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Autore: Moony16    19/02/2018    1 recensioni
Berlino non era ancora una città sporca di sangue quando Caroline vi arrivò contro la sua volontà in quell'estate del 1940, quando nessuno avrebbe potuto immaginare la piega che avrebbe preso la storia. Con sè, solo una nuova identità, un nuovo nome, la stella di Davide finalmente strappata via dai vestiti e una vita intera lasciata alle spalle.
L'accompagna Joseph, un giovane ufficiale delle SS, il perfetto ariano, uno di quei uomini che potrebbe benissimo stare tra le figurine che la ragazze si passano tra i banchi di scuola, in una rivista del partito nazionalsocialista o in un volantino che incita alla guerra, per riprendersi il "Lebensraum", lo spazio vitale tedesco.
Cosa li lega? Nulla in realtà, se non un'infanzia passata insieme e un debito che pende sulla testa del giovane come una condanna.
***
LA STORIA E' INCOMPLETA QUI, MA LA STO REVISIONANDO E RIPUBBLICANDO SU WATTPAD NELL'ACCOUNT Moony_97, DOVE LA COMPLETERO'
Genere: Guerra, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Storico
Capitoli:
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Davanti a Joseph, Caroline aveva ancora le lacrime agli occhi e lo guardava, aspettando una reazione.
Lui continuava a fissare, pallido, un punto imprecisato della parete. Non provava niente. L’idea era troppo irreale, troppo assurda, impossibile. Aveva sempre considerato gli ebrei feccia, bestie da macello, esseri inferiori che minacciavano la sua razza. Ma Elly … lei era stata la parte migliore della sua infanzia. E i suoi genitori lo avevano accolto come un figlio, erano stati gentili, altruisti, attenti ai suoi bisogni, buoni con lui. L’idea che fossero ebrei non lo aveva minimamente sfiorato, mai, neanche quando lei aveva smesso di scrivergli, neanche quando aveva scoperto il loro fallimento.
Dopo una frazione imprecisata di tempo, finalmente lui alzò lo sguardo su di lei.
«perché non me lo hai detto?» riuscì solo a sibilare. Lei lo guardò confusa.
«per me era scontato … Dio, eravamo bambini! Che importanza poteva avere?»
«quando ti ho detto che ero entrato nella gioventù hitleriana! Perché, invece di smettere di scrivermi, non me lo hai detto?» urlò lui, adesso infuriato.
« ti ho mandato lettere su lettere, ho smesso di scriverti dopo due anni, e tu in tutto questo tempo non hai avuto le palle per dirmi che eri una schifo di ebrea!» scoppiò, adirato con sé stesso, che si era così umiliato, ma soprattutto con lei. Con lei, che era stata la parte migliore di lui, con lei che era ebrea.
Le si avvicinò, adesso arrossato dalla rabbia, strattonandola. Le strinse il polso, incurante del male che le provocava.
«Perché Caroline? Perché non me lo hai detto?!»  le urlò sul viso.
«perché tu mi avresti disprezzata! E io non avrei sopportato anche quello» singhiozzò infine, sebbene non fosse tutta la verità.
«volevo che tu ti ricordassi di come ero da bambina, con le guancie paffute e il sorriso sulle labbra, quella che adorava la marmellata! Guardami ora! Sono un fantasma, uno scheletro, è tanto se riesco a fare un pasto al giorno, non rido più, penso solo a come potrei fare per guadagnare qualcosa e non ci riesco! Avresti voluto questa immagine di me?» chiese lei, ora fremente di rabbia. Lui le lasciò il polso, come schifato.
«no, dopotutto anche io avrei preferito che fossi morta, piuttosto che vederti in questo modo» disse Joseph.
«non preoccuparti, lo sarò a breve, probabilmente»  lui trasalì. 
«sei malata?» chiese con durezza, nascondendo un’ansia improvvisa. Non avrebbe dovuto importargli, era ebrea, se moriva era solo meglio per loro razza. Il suo cuore però a quella notizia aveva perso un battito.
«non riesco a smettere di tossire. Vado avanti così da un mese ormai e la situazione peggiora soltanto. E poi, non riusciamo mai a mangiare abbastanza» era evidentemente spaventata. Non potevano permettersi un medico, quindi non sapeva se di trattasse di polmonite, bronchite o semplice influenza. Aveva pensato anche alla TBC ma non sputava sangue. O almeno, non ancora. 
