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Autore: Adeia Di Elferas    21/02/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni camminava avanti e indietro, senza nemmeno avvertire il solito fastidio alle gambe. Era così agitato che non riusciva nemmeno a pensare.

Oltre alle brache che aveva frettolosamente recuperato prima di uscire dalla stanza per cercare medico e levatrice, portava un giubbetto del castellano Feo. Gli stava largo, ma era meglio di niente, con il freddo che faceva quella sera.

In pochi minuti mezza rocca si era svegliata e la notizia che la Contessa stava per partorire aveva fatto il giro di tutta Ravaldino. Le balie avevano provato a tenere i figli minori della Tigre lontani dalla stanza della madre, ma senza successo.

Fuori dalla porta, sotto la luce tremula delle torce a muro, oltre al Medici, c'era ormai una nutrita schiera di uomini, tra soldati e Capitani, il castellano e tutti i figli della Sforza, Cesare compreso.

Bianca, seduta su una delle panche di pietra, batteva nervosamente un tacco a terra, guardando di continuo verso la camera della madre. Non si sentiva quasi alcun suono, oltre alle parole della levatrice. La ragazza ricordava altri parti della madre e ricordava anche le urla. Si chiedeva come mai quella volta non si sentissero.

Vicino a lei, Bernardino e Galeazzo, che per nessun motivo al mondo avevano voluto tornare a dormire, si distraevano a modo loro sfidandosi nel riconoscere le posizioni del tiro di spada.

Sforzino, un po' imbronciato per l'apprensione – legata più a quella dei fratelli che non a una sua reale coscienza del pericolo – stava in un angolo, vicino a Cesare che, in abiti da prete, era immobile come una statua di sale, gli occhi vitrei e un rosario in mano.

Ottaviano era l'unico che sembrava scocciato, più che in ansia. Passava di continuo il peso da un piede all'altro e di quando in quando sbuffava. Aveva ancora addosso gli abiti del giorno e i suoi riccioli inanellati ricadevano un po' scompigliati a coprirgli parte del volto.

In realtà, malgrado il distacco che cercava di mostrare, il suo cuore non aveva smesso di accelerare nemmeno per un istante, da quando aveva saputo che sua madre stava per partorire. Malgrado tutto, malgrado tutto il male che le aveva fatto e che lei aveva fatto a lui, non avrebbe sopportato di perderla, tanto meno per un motivo del genere.

Però, una parte piccola, ma prepotente, della sua anima, si diceva che se il bambino fosse morto non sarebbe stato un dramma. Quel figlio sarebbe nato quasi lo stesso giorno in cui era nato lui. Lo avrebbe sostituito in tutto e per tutto. Ottaviano sapeva già che per sua madre era il figlio del Medici il suo vero erede. A quel modo, lui non sarebbero davvero contato più nulla per lei.

“La vuoi piantare?” sibilò a un certo punto Bianca, appena coperta dal vociare degli uomini che si chiedevano cosa stesse succedendo nella camera.

Il Riario maggiore la guardò e smise di altalenare da un piede all'altro. Per un istante, nell'incrociare lo sguardo della sorella, Ottaviano capì quanto anche lei fosse in pensiero, ma subito dopo fece una smorfia e soffiò, spazientito.

“Se solo si sbrigasse...” borbottò.

“Avevi impegni migliori?” chiese la ragazza, mordendosi la lingua per evitare di aggiungere cose più spiacevoli.

“Non sono affari tuoi.” ribatté con astio il fratello.

Giovanni, poco lontano da loro, non sentì nemmeno cosa si stavano dicendo. Più l'attesa si faceva lunga – non che in realtà fosse passato molto tempo, da quando la levatrice aveva preso in mano la situazione – più la sua mente lo metteva davanti a scenari tragici.

Non voleva farlo, ma continuava a correre con il pensiero a sua madre. Non l'aveva mai potuta conoscere e non avrebbe sopportato di sapere anche suo figlio orfano. Caterina era una donna forte, ma le fatalità non guardano in faccia a nulla.

Vedendo il fiorentino pallido e teso, Cesare Feo si staccò un momento dal gruppo di militari che stavano parlottando e lo raggiunse. Gli posò una mano sulla spalla e fece un sospiro.

