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Autore: Adeia Di Elferas    17/02/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Francesco Gonzaga gettava alla rinfusa le sue cose nel bagaglio leggero che avrebbe portato con sé.

Trevisan lo aveva rassicurato, dicendo che Landi non aveva fatto i loro nomi, nemmeno quando si era visto minacciato di morte e che ormai, visto che era stato impiccato dopo un processo sommario, non avrebbe più potuto tradirli.

Il Marchese di Mantova, però, non si sentiva sicuro a restare a Venezia e così aveva subito predisposto per una partenza immediata.

Avrebbe voluto più di ogni cosa tornarsene a casa, da sua moglie, ma temeva un'accoglienza troppo fredda. Dopo le notti insonni che aveva passato, non voleva affrontare Isabella. Non con quell'ennesimo fallimento a pesargli sulle spalle, almeno.

Così aveva deciso di fare prima una puntata a Ferrara, dal suocero. Non gli era mai piaciuto molto, Ercole Este, con la sua rigidità e la sua taccagneria, ma in quel momento non vedeva a chi altro rivolgersi sia per placare sua moglie, sia per cercare un modo di ritornare a galla.

I problemi economici a cui stava per andare incontro per colpa del mancato rinnovo con il Doge, presto lo avrebbero messo in ridicolo, oltre che in difficoltà.

Così aveva dato ordine che da Mantova partissero, nell'arco di un giorno, trecento famigli che gli facessero da seguito alla corte del suocero. Ercole non doveva capire quanto fosse in pericolo la sua stabilità economica.

Senza contare che i soldi ci sarebbero anche stati, se Isabella non li avesse monopolizzati per i suoi folli progetti di abbellimento e arricchimento culturale della corte...

Con un sospiro abbattuto, Francesco buttò anche l'ultimo camicione nel baule e poi lo chiuse con uno scatto. Si passò una mano sulla barba ispida, tenuta lunga da quando era stato a Brescia. Si era convinto che a quel modo, mascherando l'asimmetria del suo volto, le donne avrebbero fatto meno fatica a immaginarlo bello.

Mentre faceva questa valutazione, si trovò a pensare che sarebbe stato meglio rimettersi in ordine e sbarbarsi, una volta di ritorno a Mantova. Non doveva provocare Isabella in alcun modo, nemmeno con un'accortezza come quella. Sveglia com'era, avrebbe capito subito il motivo di un simile cambiamento.

 

“Si tratta di una condotta da poco – stava spiegando Ottaviano Manfredi, passandosi una mano tra i lunghi capelli biondi – ma venticinque lance, per ricominciare, non sono male.”

Lorenzo Medici lo guardò di sotto in su. Non gli piaceva la sua pronuncia. Gli ricordava troppo la Romagna. Anche se nel tempo passato in Toscana, l'esule faentino aveva perso un po' di accento, il suo modo di esprimersi riportava alla mente del Popolano la sorte di suo fratello e la donna che Giovanni aveva malauguratamente sposato.

“Mi fa piacere che la Repubblica possa contare su un soldato come voi. Ma adesso, perdonatemi, ho da fare...” cercò di svicolare il fiorentino, passando accanto al Manfredi.

Ottaviano, reagendo d'impulso come faceva sempre, lo agguantò per la manica, inducendolo tanto a fermarsi, quanto a guardarlo sconcertato.

Erano nell'ingresso del palazzo della Signoria, un luogo ben diverso dalle osterie in cui il Manfredi spendeva le notti, eppure quel giovane arrogante pareva non cogliere la differenza.

“Mi ricordo.” disse Ottaviano, guardandolo dritto negli occhi.

Lorenzo non capì, così aggrottò la fronte e incurvò le labbra, interrogativo.

“Quando cercavo asilo e voi non me lo avete concesso. Me lo ricordo molto bene.” spiegò il faentino, gonfiando il petto.

Il Popolano vide con la coda dell'occhio un paio di suoi concittadini entrare a palazzo e concedergli un freddo saluto con un cenno del capo. Ricambiò, poi tornò a concentrarsi sullo straniero. Con uno strattone si liberò la manica dalla sua presa e poi sollevò il mento, quasi con sfida.

