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Autore: jinkoria    22/02/2018    5 recensioni
[Shisui centric; modern!AU][ShiIta][Sagra del Crack Pairing: MadaSaku, SasuKiba, TobiIzu, SuiKa, TemaTen, NaruGaa + accenni HashiMito]
Perché i suoi amici erano lì, a battibeccare spudoratamente come le peggiori coppie di sposi invecchiati, ma di un invecchiamento d’annata, di quella prelibatezza che raffina il proprio sapore solo dopo anni e anni di pazientata attesa; la migliore bottiglia della sua cantina che, però, a detta di Shisui, era arrivato il momento di stappare. Era finalmente giunta l’ora della degustazione, pensò estasiato, con le dita che pizzicavano, smaniose di rendere giustizia a tutti quegli stolti che non riuscivano a cogliere l’ovvio sotto al loro stesso naso. Poco importava, perché vi avrebbe posto rimedio personalmente; dissetandosi.
Genere: Comico, Parodia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Itachi, Madara Uchiha, Shisui Uchiha, Un po' tutti | Coppie: Karin/Suigetsu, Naruto/Gaara
Note: AU, Lemon, OOC | Avvertimenti: Bondage | Contesto: Nessun contesto
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Va letto, fidatevi
Ho così tante cose da dire che non so da dove cominciare (/ w ). Partiamo dal titolo, interamente tratto dal wikia di Shisui: Shunshin è il soprannome di Shisui, che significa "il fulmineo"; 459 è il capitolo di debutto del personaggio. Volevo qualcosa che sapesse proprio di nickname tipico da forum e simili, quindi ho unito le due cose. "Il fanwriter di quartiere" è un riferimento a Spider Man e al fatto che Shisui scriva dei suoi amici/parenti a loro insaputa. Questo primo capitolo sarà pieno di riferimenti, citazioni e cosiddetti Easter Eggs (tipo Hiruzen con l’Alzheimer, un bacino alla gilda!) sparsi qua e là, tutte cose abbastanza ovvie, per cui qui su riporto solo tre cose per i (possibili) più piccoli di voi: 1) gli NCYNC sono una boy band di vecchia data (sempre wikipedia suggerisce 1995-2002) di cui faceva parte, per esempio, Justin Timberlake. Potreste conoscerli per la canzone Bye Bye Bye, abbastanza famosa; 2) i Tusken, o Sabbipodi, sono dei personaggi della saga di Star Wars (cliccate qui); 3) BauMiao è un personaggio del manga/anime UFO Baby, anche questo di inizio 2000 (piuttosto carino, tra la commedia e la fantascienza, che consiglio sempre di recuperare). Per quanto riguarda la storia in sé: nulla di ciò che leggerete va preso seriamente. È deliberatamente demenziale/comica (si spera) e il tratto di parodia non è in alcun modo offensivo, nemmeno nei confronti dei personaggi utilizzati: avevo bisogno di qualcosa di scemo su cui poter scrivere sciocchezze a raffica e distrarmi dal periodo corrente che è un po’ un macello, quindi eccola qui. Anche lo stesso riferimento al bondage è ironico e impreciso (DI PROPOSITO e, credetemi, pure per scrivere queste due castronerie messe in croce nella scena vera e propria ho fatto delle ricerche per non esagerare; sia mai la disinformazione acuta). Di conseguenza lo stesso OOC è voluto. Inoltre, per rendere chiaro lo stacco tra fanfiction e narrazione (capirete leggendo), oltre che a lasciare dello spazio, ho alternato i font: Verdana per trattare la parte raccontata dal punto di vista di Shisui & Times New Roman per la fanfiction, che qui sarà piuttosto breve perché il capitolo serve più ad indirizzare sul binario di trama, è introduttivo, ecco, ed è già abbastanza lungo così. La parte mancante di fanfiction, comunque, esiste, ma arriverà molto più avanti e come extra, dopo la fine.  
Print Wheel è un sinonimo di "margherita" in inglese; inizialmente avrei optato per Daisy, ma essendo "print" il corrispettivo di "stampa/stampare", dunque più legato alla scrittura, ho scelto la seconda opzione come gioco di parole, dato che il simbolo del sito è una margherita di carta. Nei capitoli a seguire vedrete varie coppie, che poi Shisui sfrutterà per le sue storie, ma Shunshin459 non è solo fanfiction. Per l’85% sì, ovviamente, ma ci sarà dell’altro sul sentimentale. Penso di aver detto tutto, almeno per quanto riguarda le cose più importanti fino ad ora. Purtroppo non ho idea della frequenza di aggiornamento, è tutto piuttosto incerto fino ad aprile, ma spero di essere veloce, per quanto sia totalmente senza pretese.
Prima di chiudere questo poema, ci tengo a ringraziare Elisa per avermi dato supporto (tecnico e non) con questa cosa, per sciocca che sia, e a Jiulia, per altrettanto sostegno. Supporto&Sopporto, soprattutto, per le mille rassicurazioni che le porto sempre a farmi. xD Grazie davvero. ♥

Grazie anche a chi ha letto tutte queste chiacchiere e a chi avrà il coraggio di andare oltre, buona lettura!