“Andrà tutto bene.” lo rassicurò: “La Contessa è una tigre, voi lo sapete meglio di me.”

Il Medici annuì, apparentemente un po' più calmo, ma quando la porta della camera si spalancò all'improvviso, l'irruenza con cui scansò il castellano la disse lunga sull'ansia che aveva ancora in corpo.

“Stanno bene, tutti e due.” annunciò la levatrice, le mani ancora sporche di sangue: “La Contessa chiede di voi.” aggiunse, indicando Giovanni.

Con la sua corsa claudicante, il Popolano volò subito in camera, mentre i presenti si abbandonavano a qualche motto di soddisfazione per la lieta notizia.

Il fiorentino, appena gli venne chiusa la porta alle spalle, si fermò un momento e guardò la scena che aveva davanti. Sua moglie, coperta fino al seno, stringeva a sé un bambino appena nato. Madre e figlio si guardavano in silenzio, creando una specie di aura impalpabile che nemmeno il vociare della levatrice e della sua assistente riuscivano a scalfire.

Il dottore era in un angolo, le maniche del camicione tirate su fino al gomito e un'espressione stanca, ma soddisfatta in volto.

Quando Caterina sollevò finalmente gli occhi dal suo piccolo, sorrise e con un brevissimo cenno del capo invitò il marito ad avvicinarsi.

Giovanni sentiva le gambe molli e le mani tremare un po'. Mosse qualche passo incerto e quando la Contessa chiese a tutti di lasciarli soli qualche minuto, l'uomo si fermò proprio.

Appena il medico, la levatrice e la ragazza che l'aiutava furono usciti, la Tigre disse: “Avanti, vieni a conoscere tuo figlio.”

“È un maschio..?” sussurrò il Popolano, con il petto tanto squassato dalla corsa del suo cuore da sentirsi quasi mancare.

“Sì, è un maschio, come ti avevo detto io.” confermò la Tigre.

Finalmente il fiorentino parve farsi coraggio e arrivò fino al letto. Adesso che era più vicino, sentiva l'odore ferrigno del sangue e poteva vedere il viso pallido e affaticato della moglie. Per un vago istante si chiese se tutto andasse davvero bene. Poi, però, prima che potesse chiederlo apertamente, i suoi occhi chiari vennero attratti dal fagottino rosa, coperto un po' da un telo chiaro, che la Sforza teneva appoggiato sopra il petto.

Con il respiro spezzato, Giovanni guardò il bambino: “Ommioddio, quanto è piccolo...” bisbigliò, tanto provato da quel momento da doversi sedere anche lui sul letto per non sentire le ginocchia cedere.

Guardando gli occhietti ancora spaesati e schiacciati del neonato, allungò con lentezza una mano e sfiorò con la punta di indice e medio la fronte del figlio, coperta da qualche rado ciuffo di capelli. Non curandosi della lacrima di commozione che gli scendeva sulla guancia, l'uomo gli accarezzò anche la guancia piena e l'orecchio. Quando scese lungo il bracciotto, e arrivò fino alla mano, restò incantato nel vedere quanto fossero piccole e perfette le sue dita.

La Leonessa osservava la scena in silenzio, guardando il contrasto tra la mano minuscola del bambino, così rosea e armoniosa, con quella del Medici, più grande e un po' rovinata.

Con delicatezza, il fiorentino passò il polpastrello dell'indice sul palmo della mano del figlio e il piccolo, facendo un'espressione concentrata, gliela strinse un secondo, prima di fare un piccolo verso.

“Guardalo... Così piccolo ed è già un tigrotto...” disse Giovanni, letteralmente rapito dal figlio.

Caterina sorrise, così contenta di vedere il marito felice da riuscire quasi a dimenticarsi perfino il dolore che ancora le premeva sull'addome: “No, lui è già un leone.” lo corresse.

Quelle parole riempirono il Medici di orgoglio. Fin da quando aveva saputo che sua moglie era incinta, non aveva visto l'ora di conoscere suo figlio e ora finalmente poteva stringerselo tra le braccia e imparare a conoscerlo.

“Ti somiglia.” disse piano la donna, sorridendo.

