora con il cordone ombelicale: “Robusto e in salute!”

Come a darle ragione, dopo essere stato staccato dalla madre, il piccolo cominciò a piangere, con un tono irruente e deciso, quasi a prendersi gioco della badessa, che ancora sperava di vederlo soffocare per qualche misterioso motivo.

Lucrecia scoppiò a piangere. Se di gioia, sollievo o paura, nessuno dei presenti lo capì.

Quando dopo un po' le misero il piccolo tra le braccia, una delle assistenti della levatrice le chiese se avesse già deciso come chiamarlo.

La giovane Borja guardò il viso roseo del bambino, ne annusò il profumo e poi con un soffio scherzoso, da ragazzina quale era, gli spettinò i pochi capelli.

“Lo voglio chiamare Giovanni. Juan.” disse, con un filo di voce.

La badessa, ancora inginocchiata in preghiera, si fece il segno della croce. Quel nome, ne era certa, avrebbe fatto sparlare più di qualunque altra cosa. E avrebbe anche fatto saltare i nervi a più di un uomo di Chiesa.

 

Il finale di marzo stava stringendo Forlì in un freddo ancora dicembrino. Caterina quel giorno si era affaticata indicibilmente.

Nemmeno quando aveva in pancia Livio, malgrado la guerra e tutto il resto, aveva patito così tanto una gravidanza. Da un lato si era convinta che i suoi trentacinque anni non fossero certo d'aiuto, dall'altro era sicura che stessero pesando anche i mesi sconsiderati che aveva passato dopo la morte di Giacomo.

Il sonno perso e mai recuperato, le droghe con cui si era stordita e la quantità eccessiva di vino dovevano in qualche modo averla indebolita e adesso il suo corpo le stava chiedendo il conto.

In più si stavano aggiungendo problemi politici di ogni sorta. Si vociferava che la Francia fosse pronta a un nuovo attacco all'Italia, questa volta probabilmente partendo da Milano. Il Moro non riusciva a mettere insieme le idee e a conciliare le varie anime del suo governo e quindi la sua distanza dall'Impero e la sua apparente incapacità di mediare coi francesi lo stavano portando velocemente a essere la prima vittima designata di un'eventuale seconda discesa di Carlo VIII.

Napoli stava ancora navigando in acque torbide. Il nuovo re cercava con tutte le sue forze di riorganizzare lo Stato, ma era chiaro che non sarebbe mai stato pronto a schierarsi in tempo, se i francesi avessero attaccato entro l'estate.

Anche se a Milano Isabella d'Aragona si faceva vedere sempre più spesso, rafforzando in qualche modo l'immagine di Napoli anche al nord, al sud il re arrancava.

Venezia e Firenze continuavano a punzecchiarsi e l'immobilismo in cui stavano incarcerando anche lo Stato della Sforza stava facendo innervosire Caterina non poco. Avrebbe quasi preferito un assedio, piuttosto che quell'incertezza.

Ad aggravare la situazione, escludendo la probabile carestia che si avvicinava per colpa del clima funesto, era giunta a corte la notizia della morte del Cardinale Paolo Fregoso, uno dei pochi porporati che guardava ancora alla Francia con grande diffidenza. Si diceva che stesse per convincere il papa a intimare a Carlo VIII di non mettere piede in Italia, ma visto che nessuno avrebbe raccolto la sua eredità, quella richiesta di certo sarebbe caduta nel vuoto.

La Tigre era tentata di scrivere a sua sorella Chiara, per domandarle se per caso suo marito avesse intenzione di continuare sulle orme del padre oppure no. Sapeva che Chiara e Fregosino erano a Roma, per assistere ai funerali, dunque non avrebbe avuto problemi a far recapitare loro una missiva.

Tuttavia, Caterina se ne rese conto nel momento stesso in cui provò a buttar giù due righe, non aveva alcuna intenzione di riprendere contatti con Chiara.