 

Capitolo 1.
Galeotto fu l’internet e chi mise l’inserzione








Sorretto dal pugno chiuso premuto sulla guancia, Shisui guardò affranto la pagina di Word davanti a sé, ostinatamente bianca persino dopo intere ore di acuto fissare — era sufficientemente disperato da credere che bastasse intimidire lo schermo con lo sguardo per ottenere dei risultati; l’unica cosa che ne era venuta fuori, invece, erano due occhi rossi come gamberi della Louisiana e un principio di nevralgia del trigemino che prometteva indicibili fitte tonitruanti, come un’eco incastrata nella sua scatola cranica, se avesse anche solo osato sbattere le palpebre. Come se non bastasse, c’era la barra intermittente di segno che pareva ammiccare dispettosa alla sua incapacità di buttar giù due misere righe sulla tesi di laurea; Shisui le rivolse un grugnito rancoroso, mentre premeva tasti a caso pur di interromperne i molesti intervalli. Ogni lampeggio trasudava offesa.

Sei. Sempre. Allo. Stesso. Punto. Idiota. LOL.

Arpionò le dita ai capelli riccioluti e gettò la testa indietro, sbuffando esasperato al soffitto, sfinito da tutta quella forzata nullafacenza — mica era colpa sua se non aveva la ben che minima idea da che lato partire ad intagliare quell’irrealizzabile ceppo di presunta conoscenza, determinata da fogli volanti spacciati per appunti e voti d’esami che non ricordava neanche di aver dato. Perché non era chiaramente fatto per lo studio, Shisui, che al test d’ingresso per architettura, anziché piazzare crocette tra le varie risposte, aveva pensato bene di aggiudicarsi l’iscrizione portandosi dietro una casetta fatta di cotton fioc e patafix come prova della sua innata qualificazione. Per fortuna — o ineluttabile disgrazia, a seconda del punto di vista — la gomma adesiva veniva da un uso già praticato di vecchia data, brutalmente strappata dai poster degli NSYNC che tappezzavano la sua cameretta: il collante difettoso aveva provocato il lento accasciarsi della piccola struttura, afflosciatasi su se stessa come un palloncino bucato, con enorme disappunto del suo artefice. Dopo un paio di minacce di suicidio con i bastoncini superstiti andate a vuoto, zio Tajima lo convinse — coff, costrinse — a procedere col metodo tradizionale; il successo di Shisui, che uscì dall’aula con un quanto mai depresso Sono passato, fu talmente sorprendente e inaspettato che rischiò di sterminare tutti i presenti per infarto fulminante. Tranne nonna Uchiha che, alla notizia, si animò trionfante, convinta di aver avuto un mistico contributo nella riuscita del nipote grazie al cero che aveva acceso agli Antenati quella stessa mattina. Nessuno ebbe il coraggio di contraddirla, sprovvisti di una spiegazione alternativa più attendibile.

Riesumazione dei bei vecchi tempi a parte.

In un modo o nell’altro era riuscito a concludere quel viaggio irto di insidie. Adesso doveva trovare un modo per, quantomeno, iniziare a scrivere la tesi, o Madara — suo relatore per una serie di incresciosi obblighi familiari — lo avrebbe massacrato, disossato vivo e magari, perché no, sfruttato i suoi menischi per farci degli orecchini da regalare alla nonna con trent’anni di ritardo. Perché lui era uno di quelli che i regali non li faceva mai, mentre Shisui sì che era un nipote modello, ogni dicembre provvisto di un maglione dalla fantasia natalizia da appioppare anche al parente più incognito. Madara no, invece, ed era piuttosto sicuro che avesse dato fuoco a tutti quelli che gli aveva dato negli anni passati. Che cugino ingrato. Anche se il loro specifico grado di parentela gli era pressoché ignoto, ma sua madre diceva che erano come cugini. Alla larga. In un certo senso. Non si poteva dare nulla per scontato in quel formicaio di famiglia. Sicura c’era solo la morte, dicevamo, e quella era l’unica garanzia che la pagina altresì bianca come un cadavere — il suo, per esempio — che gli illuminava il viso a giorno, nella penombra della sua stanza, gli forniva al momento. Decise dunque, dopo essersi accertato di aver buttato l’ennesimo quarto d’ora buono in un nulla di fatto, di rivolgersi alla fonte di conoscenza e sapere più valida e immediata che avesse a disposizione.

Google.