Joseph prese un bel respiro, poi parlò, sforzandosi. Non sapeva che fare, però voleva vedere i suoi genitori. Voleva capire meglio.
«a che ora torna tuo padre?» 
«non lo so, ma stasera sarà di sicuro a casa» lui annuì.
«voglio parlargli. Verrò alle otto, quindi avvisali» disse minaccioso, per poi lasciare la casa il più velocemente possibile. Scappò via da quella realtà, troppo dolorosa e contraddittoria, assurda e inaspettata.
Che fare? Quelle persone gli avevano salvato la vita, doveva loro non solo gratitudine per gli studi o per la felicità. Doveva loro la vita. E anche tanti soldi. Facendo un calcolo pensò che due mesi del suo salario sarebbero bastati. Ma per la vita? Avrebbe abbandonato al loro destino persone che aveva amato e che lo avevano amato? Persone che lo avevano salvato? Si stupì, nel constatare che li aveva pensati come se fossero delle persone. Dovette ricordare a sé stesso che erano inferiori. Il suo cuore però, gli diceva l’opposto.
Contrariamente, avrebbe dovuto infrangere la legge. Rabbrividì al solo pensiero. Era un soldato, in tutto e per tutto, come avrebbe fatto a disobbedire così palesemente a ordini tanto espliciti? Il suo orgoglio, la sua ragione, si opponevano.
Avrebbe parlato con il signor Huger, ma non aveva idea di cosa avrebbe dovuto dirgli. Lui non era uno stupido, intuiva che presto le cose per gli ebrei si sarebbero messe davvero male. Dopotutto erano in guerra e lo sforzo bellico era notevole nonostante le vittorie. Se il Furer avesse dovuto scegliere chi sacrificare, non avrebbe avuto dubbi su chi fossero i primi della lista. Poteva certo mettergli in mano quella cospicua somma di denaro che gli doveva, esortandoli veementemente a lasciare il paese per andare in Svizzera. Quello poteva farlo. Le frontiere erano chiuse, ma con la giusta somma di denaro si aprono tutte le porte.
Ma Elly? Aveva visto come era ridotta e il piano di fuga non era assolutamente certo. Poteva capitare di tutto, potevano essere presi da altre SS, rifiutati dalla Svizzera, derubati e quindi impossibilitati a lasciare i confini tedeschi. Avrebbe potuto morire, non sopportando le condizioni di un simile viaggio. E quando avrebbe avuto bisogno, non ci sarebbe stato nessuno ad aiutarla. A proteggerla.
Come poteva permettere che affrontasse un viaggio così pericoloso? Come fare per non tradire il suo popolo, proteggerla e farla scappare? 
Entro un paio d’ore aveva un gran mal di testa, mentre la ferita, trascurata, pulsava come non mai.
Alla fine si arrese all’evidenza che non c’era altra soluzione. Lei doveva partire con i propri genitori, lui avrebbe fatto il possibile per aiutarli e si sarebbe liberato della faccenda molto presto, senza alcun senso di colpa verso nessuno e soddisfatto di come si era comportato. Certo, avrebbe detto addio ad Elly, ma a quel punto era la cosa migliore per tutti.
La sera si presentò puntuale alla catapecchia dove gli Huger abitavano. Lo accolsero con freddezza, forse avvertiti della sua uniforme e della sua reazione alla rivelazione della ragazza. Li salutò anche lui con un freddo cenno del capo e poi si ritrovarono nell’angusto salotto-camera da pranzo che probabilmente era anche la camera in cui dormiva Elly. 
«vi devo dei soldi e, mio malgrado, la vita» esordì accigliato. 
«non mi va di essere in debito con qualcuno, con degli ebrei specialmente» non mostrò quanto lo addolorasse sapere che erano ebrei e non poterli riabbracciare. Si era immaginato un altro tipo di accoglienza, aveva sperato di trovare nuovamente una famiglia in loro. 
Il signor Huber lo guardò negli occhi con durezza. I suoi capelli, una volta neri come l’inchiostro, erano quasi interamente bianchi, le rughe dimostravano un’età che non aveva e il suo volto era come svuotato. Era anche lui magrissimo, eppure una volta era stato un signore ben piantato. Se lo avesse visto per strada, probabilmente, Joseph non lo avrebbe riconosciuto.