Era ormai sera e la Contessa stava ancora vagando per la rocca, più che altro per ragionare in solitudine sulla sua situazione. A un certo punto il mal di schiena, che l'aveva tormentata fin dal primo mattino, la costrinse a sedersi un po' su una delle panche che stavano vicino alla parete.

Assorta, nella penombra, la donna si trovò presto a pensare anche ad altro e la sua mente si perse per un po' in ricordi e rivalutazioni del passato.

Mentre era così presa da se stessa, dei passi ruppero il silenzio quasi perfetto, smosso solo dal crepitare pacifico delle torce a muro, e così Caterina sollevò lo sguardo.

Vide Ottaviano che avanzava a grandi passi, le mani dietro la schiena e il capo chino. Non l'aveva vista. Si accorse di lei solo quando le fu a meno di un paio di metri.

“Madre.” la salutò, fermandosi istintivamente.

Per non dover intessere con il primogenito alcun tipo di discorso, né profondo né superficiale, la Leonessa si rimise in piedi e lo salutò con un cenno del capo, accennando ad andarsene.

Nel fare quei gesti, rispondendo inconsciamente a un movimento del piccolo che portava in grembo, si accarezzò un momento il pancione e sentì un sorriso sfuggirle sulle labbra.

Con gli occhi corse subito a Ottaviano, che la stava fissando con un'espressione strana. Il giovane distolse lo sguardo, ma restò fermo dov'era.

Era alto, di corporatura slanciata, malgrado non avesse muscoli, né portamento. Aveva un po' di pancia, i vestiti, per quanto di ottima foggia, erano trascurati e sul suo viso c'era la barba di un paio di giorni. Perfino i capelli, di solito curatissimi, avevano qualcosa di negletto, quella sera.

Per la prima volta, nel vedere i suoi occhi bassi e il modo nervoso in cui si stringeva una mano nell'altra, Caterina provò pena per suo figlio.

Tuttavia, appena il ragazzo schiuse le labbra e disse: “Era proprio necessario fare un figlio con quell'uomo?” la Sforza sentì la pena svanire, sostituita di nuovo da un odio profondo, che affondava le radici nell'immagine nitida e imperitura di Girolamo Riario, che riviveva da quasi diciannove anni nel figlio Ottaviano.

“Non credo che siano affari tuoi.” ribatté lei, dandogli le spalle e andando verso la sua camera.

Non restò in ascolto per vedere se il suo primogenito avesse o meno ripreso a camminare, ma quando arrivò in stanza e trovò Giovanni già steso a letto, intento a leggere, sentì un'immensa tristezza salirle nel petto.

Il Medici fu sul punto di chiederle come mai fosse così di cattivo umore, dato che sul suo volto si poteva leggere alla perfezione il suo smarrimento e la cupezza dei suoi pensieri, ma lasciò perdere.

Continuando a leggere per conto proprio qualche novella di Boccaccio, controllò solo con la coda dell'occhio la moglie che si cambiava per la notte, si metteva la sua crema e sceglieva un libro di poesie, prima di coricarsi accanto a lui.

Lessero, spalla contro spalla, per almeno un paio d'ore. Caterina era ancora presa dai versi latini che stava sfogliando, tenendo una mano aperta sul pancione, così teso che per comodità la donna teneva sollevata la veste da camera, che altrimenti l'avrebbe stretta troppo.

Dopo un po', mentre girava pagina, la Tigre si accorse che l'attenzione del marito non era più rivolta al Decameron, ma alla mano che lei teneva appoggiata sul ventre rigonfio.

“A che pensi?” gli chiese, chiudendo il volumetto che stava leggendo e voltandosi appena verso di lui.

Sul viso di Giovanni c'erano delle ombre strane. Era concentrato, ma pareva che nessuno dei pensieri che gli stessero attraversando la testa fosse bello.

“A calci e pugni.” sussurrò lui, senza levare gli occhi chiari dalla mano della moglie.

La Contessa aveva già intuito a cosa si riferisse, ma non voleva credere che il fiorentino volesse sollevare quella questione a quell'ora, così domandò: “A calci e pugni cosa?”