Cliccò sull’icona rossa di Opera con uno stupefacente spirito d’iniziativa, innaturalmente pronto a mettersi alla ricerca di possibili testi di riferimento — e sicuramente non tesi prefabbricate da spacciare per proprie al parente tanto nerboruto quanto nevrotico, che alla commissione di laurea lo avrebbe, altrimenti, portato a pezzi nelle borse frigo di zia Mikoto — da cui trarre ispirazione. Lo avrebbe fatto per certo, con una minaccia così solida, per non dire letteralmente massiccia, ad incombere sulla sua persona come una spada di Damocle in acciaio adamantino. Doveva studiare, informarsi e poi iniziare finalmente a scrivere. Mica era scemo, Shisui, che la pelle preferiva avercela addosso. Le buone intenzioni c’erano davvero, perciò. Era persino già pronto a digitare sul motore di ricerca, anche se non sapeva neppure cosa dovesse cercare precisamente, ma bastò una scrollata di spalle e una buona dose di fiducia al proprio istinto per debellare la minima perplessità. Ce l’avrebbe fatta.

«Ora mi concentro» si disse con risolutezza. «Non mi distrarrò neanche se il vecchio Hiruzen» il loro vicino, padre del tabaccaio Asuma, «uscisse sul suo terrazzo in mutande a dimenare il bastone d’appoggio al vento come un Tusken». Era successo davvero, una volta. Colpa dell’Alzheimer, diceva il figlio, ma lui era convinto che fosse tutta una scusa per salvarlo da possibili denunce per atti osceni in luogo pubblico e disturbo della quiete. Ignorarlo sarebbe stato difficile, ma non impossibile. Non si sarebbe lasciato fregare da un selvaggio con la demenza senile, si ripeté ancora, quando finalmente ebbe accesso ad internet.

Peccato che Opera, pernicioso diavolo tentatore tra tutti i browser, avesse la tanto premurosa quanto deleteria caratteristica di riavviarsi, automaticamente, sull’ultima pagina visitata. Il che, per Shisui, equivaleva a YouTube. Aperto sul canale dal nome impronunciabile di una gattara che ammaestrava i suoi micini nell’eseguire i salti più assurdi e fisicamente improbabili in cui un essere vivente avrebbe potuto cimentarsi. Palesemente photoshoppati, o quel che era. Meraviglie della computer grafica, senza dubbio. Irresistibilmente trash. Le pupille del ragazzo si dilatarono a dismisura, difatti, inevitabilmente attratto dalla frase NUOVO VIDEO, in quel maiuscolo sguaiato che richiedeva con disperazione le sue attenzioni, accompagnata dalla nota: dodici minuti fa.

Le dita manipolarono il cursore prima che la mente riuscisse a registrare quel gesto come sbagliato, fuorviante; un deterrente contro ogni residuo di amor proprio: Madara lo avrebbe scartavetrato come una parete impiastricciata di sangue — il suo, che poi, però, si sarebbe dovuto premurare di occultare. Per un attimo sperò che il cugino fosse pigro. Poi fu colto dal presentimento che l’uomo si sarebbe rivelato parecchio propenso alla puntigliosità, sull’omicidio, ma il dado era ormai tratto: un paio di clic avevano dato il via alla riproduzione del video appena caricato, il cui protagonista era BauMiao, un micetto bianco a tratti ramato dagli occhi allucinati che si manteneva in equilibrio su una pila di rotoli di carta igienica. Senza la carta, ovviamente. Gli occhi del giovane si sgranarono e gli sfuggì un verso stridulo di pura meraviglia quando il gatto, con un balzo, si apprestò ad eseguire il suo numero.

Poi, accadde.

Fu inevitabile come attendere inerme lo schianto di un meteorite — che Shisui fosse un fermo sostenitore del se per caso cadesse il mondo io mi sposto un po’ più in là non era il caso farlo presente. O che la minaccia stessa dell’impatto di un asteroide sarebbe impallidita al confronto con Shisui ai fornelli.

Dicevamo, inevitabile. Inaspettato, proprio nel bel mezzo del doppio salto carpiato di BauMiao; sconvolgente, come la quasi riuscita di suddetta acrobazia felina; catastrofico, come la rotellina di caricamento comparsa al momento dell’atterraggio del micio, che trasformò Shisui in una perfetta riproduzione de L’Urlo di Munch, ansioso di saperne l’esito. Ma inesorabile, per l’appunto, come quei cambiamenti che prima o poi arrivano, a tradimento, minando la quotidianità di uno stile di vita che si era consolidato sin dal primo vagito.

Gli si stagliò lì, al centro della schermata del filmato, in tutto il suo vivace, accecante splendore: un rettangolo di un biancore da far invidia alla candeggina più costosa sul quale svettava una grossa, grassa scritta rosa shocking, adornata da margheritine in origami di varie dimensioni, che citava l’annuncio pubblicitario di un sito di fanfiction.

