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Autore: Tsukuyomi    29/06/2009    2 recensioni
Immedesimarsi nella mente di qualcuno che non rispecchia lontanamente il proprio modo di pensare o essere è difficile, e immaginare di essere qualcun altro in situazioni in cui non ci si troverebbe mai, neanche essendo immortali, lo è ancora di più. Spero di riuscire nell'intento. Ovviamente è tutto raccontato in prima persona. Sono indecisa sul rating, butto giù un arancione, ma se non vi sembra adatto fatemelo sapere e lo cambierò in rosso. Spero gradiate e sono bene accette critiche e commenti.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Raccolta | Avvertimenti: Contenuti forti
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Nella mente di... un pirata sulla forca
E’ quasi il tramonto.
Il sole si accinge a svanire oltre il mare, fa solamente capolino dall’azzurra distesa aranciata.
Le onde quasi non esistono stasera, sembrano morire anche loro, sento il tenue rumore della risacca che pare non abbia voglia di infrangersi sulla sabbia e sugli scogli ramati. Il cielo comincia a diventare un ammiccante tintinnio di stelle, ma solo ad est per il momento, solo dove il sole è scomparso da un po’.
Ad occidente il cielo si tinge di tonalità di viola e rosa e arancione. Posso appena scorgere l’ultimo arco solare.
Nell’istante in cui svanirà all’orizzonte io ciondolerò con i piedi sull’acqua, con il collo stretto in una ruvida morsa di canapa.
Che bella punizione.
Pensano davvero che io possa piangere o invocare la grazia? Stolti. Poveri inutili stolti.
Ho vissuto la mia vita navigando per i mari del mondo, dai più freddi ai più caldi, assaltando le navi dei ricchi, luridi cani senza dio che accusano me di esserne privo.
Pensano che mettendo fine alla mia vita possano mettere una pietra sopra al mio passato. Mi chiamano “uomo senza dio”, mi chiamano “assassino”, mi chiamano “stupratore”.
Loro non sanno che io ho un dio, ma è solamente diverso dal loro. Il mio dio non mi impone di recitare la parte dell’uomo caritatevole, non mi obbliga a recitare la parte della pecorella che segue fedelmente il gregge che procede ordinato come dice il pastore. Il mio dio si chiama libertà, si chiama mare. E le leggi del mare sono dure. Le leggi della libertà sono crudeli.
Non sono un assassino. Mi sono semplicemente difeso da altre persone come me. Per me sarebbe stato un onore morire sotto la lama di un mio compagno, di un mio pari. Non ho commesso omicidi eliminando qualche porco ipocrita e benpensante che ha dato al denaro la sua dignità di uomo, ma ho solamente eliminato dal mondo un’insostenibile presenza putrescente e malsana.
Non sono uno stupratore. Ho solo colto i fiori che la natura mi ha messo davanti, bei fiori profumati di vita e giovinezza. Belle fanciulle che nonostante dicessero no, mi desideravano e volevano assaggiare la selvaggia libertà di cui mi sono impregnato in questi lunghi anni. Le sirene sono ammalianti e tentatrici, per questo vanno accontentate.
Io non rispondo alle leggi degli uomini, io rispondo solo alle leggi del mio azzurro e crudele dio.
La luce dorata va sparendo, lasciando spazio, ogni secondo di più, alla buia e calda notte.
Quante notti ho passato sulla prua della mia nave a bearmi i polmoni di quell’aria salmastra e maleodorante, a bagnarmi la barba alla spuma delle onde, a sentire il vento smuovermi i capelli e gemere tra le trame dell’olona tesa. Quante notti senza sonno ho trascorso a fissare il cielo e a chiedermi quale fosse la mia stella, quale fosse l’astro atto a brillare solo per guidarmi, a fissare il disco argentato che illuminava il mare rendendolo più cupo e malvagio che mai.
Quante volte ho fissato la nave spaccare le onde e colorare l’acqua cristallina di argento e azzurro, verde e bianco.
In quanti porti ho attraccato la barca, con quanti sentimenti diversi ho tirato le ancore, con quanto gusto ho fatto ruggire i cannoni e tremare il ponte. Il suono del cannone è il suono più dolce e avvolgente che esista su questo brutto mondo. Ogni volta che sputa le palle di scuro metallo una scarica di soddisfazione e un brivido di voluttà mi attraversava lo stomaco e il corpo, rendendomi facile
preda di sentimentalismi legati alle tante incursioni.

