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Autore: Frulli_    17/02/2018    3 recensioni
Inghilterra, 1911. L'Europa sta attraversando un periodo di serenità e ricchezza, la "Belle Epoque". E se Parigi è il fulcro della moda e del divertimento, Londra certo non è da meno! Lo sanno bene i membri della famiglia Norton e dei suoi servitori, che per la Stagione londinese vengono catapultati in un mondo di divertimenti e finzione, dove tutti sono un pò "sottosopra", e rischiano di perdere di vista le cose vere e reali della vita, come i sentimenti e l'amicizia...
Genere: Romantico, Slice of life, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
Capitoli:
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Linea Ferroviaria Norwich-Londra, 4 Febbraio 1911

La campagna inglese scivolava velocemente ai lati del treno che viaggiava a velocità sostenuta, in direzione di Londra. Era mezzogiorno e si trovavano già nel vagone ristorante di prima classe per consumare il pasto. Per una volta avrebbero potuto lasciare in pace la servitù anche se Charlotte, in ansia per il suo nuovo ruolo, era andata a controllare la sua padrona ben tre volte nel giro di quattro ore.
«Buon appetito, signori» annunciò il maitre del vagone, con un vago accento francese, una volta servito il loro pasto.
Ethel sorrise alla sua piccola famiglia e prese a mangiare, poco e niente data la perenne distrazione che aveva alla sua destra, verso il paesaggio che cambiava velocemente.
«Quando arriva Alfred con la sua fidanzata?» chiese George, prima di bere un sorso di vino.
«Non ne sono sicura, ma sicuramente non oggi. Forse domattina per colazione» precisò Lady Maud.
«Domattina?» ripetè Ethel, come se avesse appena sentito una notizia orribile «domattina devo andare in orfanotrofio...»
«Oh si certo, la paladina degli afflitti e dei deboli» brontolò acida Daisy, giocando col suo cibo. Come sempre, aveva mangiato pochissimo.
«Abbiamo problemi alla struttura, spero di tornare in tempo per il pranzo» rispose Ethel, ignorando la ragazza come aveva imparato a fare negli ultimi anni.
«Va bene, non credo che Alfred si offenderà: hai un impegno d'altronde» commentò pacata Lady Maud, tagliando la sua bistecca.
«Perchè dovrebbe offendersi, non è essenziale che Ethel sia con noi ogni santissimo istante»
«Daisy...»
«Cosa ho detto che non va?»
«Non voglio che le parli così»
«Ho solo detto che non è vitale che Alfred la veda appena arrivato. Intratterrò io mio fratello e la mia futura cognata come si deve...sono io la padrona di casa»
«Fino a prova contraria, sono io la padrona di casa Daisy» precisò sua madre, posando la forchetta sul tavolo «questo tono altezzoso non mi piace affatto, signorina. Smettila di darti tutte queste arie»
Daisy fece per aprire bocca ma a George bastò schiarirsi appena la voce: era il segnale che stava per perdere la calma, e che era meglio smetterla. Daisy strinse con forza la forchetta, facendo cadere un profondo silenzio «Con permesso...» si limitò poi a dire, alzandosi ed uscendo dal vagone.
Ethel sospirò: Daisy arrabbiata non era mai una bella cosa. Osservò George, lo sguardo irritato, e Lady Maud.
«Non guardarmi così, cara, lo sai che ho ragione: Daisy è viziata e altezzosa, deve capire come si sta al mondo. I tempi del potere nobile sono passati...» commentò la donna, riprendendo a mangiare.
Tacquero a lungo, finendo il loro pranzo avvolti da un silenzio glaciale rotto solo dallo sferragliare delle rotaie del treno. Una volta terminato il pranzo tornarono nel loro vagone: Daisy non era lì.
«Dove sarà andata?» mormorò Ethel, come se gli altri potessero saperlo. In tutta risposta Lady Maud si sedette sul divano, sistemando poi il bastone da passeggio al suo fianco.
«Sarà andata a sbollire la rabbia da qualche parte»
«Dovremmo trovarla, sono preoccupata»
«Vado io» s'intromise George avvicinandosi alla porta.
«Sicuro?»
«Si, tu resta con la zia...» mormorò George verso la sorella, prima di uscire dal vagone.