Print Wheel, diceva, Il giardino del Fanwriting

Era come se un unicorno gli avesse vomitato sul desktop, o ci fosse direttamente morto sopra — considerò, quando le lettere avevano preso a sbrilluccicare al passare del cursore sopra l’inserzione. Lo scopo di Shisui era stato quello di andare a premere sulla x di chiusura della pubblicità e tornare a godersi il video, ma quella, quasi avesse percepito il pericolo di venire cestinata, cambiò aspetto con una transizione di scorrimento laterale. Al suo posto, una singola frase. Quella che lo incastrò definitivamente, risuonandogli in testa come un motivetto estivo o il jingle di una nota stazione radio; più smidollato di un plancton, prima che potesse rendersene conto, era già sulla pagina del sito a immettere i propri dati personali nei riquadri da compilare, fino ad arrivare alla scelta del nickname. Ci pensò un attimo, perché ci voleva qualcosa di adeguato, d’impatto, un nome una garanzia, insomma. E così divenne Shunshin459, Il Fulmineo. Una scelta ponderata, legata a qualche significato recondito, nascosto nel proprio cuore? No. Era andato spudoratamente a caso, ispirato dal fulmine sulla batteria del suo telefono in carica. I numeri? L’orario attuale, perché a Shisui piaceva fare le ore piccole e dormire il giorno dopo ai limiti della narcolessia. Dopodiché improvvisò una password, che ebbe — stranamente — l’accortezza di segnarsi in un post it per evitare possibili e spiacevoli disguidi futuri, perché la burocrazia gli aveva sempre fatto schifo e non aveva nessuna intenzione di ridursi a contattare l’amministrazione, che lo avrebbe sbatacchiato tra una mail di codici da convertire all’altra al puro scopo di riottenere una serie di lettere e numeri scelti con un’ingenua, avventata superficialità, per cui avrebbe rimpianto il cedimento a quella magnetica inserzione dei My Little Pony. O delle cronache di un hippie che aveva giocato troppo con le sue piantine. Le margherite glitterate sembravano dargli ragione. In ogni caso, confermata la password, ebbe finalmente accesso alla propria “pagina autore”, piuttosto anonima — ai dettagli avrebbe pensato in futuro, forse, se Madara si fosse scordato della sua esistenza con la stessa facilità con cui lui si era dimenticato il reale motivo per cui era andato online. L’icona dell’utente, però, andava sostituita. Si rifiutava di andare in giro per il sito con con una margherita fucsia evidenziatore, anche perché stava cominciando ad avere degli spasmi e non era certo finito lì per andare in crisi epilettica. In realtà non è che gli fosse proprio così lampante, la ragione per cui si era lasciato convincere da una pubblicità come un’altra. Tanto per cominciare, non aveva la benché minima idea di cosa diamine fosse, una fanfiction, e quando andò a cercarne la definizione su internet — avendo la strana sensazione di continuare a dimenticare qualcosa… — si ritrovò a mangiarsi le unghie dallo shock, sommerso da una serie di termini e definizioni che lo fecero sentire indifeso, braccato dall’opprimente presentimento di aver appena valicato le porte di un mondo del tutto sconosciuto e insidioso da cui difficilmente sarebbe uscito vivo. Il terrore cresceva a dismisura man mano che scorreva la pagina del glossario; il pentimento in salita come il sorgere del sole sulla pianura che era la sua mente in quel momento: una landa desolata, minuscola in confronto alla vastità di quella realtà fino ad allora ignorata. Che poi a lui piacessero anime e manga in quantità esorbitanti non implicava necessariamente una smania inconscia di ribaltarne le sorti canoniche in universi alternativi, conditi da accoppiamenti improponibili in situazioni ancor più improbabili da verificarsi e… un attimo.

In un angolo remoto e quasi insignificante della pagina, piccolo e striminzito su se stesso quasi temesse di togliere troppo spazio alle altre voci, emerse il termine Originale. Shisui si riebbe ad una velocità prodigiosa, galvanizzato da quel faro di speranza in mezzo ad un mare in tempesta ormonale — l’aveva capito eccome cos’era una threesome, nonché uno dei tag più in evidenza sul sito, branco di debosciati.

Vi si gettò a capofitto, completamente a tentoni, ignaro di quale altra diavoleria lo attendesse. Poteva andare anche peggio, per quello che ne sapeva, eppure sentiva a pelle di potersi fidare di quelle nove lettere, con quella O così grande e protettiva che troneggiava su tutte le altre a seguire.

Fu amore a prima vista, realizzò l’istante in cui lesse la definizione, deliziosamente libera dai confini delle opere di fantasia dell’altrui ingegno; mentre sentiva gli ingranaggi del proprio cervello attivarsi, iniziando a stilare un elenco mentale dei suoi personaggi, gli tornò in mente la frase che, in qualche modo, era riuscita a convincerlo che — forse — diventare un fanwriter non sarebbe stata un’idea così malvagia. Al contrario della sua espressione, che da spaurita si fece più furba, affilata da un sorriso ferino e cospiratorio. Poi accostò i polpastrelli delle mani tra loro e, in una perfetta imitazione del Signor Burnes, mormorò allo schermo: «Eccellente».

Lo aveva detto l’inserzione, dopotutto.

Su Print Wheel non c’è limite alla fantasia.

Lo stesso non poteva dirsi per il sistema nervoso di Shisui, che il limite lo aveva sforato già da un po’, iniziando a manifestare il proprio disappunto pulsandogli nelle tempie e a pretendere di andare in stand-by per almeno le nove ore a seguire; per non parlare degli occhi iniettati di sangue come se avesse fumato un’intera piantagione di cannabis.