«e cosa intendi fare?» Joseph sospirò.
«vi darò il denaro necessario per lasciare il paese. Farò in modo che siate trattati con ogni riguardo e che il compito di arrivare in Svizzera vi risulti più facile» disse in modo atono.
Il padre di Caroline rise amaramente.
«ti ricordavo più intelligente, ragazzo» affermò con un sorriso ironico privo di felicità. Era la seconda volta che sentiva una frase simile nella stessa giornata, e cominciava ad esserne infastidito.
«questo è il mio paese, non ho intenzione di abbandonarlo alla prima inconvenienza. Avevo i mezzi per andarmene, ho scelto di restare. E poi, sono un eroe nazionale, non possono farmi niente di così terribile»
«signor Huber questa non è un’inconvenienza. È un pericolo. Siamo in guerra. Se arriveranno a dover fare delle razioni con il cibo voi morireste di fame. Se servirebbero soldati per la prima linea manderanno voi, se servirà manodopera a basso costo verranno a cercare voi. È da stupidi non provare ad andarsene» disse infastidito.
«io non voglio lasciare il mio paese! Che uomo sarei, altrimenti? Un vile, un codardo, non degno di stima» Joseph si scaldò. Quell’uomo era cocciuto, parlava calmo come qualcuno che ha già preso una decisione. Una decisione che lui sapeva sbagliata. Continuarono a discutere in questi termini, mentre Joseph diventava sempre più nervoso e il signor Huber sempre più irritato. Alla fine il ragazzo sbottò:
«lei è uno sciocco! Voi non fate più parte di questa nazione, non avete neanche la cittadinanza, siete trattati alla stregue di bestie: che riguardi volete che abbiano di tutti voi?»
«non importa, Joseph. Affronterò il mio destino a testa alta, senza scappare» Joseph era livido.
«benissimo. La pensate così? Non avete idea di quanto rimpiangerete questa stupida e orgogliosa scelta» si voltò bruscamente, per rivolgersi a Caroline.
«non ho intenzione di vederti morta per le sciocchezze di tuo padre. Prepara la tua roba» ordinò con tono brusco. La ragazza strabuzzò gli occhi.
«che cosa?» urlò.
«ti procurerò dei documenti, non sarà difficile, prenderò l’atto di morte di qualche povera ragazza sola al mondo e ci metterò la tua faccia. Si chiama riciclo di identità. Domani verrò a prenderti» affermò deciso.
«papà tu non puoi …» si appellò al padre, per protestare contro quell’ordine così perentorio, che invece aveva assunto un’espressione interessata.
«la terrai al sicuro? Anche se è un’ebrea?» chiese speranzoso.
«ho giurato di proteggerla. E voi non ne siete in grado» disse altezzoso, mentre la ragione già cominciava a ribellarsi a quell’atto dettato solo dalla rabbia e dalla paura. Il padre si rivolse ad Elly.
«prepara la tua roba Caroline. Anche se credo, mio caro ragazzo, che per essere credibile le servano abiti nuovi. Noi non possiamo comprarli, quindi sarà meglio che lo faccia tu. Sembrerà che mandi un regalo alla fidanzata» Joseph annuì. Poi girò le spalle alla famiglia mentre Elly continuava a discutere circa il significato della scelta di quei due uomini, che non avevano tenuto affatto conto del suo parere.
In realtà, il destino della sua bambina era l’unica cosa che potesse dare al signor Huber un qualche rimpianto, poiché sia lui che la moglie erano decisi a restare dove erano. Non lo disse, Caroline non lo sapeva, ma la moglie era malata e un viaggio di quel genere l’avrebbe uccisa e probabilmente la stessa sorte avrebbe avuto Caroline, vista la tosse che aveva continuamente. E lui non sarebbe andato da nessuna parte senza loro due. Qualsiasi fosse il loro destino lo avrebbero affrontato insieme. Il signor Huber sapeva di essere stato sciocco a non andarsene quando avrebbe potuto, ma in quel momento era troppo tardi.
Lasciata la casa, Joseph si recò in albergo, riflettendo su come procurare dei documenti alla ragazza. Non sarebbe stato facile, però aveva buone probabilità di riuscita. 