Il vento le scompigliava i capelli. Le ruote sulle rotaie sfregavano forsennate, creando un sibilo metallico fastidioso, ma che soffocava i mille pensieri che aveva in testa. Si asciugò le lacrime ormai secche sulle guance, tornò ad aggrapparsi alla balaustra esterna dell'ultimo vagone, la coda del treno. Deglutì, stringendo la bocca sottile.
«Eccoti qua» annunciò George, la voce abbastanza alta per farsi sentire. Si girò di scatto, qualche ciocca castana scivolò sul viso prima che le riportasse, ubbidienti, dietro l'orecchio. Non disse nulla al ragazzo, ma tornò a guardare davanti a sé.
«Cos'è, fai la ragazza incompresa che si abbandona al vento della natura?» chiese ironico Geroge, affiancandola.
«Va a farti fottere, George»
«Provvederò appena arriviamo a Londra»
Daisy lo fulminò, ma sollevò un angolo della bocca. Era così sveglio, dalla battuta pronta, non come quei ragazzi rigidi e seri che frequentava lei, a cui importava solo dei soldi e degli affari.
«Io ancora non capisco perchè tratti Ethel in quella maniera»
«Perchè non se lo merita? Con quella sua aria da...perbenista, perfettina»
«Ethel non è perfetta, e tu lo sai. Ma è buona, e non c'è nulla di male»
«La difendi troppo, George, la chiudi in una campana di vetro...»
«E' mia sorella, devo proteggerla, è l'unica persona a cui tenga»
«E a me?» Daisy si girò verso di lui, cercò la sua mano. George gliela strinse, lei avanzò ancora, sinuosa e pericolosa come un serpente «a me non ci tieni, George?»
«Come ad una sorella...» precisò il ragazzo, rigido, fissandola dall'alto.
«Non sono tua sorella, non sono una tua parente, George...»
«E quindi?»
«E quindi...» precisò Daisy, accarezzandogli una guancia «potremmo divertirci un po', ogni tanto»
George si ritrasse lentamente, sospirando. «Daisy, lo sai che non mi piace questa storia»
«Oh lo so bene, sono anni che provo a convincerti. Cos'è? Non sarai mica...» e sorrise maliziosa.
«Ma va a farti fottere» brontolò George, seccato e offeso nella sua virilità, prima di rientrare nel vagone sbattendo la porta. Daisy ridacchiò, divertita: adorava stuzzicarlo.
Sapeva che non era gay: da ragazzini, quando lei gli si avvicinava, lo vedeva sempre rosso come un peperone, e una notte lo sentì nel sonno chiamare il suo nome. Eppure niente, a distanza di anni non era riuscito a convincerlo a trascorrere una notte con lei. Aveva il sentore che George fosse vergine in tutto e per tutto. E la cosa la incuriosiva.
“Solo quello?” Pensò tra sé. Deglutì. Una piccola parte di sé...si, molto piccola...era attrata da lui in maniera singolare quanto irreversibile. Ma non poteva innamorarsi di lui: era un ragazzo di terza classe.


«Miss, tutto bene?» chiese Charlotte entrando nel vagone salotto. Si pentì subito di aver parlato: Lady Maud dormiva sul divanetto, mentre Miss Herbert le faceva segno di fare silenzio. Si avvicinò lentamente, guardandosi attorno: era un vagone della dimensione uguale agli altri, ma arredato in maniera totalmente diversa. Le pareti erano di legno rosso, lucido, con lampadari dorati agganciati alla parete. Divanetti di velluto rosso, un tavolino agganciato alla parete, quattro sedie probabilmente agganciate al pavimento; un tappeto persiano, l'aria ben riscaldata, cuscini di velluto rosso, tutti i dettagli in oro. Sarebbe andata volentieri fino in Cina in un vagone del genere.
«Che ore sono, Charlotte?» la domanda di Miss Herbert la fece risvegliare da quelle scene immaginarie.
«Le tre, miss, mi spiace essere passata così tardi ma...»
«Facciamo così: ci vediamo direttamente quando arriviamo, mh? E se ho bisogno vengo io a chiamarti» precisò Ethel, secca
Charlotte deglutì, poi annuì lentamente e fece per uscire.
«Charlotte?»
«Si Miss?» chiese la giovane, lontandosi veloce.
