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Autore: Tigre Rossa    20/02/2018    2 recensioni
Hector amava tutta la sua famiglia, e questo era un dato di fatto.
Come poteva non amarla? Era la cosa più bella che avesse. L’unica che fosse davvero sua nonostante tutti i suoi errori e tutti i suoi sbagli.
Amava più di qualsiasi cosa al mondo la sua Imelda e la loro Coco, quella famiglia che aveva perduto fin troppo tempo prima e che mai aveva smesso di desiderare.
Amava tutti quei parenti che non aveva mai avuto modo di conoscere in vita ma che comunque l’avevano accolto a braccia aperte tra loro, come se il suo posto fosse al loro fianco da sempre.
E amava anche la sua famiglia vivente, che lo incantava con quella sua energia instancabile e magnetica.
Ma che nella sua famiglia vivente Miguel fosse il suo preferito . . . beh, quello era un altro dato di fatto.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Mijo

 

 


 

 

 

Hector amava tutta la sua famiglia, e questo era un dato di fatto.

Come poteva non amarla? Era la cosa più bella che avesse. L’unica che fosse davvero sua nonostante tutti i suoi errori e tutti i suoi sbagli.

Amava più di qualsiasi cosa al mondo la sua Imelda e la loro Coco, quella famiglia che aveva perduto fin troppo tempo prima e che mai aveva smesso di desiderare.

Amava tutti quei parenti che non aveva mai avuto modo di conoscere in vita ma che comunque l’avevano accolto a braccia aperte tra loro, come se il suo posto fosse al loro fianco da sempre.

E amava anche la sua famiglia vivente, che lo incantava con quella sua energia instancabile e magnetica.

Ma che nella sua famiglia vivente Miguel fosse il suo preferito . . . beh, quello era un altro dato di fatto.

 

 

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Il primo anno che Hector poté attraversare il ponte era davvero, davvero nervoso.

Passò tutta la giornata di fronte allo specchio, in camera da letto, ad aggiustarsi i capelli, lisciarsi i vestiti nuovi di zecca, lustrarsi le scarpe e soprattutto a togliersi e rimettersi il cappello, come per decidere in che modo stesse meglio.

Imelda capiva la sua agitazione, e bene. Ma dopo parecchie ore di questi preparativi infiniti era anche abbastanza esasperata.

Per questo, quando Hector si tolse per la trentesima volta il foulard che portava al collo, la donna alzò rassegnata gli occhi al cielo e sbottò, a metà strada tra lo stanco e il divertito “Vuoi finirla? Sei tirato a lucido più di quando ci siamo sposati.”.

Hector sobbalzò a quelle parole, come se solo in quel momento si fosse reso conto della presenza della moglie, e il foulard gli scivolò di mano, cadendo a terra. “Scusami.” balbettò, imbarazzato “È che . . . sono nervoso.” ammise, abbassando appena lo sguardo.

Imelda non riuscì a trattenere un piccolo sorriso intenerito, e gli si avvicinò. “Lo so, ma non hai motivo di esserlo.” lo rassicurò, accarezzandogli il braccio  “Sarà una bella festa, vedrai.”.

Lo scheletro però non parve convinto, e dopo qualche secondo di silenzio ed incertezza mormorò sottovoce quel dubbio che non riusciva a zittire, quella paura che lo faceva tremare dentro “E se . . . se non potrò passare nemmeno quest’anno?”.

La moglie lo guardò per qualche momento, colpita dal profondo timore nascosto da quelle parole. Poi, le sue mani andarono a quelle dell’altro e si intrecciarono con esse in una stretta rassicurante e gentile, come facevano un tempo, quando erano solo due ragazzini pieni di speranze e sogni, con ancora un futuro davanti.

“Hai sentito quello che ci ha raccontato Coco.” disse piano “Miguel ha parlato a tutta la nostra famiglia di te. Si è dato da fare affinché quel tabù che ho imposto su di te e sulla musica svanisse. Stava tentando di rivelare al mondo dell’inganno di Ernesto. Davvero credi che, dopo tutto questo, possano dimenticarsi di te? Che Miguel possa dimenticarsi di te?” chiese, guardandolo in quei grandi occhi preoccupati.

L’uomo esitò, come se non sapesse bene in che modo rispondere, e Imelda sospirò appena, per poi sciogliere una mano dal loro intreccio e posarla sul petto del compagno, proprio lì dove, una vita prima, stava il suo cuore. “Ti vuole bene, e lo sai.” sussurrò dolcemente “Puoi sentirlo. È l’amore che prova per te a mantenere in vita il tuo ricordo, ora che Coco è qui con noi.”.

Hector chiuse gli occhi, ben consapevole di tutto questo, ma incapace di riuscire a togliersi di dosso tutti quegli anni di speranze continuamente infrante. Dopo aver aspettato per così tanto tempo, ora che aveva davvero una possibilità anche solo il pensiero di non riuscire nemmeno quella volta era semplicemente troppo.

“Lo so. Ma . . . “ provò ad obbiettare, coprendo con la mano libera quella di lei.

“Niente ma.” lo bloccò subito la donna, quasi ferocemente.

Si piegò e raccolse da terra il foulard, per poi avvolgerglielo attorno al collo e fermarlo in un fiocco elegante, con infinita cura.

“Tu oggi tornerai a casa con noi, e questo è quanto.” affermò decisa lisciandolo con i palmi, per poi rialzare lo sguardo sul marito che la osserva sorpreso e un po’ toccato.

Sorrise e lo prese per mano. “Andiamo ora, o faremo tardi alla tua prima riunione di famiglia.” lo esortò, e quando lui si costrinse a sorridere ed annuì lo guidò fuori, senza mai sciogliere la loro stretta.

 

 

Hector era un po’sopraffatto.