“Quel ragazzo che invochi tutte le notti quando hai gli incubi – spiegò il Medici, con voce bassa e un po' roca – l'hai ucciso a calci e pugni, vero?”

“Sì.” confermò Caterina, capendo di aver indovinato.

Avevano già parlato di quella cosa, ma evidentemente il Popolano non riusciva a smettere di pensarci, in quel momento. Forse, nel pensare a lei come madre, gli erano tornati in mente i mille motivi per cui avere un figlio con lei potesse apparire un colossale errore.

“E ne hai uccisi altri nello stesso modo.” fece l'uomo.

Non era una domanda, ma una semplice affermazione. Il tono lapidario che aveva usato ferì nel profondo la Sforza che, però, a onor del vero non poté smentirlo.

Quasi avesse paura di scottarsi, il fiorentino allungò le dita verso quelle della moglie e le sfiorò appena. Le trovò lisce e soffici, tremendamente delicate, tanto da farlo rabbrividire, al pensiero di quello che erano state capaci di fare.

“Forse è un po' tardi, per farti venire certi ripensamenti.” disse la donna, con un certo astio, ritirando di scatto la mano, sottraendola ai tocchi leggeri del marito: “Sapevi quello che aveva fatto anche prima. Non avresti dovuto accettare di sposarmi, se...”

Le parole della Contessa vennero tacitate all'istante da un bacio. Dopo qualche istante, il Medici si scostò un po' da lei e la guardò a lungo in viso.

La Tigre ne era quasi spaventata. Era vero che suo marito a tratti aveva dei momenti in cui si chiudeva in se stesso, diventando difficile da comprendere, ma dal litigio che avevano avuto al quartiere militare, questi momenti erano divenuti più frequenti.

“Non ho detto che non mi sta bene. È vero, sapevo bene quello che avevi fatto. E ti ho voluta lo stesso.” assicurò Giovanni.

“Spero che cresca con il tuo carattere.” disse la Leonessa.

Il fiorentino comprese che la sua donna stava parlando del figlio che sarebbe nato a breve e così fece un piccolo sorriso, scuotendo piano la testa e scompigliandosi un po' i riccioli, come quando era in difficoltà: “Lui crescerà con te. Tu hai un carattere molto forte: prenderà da te.”

“Crescerà con entrambi.” lo corresse Caterina, che non sopportava di sentire il marito parlare a quel modo.

“Sia come sia, il carattere forte l'hai tu, quindi prenderà da te.” tagliò corto il Popolano.

“Forte quasi quanto il tuo accento.” scherzò la donna, tentando disperatamente di portare il discorso su un piano più leggero: “Quello lo prenderà da te.”

“E come potrà mai prendere l'accento di Firenze, vivendo qui in mezzo ai romagnoli e a qualche milanese?” chiese Giovanni, il cui viso si stava lentamente rasserenando.

“Glielo insegnerai tu.” disse con ovvietà la Tigre.

Il Medici fece un profondo sospirò e preferì non indugiare oltre. Sapeva che, più ne avessero parlato, più si sarebbero depressi e così fece del suo meglio per portare la moglie su un'altra strada.

Ricominciò a baciarla e poi, con qualche frase sussurrata all'orecchio, le ribadì il fatto che secondo lui il figlio che aspettavano sarebbe stato simile a lei, almeno nel carattere.

Senza opporre resistenze né cercare di continuare quel discorso spinoso a scapito dei baci, la donna seguì le intenzioni del marito e lasciò che i loro corpi dicessero quello che le loro parole faticavano a esprimere.

Con Giovanni che l'abbracciava, standole alle spalle, sfiorandole il collo con le labbra e cercandola con voracità, Caterina si disse che tutto quello che avevano era quel momento. Ciò che sarebbe accaduto dopo, nessuno lo poteva sapere. Aveva avuto ragione il Magnifico, quando ripreso a modo suo il vecchio detto latino. Si doveva cogliere l'attimo, e l'urgenza con cui il Medici la stava prendendo, ne era l'esempio migliore.

 
   
 
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