Giovanni guardò il figlio e, per quanto in effetti vedesse una certa somiglianza con se stesso, si trovò a dover ammettere una verità che, in fondo, non gli dispiaceva affatto: “Credo che assomigli molto più a te che non a me.”

“Tienilo.” fece la Tigre, indicando il piccolo con un cenno del capo, senza voler andare avanti nei confronti per timore di andare a toccare qualche tasto dolente: “Prova a tenerlo in braccio.”

Deglutendo, un po' teso, il Popolano accolse il figlio che la moglie gli porgeva. Si fece dire come tenerlo e poi, dopo averlo preso saldamente, si mise in piedi e lo cullò un po'.

“È tranquillo...” notò il fiorentino, che ricordava i nipoti appena nati e i loro pianti disperati.

“Speriamo lo resti. Quando era dentro di me, era una furia. Si vede che adesso che ti ha conosciuto si sente più al sicuro.” rise piano la donna, per poi cambiare del tutto tono: “Giovanni...”

“Sì?” chiese lui, guardandola interrogativo, visto che il modo con cui l'aveva chiamato gli pareva troppo mesto per quel momento.

“Lo dobbiamo chiamare Ludovico.” disse la Contessa, tutto d'un fiato.

Negli ultimi giorni, a tratti, si erano messi a parlare di come chiamare il bambino, special modo se fosse stato maschio. I fatti dell'ultimo periodo avevano fatto propendere entrambi a scegliere un nome che potesse essere utile anche politicamente.

Sperando di ottenere i favori pontifici facendo sposare Ottaviano a Lucrecia Borja e confidando nella condotta fiorentina, restavano Venezia e Milano. La Tigre non voleva legarsi apertamente a nessuno dei due, ma aveva lasciato intendere che dare al figlio un nome chiaramente sforzesco avrebbe almeno fatto credere a Roma e Firenze – e anche a Venezia – che in ogni caso il Moro non li avrebbe lasciati soli. Era fumo negli occhi, ma era un modo come un altro di fare strategia.

“Sì.” confermò Giovanni, che in effetti riusciva a vedere gli eventuali vantaggi di quella scelta: “Lo chiameremo Ludovico. E poi non suona male: Ludovico dei Medici.”

“Adesso vai a scrivere a tuo fratello. Digli che sei padre. Non lasciare che lo scopra per caso. È una cosa importante.” concluse Caterina, interrompendo il discorso abbastanza bruscamente, con un sospiro che per la prima volta da che il marito era rientrato in stanza lasciava intendere quanto fosse stremata: “E scrivi anche a Ridolfi. Scommetto che non aspetta altro.”

Il Medici annuì e poi, con una dolcezza che scaldò il cuore della Sforza, rimise il piccolo tra le sue braccia. Le diede un bacio sulle labbra e poi ne diede uno sulla fronte al figlio.

Prima di uscire, si voltò ancora un momento e le sussurrò: “Ti amo, Caterina.”

Appena fuori dalla camera, permise alla levatrice e alla sua assistente di tornare dentro. La solerzia con cui lo fecero, lo fece corrucciare.

Il dottore, nel frattempo, doveva aver detto ai presenti che il nato era un maschio e in salute e aveva congedato pressoché tutti.

Restavano ancora i figli della Contessa, tranne Sforzino e Cesare, che si erano accontentati di sapere che tutto era andato per il meglio.

“Posso parlarvi un momento?” chiese il medico, guardando il fiorentino.

Capendo che non era il caso di stare ad ascoltare quello che doveva essere un discorso delicato, Bianca invitò Bernardino e Galeazzo a seguirla per tornare a dormire.

“Come si chiama?” chiese Bernardino, prima che la sorella potesse frenarlo.

Giovanni, per quanto un po' preoccupato per il tono usato dal dottore, si voltò verso il bambino e gli sorrise: “Si chiama Ludovico.”

Soddisfatto dalla risposta, Bernardino si accodò pacificamente a Bianca. Restava solo Ottaviano.

Fissava il Medici di sottecchi, difficile dire se la sua espressione fosse di rabbia o di sconforto.

Resasi conto della situazione, Bianca tornò sui suoi passi e, prendendo per il braccio il fratello che il giorno seguente avrebbe compiuto diciannove anni, gli sibilò: “Avanti, muoviti. Adesso puoi andartene al bordello. È questo che avevi intenzione di fare, no? E allora cammina!”