Da Santa Cecilia, dai rumori e dai colori della vita che scorreva tutta attorno a lui, da quella marea di persone vive, con un cuore nel petto e il sangue caldo nelle vene, che aveva visto nel cimitero, per strada, letteralmente ovunque. Dall’accogliente casa così piena di entusiasmo in cui erano entrati e da quella piccola folla di persone che Imelda gli aveva presentato un po’ orgogliosamente, chiamandola ‘la nostra famiglia vivente’.  Dal chiacchiericcio di Coco, che si era entusiasmata come una bimba nel rivedere tutte quelle persone care a cui aveva dovuto dire addio solo qualche mese prima, e che aveva iniziato ad indicargliele una per una, parlando di loro con una dolcezza e tenerezza infinita. Dal suo improvviso silenzio quando aveva visto Elena, sua figlia, e quello sguardo quasi doloroso che gli aveva rivolto. Da come aveva compreso al volo cosa gli stesse chiedendo ed aveva semplicemente annuito, osservando poi con l’anima stretta stretta la sua bambina andare dalla propria figlia ed accarezzarle dolcemente il viso, anche se lei non poteva sentirla. Da come si era sentito partecipe di quel dolore che poteva comprendere così bene –quanti decenni aveva gridato al vuoto al solo pensiero di non poter rivedere la sua, di figlia?-,  un dolore comune a tutti i genitori ormai solo ombre.

Era sopraffatto da tutta quella vita e quella morte insieme, e da tutto ciò che stava in mezzo.

Talmente sopraffatto che ci mise un po’ a rendersi conto di qualcosa, qualcosa che per un attimo gli fece mancare il respiro.

Si voltò verso Imelda, che era al suo fianco, come sempre. “Non vedo Miguel.” disse,  improvvisamente in pensiero “Non sarò andato via di nuovo, vero?”.

La donna alzò gli occhi al cielo, allungò una mano e gli fece girare delicatamente il viso di lato, verso una stanza dalla porta socchiusa di poco “Guarda lì, preoccupatone.”.

Lo scheletro strinse gli occhi e riuscì ad intravedere una piccola figura di spalle. Una figura che conosceva fin troppo bene.

“Sta solo dando gli ultimi tocchi all’ofrenda.” gli spiegò la moglie, dolcemente “Di solito se ne occupa Elena, ma credo che questa volta abbia voluto farlo lui.”.

“Oh.” Esitò per un momento, ma alla fine mormorò “I-io allora vado da lui. Va bene?”.

Imelda sorrise, come se se lo aspettasse “Ma certo. Salutalo anche da parte mia.”.

Hector rispose al suo sorriso e poi si avvicinò alla porta socchiusa. C’era troppo poco spazio per entrare, così la spinse un po’ e questa si spostò con un lieve cigolio, quasi impercettibile.

Ma probabilmente non era poi tanto impercettibile, perché a quel suono il bambino si girò, e il musicista si ritrovò di nuovo di fronte, dopo tanti mesi, il visino allegro e gli occhi luminosi del suo piccolo Miguel.

Il ragazzino guardò nella sua direzione per qualche secondo, prima di sorridere e mormorare, cogliendolo completamente impreparato “Hola papà Hector! Ti stavo aspettando. Sapevo che non avresti fatto tardi alla tua prima festa in famiglia. “.

Lo scheletro rimase senza fiato, del tutto preso alla sprovvista “Miguel?” balbettò, incredulo “Riesci . . . riesci a vedermi?”.

Lui non parve sentirlo e disse ancora, indicando con una mano l’altarino dietro di sé “Guarda un po’ chi c’è sull’ofrenda, quest’anno.”.

Hector, ancora più confuso, seguì la direzione indicata dalla sua mano e per un momento sentì quel cuore che non aveva più stringersi forte. Là, proprio al centro dell’ofrenda, stava la vecchia foto che appena un anno prima aveva stretto tra le mani. Ma questa volta la parte strappata era lì, al suo posto, e un piccolo sé stesso, vivo, giovane e senza alcuna idea di quale sarebbe stato il suo futuro gli restituiva lo sguardo.

Fece qualche passo in avanti, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quel piccolo miracolo, fino a raggiungere il bambino, ma lui non parve accorgersene. Forse non lo poteva vedere, dopotutto. Forse poteva sentire solo la sua presenza, sapere che era là. Ma già questo non avrebbe dovuto essere possibile. Quindi, perché . . . ?

La voce del bambino si insinuò tra i suoi pensieri, distogliendolo da essi “Me l’ha data mama Coco. L’aveva conservata lei per tutto questo tempo. Ma sicuramente te l’ha già raccontato lei stessa.”. Si fermò per un momento, mordicchiandosi il labbro e dondolandosi sui talloni, prima di ammettere in un soffio di fiato, con gli occhi bassi “Ci manca, mama Coco. Mi manca, e tanto. Però sono felice di sapere che ora voi due vi siete finalmente potuti riabbracciare.”.

Il musicista si voltò verso di lui, ma adesso il ragazzino si era girato e aveva lo sguardo fisso sulle foto dell’ofrenda, come se stesse pensando a qualcosa. Dopo qualche secondo riprese a parlare, quasi con orgoglio “In questi mesi mi sono dato un po’ da fare. Abbiamo rivelato al mondo quello che ti ha fatto de la Cruz. Abbiamo messo in mostra le tue lettere con i testi delle tue canzoni, assieme alla tua chitarra. Hai tutta la fama che ti meriti, ora.” spiegò per poi aggiungere, con la voce un po’ commossa “È un po’ tardi, forse, ma almeno adesso verrai ricordato da tutto il mondo, e per sempre. Non rischierai mai più di essere dimenticato.”.

Quelle parole colpirono Hector nel profondo. Quando parlò, la sua voce tremava, ma era sincera e colma di affetto “Non voglio essere ricordato dal mondo, mijo. A me basta che sia tu a ricordarmi. Il resto non conta.”.

Miguel non reagì a quelle parole. Non poteva davvero sentirlo, dopotutto.

Ma qualcosa parve avvertire, perché sorrise e solo dopo qualche momento chiese, quasi in maniera malandrina  “Ah, rischio altre maledizioni se uso la tua chitarra?”. Si porto una mano ai capelli, scompigliandoseli appena, e solo in quel momento il morto si rese conto che era vestito come un vero musicista, e che un cappello quasi più grande di lui era per terra, al suo fianco, mentre la sua vecchia chitarra era proprio davanti a lui, appoggiata contro l’ofrenda. “Non me la sento di chiedere ai miei genitori soldi per una nuova. E poi, suonarla mi fa sentire un po’ come se tu fossi di nuovo accanto a me.”.