“A parti invertite, non credo che voi avreste usato a me o a mio fratello la gentilezza di ospitarci, o mi sbaglio?” chiese il fiorentino, gelido.

Ottaviano guardò per un lungo momento il volto dell'uomo che aveva davanti. Aveva appena trentacinque anni o giù di lì, eppure pareva già un vecchio. Provò pena per la sua fronte solcata da rughe di preoccupazione e per la linea severa delle sue labbra.

“Vi avrei ospitato solo se foste stati disposti a venire con me all'osteria!” rise Manfredi, cambiando improvvisamente atteggiamento.

Lorenzo prese quella battuta coma una sorta di congedo così, ben felice di potersi sottrarre a quella conversazione, chinò appena il capo e salutò: “State bene, Manfredi.”

Il faentino lo guardò andare via, prima di voltarsi per andare negli uffici della Signoria per concludere gli accordi circa la sua condotta.

Anche se erano già lontani, fece in tempo a sentire il Popolano borbottare: “Romagnoli... Pazzi e assassini.”

 

“Ridolfi ci ha già scritto per dire quanti soldati possono partire da Imola al vostro ordine.” disse Cardella, passando la lettera alla Tigre: “Scegliendo tra i migliori, ovviamente, come avete richiesto espressamente.”

Caterina ringraziò il cancelliere con un cenno del capo e controllò quello che Simone aveva scritto.

Si stava dimostrando un Governatore molto attento e capace e la natura tranquilla della città di Imola gli aveva permesso di intraprendere le proprie incombenze senza dover badare a eventuali malcontenti popolari.

Aprile era appena cominciato e la Sforza attendeva con ansia il momento del parto. Quella volta non ce la faceva proprio più. Si stancava subito, aveva costantemente mal di schiena e mal di gambe. Il bambino, poi, era di grandi dimensioni e quando provava a muoversi dentro di lei – non stava fermo nemmeno ora che la sua stazza lo impediva nelle sue giravolte – per Caterina era un vero e proprio tormento.

Anche quella riunione straordinaria tenuta con solo alcuni suoi fedelissimi rischiava di essere troncata di netto per via della sua insofferenza.

A peggiorare la situazione, da un paio di giorni Giovanni era stato colto di nuovo dalla malattia della pietra. Nulla di troppo preoccupante, secondo il medico, anche se di certo i dolori colici non erano un piacere.

“Non è detto che sia segno di una recrudescenza della gotta – aveva detto il dottore, la notte in cui il fiorentino era stato male e la Contessa, spaventata, gli aveva chiesto numi – può essere che sia dovuto al cambio di stagione... Ormai siamo a un principio di primavera, gli umori corporali si smuovono e...”

“Cambio di stagione..!” aveva sbuffato la donna, tenendosi la pancia con una mano e osservando di sottecchi il marito che si agitava nel letto tenendosi un fianco: “Fa ancora un freddo boia... Sembra dicembre, altro che principio di primavera...”

Passata comunque la paura del primo momento, il Medici aveva convinto Caterina a non restare al suo capezzale per tutto il giorno e la Leonessa, dopo un po', aveva accettato e si era concentrata di più sugli affari di Stato.

Dopo un paio di riunioni del Consiglio, pur vergognandosi un po' per quello che aveva deciso di fare, aveva preso in mano la situazione, determinata a rompere gli indugi che l'influenza diplomatica del marito le aveva messo in corpo fino a quel momento.

“Non sarà rischioso lanciare questo ultimatum a Firenze?” chiese Luffo Numai, che aveva appena finito di rileggere la missiva ufficiale che la sua signora voleva inviare all'attenzione del Gonfaloniere di Giustizia.

In sostanza, la Tigre comunicava alla Signoria una decisione irrevocabile, almeno da parte sua: o accettavano la condotta per Ottaviano, alle precise condizioni da lei specificate, oppure Imola e Forlì si sarebbero rivolte altrove, offrendo i propri servigi ad altre fazioni.