Ottaviano si lasciò trascinare via, senza trovare la forza di dire quello che gli passava per la mente e che forse non sarebbe riuscito a esprimere nemmeno provandoci. Era sollevato nel sapere che sua madre era salva e in un certo senso gli dispiaceva. Aveva un groviglio di confuse emozioni che gli si agitava nelle viscere da non sapere nemmeno lui in cosa credere.

Appena i figli della Contessa furono fuori dalla portata della voce del dottore, questi disse: “Il parto non è stato facile. È vero che è stato veloce, ma il bambino è molto grande e vostra moglie non è più una ragazza. Ha perso molto sangue, molto più di quello che avrebbe dovuto normalmente. Non ci sono stati grossi problemi, ma non vi nascondo che abbiamo bloccato l'emorragia per pura fortuna.”

“Ma è in pericolo?” chiese il Popolano, cercando di sondare meglio il tono del vecchio.

Questi sospirò e poi scosse il capo: “No, ma deve stare calma, almeno per qualche giorno.”

“Non vedo dove sia il problema.” fece Giovanni, con un sospiro di sollievo, stringendosi nella giacca del castellano, che gli stava larghissima.

“E si che voi conoscete vostra moglie!” sbottò il medico.

Sorpreso da quelle parole, il fiorentino sollevò le spalle e aprì un po' le braccia: “Ha appena partorito, immagino che anche lei vorrà starsene calma...”

“Sono più le volte che a un giorno dal parto l'ho vista montare in sella e andare a caccia di quelle in cui l'ho trovata stesa a letto!” esclamò il dottore: “Vi prego, fatele capire che deve riguardarsi, questa volta. Sono passati già otto anni dall'ultima volta che ha partorito. Deve capire che non è più quella di prima.”

Il Popolano prese fiato e poi annuì: “A me darà retta.”

“Me lo auguro.” convenne il medico.

Giovanni stava per tornare alla porta, in modo da rientrare in camera, quando il dottore lo fermò di nuovo, questa volta più riluttante: “Ci sarebbe un'altra cosa, sapete...”

Il Medici lo guardò un momento, confuso dall'espressione indecifrabile che l'uomo aveva in viso.

“Fossi in voi, almeno in questi giorni, cercherei di evitare di giacere con vostra moglie. Datele il tempo di riprendersi.” disse il medico, guardando altrove.

“Io da lei non ho mai chiesto nulla che lei stessa non mi abbia voluto concedere di sua spontanea volontà.” ribatté, un po' offeso il fiorentino.

“Mi state fraintendendo.” si schermì il dottore, alzando le mani: “Dico solo che... Insomma, già ritengo rischioso il vostro comportamento passato, soprattutto così a ridosso del parto...”

“Ma cosa...” iniziò a dire il Medici, punto sul vivo.

“Le voci circolano e ammetterete che voi e vostra moglie vi curate poco di non...” lo interruppe il medico, salvo poi sbuffare e decretare: “Fate quello che vi pare, ma cercate di farle capire che è stato un caso, se tutto è andato per il meglio.”

Giovanni annuì appena e poi, ricordandosi di quello che la moglie gli aveva detto, si recò nello studiolo del castellano per scrivere al fratello e a Ridolfi. Con Simone fu semplice. Gli mandò a dire che il bambino era nato e che stava bene e che sarebbe stato contento di farglielo conoscere. Nella missiva per Lorenzo, invece, il Medici si trovò in difficoltà. Ne uscirono poche stringate righe, molto formali, in cui si dava informazione della nascita del piccolo e poi si insisteva di nuovo sull'importanza di rafforzare i legami tra Firenze e Forlì.

Appena chiuse le lettere e le consegnò a un servo affinché facesse subito partire una staffetta per Imola e una per Firenze, sentendosi desideroso di rivedere subito tanto sua moglie quanto suo figlio, il Popolano tornò subito verso la sua camera da letto.

Attese con pazienza che le donne finissero il loro lavoro e aiutassero la Contessa a indossare una vestaglia. Una volta cambiate le lenzuola e sistemato Ludovico, l'aria nella stanza parve farsi improvvisamente calma.