L’antenato si sentì colmo di calore a quell’affermazione tanto dolce e quella domanda la cui risposta gli sembrava così scontata. “Ma certo che puoi suonarla, chamaco.” mormorò, un po’ commosso “È tua, adesso.”.

Il ragazzino si batté la mano sulla fronte, come se si forse appena ricordato di una cosa importante “È vero, forse non sai la grande novità!” esclamò entusiasta, con gli occhi che gli brillavano come due piccole stelle scure “La nostra famiglia ha accettato di nuovo la musica! Ora posso essere un musicista, un vero musicista, senza dover rinunciare a quelli che amo. Non riesco ancora a crederci!”.

Un sorriso sincero illuminò il volto dello scheletro “Sei sempre stato un vero musicista.” affermò, non senza del genuino orgoglio “L’ho capito quando ti ho sentito cantare per la prima volta. Hai la musica nelle vene, piccolo mio.”.

Miguel, ignaro di tutto ciò, continuò a parlare, esplodendo quasi dalla gioia “Per ora mi sto solo allenando, ma non sono mai stato tanto felice. Ho partecipato ad un paio di gare, qui in città, e ho anche vinto! Mi sembra un sogno! Io . . .”

“Miguel!” Una voce alta, dolce ed improvvisa colse entrambi di sorpresa, interrompendo quel piccolo monologo.

Il bambino si girò verso la porta, gridando in risposta “Arrivo, mama! Cinque minuti!”. Poi, si rigirò di nuovo verso l’ofrenda. Il suo viso sembrava quasi teso ora, e si torturava le mani, come se fosse indeciso su qualcosa.

Rimase per qualche millesimo di secondo in silenzio, ma poi fece, a voce talmente bassa che riuscì a coglierla a stento “Voglio . . . voglio farti sentire una cosa. Mi sto ancora esercitando, ma voglio che tu senta.”.

Allungò la mano destra verso la chitarra, ma prima di toccarla sussurrò scherzosamente “Non maledirmi, d’accordo?”.

Hector rimase completamente immobile, troppo stupito per fare o dire qualsiasi cosa. Osservò suo nipote prendere la chitarra, sedersi a terra di fronte all’ofrenda, posizionare le dita sulle corde e chiudere gli occhi. E, dopo un momento che gli parve lunghissimo, iniziò a suonare per lui.

Miguel suonò, suonò con la consapevolezza di un musicista espero e con la passione di un bimbo alle prime armi. Ad occhi chiusi, ed accompagnando ogni melodia a voce bassa, quasi sussurrando le parole, suonò tutte le canzoni che aveva sentito da Hector nella Terra dell’Aldilà. Suonò Juanita, suonò Un Poco Loco. Suonò Ricordami, e sentire quella melodia suonata da lui l’anima di Hector si strinse ancora un po’ di più.

Scivolò al suo fianco quando le ultime note si distolsero nell’aria, senza parole, incapace di fare altro che riempirsi gli occhi di quel piccolo miracolo vivente che era suo nipote.

“Ay, mijo . . “ fu tutto quello che riuscì a dire, prima che la voce gli cedesse. Sollevò una mano scheletrica e, proprio come aveva visto fare a Coco poco prima, gli sfiorò il viso nello spettro di una carezza.

Il bambino rimase immobile, ad occhi chiusi, ma rabbrividì, quasi avesse avvertito un soffio di fiato sulla pelle. Quando li riaprì erano fermi, per quanto colmi di emozione, e la sua voce calda e sicura “C’è altro. Una canzone che ho scritto io. Pensando a te e a quello che mi hai insegnato.” ammise “Ma non voglio suonarla qua. Voglio che la senta tutta la famiglia, com’è giusto che sia.”. [1]

Hector sentì gli occhi pizzicargli appena, e dovette sbattere le ciglia un paio di volte per trattenere le lacrime. “Miguel, io . . . non so cosa dire.” mormorò senza fiato, incapace di distogliere lo sguardo da lui, come se temesse che se l’avesse fatto tutto sarebbe scomparso, come qualsiasi altro sogno.

Miguel socchiuse le labbra, come per dire qualcosa, ma un’altra voce lo chiamò da fuori, così si limitò a sospirare ed ad alzarsi da terra, stringendo la chitarra in una mano e l’enorme cappello nell’altra.

“Andiamo?” chiese, sorridendo “Altrimenti gli altri inizieranno senza di noi.”.

Hector si alzò a terra a sua volta ed osservò il bambino correre fuori, il viso sorridente e gli occhi pieni di entusiasmo, e solo quando sì sentì abbastanza stabile sulle gambe tremanti lo seguì fuori.

 

La prima cosa che fece, appena uscito da quella stanza, fu cercare sua moglie.         

 

La trovò seduta sui gradini dell’ingresso, mentre osservava con un sorriso intenerito la più piccola della famiglia Rivera, stretta tra le braccia della sua mamma, accarezzare il pelo morbido di Pepita.

Quando la raggiunse, lei alzò subito gli occhi per incontrare i suoi, ma il marito parlò prima che potesse fare altro “Imelda…Miguel può vederci o sentirci?”.

La donna parve confusa da quella domanda “Perché me lo chiedi?”.

Hector si sedette accanto a lei e le raccontò tutto, gesticolando e con la voce che vibrava come una corda tesa. Lei rimase ad ascoltare in silenzio fino alla fine, i grandi occhi scuri colmi di stupore.

“Non so cosa dirti.” rispose  piano, stringendosi nelle spalle ed accarezzando Pepita che era corsa a rifugiarsi nella sua gonna “Di regola, i viventi non possono nemmeno avvertirci. Ma ci sono casi in cui ci intravedono o sentono un nostro sussurro. A volte, i bambini molto piccoli riescono a vederci, anche se non capisco che siamo solo anime.” spiegò, indicando con un cenno del capo la piccola Socorro che proprio in quel momento li stava fissando, ridendo e muovendo le manine nella loro direzione. [2]

“Però Miguel è stato tra di noi ed ha attraversato il confine tra i nostri mondi uscendone indenne.” aggiunse pensierosa “Forse può sentire la nostra presenza. Forse sapeva che l’avresti cercato. O forse lo sperava. Gli manchi tanto quanto lui manca a te, in fondo.” disse infine, con una nota di tenerezza nella voce.

“Lui non mi manca.” ribatté Hector, quasi d’istinto.