Diede un’ultima occhiata al suo profilo ancora in fasce, poi ridusse l’icona del browser e spense il computer — chissà perché persisteva, imperterrita, l’impressione di star tralasciando qualcosa… mah.

Si lasciò andare ad uno sbadiglio liberatorio e rumoroso a bocca spalancata, allungando braccia e gambe per stiracchiarsi e rianimare le articolazioni indolenzite — la schiena emise uno scricchiolio sinistro ma decise di glissare su quella palese strizzata d’occhio dei suoi lombi: in fondo, Obito aveva quel suo tanto asociale quanto ciclopico amico primario in Ortopedia.

Venti minuti dopo era a crogiolarsi nel regno onirico, anche se si ritrovò in fuga da un Madara incollerito che lo rincorreva con una spillatrice mentre Shisui, invece, era trasmutato in un plico di fogli.

La mattina seguente — che poi fossero le tre del pomeriggio inoltrate non era importante, il tempo di Shisui girava per un verso tutto suo — si premurò di rifiutare tutte le chiamate in arrivo di suddetto Madara, forte del fatto che il presentimento di morte con cui si era alzato andasse preso piuttosto in considerazione. Ci teneva a vivere, lui. Non che ignorare il cugino dalla pressione bassa e una conseguente, insana dipendenza dalla caffeina profumasse esattamente come una scaltra manovra di salvaguardia, ma Shisui era nato con l’istinto di sopravvivenza di uno struzzo depresso; gli mancava proprio la predisposizione naturale. A confutare tale teoria fu lo smartphone stesso, che a furia di vibrare era arrivato sull’orlo del comodino, quando lampeggiò ad indicare l’aver appena ricevuto un messaggio. Nulla a che vedere con i precedenti 75 di avvisi di chiamate perse e tutte del medesimo contatto. Shisui lo guardò, circospetto, muovendo spasmodicamente il naso come un coniglio col raffreddore, quasi si aspettasse di riuscire a fiutare la fantomatica puzza di bruciato; gli si avvicinò lentamente, pur mantenendosi ad una distanza di sicurezza — ah, ora cercava di salvarsi! — e lo afferrò per un angolo, stretto tra pollice e indice destri. Deglutì rumorosamente quando, sbloccandolo, la scritta Nuovo messaggio da: Zio Samara illuminò il piccolo schermo.

Un messaggio.

Scritto.

Madara non si sprecava mai in messaggi. Non scritti da lui personalmente. E di certo non per augurare una buona giornata o informarsi sulle condizioni di salute del disgraziato suo destinatario. Non ebbe neanche il coraggio di esitare, perché se il cugino era arrivato a tanto, indipendentemente dalla natura delle sue intenzioni, era meglio non farlo aspettare — oltre.

In fondo, era solo un messaggio. Nessuno era mai morto per questo.

Prima che gli venisse la malsana idea di cercare conferma su internet e riscoprirsi affetto da qualche morbo incurabile, col cuore in gola e il dito tremante, lo sbloccò.

Pentendosi di aver preso la quanto mai tragica ed erratissima decisione di venire al mondo, venticinque anni addietro.

Sto arrivando. Se scappi, ti trovo e ti uccido. Se chiami la polizia, ammazzo loro e poi vengo a prendere te.

Riuscì a malapena a terminare l’ultimo e orribilmente attendibile periodo, che il campanello risuonò per ogni anfratto della casa — garanzia di un infarto miocardico, se avesse avuto il tempo di sentirsi male. Dannati Uchiha e la loro narcisistica fissazione di fondare un intero quartiere a loro nome. Così stiamo più vicini, dicevano. Peccato che fosse lui quello col killer della porta accanto. Egoisti. Assassini. Se ne fosse uscito vivo, li avrebbe denunciati per tentato omicidio, od omissione di soccorso: nessuno si sarebbe inimicato quell’uomo per salvare la vita all’idiota che aveva cavalcato una renna a Natale nel bel mezzo del cenone, ubriaco fradicio più di un irlandese a San Patrizio e nudo come una larva. Per un attimo ponderò seriamente la possibilità di fuggire o nascondersi, ma Madara aveva il fiuto di un cane antidroga e Shisui aveva mangiato pizza con cipolla e acciughe, la sera prima; avrebbe fatto più fatica a cercare di sparare sulla Croce Rossa. Si diresse dunque alla porta, con lo spirito scialbo di un condannato a morte, e quando si ritrovò davanti il parente con indosso nient’altro che nero — soprattutto d’umore — credette sul serio di essere a tu per tu con un boia. Persino i lunghi capelli color petrolio e spioventi erano un più che valido sostituto del cappuccio da esecuzione, adeguato contorno di uno sguardo scuro ma attento, come di un lupo affamato a caccia. Con un’ascia in mano sarebbe stato perfetto. O una falce. Più in character — l’aveva imparato la notte passata, pensò orgoglioso.

«Shisui» lo chiamò, la voce bassa e lugubre, in diretta dagli Inferi.