Ormai era notte inoltrata e il silenzio era tornato nella rocca. Nel camino scoppiettava il fuoco e il neonato accennava una specie di pianto.

“Ha fame.” spiegò la levatrice, intercettando lo sguardo preoccupato del fiorentino: “Se volete la porto dalla balia che...”

“Voglio provare ad allattarlo io.” la bloccò la Tigre.

Si fece restituire subito il piccolo e poi chiese alle donne di andare pure.

“Se avrò bisogno – aggiunse – sarò la prima a chiamarvi.”

Fece mettere il marito accanto a sé e poi, con attenzione, slacciò la camicia da notte e offrì il seno al bambino. Quasi all'istante, il piccolo si attaccò e cominciò a mangiare. Il Medici guardava senza riuscire a trovare le parole. Ogni movimento, anche il più piccolo, che faceva Ludovico gli sembrava frutto di un miracolo.

Dopo qualche minuto, il neonato era già stremato e così Caterina pregò il marito di metterlo nella culla, che era stata sistemata accanto al letto dalla previdente levatrice.

Giovanni, che di bambini un po' si intendeva, avendo preso sempre parte attiva alla crescita dei suoi nipoti, si perse per almeno una mezz'ora a sistemarlo e vezzeggiarlo, salvo poi lasciarlo finalmente dormire.

Stremato per la quantità infinita di emozioni provate quella sera, il Popolano alla fine si rimise accanto alla moglie.

“Tanto si sveglierà tra poco per mangiare di nuovo...” sussurrò la Tigre, con un mezzo sospiro.

“Sicura che non vuoi affidarlo alla nutrice?” chiese il Medici, che, in realtà, era molto più felice di potersi tenere in stanza il figlio in quelle prime ore.

Caterina strinse la mano del marito nella sua e assicurò: “Almeno questo figlio voglio sentirlo davvero mio.”

L'uomo deglutì, restituendo la stretta alla moglie e poi, prima che potesse dire qualcosa, fu di nuovo la Sforza a parlare.

Avvicinandosi un po' a lui, sfiorandogli la spalla con il viso, aveva sentito un odore diverso sui suoi vestiti e aveva fatto mente locale, capendo poi che la giacca che indossava il fiorentino non era di sua proprietà: “Di chi è questo giubbone?” gli chiese.

Giovanni trattenne una mezza risata: “Del castellano. Me l'ha prestata perché temeva di vedermi morire di freddo. È stato gentile.”

Caterina annuì piano e poi, prima che il Medici potesse anche solo abbozzare il discorso che il dottore gli aveva fatto poco prima, sperando, vista la momentanea debolezza della moglie, di far più breccia, con un altro respiro profondo, si assopì.

Il Popolano restò qualche minuto immobile, ascoltandola respirare. Senza riuscire a trattenersi, si rimise in piedi e tornò alla culla. Si sporse un po', per vedere il piccolo volto del figlio, che in quella luce fioca si vedeva a stento. Dormiva placido e silenzioso. Caterina non lo aveva fatto fasciare in modo stretto e il piccolo ne sembrava felice, con le bracciotte piene sollevate accanto alla testa, sfuggite da quel blando bendaggio.

In fondo, si disse Giovanni, era già un piccolo selvaggio come sua madre. E trovava che fosse la cosa più bella del mondo.

Orgoglioso come mai in vita sua, alla fine, vinto dai dolori alle gambe che, passata la frenesia del momento, erano tornati a martellarlo, tornò a letto.

 

Quel 7 aprile Firenze era in completo fermento. In piazza dei Signori era stato preparato un palchetto lungo cinquanta braccia e largo dieci, rifinito su ogni lato da un piccolo muretto di mattoni crudi. Nel mezzo era stata messa della ghiaia e dei calcinacci in modo tale da impedire alle fiamme di arrivare alla legna, posizionata sulle sponde, rovinando la struttura.

In mezzo alle cataste di legna che sarebbero state bruciate, era stato lasciato un piccolo corridoio, lambito solo dalle punte delle scope e dei bastoni che spuntavano ai lati e che avrebbero reso la traversata dell'ardito volontario molto più complessa. Il passaggio, come se non bastasse, era stato cosparso d'olio e acqua ardente.