Imelda fece un sorriso stanco, scuotendo appena la testa “Non sono morta ieri, mi amor.” lo rimproverò piano per quella debole bugia “Ti manca.”.

Il musicista tentò di ribattere, ma poi i suoi occhi furono catturati proprio da Miguel, che aveva appena raggiunto sua madre e, dopo aver fatto qualche smorfia alla sorellina per farla ridere, l’aveva resa tra le braccia ed aveva iniziato a canticchiarle qualcosa a bassa voce, cullandola con affetto.

Hector si sentì ancora di più sopraffatto a quella scena e, con un piccolo sospiro, ammise quasi a malincuore “È vero, mi manca.”.

Certo che gli mancava. Era stato il primo, dopo tanto tempo, a credere ancora in lui, a fidarsi di lui e a essere fiero di lui. Era stato il primo, da quando era morto, a volergli bene.

Come poteva non mancargli, il suo piccolo mijo?

 

 

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Il secondo anno, Hector era nervoso quasi quanto la volta precedente.

Attraversare il ponte gli faceva ancora un effetto strano. Camminare per le strade di Santa Cecilia ancora di più. Ed essere circondato da umani . . . beh, bisogna davvero dirlo?

Forse proprio per questo non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo quando arrivò alla casa della sua famiglia vivente, nel ritrovasi in quel luogo già così familiare, nonostante fosse in realtà tanto estraneo.

I suoi occhi scattarono subito alla ricerca di Miguel, proprio come l’anno prima, e questa volta riuscirono facilmente nel loro intento.

Il ragazzino era in cortile e teneva la sorella per le manine, guidandola mentre muoveva alcuni passi incerte sulle gambe ancora deboli, nel goffo tentativo di rincorrere il povero Dante tra le risate del più grande.

Rimase a fissare il nipote per un po’, preso quasi alla sprovvista.

Era cambiato, nell’ultimo anno. Si era alzato di almeno cinque centimetri, il suo viso aveva iniziato a perdere un po’ il suo aspetto paffuto e i suoi capelli si stavano lentamente allungando. Indossava ancora lo stesso completo da mariachi dell’anno precedente, ma si vedeva che iniziava ad andargli un po’ piccolo. E c’era una nuova serietà nei suoi gesti, una maggiore consapevolezza nel modo in cui teneva d’occhio la sorellina e la sosteneva, facendo attenzione affinché non si facesse male. Sembrava così . . . così cresciuto.

Al suo fianco, Coco batté le mani, incantata dalla vista dei suoi due nipotini “Come sono diventati grandi!” esclamò, commossa “Sono una meraviglia, tutti e due!”.

La piccola Socorro, quasi l’avesse sentita, alzò la testa verso di loro e sorrise, lo stesso identico sorriso dolcissimo della sua bis-nonna che riuscì a strappare un suono commosso ad Hector.

Imelda gli lanciò un’occhiata divertita, e lui tentò di mascherare la sua emozione con un colpo di tosse non molto convincente. “Cosa c’è?” chiese imbarazzato, tentando di distrarla.

La donna scosse appena la testa. “Nulla.” lo prese a braccetto ed osservò con un enorme sorriso i due bambini “Sono davvero dolcissimi.”.

Hector tornò a guardarli e rimase sorpreso dal rendersi conto che ora Miguel guardava nella stessa direzione della piccolina, come se stesse cercando di capire a cosa – o a chi- stesse sorridendo.

Dopo qualche breve secondo, chiamò a gran voce il padre e gli chiese se poteva badare a Coco al posto suo mentre lui andava ad aggiustare una cosa sull’ofrenda. Il genitore lo raggiunse subito e prese la figlia tra le braccia, lasciandolo libero di andare.

Il ragazzo allora si girò e praticamente corse nella stanza in cui avevano preparato l’ofrenda, lasciando la porta socchiusa più o meno come aveva fatto l’anno precedente.

Dopo qualche momento di incertezza, il musicista sciolse con dolcezza la stretta della moglie e lo seguì, trovandosi costretto ancora una volta a spostare la porta per entrare. Questa scricchiolò appena, ma Miguel, seduto a gambe incrociate a terra, non si scompose.

Rimase in silenzio per più o meno due minuti prima di salutarlo, quasi avesse colto solo in quel momento la sua presenza “Hola, papà Hector.”.

Hector sorrise “Hola, chamaco.” rispose, raggiungendolo e sedendosi accanto a lui “Sai, credo che tu stia crescendo troppo in fretta. Rallenta un po’, o dovrai buttare questo completo nel giro di qualche mese.”.

“Ho così tante cose da raccontarti, quest’anno!” esclamò Miguel, gesticolando con veemenza e parlando velocemente, quasi temesse di non avere il tempo di dire tutto ciò che voleva “Non ho avuto un minuto di respiro, davvero, sta succedendo tutto così velocemente! Ho iniziato a frequentare una scuola di musica – una vera scuola di musica, con musicisti e maestri veri! E ho iniziato ad esibirmi in giro ed a fare qualche saggio oltre che a continuare con le gare. Mi esercito praticamente ogni volta che ho un momento libero, e i miei per permettermelo mi hanno anche esonerato dalla fabbricazione di scarpe. Ora mi occupo semplicemente di portarle a chi ci richiede la consegna a domicilio, ma anche così mi sembra che il tempo per la musica non mi basti mai.”.

Il sorriso del fantasma si fece ancora più grande all’evidente entusiasmo del nipote “E’ una cosa bellissima, mijo.” si complimentò, sincero “Ma stai attento a non farti trascinare troppo. La musica è importante, ma la tua serenità e la tua famiglia molto di più. Impara a prenderti del tempo per te stesso e per stare con i tuoi cari, anche se questo significa toglierne un po’ alla musica. Sei giovane, Miguelito. Hai tutto il tempo del mondo, per esercitarti.”.

Il ragazzo, del tutto ignaro delle sue parole, continuò a parlare e a parlare di tutto e di più. Parlo dei suoi compagni alla scuola di musica, di come abuelita Elena fosse diventata la sua maggiore fan e sostenitrice, di come Coco si rannicchiasse sempre accanto a lui quando si allenava e restava ad ascoltare fino ad addormentarsi. Parlò di quanto si sentisse felice, ora, e completo, e finalmente a casa.