“Rischioso?” chiese la Sforza, sollevando un sopracciglio: “Rischioso è aspettare. Sono mesi che attendiamo che scoppi questa dannata guerra. È come quando è sceso in Italia re Carlo...”

Le ultime parole sprofondarono tutti i presenti nei ricordi. Se i Capitani stavano tornando con la mente ai giorni turbolenti in cui l'esercito era stato sempre all'erta, i Consiglieri rimembravano l'incertezza politica e l'ansia nell'avere i francesi ospiti in città, anche se per poche ore.

La Contessa, invece, nel ricordare il tragico periodo che aveva portato il suo Stato nel centro dello scacchiere politico italiano, rendendola ago della bilancia e vera iniziatrice degli scontri, non riuscì a fare altro che rivedersi davanti Giacomo, risentendo le sue parole balbettate, le sue incertezze e rivivendo il profondo smarrimento che aveva provato nel saperlo capace di tradirla...

Caterina chiuse un momento gli occhi, con forza, poi, battendo un pugno sul bracciolo della poltrona che era stata di suo marito, esclamò: “Gli daremo tempo fino a fine aprile, per decidere, esattamente come ho scritto. Se per maggio Ottaviano non avrà la condotta, allora ci rivolgeremo a Milano. O a Venezia.”

Quell'ultima affermazione indusse gli uomini nello studiolo a guardarsi l'un l'altro, tesi. Cambiare fronte a quel modo avrebbe comportato molte cose, prima tra tutte l'accelerazione delle ultime pratiche matrimoniali della giovane Bianca Riario. Luffo Numai si schiarì la voce. Lui, più di altri, sapeva quanto quella cosa sarebbe costata alla sua signora.

“Ma vostro marito...” cominciò a dire Cesare Feo, seduto alla scrivania.

“Mio marito non ha potere decisionale, qui.” specificò la Sforza, ben felice, a conti fatti, di non essere incorsa negli stessi errori in cui era incappata con Giacomo.

Non dare alcuna carica ufficiale a Giovanni le avrebbe permesso fino alla fine di decidere in prima persona cosa fare e con chi allearsi. Se anche solo gli avesse concesso un piccolo titolo, il rischio di vedersi di nuovo prevaricare sarebbe stato tangibile.

Anche se il Medici era un uomo molto diverso dal suo predecessore, nel vivere sempre in mezzo agli uomini la Tigre aveva capito che il potere era un pericolo, una specie di droga, capace di trasformare in belve feroci anche gli agnellini più mansueti.

“Come dite voi.” concesse il castellano: “Ma potrebbero esserci attriti, se...”

“Non fasciamoci la testa prima di rompercela.” intervenne Mongardini che, pur non essendo un falco in politica e diplomazia, si fidava ciecamente della Contessa: “Prima vediamo che ci dice Firenze, e poi se ne parlerà.”

“Appunto.” convenne Caterina, con uno sbuffo: “Adesso spedite quella missiva e nel frattempo continuate a preparare l'esercito. Se Firenze dovesse accettare, con mio figlio dovrà partire uno squadrone più che preparato, se non vogliamo fare una figuraccia. E se Firenze non dovesse accettare, ci servirà comunque un ottimo esercito per non farci schiacciare dal primo assalto...”

Quando la riunione si sciolse, la Leonessa andò subito nella stanza che condivideva con il marito.

Giovanni stava molto meglio. Era steso a letto, in abiti da camera, il viso finalmente disteso e gli occhi concentrati sulle pagine di un libro.

Senza dire una parola, la Sforza gli si mise in fianco, appoggiandogli la testa sulla spalle e la mano sul petto.

Il fiorentino chiuse il volume che stava leggendo e la guardò un po'. Non sapeva che avesse, ma era certo che qualcosa la preoccupasse più del solito.

Non fece domande, però. Ormai da molto tempo aveva capito che era meglio aspettare che fosse lei a dire cosa l'angustiasse.