Ethel sospirò, sedendosi. «Scusa, non volevo risponderti male, è che questo movimento del treno mi...mi mette la nausea»
Charlotte sgranò appena gli occhi: quando mai una nobile si scusava per il proprio comportamento? La raggiunse, con calma, mentre l'altra si sedeva al tavolo.
«Vuole che chieda di portarle del thè, Miss?»
«No, no ti ringrazio. E' che ho litigato con Daisy, Miss Norton insomma...e George è andato a cercarla e non torna, sono preoccupata. Vorresti farmi compagnia finchè non tornano?»
Charlotte annuì, rimanendo in piedi. Ethel le fece cenno di sedersi e la ragazza ubbidì, come un soldatino. Non si era mai seduta allo stesso tavolo di una nobile, né tantomeno della sua padrona di casa.
«E' colpa mia, parlo troppo e a Daisy dà fastidio. Stavo dicendo di quella visita della Regina, no? E a lei ha dato fastidio, non dovevo dirglielo» brontolò Ethel, osservando fuori dal finestrino. Charlotte tacque, non interpellata. Avrebbe chiacchierato volentieri ma tre sterline al mese la tenevano con la bocca ben chiusa.
«Ebbene?»
«Cosa?»
«No, dico...in una conversazione si parla in due, sai. Se io sono preoccupata, tu dovresti tranquillizzarmi. Sei o no la mia cameriera?»
«Lo sono»
«Appunto»
«Non...conosco Miss Norton, tanto da poter dire come avrebbe dovuto o meno reagire, Miss. Ma stavate solo facendo conversazione ed era una bella notizia la vostra, non solo per voi ma...per tutti. Siete una famiglia no?»
Ethel sorrise appena, amareggiata. «Già...Grazie, Charlotte, mi sento già meglio»
«Di nulla Miss»
La porta del vagone si aprì, accogliendo Mr Herbert. Charlotte si alzò di scatto, come colta in flagrante.
«Oh, Miss Murphy»
«Buon pomeriggio, signore. Facevo compagnia a Miss Herbert, io...»
«E' quello il tuo compito no?» le chiese George, facendole l'occhiolino. Si avvicinò a Ethel e le baciò la nuca. «Con Daisy ho risolto, sta bene, fra poco torna»
«Come hai fatto a farla sbollire?»
George scrollò le spalle, senza aggiungere altro, quindi si sedette e prese a leggere il Times.
Charlotte sorrise appena verso Ethel.
«Torno nel mio vagone, Miss. Se ha bisogno di me...»
«Ti faccio venire a chiamare, si. Grazie Charlotte»
«Di nulla Miss»


Aprire la porta del vagone della terza classe fu come prendere una boccata d'aria pura. Un paragone poco azzeccato, data la nuvola di fumo che rendeva le sagome dei passeggeri quasi lontane, impalpabili. Un forte odore di whiskey mescolato a sudore le fece arricciare il naso. Passò davanti a Marco e ad un garzone della cucina, entrambi addormentati con la testa poggiata una contro l'altra. Sorrise tra sé, quindi raggiunse Josephine e si lasciò cadere sul sedile. Lì il rumore delle rotaie si faceva sentire di più, ma veniva quasi superato dal vociare continuo: donne che parlavano tra loro, bambini che piangevano, uomini che litigavano a carte...
«Tutto bene in prima classe?» chiese Josephine, alzando la voce per farsi sentire.
Charlotte si limitò ad annuire, poggiando indietro la testa e sospirando.
«Allora...ti ha chiesto scusa?»
«Chi?»
«Quello là» Josephine indicò col mento Marco, che russava.
«No, si...cioè più o meno»
«No, si o più o meno?»
Charlotte guardò la collega, indecisa se dirle tutto, ma alla fine le raccontò brevemente quanto accaduto la sera prima. Josephine sorrise divertita e scosse la testa.
«Cosa ne pensi?» le chiese alla fine Charlotte.
«Penso che quel ragazzo è proprio strano. E' tipico di lui fare così, ma non ha mai chiesto a nessuna di uscire, non a noi della servitù almeno. Tu ti fidi?»
Charlotte si girò indietro, verso la sagoma dormiente del ragazzo, poi scrollò le spalle. «Non lo so...sembra simpatico. Possiamo provare»
«Lo sai che non possono esserci relazioni tra la servitù però...»