Parlò e parlò, e mentre parlava tutte quei piccoli cambiamenti svanirono, facendolo apparire agli occhi di Hector ancora una volta come quel piccolo bimbo dal viso dipinto e profondamente incapace di stare in silenzio che aveva conosciuto tre anni prima.

Cosa che ovviamente non poté non strappargli un sorriso ancora più grande.

 

 

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Il terzo anno, Hector si limitò a dare solo un’occhiata generale attorno a sé, prima di raggiungere l’ofrenda.

Miguel, ancora una volta, era lì, seduto per terra e tutto intento ad accordare la chitarra con la lingua tra i denti e lo sguardo concentrato.

Il musicista sorrise nel vederlo e lo raggiunse, sedendosi di fronte a lui per osservarlo lavorare. Subito notò i piccoli calli sui suoi polpastrelli, la prova più evidente dell’impegno e della costanza che stava mettendo in quegli anni per essere all’altezza del suo sogno. Anche lui li aveva avuti, appena più duri di quelli, e ricordava bene la soddisfazione che aveva provato quando avevano iniziato a formarsi.

Il ragazzo si sistemò meglio, massaggiandosi per un momento una gamba evidentemente addormentata, per poi improvvisare qualche veloce melodia.

Hector storse la bocca, divertito “Attento, mijo. Fai scivolare troppo il pollice. Sii meno morbido.” lo corresse istintivamente, notando uno dei primi errori che lui stesso da autodidatta era stato costretto a correggere, quando aveva iniziato.

Poi si congelò, rendendosi conto che lui non poteva sentirlo, non davvero. Non importava quanto lo desiderasse, non sarebbe mai riuscito a raggiungerlo abbastanza da poterlo aiutare.

Gli sfuggì un sospiro sconsolato a quella realizzazione. Ecco, uno dei tanti effetti collaterali dell’essere morto. Voler fare tanto, e non poter fare più praticamente nulla.

“Vorrei insegnarti così tanto, chamaco…” mormorò, sentendo la sua voce tremare appena.

Miguel, completamente inconsapevole, annuì soddisfatto e posò la chitarra accanto a sé, per poi alzare lo sguardo fino ad incontrare quello dell’Hector nella fotografia. Solo in quel momento il fantasma si rese conto che non indossava più il suo solito completo, ma uno nuovo di un delicato rosa salmone, e che i suoi capelli erano stati tagliati di fresco, più corti di quanto li avesse mai portati.[3]

Il ragazzo iniziò a parlare ed a raccontare dell’anno appena trascorso con il solito entusiasmo, ma per la prima volta Hector non riuscì ad ascoltarlo, non davvero. Nemmeno quando suonò ancora per lui fu davvero lì, presente e cosciente, perso com’era a studiare il suo viso e constatare meravigliato quanto la sua voce stesse cambiando, diventando da morbida e delicata a profonda e toccante.

Lo seguì fuori quasi di riflesso, senza nemmeno rendersene conto davvero, e rimase a fissarlo mentre prendeva in braccio Socorro e le faceva il solletico, strappandole una risatina.

Rimase così, perso nei suoi pensieri, fino  quando una voce dolce e preoccupata non lo raggiunse, riscuotendolo “Papà? Va tutto bene?”.

Il musicista sbatté le palpebre un paio di volte, prima di voltarsi verso sua figlia, che lo guardava inquieta “Certo, piccola mia.” la rassicurò, fingendo un sorriso.

Coco però non parve convinta. Inclinò appena la testa, osservandolo attentamente “Allora perché sei così triste?”.

Il genitore si trovò un po’ preso alla sprovvista. Non sapendo cosa dire, alla fine cedette e spiegò piano, come se stesse cercando le parole giuste “Non sono triste, mija. Solo che vedere crescere Miguel anno dopo anno mi fa pensare a quanto ho perduto. Mi fa capire cosa avrebbe significato esserci. Esserci davvero. Mi fa rendere conto ancora di più di quanto non ho potuto fare e di come non ho potuto vederti crescere.” ammise, guardando il viso maturo della figlia. Non aveva mai potuto guardarla mentre diventava grande, vederla innamorarsi, stringere al petto i suoi, di figli, vivere quella vita tanto meravigliosa di cui avrebbe dovuto essere parte. “Mi fa pensare a tutto quello che non ho mai potuto insegnarti e di come non sono mai stato al tuo fianco. Avrei voluto così tanto . . .” la sua voce si spezzò per un momento e si costrinse a distogliere lo sguardo, pur di evitare che notasse i suoi occhi lucidi.

Coco rimase in silenzio per un momento, prima di allungare una mano e stringere dolcemente quella del padre. “Ma tu c’eri, papà.” lo rassicurò lentamente, lasciandolo senza fiato.

Hector alzò lo sguardo su di lei, e la figlia continuò con un piccolo sorriso “Anche se non fisicamente, eri lì, accanto a me. Non te ne sei mai andato, non davvero. Eri lì, e guidavi ogni mio singolo passo. Ti ho sempre portato nel mio corazon, papà. E lì, tu hai continuato a vivere ed a restarmi vicino.”.

Il papà la guardò per qualche momento, senza parole, prima di abbassarsi e stringerla nell’abbraccio più forte che poteva, commosso. Nascose il viso contro la sua spalla, mentre sentiva le lacrime pungergli gli occhi “Ay, mi Coco.” sussurrò senza fiato, sentendosi completamente sopraffatto da quelle parole.

La figlia rispose teneramente al suo abbraccio, e i due rimasero così, stretti stretti per quella che parve un’eternità.

Quando finalmente si sciolsero dalla stretta, Hector posò un enorme bacio tra i capelli di Coco, strappandole un sorriso “Non so cosa farei senza di te, mija.” mormorò tra i suoi capelli bianchi, eterno promemoria del tempo che aveva perso.

Poi, i due rimasero lì, in silenzio ma con i volti sorridenti, a guardare i due fratellini giocare e ridere, fino a quando Coco non parlò di nuovo, lentamente e con gentilezza  “Sai, anche per Miguel è così.”.