E infatti entro la sera successiva aveva in mano una perfetta carta d’identità, autentica per giunta, che recava il nome di Emma Schuster, capelli rossi, occhi verdi ed età diciotto anni compiuti a marzo. Aveva persino la foto, ottenuta quella  stessa mattina dai signori Huber. Sotto braccio aveva tre vestiti, due paia di scarpe e un cardigan bianco, che sarebbero stati perfetti. Si incontrò con l’ebrea nella foresta, lì lei si cambiò sotterrando i suoi vecchi vestiti. Si era lavata e i capelli le ricadevano sul viso morbidi. I vestiti, scelti per non far trasparire la sua eccessiva magrezza, le davano un aspetto più sano. Il trucco leggero sul viso le diede un tocco di classe, facendola apparire molto più bella di quanto non fosse fino a pochi istanti prima. 
Joseph aveva già saldato il conto all’hotel ed era arrivato in quel luogo a bordo dell’auto concessagli dallo stato per tornare a Berlino. Passò dalla città, in modo che fosse evidente che portasse con sé una ragazza, seppur cercando di nascondere il volto dell’ebrea. Nessuno comunque la riconobbe e loro lasciarono presto la città, alla volta della capitale.
Partirono alle sei del pomeriggio ma già dopo un paio di ore Caroline era caduta in un sonno profondo, distesa nei sedili anteriori, sfinita dalle lacrime e dal dolore che le aveva provocato lasciare i suoi genitori, consapevole che non avrebbero potuto neanche scambiarsi una lettera. Joseph ogni tanto la guardava pensieroso. Non gli piaceva per niente quello che stava facendo. Avrebbe preferito mille volte mettere in mano a quella famiglia i soldi che gli doveva e lasciarsi alle spalle quella brutta faccenda. Ora invece doveva accollarsi il mantenimento di quella disgraziata, doveva cercare una scusa plausibile per cui una ragazza dovesse vivere con lui senza che fossero sposati e sperare che lei non si tradisse. Quando pensava che stava rischiando la vita per un’ebrea il sangue gli ribolliva nelle vene e aveva una voglia matta di scaricarla in mezzo alla strada. Poi però tirava avanti con un sospiro.  Guidò tutta la notte, con la ferita che gli doleva da impazzire e un silenzio assoluto che lo invogliava al sonno. Quando, alle sei del mattino, arrivarono in un paesino vicino Berlino, lui si fermò sfinito, per fare almeno colazione. Svegliò la ragazza e insieme si avviarono in un minuscolo bar deserto. Nella vetrina, accanto ai dolci, svettava l’insegna “vietato l’ingresso agli ebrei”. Caroline, guardando quella scritta esitò, poi entrò incerta, spinta dalla mano di Joseph piantatagli nella schiena.
Nel bar, lui comprò un caffè e si sedette in silenzio. Lei lo seguiva come un’ombra, imbronciata, insicura se essere grata o arrabbiata. Così si guardava intorno, cercando di nascondere la fame e di non fissare troppo la torta al cioccolato esposta nella vetrina.
Joseph si accorse del suo sguardo. 
«hai fame?» chiese brusco. Lei annuì impercettibilmente. Sarebbe stato dolce mangiare la torta preferita della ragazza sotto il suo sguardo deluso. Anche solo per poter prendersi la vendetta per tutto quello che avrebbe passato di lì a qualche ora. Ma si accorse che il cameriere li osservava. Con un sospirò ordinò due fette di torta e un cappuccino. 
Elly si sorprese. Avrebbe potuto lasciarla in macchina, avrebbe potuto evitare di comprarle la torta. Quella era la sua preferita e sembrava  che lui non lo avesse dimenticato. 
Mentre mangiava, si sforzava di non avere fretta. Le sembrava la cosa più buona che avesse mai assaggiato, e cercava di godersi ogni singola briciola. Non sapeva quando avrebbe potuto mangiarne di nuovo e lei ne era sempre stata golosissima. Lanciava in continuazione occhiate a Joseph, piene di gratitudine e stupore. Lui, sempre accigliato, guardava fuori la finestra, seccato da ogni cosa che la riguardasse.
In fondo Elly cominciava a credere che a lui importasse di lei, nonostante tutto, perché altrimenti non sarebbe stata lì, con una nuova identità, vestiti puliti e una torta al cioccolato davanti.
In quel momento, avrebbe davvero voluto abbracciarlo e si era pentita dell’accoglienza fredda che gli aveva riservato: in fondo, sembrava non se la fosse meritato.