«Lo so, ma non ho detto che siamo innamorati no?» precisò Charlotte «usciamo da amici, in simpatia»
«Non farti solo mettere incinta»
Charlotte arrossì vistosamente, fissandola sconvolta. «Ma per chi mi hai preso?!»
Josephine scrollò le spalle, sorridendo. «Solo un consiglio»
«Certo che non mi faccio mettere incinta, non vado mica a letto con lui solo perchè mi ha invitato a uscire»
Josephine le sorrise soddisfatta. «Proponigli qualcosa di tranquillo, nessuna passeggiata romantica. Magari una pattinata al Serpentine Lake»
«Perchè no...» mormorò Charlotte, pensierosa. Tornarono in silenzio, guardando entrambe fuori dal finestrino. Il treno ebbe un forte sussulto e Charlotte si aggrappò istintivamente al braccio di Josephine che, di tutta risposta, ridacchiò.
«E' la prima volta che viaggi su un treno vero?»
«Si vede così tanto?»
«Abbastanza. Io sono abituata a seguire la Lady, e la prima volta è stata quando avevo quattro anni: dal Missouri a New York sono tante ore di treno; senza contare poi quelle per mare per arrivare a Londra...»
Charlotte si limitò a sorridere e tornò a guardare fuori. Aveva il profilo di Josephine proprio alla sua destra, che si intrometteva tra lei e il paesaggio naturale. Si mise a studiare la collega con la coda dell'occhio: aveva la pelle scura e liscia come marmo, il naso leggermente a patata, la bocca carnosa, la mascella delicata, grandi occhi marroni, i capelli neri legati in un morbido chignon. Poteva avere si e no ventidue anni. Erano appena entrati nel millenovecentoundici. Fece un rapido calcolo, poi aggrottò le sopracciglia: non poteva essere...
«Josie?»
«Si..?»
«Quanti anni hai..?»
«Venticinque, fra qualche giorno. Sono nata lo stesso giorno di mia madre e mia sorella, sai?» rispose distratta.
Charlotte deglutì a vuoto, facendo un rapido conto. Se Charlotte aveva venticinque anni, era molto probabile che i suoi genitori...Oh no, pensò.
«Josie, i tuoi...i tuoi genitori erano...?»
«Schiavi? Si. Mia madre aveva otto anni quando è stata liberata, mio padre dieci, e raccoglievano già il cotone con i miei nonni, i miei zii, i miei cugini. Nel nostro Stato le schiavitù è stata abolita del tutto solo cinque anni dopo la data ufficiale. Io sono nata lì, ma sono cresciuta in Inghilterra, come una cittadina libera»
«Mi dispiace, io non volevo farti ricordare quei fatti. Non avevo mai conosciuto..»
«Una figlia di schiavi? Oh beh, eccomi qua» rispose secca Josephine, guardando fuori dal finestrino. Charlotte le prese istintivamente la mano: le loro mani -una color latte ed una color cioccolato- facevano un piacevole contrasto insieme. Josephine si volse, fissando Charlotte.
«A me non importa nulla della tua pelle, Josie, mi importa solo di essere tua amica se ti va. Non avevo mai collegato la tua storia a quella dell'abolizionismo, e mi dispiace che la tua famiglia abbia sofferto per mano dei potenti. Non volevo crearti dolore, davvero»
Josephine sorrise appena, stringendole la mano. «Non preoccuparti...ed anzi scusami tu» mormorò, gentile.
Charlotte le lasciò la mano e poggiò la testa indietro, sorridente. Mancavano ancora tre ore alla fine del viaggio: aveva tutto il tempo per riposare. Si addormentarono quasi nello stesso momento, consapevoli che una volta arrivate a Londra avrebbero dovuto lavorare sodo fino a tarda serata.

 
Londra, lo stesso giorno
«Finalmente...» annunciò Lady Maud con un sospiro, mentre scendeva dalla vettura aiutata da George.
«Appena in tempo per il thè» commentò Ethel entusiasta.
«Londra! La città più bella del mondo, sono così felice di essere qui anziché in quella noiosa Norfolk» commentò Daisy, raggiante mentre superava il vialetto della villa, diretta al portone.
«Oh dai, Norfolk non è male...» ammise calma Ethel: non voleva farla arrabbiare.
«Si, beh, ma Londra è meglio. E' piena di gente, di posti...di divertimenti. Non vedo l'ora di cominciare!» esclamò l'altra, come se stesse per andare a caccia.