Il musicista la guardò confuso, e la figlia sorrise e coprì con una delle sue mani tremanti quella che il padre aveva posato sulla sua spalla una volta sciolto l’abbraccio. “Non ti ha raccontato come ha imparato a suonare?” chiese, e quando l’altro scosse la testa spiegò “Ha imparato di nascosto, guardando e riguardando i video in cui De la Cruz suonava. Ne imitava i movimenti, memorizzava le parole e ripeteva i gesti fino a quando non ha imparato. Solo che quei gesti, quelle melodie, quelle canzoni, erano tuoi. Erano sempre stati tuoi. Gli hai insegnato tutto quello che sa, prima ancora di conoscerlo. Lo hai aiutato a diventare quello che è ora.”.

Hector rimase senza parole, e dopo qualche secondo di sorpresa e realizzazione i suoi occhi scuri si spostarono dal viso gentile della figlia a quello allegro ed entusiasta del nipote, che stava facendo saltellare Socorro sulle ginocchia canticchiando alcuni versi di Un Poco Loco.

E, per un attimo, non si sentì poi così tanto inerme.

 

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Il quarto anno, Hector ebbe il folle timore di essere entrato nella casa sbagliata. Principalmente perché non ebbe nemmeno il tempo di entrare in cortile prima che una bimba sconosciuta dai lunghi capelli scuri e spettinati lo attraversasse, e in senso letterale, correndo come una pazza assieme ad altri due bambini di qualche anno più grandi di lei.

Il fantasma, non abituato a quella sensazione sgradevole – non gli era ancora mai successo che un vivente gli passasse attraverso, dopotutto-, si portò una mano lì dove un tempo c’era il cuore e si girò, sul punto di inveire contro la piccola nonostante non potesse sentirlo. Ma le parole gli morirono in gola nello studiare meglio quel piccolo gruppetto.

Non riusciva a riconoscere i due bambini più grandi, ma la bambina era tanto familiare e allo stesso tempo tanto estranea da togliergli il fiato. La forma del visino era la stessa di quella di Miguel, rotonda e paffuta, il naso invece era esattamente quello di Imelda, e il sorriso, nonostante quell’incisivo davanti mancante a fare da finestrella, era identico a quello della sua dolce Coco.

Immobile, per un momento boccheggiò, mentre realizzava incredulo “Quella è la piccola Socorro?”.

Imelda, che stava studiando a sua volta la bambina, annuì “Credo proprio di sì.”.

“Ma . . . non è possibile!” Hector era completamente incredulo. Come poteva una bambina cambiare così tanto solamente in un anno? Era assurdo!  “Come può essere così cresciuta?”.

La donna sorrise appena al suo stupore “Non ricordi come crescono in fretta i bambini della sua età? Anche con la nostra Coco è stato così.” gli ricordò, con infiniti affetto e dolcezza nella voce “Un giorno era una neonata tutta risatine e gridolini di gioia, mentre il giorno dopo era già una bimbetta con le treccine capace di distruggere casa appena distoglievamo lo sguardo.”.[4]

Quelle parole gli strapparono un sorriso. Sì, aveva dimenticato quanto in fretta, in quei tre anni che aveva potuto vivere con loro, la loro piccolina era cresciuta. Sembrava quasi che ogni giorno diventasse una bimba completamente diversa, e lui non si stancava mai di studiare tutti quei piccoli, minuscoli cambiamenti che la facevano diventare giorno dopo giorno più grande.

Coco non parve affatto lusingata da quell’osservazione, poiché protestò, quasi indispettita “Mama! Non ero così terribile!”.

Imelda non riuscì a trattenere una risatina, questa volta, ed accarezzò con affetto le lunghe trecce bianche della figlia “Sì, invece. Purtroppo hai ereditato l’energia inestinguibile del tuo papà.” affermò, non senza un pizzico di malinconia, che però riuscì a celare abbastanza bene.

Il musicista sbruffò, con un sorrisetto che però tradiva quanto avesse apprezzato quella sua affermazione “Non so se prenderla come un complimento o un’offesa.”.

Prima che uno dei tre potesse fare o dire altro, però una voce alta e profonda li raggiunse, cogliendoli tutti di sorpresa.

“Coco, rallenta o ti farai male!”

Hector si girò d’istinto e per la seconda volta nell’arco di un minuto temete di aver davvero sbagliato casa.

Di fronte a lui stava un ragazzo alto, vestito con un completo da mariachi rosso fuoco e con un enorme sorriso caldo e rassicurante. In una mano stringeva la chitarra che era stata di Hector. Il suo viso,  dagli zigomi alti e regolari, era decorato da una sola fossetta.

“Miguel? “ mormorò senza fiato, non riuscendo a credere ai propri occhi.

Era tanto familiare da fare male al cuore, eppure così diverso dal dodicenne piccolino e fragile che aveva conosciuto. No, non poteva essere lui. Era troppo, troppo . . .

Un piccolo grido tagliò l’aria e Socorro gli passò attraverso – di nuovo- per correre ad abbracciare il ragazzo, saltandogli addosso con tanta energia da farlo traballare “Mig-uel!”.

Miguel rise, scuotendo la testa e mettendosi la chitarra sulla schiena per abbracciare la sorellina “Calmati, toro scatenato!” disse, inginocchiandosi per essere alla sua altezza e scompigliandole ancora di più i capelli “I nostri antenati potrebbero spaventarsi e non venire, se continui a gridare in questo modo ed a correre come una pazza per casa.”.

La bambina non fece caso al rimprovero bonario del fratello ed iniziò a strattonarlo dalla giacca “Gioca con noi, Mig-uel!”.

“Non posso, Coco.” le spiegò il più grande, tentando di calmarla “Devo finire di aggiustare l’ofrenda e poi dare una mano a papà ed ad abuelita e . . .”.

La piccola però non voleva sentire ragioni. “Gioca con noi!” gridò ancora e gli sfilò decisa il cappello dalla testa, impugnandolo come un trofeo.

Fu in quel momento che Hector si rese conto dell’acconciatura di Miguel. I capelli gli erano cresciuti, ed erano decisamente più lunghi di come li aveva sempre portati fino a quel momento. Erano . . . erano proprio come . . .

“Porta i capelli come me!” esclamò incredulo ed entusiasta come un bambino. Afferrò il braccio della moglie ed indicò esaltato i capelli del ragazzo, che adesso stava lottando con la sorella per rimpossessarsi del cappello “Guarda, Imelda!”