Lui però continuava a tenere gli occhi di ghiaccio fuori dalla sua portata, come a scansare la sua gratitudine e a sottolineare che le sue azioni erano quasi necessarie per la loro copertura e che l’aveva portata con sé solo per lo spiccato senso dell’onore che lo aveva sempre caratterizzato. 
Così Elly continuava a mangiare, la pancia finalmente piena dopo troppo tempo, e la bocca sporca di cioccolato. Se Joseph si fosse fermato un attimo a guardarla, si sarebbe accorto del modo in cui splendeva in quel momento. Era stata assalita da un’ondata di positività, era certa che tutto sarebbe andato per il meglio. Credeva che la sua permanenza con Joseph sarebbe stata allegra, magari con qualche attimo di felicità e che prima o poi sarebbe riuscita a rivedere i suoi genitori. Già pensava ad andare in America o in Svizzera dopo la fine della guerra, lasciandosi dietro quel paese di ingiustizie in cui doveva avere un nome falso per poter entrare in un bar e mangiare un po’ di torta. Non gli importava cosa ne pensava suo padre, lei odiava la Germania e niente l’avrebbe resa più felice che lasciarla per sempre.
Erano quasi le otto quando Joseph, dopo aver consegnato l’auto militare, aveva girato la chiave nella serratura decisamente poco oleata della sua casa a Berlino. 
Si trattava di un appartamento in un palazzo residenziale nel quartiere del Wannesee. Quasi tutte le finestre avevano una vista sul lago e l’altezza –si trovava al terzo piano- permetteva di vedere un sprazzo dell’immensa città che aveva lasciato a bocca aperta Elly. Si vedevano i palazzi, simili a quelli dove si trovava l’appartamento, e, in lontananza, le case periferiche degli operai, qualche statua che ritraeva il Fhurer. A molte finestre erano appese, pulite e scintillanti nel sole del mattino, bandiere vermiglie con la svastica al centro. La strada da cui si entrava nel palazzo era larga e pulita, vi passeggiava gente distinta e vi si trovavano piccoli negozi adorabili, come bar, panetterie, fiorai e giornalai. Era un luogo elegante, seppur non del tutto signorile. Ma, anche se poteva permetterselo, Joseph non avrebbe saputo che farsene di un’enorme villa in cui vivere da solo. Se si fosse sposato, un giorno, allora avrebbe preso una casa più grande. Intanto il suo appartamento non era certo un buco: c’era uno studio spesso ingombro di carte, un salotto spazioso, una stanza da pranzo elegante con ben due tappeti, che ne ricoprivano quasi interamente il pavimento,  due camere da letto, una per lui e un’altra per eventuali ospiti, con tanto di bagno in camera, una cucina e, annessi ad essa, una stanzetta per la servitù e un piccolo bagno di servizio.  La porta d’ingresso dava su una stanzetta circolare, con la carta da parati argentata e decorata con ghirigori leggermente in rilievo, su cui c’era un appendiabiti , un piccolo sedile per le borse delle signore da un lato e un grande specchio impolverato dall’altro. Dava, tramite un ampio arco, su un corridoio decorato con la stessa carta da parati, su cui si trovavano eleganti tappeti e qualche quadro. Qui si aprivano varie porte. L’ultima era quella della cucina, e anche la stanza in cui Joseph si diresse con passo deciso, seguito timidamente da Elly.
La casa odorava di chiuso ed era ricoperta di polvere in ogni dove. Subito Joseph aprì tutte le finestre nella stanza, guardandosi intorno quasi spaesato dalla mole di lavoro che lo aspettava. Aveva urgente bisogno di una cameriera, se voleva che quel luogo tornasse a essere vivibile. Con un gesto brusco, scostò il lenzuolo poggiato sul tavolo rotondo, buttandolo di lato, poi cadde su una sedia, una mano sul viso, mentre il dolore al fianco e le preoccupazioni lo invadevano.
Elly si guardava intorno spaesata. Rispetto alla casa in cui aveva passato l’infanzia era piccola, ma in confronto alla topaia in cui aveva vissuto l’ultimo anno era una reggia. 
Ad un tratto Joseph, colto da un’illuminazione, alzò lo sguardo per fissarla.