Ethel scese dalla vettura e potè finalmente godersi lo spettacolo di Little Hall, la villa di città dove aveva più ricordi della sua infanzia. Era una villa vittoriana di tre piani, bianca e celeste. Un ampio giardino, con un piccolo gazebo di pietra bianca e un'altalena appesa ad un albero; la verenda, la sedia a dondolo, i balconcini che si affacciavano sulla zona notte...tutto era identico da come l'aveva sempre ricordata. Varcarono la soglia della villa, ritrovandosi nell'ampio ingresso dove erano stati momentaneamente sistemati i bagagli. Ethel prese a girovagare per i corridoi e le stanze, facendo rimbombare i propri passi. Si sfilò il cappello dalla testa, continuando a camminare mentre le domestiche aprivano le imposte, illuminando le stanze con il sole intenso di quella giornata. Quella casa era piena di ricordi, e quasi tutti avevano come fulcro Alfred e George, i suoi “fratelli” e compagni di giochi infantili. Doveva ammetterlo: non vedeva l'ora di rivedere Alfie.
«Si hanno notizie di Mr Norton?» chiese a Miss Rossi, incrociandola nel corridoio.
«No, Miss, ancora no...ma siate certa che si farà vivo appena saprà del vostro arrivo» commentò la governante, sorridendo gentile «se volete potete accomodarvi nel salotto qui al primo piano: abbiamo acceso il camino ed il thè è quasi pronto. Fra qualche ora l'ambiente sarà ben riscaldato, gli altri sono già lì»
«Oh bene, grazie...» rispose Ethel, sovrappensiero. E se George avesse davvero ragione? Se Alfred fosse davvero un altro ragazzo rispetto a quello che lei ricordava? Non poteva essere, non si poteva cambiare così tanto, nemmeno per la carriera. Nemmeno fidanzati. Prese a camminare verso il salotto mentre i ricordi riaffioravano vividi nella sua mente...

Little Hall, estate 1890
«Più in alto, Alfie, più in alto!» gridò allegra, dondolando sull'altalena. Nel picco più in alto poteva vedere il giardino dei vicini, e persino le alte torri di Londra.
«Guarda che così cadi!» brontolò suo fratello, seduto sotto al gazebo a leggere un libro.
«Oh dai Georgie, non le succede nulla! Ci sono io qua, no?» commentò Alfred, il più grande dei tre. Continuò a spingere Ethel sull'altalena, prima di portarsi davanti a lei, sorridente.
«Guardami, Georgie, visto come volo? Guardami Alfie!» Ethel rideva, felice, e continuò a ridere fino a quando l'altalena non si fermò. Guardò Alfred, perplessa.
«Perchè non mi spingi più?»
«Perchè Georgie ha ragione, potrebbe girarti la testa. Perchè non andiamo a giocare a palla?» chiese Alfred, porgendole la mano. Ethel scese dall'altalena, si sistemò il suo bell'abito bianco, quindi prese la mano di Alfred, sorridente. Il bambino l'abbracciò, con affetto, prima di attenderla mentre raccoglieva la palla.
«Giochi, Georgie?» chiese all'altro.
«Mi limito a guardarvi da qui, grazie» commentò il serio bambino, lasciandosi sciogliere da un sorriso solo quando Ethel lo salutò dal giardino, ridente e sorridente in quella bella giornata estiva...


«Oh, un grammofono!» esclamò entusiasta Daisy mentre Ethel entrava per ultima nel salotto. Gli altri erano già intorno allo strumento, curiosi. La mobilia di Little Hall era decisamente più recente e moderna rispetto a Rose Castle, e le pareti chiare donavano più luce alla stanza.
«Deve averlo comprato Alfred, l'ultima volta non c'era» commentò Lady Maud, il fiato corto. Era stanca, Ethel glielo leggeva negli occhi nonostante cercasse di sorridere. Non sarebbero dovuti venire nemmeno quell'anno, Lady Maud non era in forze per affrontare una permanenza così lunga.
«C'è un biglietto» annunciò Daisy raccogliendo un foglio vicino al grammofono «“Per la mia bellissima famiglia, un piccolo regalo per intrattenerci durante la vostra permanenza a Londra. Ci vediamo al vostro arrivo, Alfie”» lesse, confermando così la teoria di Lady Maud.