Imelda sorrise,  evidentemente intenerita.“Lo vedo, lo vedo.”.

Rimase per mezzo secondo a guardare il nipote attentamente, prima di mormorare con dolcezza “Ti somiglia ogni anno sempre di più.”.

“Tu credi?” il musicista, sorpreso da quell’affermazione, lo osservò con più attenzione. Avevano lo stesso modo di sorridere, e lo sapeva bene, così come la stessa fossetta, ma aveva sempre creduto che le somiglianze fisiche tra loro due terminassero lì. Ma ora che stava crescendo, in effetti, iniziava davvero a somigliare all’adolescente smilzo e combina guai che era stato lui.  E i capelli in quel modo non facevano che intensificare quell’impressione.

“Mhm-mhm.” annuì la moglie, prendendogli la mano “Dagli un altro po’ di tempo e sarà del tutto uguale a te. Forse addirittura più guapo.” aggiunse, scherzosa.[5]

“Come osi insinuare una cosa del genere? Nessuno potrà mai essere più guapo di me!” obbiettò con orgoglio il marito, gonfiando vanitosamente il petto, per poi osservare ancora la discussione tra i due fratelli degenerata in una lotta scherzosa.

L’allegria svanì rapidamente, ed un’acuta malinconia gli si insinuò nelle ossa, facendolo quasi rabbrividire. Quando la loro Coco si fu allontanata per cercare Elena, mormorò piano e quasi esitante “Come hai fatto ad abituarti?”

“A cosa?”

“A vederli tutti crescere ed invecchiare senza che loro lo sappiano.” ammise a malincuore “Vedere chi ami diventare grande senza poter essere davvero al suo fianco.”.

Imelda esitò per un momento, chiaramente in difficoltà.

“Non ci si abitua mai. Fa sempre male.” rispose infine, per poi aggiungere a voce talmente bassa che la colse a stento “Ma è meglio guardare crescere chi ami senza poterlo mai avere vicino, che averlo al proprio fianco con la consapevolezza che non invecchierà di neanche un altro giorno.”.

La donna distolse lo sguardo, tentando di riprendere il controllo mentre Hector si voltava a guardarla.

Sapeva quanto avesse fatto male ad Imelda, scoprire della sua morte e di come era avvenuta. Sapeva quanto, nonostante la sua rabbia, l’idea che lui fosse morto anni prima senza che lei lo sapesse l’avesse fatta sentire in colpa. Sapeva che la consapevolezza che fosse morto talmente giovane, ancora praticamente un ragazzo, la spezzava dentro ogni singolo giorno. Sapeva quando il pensiero di ciò che Ernesto gli aveva fatto, di quello che aveva portato via a tutti loro, della vita che gli era stata rubata, la uccidesse. Tentava di non farglielo capire, ma per lei anche solo quei suoi capelli neri che aveva tanto amato, ancora senza nemmeno un filo d’argento, erano un doloroso promemoria di quei cinquanta anni di vita che li avevano separati e che mai avrebbero potuto riavere indietro. E lui lo sapeva fin troppo bene.

Con un sospiro, le circondò la vita e la trasse a sé, spingendola contro il proprio petto per poi stringerla con quelle braccia che nemmeno la morte poteva rendere meno dolci. Lentamente sollevò la mano che ancora stringeva nella propria e la portò alla bocca, per baciarla con la riverenza riservata ad una regina.

“Ay, mi corazon.” mormorò contro la sua mano, e davvero non c’era bisogno di altro.  Non quando si trattava di loro. Non più.

Rimasero così, stretti l’uno all’altra, ad osservare i due nipoti fino a quando riuscì a infilarsi nuovamente il cappello in testa e a tenere la piccola a distanza di sicurezza.

“Devo andare ora, Coco.” disse Miguel, tirandosi in piedi “Se fai la brava, dopo canterò una canzone in più per te. Ok?”.

Socorro annuì, ancora un po’ imbronciata per non essere riuscita nel suo intento ma rabbonita da quel patto.

Il ragazzo sorrise e le scompigliò ancora i capelli, per poi andare verso l’ofrenda, come al solito.

Hector esitò “Io d-devo . . .”.

Imelda annuì, scivolando placidamente via dalla sua stretta “Vai.” mormorò, lasciandogli un piccolo bacio sulla guancia “Ti sta aspettando.”.

Il fantasma le sorrise, prima di seguire il nipote come ogni anno; fu solo quando lo vide seduto per terra di fronte all’ofrenda con la chitarra in mano che si convinse con certezza di essere davvero nella casa giusta.

 

Miguel era ancora un chiacchierone, esattamente come prima. Parlò e parlò, e questa volta Hector non si perse nemmeno una parola.

Parlò letteralmente di tutto: di alcune amicizie che si era fatto in ambito musicale, per quanto non riuscisse a fidarsi eccessivamente dei propri colleghi – chissà perché-, di quanto Coco stesse crescendo, delle ultime gare che aveva vinto, della sua decisione di abbandonare la scuola di musica e di tornare a dare una mano ai suoi nella fabbricazione di scarpe.

“Mi stava prendendo troppo tempo, e mi sono reso conto che imparavo molto meglio da solo che lì. E poi, mi mancava far parte nell’attività di famiglia. Finivo per passare troppo tempo senza di loro, ed è qualcosa che non sopporto troppo bene.” spiegò, passandosi una mano tra i capelli scurissimi.

Ma soprattutto, parlò di una casa discografica nata da relativamente poco, lì in città, che l’aveva notato durante una delle sue gare e che gli aveva offerto un contratto.

“Non ho ancora firmato.” ammise “Cioè, so che è un’ottima cosa entrare in una casa discografica a soli sedici anni e che il fatto che sia nella mia città sia solo un vantaggio, però non sono del tutto convinto. Non voglio ritrovarmi a dover fare musica solo per soddisfare un pubblico e scrivere canzoni con l’unico obbiettivo di fare soldi. Non è per questo per cui suono.”.

Hector sorrise, colpito da quelle parole. Quello non era proprio un discorso che avrebbe fatto un qualunque sedicenne.

“Sei maturato molto, mijo.” mormorò “La scelta sta a te. Non posso darti grandi consigli. Suonare per una casa discografica è qualcosa a cui io non sono mai arrivato; alla tua età avevo appena iniziato ad esibirmi abitudinariamente nella plaza, e già questo era un enorme successo.”.