Il più giovane mandò giù l’ennesimo boccone a vuoto, facendo appello al poco fiato che gli rimaneva per rispondere a sua volta: «Samara- Madara» si morse il labbro a sangue, perché non avrebbe dovuto, nella maniera più categorica, mettersi a ridere, giacché al suo ospite non servivano di certo incentivi a scarnificarlo sulla soglia di casa; da come l’altro sgranò impercettibilmente gli occhi, capì che se ne era accorto comunque.

Ma perché farmi scrupoli se sono già praticamente morto?

Rinvigorito da quella nuova filosofia disfattista, azzardò a parlare ancora.

«Qual buon vento ti porta?».

Avrebbe giurato di avergli visto gli occhi diventare rossi ed era a tanto così dal chiedergli se per caso non soffrisse di licantropia, perché anche i capelli gli si erano rizzati tutti ed era abbastanza certo che non esistessero sindromi psichiatriche associabili alla trasformazione somatica in porcospino. E poi aveva ringhiato proprio come il cane di quel tizio dalla faccia tatuata che andava spesso a trovare Sasuke, il cugino scemo da ramo cadetto dell’albero genealogico, nonché fratello di Itachi. Si chiese se non fosse il caso di andare a controllare a che punto fosse il ciclo lunare di quel mese, dato che adesso poteva riuscire ad intravedere persino le zanne.

«Senti ma tu con la luna-».

«Dov’è. La. Tesi».

Ah?

Aaah!

Ecco cos’è che continuava a dimenticare! Questo spiegava anche quel fastidio inconscio che aveva provato sin da prima che andasse a coricarsi, sicuramente causa scatenante dell’incubo terrificante in cui Madara lo aveva perseguitato con minacce di morte e i conseguenti tentativi di attuarle. Meno male che era andato a trovarlo, altrimenti si sarebbe lambiccato su quel cruccio fino alla fine del mese. Dava pure senso all’insistenza con cui il parente aveva cercato di mettersi in contatto con lui per poi, addirittura!, piombargli direttamente in casa. La tesi! Madara voleva sapere come… andava… con la... laaaaa...

«Tesi» ripeté il più giovane sudando freddo, rigido come un tronco d’albero. «Potresti essere più specifico?».

«Shisui» sibilò il parente in risposta, ai limiti della pazienza, e suonò proprio come un insulto.

Sei uno Shisui.

Shisui che non sei altro.

«Quando dici tesi» insisté, portandosi una mano sotto il mento quasi stesse tenendo un’indagine — con la peggiore faccia da schiaffi che avesse — mentre le unghie graffiavano disperatamente gli specchi, «intendi proprio tesi come, tanto per fare un esempio, tesi di laurea o tesi da tensione tipo, che so, muscolare? Hai i muscoli tesi? Sei andato in palestra ultimamente? Perché può succedere, sai, c’è un mio amico che si è stirato tutta questa parte-».

Le mani di Madara attorno al suo collo, ebbe non esattamente piacere di constatare, erano tese eccome.

«Cu-cugino, aspetta, parliamone» esalò a fatica il ragazzo, cercando invano di liberarsi: era come provare ad avere la meglio in una scazzottata con un grizzly che aveva avuto una brutta giornata, o tentare di sfuggire alla presa di un boa constrictor con un bisogno di abbracci non indifferente.

Proprio non ce la faceva a non paragonarlo ad un animale.

«Ci ho provato. Ho telefonato: non hai risposto» dichiarò, innaturalmente serafico, come se quella motivazione — essere ignorato: oltraggio — fosse più che sufficiente per giustificare le proprie azioni.

Shisui si guardò frettolosamente intorno, alla ricerca di qualcosa da usare come discolpa. «Ero- non trovavo il telefono!».

«Ce l’hai in mano».

«Adesso l’ho trovato!».

Madara aveva gli occhi talmente spalancati che non si sarebbe stupito di vederglieli cascare giù, ed era sicuro che non se ne sarebbe curato neanche — come se togliere e rimettere i bulbi oculari al loro posto fosse concepito dalle leggi della medicina, che va bene andasse a passi da gigante, ma quello era un livello Polifemo del tutto inesplorato, da fantascienza- doveva decisamente smetterla di distrarsi. Ecco perché non aveva ancora scritto una sola parola su quella dannata tesi di laurea: era un metro e ottanta di iperattività e assoluta mancanza di capacità di concentrazione. Del resto la natura lo aveva già fatto bello e discretamente intelligente, mica poteva pretendere di essere del tutto perfetto. Maledetto BauMiao e prima ancora di lui Opera. Era stata colpa loro, demoni che non erano altro, se si era allontanato dalla retta via dei suoi propositi, approfittando di quella debolezza. Madara avrebbe dovuto esserne messo al corrente, era innocente! Parzialmente, se non altro. Magari complice? Poco importava, tanto sentiva la morte ormai prossima. Gli parve quasi di vedere il prozio Indra che lo guardava con sdegno dall’alto della sua posizione divina, tutto illuminato da quella scintillante aura dorata che risaltava il colorito smorto da ospite dell’obitorio. O magari era una semplice allucinazione, causata dalla sempre più carente quantità di ossigeno che Madara si stava assicurando smettesse di arrivargli al cervello. Ne ebbe conferma quando, alle spalle del satanico — all’incirca — consanguineo, scorse una figura che Shisui non avrebbe potuto definire altrimenti che angelica: la pelle del viso, dal pallore pressoché etereo — o cadaverico, per rimanere in tema — riluceva sotto i raggi del sole di quel primo pomeriggio primaverile, dove un paio d’occhi smeraldini brillavano come il verde citrino della rifrazione atmosferica nello spettro visibile. Per non parlare della linea morbida e naturalmente dolce delle labbra e l’espressione rasserenante, distesa — in tutti i sensi. Cioè, insomma, quella fronte era un tantino disorientante, a malapena ne intravedeva la fine, complice anche il fatto che le pupille gli si fossero praticamente del tutto rovesciate dentro al cranio e vedere era un po’ una fatica. Chi era, a proposito? Ah, giusto, l’angelo, stava morendo. Mannaggia all’iperattività.