Il sole è tramontato.
Mi giudicano colpevole di tutto. Poveri stupidi.
Rido in faccia alla loro condanna così come rido in faccia alla morte. Non la temo.
E’ sempre stata la mia più fedele compagna di viaggio. E’ sempre rimasta seduta al mio fianco. Mi ha sempre incoraggiato a fare il mio mestiere, il mio amato e insostituibile lavoro. Le mancherò in questo mondo, sono stato un bravo servo in tutti questi anni, ho contribuito molto al suo lavoro di gioiosa mietitrice.
Il mio corpo dovrà essere un monito per i miei simili che costeggeranno questa terra. Mi impiccano in una nuovissima forca, costruita apposta per me su questa rupe, in modo che il mio corpo sia visibile da tutti coloro che si accingono ad attraccare su queste luride sponde.
Mi spingono giù da questo inusuale e romantico patibolo.
Un istante prima di avvertire il tocco del boia che mi incita a saltare contraggo più che posso i muscoli del collo, in questo modo la corda dovrà lottare per insinuarsi tra le mie carni e io potrò morire semplicemente cessando di respirare, con lentezza. Voglio che la mia morte sia lenta e voglio offrire ai miei astanti un grande spettacolo. Voglio godere al meglio questi miei ultimi istanti di vita, guardando con occhi fiammeggianti, e il sorriso in volto, gli uomini che mi mandano a morire convinti della loro bontà e della loro giustizia. Convinti di liberare il mondo da un rifiuto umano, condannandosi inconsciamente, macchiandosi del mio stesso crimine. Che ironia.
Il fiato si fa sempre più corto e i miei polmoni non riescono a dilatarsi per far entrare l’aria. La corda che mi orna il collo si stringe sempre di più ad ogni mia oscillazione. Peccato, mi sarebbe piaciuto lasciarmi andare ad un’ultima risata.
Rivolgo il mio sguardo verso il basso, vedo i miei piedi che dondolano lentamente sull’acqua spumeggiante e sempre più buia ad ogni istante, oggi non risplende.
La luna si mostra con un sorriso, mi guarda morire e ride anch’essa assieme a me. Ride di questi vili maiali che si beano di vita solo quando la tolgono, ma senza gustarsela come feci io. La morte è un dono e va vissuto e affrontato con gioia, indipendentemente da chi colga.
Se non avessi le braccia legate dietro la schiena avrei aperto le braccia per cingerla e stringerla fino a farla penetrare in me, fino a bucarmi gli intestini con essa e fino a sentirla offuscare il mio sguardo e rendere ovattati i suoni.
Invece non posso. La mia vista si annebbia rendendo distorta l’ultima immagine del mare che mi accompagnerà per l’eternità, il fruscio setato della risacca è sempre più smorzato e attutito. Speravo di sentire l’aria squarciata dal rombo dei cannoni un’ultima volta, ma è un privilegio che non mi è concesso.
Percepisco le lacrime farsi strada fino agli occhi e rendendo grigio il prepotente buio.
Aspetto di vedere la luce bianca che si mormora si veda prima di morire, ma non si presenta. L’unico bianco che vedo è dato dal dolore della corda che mi scortica la gola. Che dolore piacevole… e tra un attimo finirà…

Ormai è notte.
Mi spengo sicuro di aver mantenuto il mio sorriso, di essere morto mostrando i denti, mentre il mio corpo si lasciava andare al buio scosso dalle convulsioni causate dalla mia anima che abbandona le mie spoglie.
Addio vita, grazie al cielo sei finita.

   
 
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