Infatti, dopo qualche momento, rompendo il silenzio immobile della stanza immersa nella pace di quel pomeriggio gelido d'aprile, Caterina sospirò e disse: “Ho scritto alla Signoria. Ho detto che hanno fino a fine aprile per decidersi sulla condotta di Ottaviano. Ho detto che o accettano le mie condizioni, o non se ne fa nulla.”

“E farai davvero così?” chiese Giovanni, mentre già immaginava come suo fratello avrebbe preso quel mezzo colpo di testa.

Mesi di attenzioni diplomatiche rischiavano di andare persi per un'unica lettera. Semiramide, con tutti i mezzi sotterfugi che aveva messo in piedi per convincere Lorenzo a propugnare la condotta del Riario, di certo non l'avrebbe presa bene...

“Sì.” confermò la donna, stringendosi appena di più al marito.

Il Popolano annuì in silenzio, poi domandò: “Quindi se Firenze non dovesse accettare ci schiereremo con Venezia, contro la mia città?”

Caterina non rispose, ma il modo in cui si aggrappò ancora di più a lui gli fece capire che aveva indovinato.

“Hai fatto bene.” disse Giovanni, sorprendendo non poco la moglie che, per qualche istante, si era aspettata di vederlo andare su tutte le furie: “A volte bisogna fare come fai tu.”

“Cioè?” chiese la donna, mettendosi seduta e fissando il marito.

Il viso del Medici era pallido, provato dalla recente acuzie di coliche renali. Anche se aveva espulso i calcoli senza troppi problemi, la febbre e il dolore lo avevano provato molto. Mentre faceva quella valutazione tra sé, quasi dimentica del discorso che stavano facendo, Caterina allungo una mano e gli accarezzò la fronte, spostando qualche ricciolo castano.

Il Popolano apprezzò quel gesto, ma andò avanti per la sua strada: “Agire d'impulso e mostrare gli artigli. La diplomazia, a volte, fa solo perdere tempo e non porta nemmeno a casa il risultato.”

“Allora approvi la mia decisione?” chiese la Tigre, cercando gli occhi chiari del marito con i suoi.

L'uomo deglutì un paio di volte e poi asserì: “Sì. Io sono con te fino alla fine.”

“Anche se ciò volesse dire trovarti contro la tua Firenze?” chiese la Sforza, non volendo in realtà sapere la risposta.

Giovanni ci pensò, per un paio di minuti che alla moglie parvero secoli, e alla fine soffiò: “Anche se ciò volesse dire trovarmi contro Firenze.”

Il peso della sua affermazione colpì molto la Leonessa che, il cuore che batteva all'impazzata, si riversò sul marito, per dargli un profondo bacio.

Il pancione, però, la impedì nei movimenti in modo tanto goffo che entrambi scoppiarono a ridere, stemperando in parte la tensione di quel momento.

“Lo sai che quando arriverà la guerra, restare accanto a me significa restare a vivere in una rocca, come un soldato, e quasi sicuramente trovarsi in qualche battaglia che potrebbe portarci anche alla fine...” sussurrò la Contessa, rimettendosi accanto a lui, le dita di una mano intrecciate a quelle già un po' rovinate del Popolano.

“Anche in tempo di pace viviamo in una rocca come i soldati.” soppesò Giovanni, con leggerezza e con un sorriso: “E poi, io da bambino, quando vivevo con mio padre e mio fratello in campagna, ero molto rustico, sai? Mi piace, in fondo, questa vita... È stata Firenze, ad affinarmi un po'. Ma stare accanto a te, mi sta facendo tornare com'ero all'inizio...”

“Ed è un bene o un male?” chiese la donna.

“Quando ero piccolo ero felice, malgrado tutto.” soffiò il Medici, le labbra carnose che si sollevavano in un sorriso pacato: “Quindi direi che è un bene.”

 

Bartolomeo sospirò, guardando la mappa stesa davanti a sé, sul tavolino da campo. Il suo sgabello era scomodo, ma si trovava molto meglio lì che nella casa dei Baglioni.

Appena aveva portato a termine la schifosa farsa delle nozze, aveva subito messo in chiaro il fatto che la sua unione con la loro famiglia avesse na connotazione molto più politica e militare che non certo sentimentale.