«Madara?» lo interpellò suddetto angelo, e Shisui si domandò se non avrebbe avuto sul cugino l’effetto dell’acqua santa su un indemoniato. Esorcizzato, nel migliore dei casi. Magari sarebbe tornato umano, sorridendo al postino quando sarebbe passato a lasciargli le bollette nella buca delle lettere, piuttosto che inseguirlo fino alla fine del quartiere col fucile da caccia — regalo dell’ameba che da quel momento era stato tacciato da ogni Uchiha come terrorista deliberatamente dichiarato, ossia Hashirama, che, per essere il migliore amico di Madara, qualche predisposizione alla criminalità, sotto la faccia da scimunito, doveva avercela per forza.

Con enorme delusione del padrone di casa, tuttavia, il discendente di Satana non si contorse in preda al tormento psicofisico, né gli uscì roba fosforescente dalla bocca come ne Il Miglio Verde, ma allentò un pelino la presa sulla sua gola. Shisui sentì il collo scrocchiare così forte, per l’indolenzimento, che per un attimo pensò di esserselo rotto. Voleva però guardare per bene la sua salvatrice, che adesso gli dava più l’idea di una Big Bubble ambulante, ma chi era lui per giudicare? Tra l’altro, aveva come l’idea di averla già vista da qualche parte.

«Sakura» sfiatò Madara come un toro in campana, facendo trasalire il ragazzo ancora sotto la sua morsa, per un attimo dimentico della situazione ancora precaria in cui si trovava. «Che sei venuta a fare qui?».

La ragazza — che finalmente Shisui identificò come l’ennesima amica sciroccata di Sasuke, nonostante continuasse a sfuggirgli il collegamento con quell’Uchiha — incrociò le braccia al petto e arcuò il sopracciglio rosato ad ala di gabbiano, picchiettando un dito sulla maglia giallina a righe bianche; un tale pugno in un occhio che la ricollegò per istinto al sito da figli dei fiori a cui si era iscritto la notte prima.

«Ti ho visto uscire di fretta e furia e ti ho seguito. Ti avevo detto di aspettarmi» brontolò, tra l’irritato e il risentito.

Madara, ancora davanti a lui, roteò gli occhi al cielo con una tale platealità da sconvolgerlo, abituato alla versione bilingue in cui si esprimeva o tramite occhiate cariche di un odio inquantificabile o minacce di morte mai del tutto a vuoto. Quella, invece, era pura, genuina esasperazione. Di quella che avrebbe tranquillamente potuto anticipare una lite astronomica, ma in qualche modo diversa, perché anche se era pronto a scommettere — a giudicare da come gli si dilatavano le narici — che sarebbe saltato alla gola della nuova arrivata che aveva osato interromperlo e tampinarlo fin lì, non avrebbe avuto lo stesso reale intento omicida con cui si era rivolto al cugino. Cioè, era visibilmente più rilassato. Ugualmente nevrotico, con la vena d’isteria sempre pronta a pulsare fino all’esplosione sulla fronte più spiegazzata di una sua camicia che non vedeva il ferro da stiro da oltre un lustro, ma rilassato. Ammorbidito. O semplicemente invecchiato, forse; fronteggiare Shisui richiedeva un certo sforzo di per sé, magari non era più sufficientemente arzillo da poter vincere anche quella battaglia. Fatto stava che quella ragazza era lì da neanche cinque minuti e gli aveva salvato la vita solo essendoci. Difatti, adesso era del tutto libero, in quanto la bestia si era voltata definitivamente verso il nuovo nemico a cui dar conto — quasi avesse la priorità. Se non fosse stato troppo concentrato a ricordarsi come si respira, si sarebbe quasi sentito offeso a venir degradato, in maniera tanto impietosa, da protagonista della propria tragedia a spettatore di una diatriba altrui. Nonostante ciò si accorse del fatto che si era aggiunta una nuova nota, nell’aria, come se l’atmosfera fosse cambiata di colpo, con un tono più acceso, nell’istante in cui Madara si era girato verso Sakura.