Già, lui non aveva mai raggiunto la fama necessaria per essere notato da una casa discografica. Si esibiva ovunque servisse musica e magia, ma non era mai andato oltre a questo. Ernesto, invece, c’era riuscito; con le sue canzoni, era arrivato lì dove lui non aveva mai nemmeno pensato di poter giungere. Lui non si era mai fatto scrupoli di alcun tipo. La musica non era davvero la sua vita, ma solo un mezzo per renderla più bella, più luminosa, apparentemente perfetta.

Non come lui. Non come Miguel.

“Devi lasciarti guidare dal tuo cuore.” affermò con decisione “Se senti che firmare quel contratto ti permetterà di vivere il tuo sogno senza però danneggiare il tuo legame con la famiglia e la musica, fallo. E non avere paura, perché nessuno può trasformarti in qualcuno che non sei. Nessuno.”

Miguel rimase in silenzio per qualche momento, giocherellando con la chitarra “Quella casa mi vuole disperatamente.” spiegò “I vari agenti hanno detto che sarei la loro punta di diamante, e che quindi sono disposti a farmi dettare le condizioni del contratto. Ci ho pensato un po’, e ho deciso di chiedere la massima autonomia e libertà. Non voglio essere seguito da un agente, ma gestire da solo esibizioni, musica, registrazioni, qualsiasi cosa. Sarò io a decidere cosa suonare, quando suonare e come suonare. Non voglio essere la marionetta di nessuno.”.

Il sorriso dell’antenato di fece ancora più grande “Così si fa!” esclamò entusiasta, battendo le mani “E loro cosa hanno risposto?”.

“Erano decisamente d’accordo. Si tratta di meno lavoro per loro, dopotutto. E mi hanno assicurato che potevo fare qualsiasi cosa, anche registrare delle cover delle canzoni che De la Cruz ha reso famose. Le tue canzoni. Anzi, me l’hanno sinceramente consigliato.” buttò fuori, quasi con disprezzo “Hanno detto, testuali parole ‘Un discendente di Hector Rivera che canta le sue canzoni rubate! Questo sì che ti porterebbe al successo assicurato!’.”.

Hector rimase senza parole, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa Miguel ringhiò, letteralmente infuriato “Come se potessi fare davvero una cosa del genere! De la Cruz ti ha portato via tutto, ha preso le canzoni che erano tue e solo tue e le ha cantate al mondo intero, costruendo su di esse tutto il suo successo. Ti ha ucciso per quelle canzoni, che avrebbero dovuto essere cantate solo tra le mura di casa nostra. E io dovrei cantarle per loro? Per il successo assicurato?”.

Chiuse con forza il pugno, quasi si stesse trattenendo da spaccare qualcosa “Quando io canto le tue canzoni, lo faccio per averti ancora con me. Per farti rivivere in quelle note. Le canto solo qui, tra le mura della nostra casa. Le canto nel dia de muertos, affinché nessuno di noi ti dimentichi più. Le canto per Coco, per mama e papà, per abuelita, per voi che tornate a trovarci. Le canto per te. Non per il successo. Non per i soldi. Non per il mondo. Per noi. Per la nostra famiglia.”.

Miguel chiuse gli occhi, come se stesse lottando contro le lacrime. Respirò a fondo e poi disse, riaprendo gli occhi e tentando di riprendere il controllo della propria voce “Gli ho risposto che non avrei mai fatto una cosa del genere. Che non avrei mai insultato la tua memoria in questo modo. Quelle sono le nostre canzoni. Nostre e basta. Loro non possono averle. Nessuno che non faccia parte di questa famiglia può averle.”. Si fermò per riprendere fiato, prima di continuare “Ho giurato che non avrei mai firmato nessun contratto, se non avessero messo per iscritto che non mi avrebbero mai spinto a cantarle od a registrarle per alcun motivo. Sto ancora aspettando la loro risposta, ma non mi interessa se sarà negativa. La famiglia è più importante di qualsiasi altra cosa. Almeno questo lo so.”.

Hecotr si sporse in avanti e gli accarezzò il viso, commosso “Grazias, mijo. Davvero.” sussurrò, tentando di trattenere le lacrime.

Miguel deglutì e strinse forte a sé la chitarra, prima di sorridere e di fingere un tono allegro “Detto questo, vuoi sentire come me la cavo, ora? Dammi qualche anno, e potrò competere con te, me lo sento!”.

Il musicista rise, strofinandosi gli occhi “Tu mi hai già superato in tutto quello che conta, Miguelito, e alla grande direi.” mormorò affettuoso, per poi accoccolarsi accanto a lui ed ascoltarlo suonare ancora una volta le loro canzoni.

Questa volta, però, si unì al suo canto, come aveva fatto un dia de muertos di fin troppi anni fa.

E per un folle momento, eccoli di nuovo, l’Hector e il Miguel di fin troppi anni fa, che cantavano insieme per la prima e l’ultima volta, ignari di tutto tranne di quelle note meravigliose che univano i loro cuori.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Mi piace pensare che ‘In ogni parte del mio corazon’ non sia una canzone di Hector, ma la prima canzone scritta da Miguel, in memoria della sua avventura nel mondo dei morti e di ciò che ha imparato quella notte.

[2] Non so se è una cosa valida anche per la tradizione messicana, ma in molte culture è diffusa la credenza che i bambini, soprattutto i più piccoli, possano vedere gli spiriti dei morti.

[3] I completi indossati da Hector quando era ancora vivo erano di tre colori diversi, secondo gli autori: quello della foto bianco, quello del ricordo su Coco rosso e quello sul ricordo di Ernesto rosa.

[4] Mi piace immaginare Coco come una bambina prima e poi una ragazza piena di vita e un po’ ribelle, e che ciò sia stato tramandato alla sua nipotina più giovane; gli autori hanno confermato che scappava di casa per ballare, motivo di litigi continui con la madre Imelda.

[5] Che Miguel da grande possa somigliare anche fisicamente ad Hector è una mia grande convinzione; anzi, credo che sarebbe anche più carino, senza quel nasone enorme del bisnonno –Non te la prendere Hector, lo sai che ti amo!-.

 

  
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