Alle cinque di pomeriggio, sotto un cielo livido e dal profumo già di sera inoltrata, in piazza arrivarono, come da accordi, prima i francescani, che si sistemarono subito nella Loggia dei Signori, dal lato a loro destinato, e poi i domenicani, che si erano sfidati alla prova del fuoco.

Per i frati di San Marco, sarebbe stato Domenico da Pescia ad affrontare le fiamme, mentre per quelli di San Francesco il candidato era frate Giuliano dei Rondinegli dell'Osservanza.

Frate Domenico portava un enorme crocifisso in mano e, appena dietro di lui, si profilò Girolamo Savonarola che portava un'ostia consacrata ben in vista tra le dita.

Proprio in corteo dietro il capo dei domenicani c'era la maggior parte del pubblico. Brandivano torce e lumi di ogni tipo e inneggiavano a Dio, recitando salmi in continuazione.

Una volta che parte dei sostenitori di Savonarola furono nella Loggia, tennero una Messa. Il popolo, che attendeva con ansia lo spettacolo, assistette con una certa insofferenza a quella cerimonia, tuttavia, la voglia e la curiosità di vedere lo scontro fece sì che nessuno lasciasse la piazza.

Quando giunse l'agognato momento, i francescani pretesero che frate Domenico da Pescia si spogliasse, cavandosi perfino le brache più intime, temendo che i suoi abiti fossero cosparsi di un qualche unguento magico che lo preservasse dal fuoco. Il domenicano, dopo aver ricevuto il permesso da Savonarola, che gli porse l'ostia da tenere in mano, si spogliò nella fredda aria d'aprile senza fare una piega e si mise in attesa.

I francescani a quel punto chiesero che Domenico non portasse con sé l'ostia tra le fiamme.

Quella richiesta accese subito gli animi, contrapponendo chi diceva che il Corpo di Cristo avrebbe conferito l'immunità al frate e chi diceva che il frate sarebbe bruciato, facendo bruciare anche il Corpo di Cristo, macchiando Firenze di una colpa gravissima.

Senza che il popolo capisse bene che stesse accadendo, i portavoce dell'una e dell'altra parte continuavano a sparire nel palazzo della Signoria, per andare a discutere con il Gonfaloniere di Giustizia su quel dettaglio.

La diatriba durò così a lungo che alla fine, mostrandosi oltraggiati per l'ostinazione dei domenicani, i francescani lasciarono la Loggia.

Dopo lunghi attimi di confusione, Savonarola scosse piano il capo e disse ai suoi di seguirlo. Veder sfilare via anche i domenicani precipitò i presenti nell'incertezza.

“Vederlo scappare così di certo non aiuterà la sua causa.” commentò a denti stretti Machiavelli, che era rimasto in disparte, non lontano dalla Loggia, per vedere meglio lo spettacolo.

“Che avreste fatto al suo posto?” chiese Lorenzo Medici, che gli era stato alle spalle tutto il tempo, senza che Niccolò se ne avvedesse.

Il funzionario si voltò verso di lui, seguì il suo sguardo che stava rincorrendo Savonarola che andava via, e poi, con un sorriso ossequioso, rispose vago: “Non saprei proprio.”

Il Popolano fece un'espressione strana, come a dire che non credeva alle parole di Machiavelli, e poi, facendo un cenno a un gruppetto di suoi sostenitori, che erano rimasti più indietro, si strinse le spalle nel mantello e se ne andò.

Il fuoco che Niccolò aveva visto negli occhi di Lorenzo Medici mentre fissava il domenicano non gli lasciavano sperare nulla di buono. Il frate aveva commesso un passo falso, impuntandosi a quel modo coi francescani. Anche i Piagnoni più ferventi erano rimasti sconcertati dalla sua pretesa di far affrontare a don Domenico la prova del fuoco con l'ostia in mano...

Assecondando la fiumana di gente che, delusa, tornava nelle proprie case, Machiavelli si sistemò meglio il cappello in testa, coprendo il più possibile i suoi ricci ispidi, e cominciò a pensare a chi avrebbe vinto quella volta: il fanatismo dei domenicani o la sicurezza dei Medici?

   
 
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