Calcando la mano sulle condizioni che la sua amata Bartolomea, a suo tempo, aveva fatto accettare a Giampaolo, Bartolomeo era riuscito a farsi dare i soldati necessari per riconquistare Montecchio e per assediare Altobello da Canale, che si era asserragliato coi suoi in una rocca che nulla aveva potuto contro la furia di d'Alviano.

Poter tornare a combattere, lo aveva fatto tornare a respirare. Mentre era sul campo, intento solo a pensare a restare in vita e a uccidere gli altri, Bartolomeo aveva potuto dimenticare tutto il resto.

Adesso, però, la questione si faceva seria. Stava aspettando il cognato, che aveva accettato di andare al suo padiglione quella sera, per discutere di una cosa importante.

Anche se aveva ripromesso di lasciare gli Orsini al loro destino, in realtà non riusciva a dimenticare quella che era stata la sua unica famiglia per anni. E nemmeno loro, malgrado la sua partenza improvvisa e le sue seconde nozze, erano riusciti a dimenticarsi di lui, anche se forse solo per convenienza.

I Colonna avevano ripreso a infastidire gli Orsini, forse anche per colpa dell'instabilità creatasi a Roma dopo il divorzio di Lucrecia Borja e Giovanni Sforza. Bartolomeo voleva combattere al loro fianco. Per farlo, però, voleva essere certo che Baglioni fosse d'accordo.

“Mio bravo cognato!” esclamò Giampaolo, entrando nella tenda a braccia spalancate: “Allora, perché mi avete fatto venire fino a qui? Credevo che sareste tornato a Perugia per godervi ancora un po' la vostra bella mogliettina...”

Disgustato da quelle parole, a maggior ragione perché uscite dalla bocca di Baglioni, Bartolomeo indicò la mappa e disse: “Gli Orsini mi pagheranno bene, se combatterò per loro contro i Colonna, e questo potrebbe andare a vantaggio anche della vostra famiglia. A voi sta bene?”

Giampaolo fece qualche domanda, per capire meglio. Da un lato non gli piaceva l'idea che quel nuovo cognato già si allontanasse da Perugia per combattere con quelli che gli erano stati parenti fino al giorno prima. Tuttavia, malgrado la sua poca eloquenza, l'Alviano gli illustrò un piano che andava solo a vantaggio dei Baglioni e così alla fine dovette accettare.

“Ma sia chiaro – sottolineò Giampaolo, prima di lasciare il padiglione – voi adesso siete mio cognato. Non siete più il cognato di Virginio Orsini. Anzi, del defunto Virginio Orsini.”

 

“Io sono pronto a mandare i miei frati nel fuoco!” gridò Girolamo Savonarola, che stava predicando in San Marco, in modo tale da venire incontro al volere della Signoria, che lo aveva bandito dal Duomo: “Nel fuoco! Per questa mia verità! Quello che predico!”

I presenti, assiepati all'inverosimile, trattennero il fiato. Alcuni si misero in ginocchio a pregare, altri iniziarono a inneggiare al domenicano.

Appena qualche giorno prima di quel 6 aprile, Savonarola era stato pubblicamente sfidato ad affrontare la prova del fuoco.

Girolamo ci aveva pensato a lungo e alla fine aveva ben pensato, sfruttando il popolo bue che ancora lo seguiva, di estendere questa sfida a tutti i domenicani del suo convento, facendo credere così di essere ancor più certo della propria attendibilità. Predicando a quel modo, si era detto, nessuno lo avrebbe accusato di volersi tirare indietro per paura, anzi.

“Tutti i miei frati!” continuò a gridare, aggrappato al pulpito, le guance tanto scavate da farlo sembrare uno scheletro: “E schiere e schiere di fanciulli e di donne e di secolari! Tutti nel fuoco per difendere questa verità! Che la fede non teme la fiamma!”

Mentre un boato raccoglieva le sue parole, Savonarola rincarò: “Chi è pronto ad affrontare la prova del fuoco per me, lo dica adesso!”