«sai fare il bucato?» le chiese d’un tratto. Lei, presa alla sprovvista, aveva annuito. Per un periodo aveva anche lavorato, dopo che il padre aveva fallito, ma era stata licenziata da circa un anno.
«e spolverare? Cucinare? Insomma tutte le cose del genere … sai farle?»
«ho lavorato un paio d’anni come cameriera» disse secca, ricordando amaramente il modo in cui era trattata nella casa dei “signori” e la miseria con cui la pagavano.
«perfetto …» disse Joseph con un sospiro di sollievo. Aveva trovato la soluzione a buona parte dei problemi che lo avevano tormentato durante il viaggio. Perché non ci aveva pensato prima? Probabilmente nella sua mente era impossibile che Elly facesse simili lavori.
«allora comincia a lavare le lenzuola, sperando che entro stasera siano asciutte. A meno che non preferisci dormire in un letto che puzza di chiuso» disse lievemente sollevato alzandosi e cominciando a sbottonare la giacca.
«e già che ci sei lava anche un pigiama e qualche vestito civile» disse facendo scivolare la giacca dalle sue spalle larghe, per poi poggiarla sulla sedia.
«dopo apri le finestre nella mia camera e spolverala, se hai tempo lo fai anche nella tua, che ora ti mostro. Così arieggiano un po’, c’è una puzza che sono sicuro non sopravvivrei stanotte» aggiunse sfibbiando i polsini della camicia candida per poi alzarli, mostrando i muscoli delle braccia, sospirando per il sollievo dal caldo.
Elly era rimasta impalata a guardarlo, come se non riuscisse a credere alle sue parole.
«i-io non sono la tua cameriera! Capisco che non sai fare il bucato, ma il resto puoi benissimo farlo da solo» disse con un filo di voce. Lui la guardò tagliente.
«non sei la mia cameriera? E io come diamine dovrei assumere una cameriera con te che giri per casa? Ci vuoi entrambi morti per caso?» disse con un bisbiglio che le fece gelare il sangue nelle vene.
«ti sto salvando la vita, nel caso non te ne rendessi conto, mettendo a rischio la mia. Ti darò da mangiare, dei vestiti nuovi, un tetto sicuro sopra la testa. È il minimo che tu possa fare» aggiunse spavaldo.
«non è niente che i miei genitori non  abbiano già fatto con te: altrimenti mi avresti lasciata in quella topaia» disse fremente di rabbia Elly. Lui si alzò dalla sedia e le si avvicinò, sovrastandola dall’alto della sua altezza
«ma tu sei un’ebrea. Una schifosissima, repellente ebrea, che non ha nessuna speranza di vita se non fa esattamente ciò che io dico di fare. Quindi, o ti comporti da cameriera e fai la buona, oppure ti butto in mezzo alla strada e  assumo una cameriera vera, una donna ariana, che probabilmente merita questo posto di più di te» le rispose a tono lui, sconcertato.
«ti è chiara, adesso, la tua posizione?» chiese gelidamente un attimo dopo.
«hai detto a mio padre che mi avresti protetta. Hai dato la tua parola!» Elly si appellò all’ultima cosa che le veniva in mente per contrastare quella che considerava un’ingiustizia. Lui ghignò.
«ho detto che ti avrei protetta dal regime, non dalla tua stupidità» disse, sapendo che lei non avrebbe potuto ribattere. L’avrebbe tenuta al sicuro, ma alle sue condizioni. Si sarebbe preso la rivincita per le sciocchezze di suo padre, che lo aveva messo in una posizione tanto scomoda. Si allontanò e si girò a osservare fuori dalla finestra, tirando fuori la camicia dai pantaloni e trattenendo un gemito quando il panno sfregò sulla ferita.
«e quando finirai con la mia stanza da letto, pulirai anche il bagno» aggiunse come se non fosse mai stato interrotto. A Elly non rimase che guardare in basso, cercando di cacciare indietro le lacrime che già premevano per uscirle dagli occhi.

Questa storia è stata una sfida per me, che non avevo mai scritto un'orignale, a maggior ragione perché ha un'ambientazione storica. Ho cercato di essere il più accurata possibile, ma se notate qualche svista, per favore segnalatela! I primi capitoli sono già scritti quindi, salvo imprevisti, dovrei pubblicare ogni lunedì: nel frattempo scriverò il resto.

Grazie e alla prossima!

  
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