Josephine entrò, dopo aver bussato, con il vassoio del thè. Poggiò le tazze e i biscotti sul tavolino, quindi uscì richiudendo la porta.
«Sono così felice di rivedere Alfie, e di conoscere la sua fidanzata» commentò entusiasta Daisy prendendo una tazza. Ethel le sorrise, sincera: si era dimenticata di quanto Daisy fosse a suo agio e quasi più gentile a Londra.
«Credo che siamo tutti curiosi» commentò sincera.
«Oh si. E' sicuramente bella oltre ogni dire, poco ma sicuro. Nessuno potrà tenerle testa» rispose Daisy, fiera, come se l'avesse scelta lei personalmente.
«Quanti anni ha?» chiese curioso George.
«Mh, credo venti»
«Però, bella giovane...» commentò il ragazzo, malizioso.
«Oh sono solo dieci anni di differenza, cosa vuoi che sia quando c'è l'amore?» chiese Daisy sorridente.
«Si, l'amore...» commentò ironica Lady Maud, facendo ridacchiare i due fratelli.
«La bellezza e una buona dote sono bastevoli per far innamorare, non credete madre?» chiese Daisy, piccata.
«Ne dubito fortemente. Siamo nel ventesimo secolo, Daisy, la gente può sposarsi per amore, ne ha tutto il diritto»
«Non noi, madre...noi siamo persone di prima classe. E' come mescolare il bianco col nero»
«Il bianco con il nero creano eccezionali sfumature e adorabili...mescolanze» commentò Ethel, sorridendo.
«Mescolanze, dici. Io dico che chi mescola troppo i colori rovina il dipinto» precisò secca Daisy, tornando in silenzio a bere il suo thè.


«Posso, Miss?» Charlotte bussò alla porta ed attese il permesso prima di entrare. Miss Herbert era in piedi, con le mani dietro la schiena, che cercava di slacciarsi da sola il corsetto.
«Miss, aspettate, vi aiuto» annunciò la cameriera, richiudendo subito la porta e andandole incontro.
«Grazie Charlotte. Speravo di riuscirci da sola, non volevo disturbarti almeno questa sera. Sarai esausta» mormorò stanca Ethel, lasciandosi slacciare il corsetto.
«Affatto, Miss, non dovete preoccuparvi. Ecco fatto. Vi aiuto con la veste da notte»
«Ma ci mancherebbe!» esclamò Ethel ridacchiando «ho ancora le mani, sai?» precisò ironica, infilandosi da sola l'indumento.
Charlotte sorrise, prima di chiuderle la veste. «Volete che vi pettino i capelli?»
«Se proprio ne senti la necessità...»
«Vengo pagata per farlo, Miss, il minimo che possa fare è eseguire il mio lavoro...»
«Giusto» precisò Ethel, sedendosi davanti lo specchio. Si rilassò al lento pettinare di Charlotte, socchiudendo gli occhi. Rimasero a lungo in silenzio, rilassandosi al suono lieve del fuoco e dello spazzolare la chioma nera.
«Vi sentite meglio rispetto ad oggi?» chiese infine Charlotte, in un sussurro.
«Molto, grazie. Questo posto ha il potere di...rilassarmi. E' qui che ho i migliori ricordi della mia vita, è qui che vivevo per la maggior parte dell'anno quand'ero piccola. Era lontano da...da tutto, da casa mia, dai miei genitori...in quel periodo eravamo felici e innocenti. Perchè bisogna per forza crescere?»
Charlotte sorrise, continuando a spazzolarle i capelli. «Me lo chiedo spesso, Miss. Suppongo che sia la bellezza e la bruttezza della vita: da piccoli non si può godere di molte cose, come ad esempio...l'amore, o la realizzazione personale. Non si capiscono molte cose, da piccoli, e può essere un bene od un male. “Beata ignoranza”, dice sempre mia zia»
«Tua zia ha ragione» commentò Ethel, divertita «eravamo davvero ignoranti ma beati. Ora siamo solo ignoranti» precisò ironica, facendo ridacchiare la cameriera.
«E' piacevole parlare con te, Charlotte, dico davvero...sono certa che diventeremo amiche» commentò seria Ethel, sorridendole dallo specchio.
«Lo spero, Miss...» mormorò gentile Charlotte, continuando in silenzio nel suo lavoro.
  
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