Come un'unica voce, tutta la folla che invadeva San Marco gridò in risposta a quell'appello. C'era chi si offriva in prima persona, chi sgomitava per farsi notare, chi ancora offriva, oltre a se stesso, i propri figli e familiari.

“Domani!” sbraitò Girolamo, sentendo qualche goccia di sudore freddo sulle tempie: “In piazza dei Signori! Domani affronteremo la verità!”

 

Giovanni si rigirò nel letto, in dormiveglia. Lui e la moglie non si erano coricati da molto. Avevano mangiato abbastanza presto, poi si erano ritirati perché Caterina non aveva voglia di intrattenersi coi figli nella sala delle letture.

Erano saliti in camera, avevano letto un po' e poi, senza averlo davvero programmato, da un bacio erano andati oltre e si erano amati come capitava quasi ogni sera. Dopo, assonnati e stanchi, avevano preso sonno e, fino a quel momento, nessuno dei due si era ancora risvegliato.

Il Medici, il viso affondato nel cuscino, sentì vagamente la moglie muoversi accanto a lui. Non molto lucido, perché ancora addormentato, pensò confusamente che stesse avendo uno dei suoi soliti incubi.

Stava per risprofondare nel sonno sordo che segue una lunga giornata, quando sentì la voce della moglie dire qualcosa con tono strozzato.

Il tempo di aprire gli occhi e cercare di orientarsi e il Popolano si rese conto che nel letto c'era qualcosa di umido che prima non c'era. Guardò Caterina e nel buio della camera – non totale solo grazie alle fiamme che ancora ardevano nel camino – la vide con il viso contratto in un'espressione di dolore che passò quasi subito.

“Che succede?” chiese l'uomo, mettendosi seduto.

“Mi si sono rotte le acque...” disse piano la Sforza, una mano sul ventre, mentre il respiro si faceva di nuovo irregolare e una nuova contrazione la faceva gemere di dolore: “Vai a chiamare la levatrice e il medico...”

Giovanni deglutì, improvvisamente del tutto sveglio e teso come la corda di un arco. Schizzò fuori dal letto e corse alla porta.

“Mettiti qualcosa!” lo riprese la moglie.

Il Medici si rese conto solo in quel momento di essere ancora completamente nudo. Afferrò le brache dall'inginocchiatoio a cui le aveva appoggiate un paio d'ore prima e le infilò.

Con addosso solo quelle, corse fuori dalla stanza e andò subito a cercare un servo. Quando lo trovò, lo afferrò per le braccia e gli ordinò di correre a chiamare la levatrice.

Dopodiché, la corsa che si faceva complicata per colpa delle sue gambe, il fiorentino arrivò alla porta del medico di corte.

Bussò più volte e quando finalmente l'anziano arrivò ad aprire, in abiti da camera, Giovanni esclamò: “Per Dio, venite! Mia moglie sta per partorire!”

Il dottore lo guardò un istante, gli occhi ancora cisposi di sonno, l'espressione un po' interrogativa che indugiava sul vestiario scarno del fiorentino. Appena colse il senso delle sue parole, però, li strabuzzò, di colpo vigile e attento e annuì frenetico.

Tornò un momento in stanza e ne uscì con la sua borsa: “Presto, portatemi da lei!”

Svegliato dal trambusto, anche Cesare Feo si affacciò dalla sua stanza e guardò verso il Medici, che stava scortando il dottore in fondo al corridoio.

“Che succede?” chiese, aggrottando la fronte nel vedere la corsetta incerta del vecchio medico e quella claudicante dell'ambasciatore, e pensando che fosse una scena quasi comica: parevano due sciancati intenti a fare una gara di lentezza.

“Sto per diventare padre!” esclamò, esaltato, il Medici e di colpo, il lampo entusiasta che gli illuminò il viso, fece cambiare del tutto l'impressione del castellano.

Non vedeva più due sciancati che si confrontavano in una gara inutile, ma un vecchio medico così attaccato alla sua signora da correre, malgrado l'età, e un uomo innamorato che se ne fregava perfino della sua malattia, per quanto era felice.

   
 
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