E in cui lui aveva smesso di esistere. Che ospiti egoisti e insensibili.

«Allora?» incalzò lei, che intanto aveva pure iniziato a battere il piede sul suo tappetino d’ingresso.

«Avevo fretta» snocciolò l’altro tra i denti, massaggiandosi il ponte del naso. «E non sono il tuo cane, non devo eseguire i tuoi ordini. Quindi smettila di infastidirmi».

La pupilla degli occhi di Sakura fu inghiottita dal verde dell’iride tanto li spalancò, allo stesso modo della bocca schiusa in una o, indignata come se le avesse appena sputato nel caffè di proposito. Per un attimo gli ricordò la versione più minuta — e beh, rosa — dell’uomo che aveva dinanzi.

«Scusa, puoi ripetere?».

Quanto avrebbe voluto del popcorn. Intanto, visto che nessuno dei due lo degnava di attenzione, andò al bancone della cucina a prendersi qualcosa da bere.

«Registrami la prossima volta, magari ti entra in testa e la pianti di scocciarmi».

L’indignazione affogò in un’ondata di rabbia; uno tsunami di orgoglio che non aspettava altro che abbattersi con furia sulla sfortunata spiaggia che, in questo caso, era Madara. Sperava solo che non ci andasse di mezzo la sua casa. Non che gli sarebbe spiaciuto un pretesto per traslocare, dato che iniziava ad avere il sentore che il parente si sarebbe sfogato sulla persona più a portata di mano, ma gli affitti erano sempre così ingiustamente alti e lui così tragicamente povero...

«La pianto di- non sei neanche in grado di accendere l’aria condizionata di quel tuo lurido ufficio, senza di me! Grandissimo pezzo di... irriconoscente!».

Pensò che sarebbe definitivamente passato a miglior vita se si fosse messa sulle punte per dargli un cazzotto.

«Chi te l’ha mai chiesto?!».

«Chi è che ha paura che l’umidità gli faccia diventare crespi quegli aculei che si ritrova per capelli?! Sembri un abete natalizio fuori stagione, Madara!».

Madara divenne rosso di rabbia — mentre Shisui lottava con tutto se stesso per non finire strozzato da una patatina tonda al formaggio che aveva appena imboccato —, portandosi le mani sull’infinita chioma corvina, quasi avesse voluto proteggerla dall’offesa di Sakura.

«Non posso pretendere che tu» e sottolineò il pronome con fare allusivo, indicando col capo i capelli color confetto, «riesca a capire. Così come non hai capito come si faccia un caffè amaro».

La ragazza finse di non cogliere la frecciatina estetica — il tic all’occhio fu inevitabile, però. «Mi avevi detto che ci volevi un cucchiaino di zucchero».

Più andavano avanti più lo spettatore di quel battibecco — ancora infelicemente eclissato — rimaneva sconvolto dal modo in cui un essere umano che non fosse Izuna riuscisse ad intrattenere un botta e risposta con l’individuo più intrattabile e irascibile che avesse mai messo piede sul Creato.

«Ci avevo ripensato».

«E come facevo a saperlo? Di certo non potevo leggerti nel pensiero, vista la sterpaglia sotto cui tieni nascosto il cervello».

Shisui si portò una mano alla bocca, scioccato. Nessuno aveva mai osato tanto e, di certo, non era sopravvissuto per raccontarlo — si escluse automaticamente dal quadro dei testimoni; non erano comunque consapevoli, al momento, della sua presenza. Infatti Madara tornò a sbraitare contro la ragazza come se nulla fosse perché, se avesse avuto un minimo di coscienza del cugino, lo avrebbe prima scuoiato e lasciato la pelle ad essiccare al sole, poi sarebbe tornato da Sakura per riprendere da dove era stato interrotto. Meglio così, si disse, tutto sommato: aveva la possibilità di assistere ad una situazione che aveva del surreale — un paio di volte lo aveva sfiorato l’idea che Madara lo avesse accoppato sul serio e quella fosse solo una sorta di commedia di benvenuto al Paradiso. Insomma, l’Uchiha più grande somigliava allo zio Tajima quando iniziava a discutere con la moglie perché aveva l’odiosa abitudine di spostare il telecomando dal tavolinetto in soggiorno al mobile della tv senza farlo presente. Allo stesso modo, sembravano così… domestici, lui e Sakura. Come una vecchia coppia di sposi che litigava un giorno sì e l’altro pure, ma rimaneva comunque illesa da ogni disputa, uscendone, semmai, più complice e unita.

E in quel momento qualcosa, nella testa di Shisui, tintinnò come un campanellino da collare per gatti1.

«Smettila di parlare dei miei capelli- anzi, no, smettila di parlare e basta! Che diavolo fai ancora qua?!».

«Ti ho portato i documenti che hai dimenticato a lavoro, rintronato che non sei altro!».

Madara aprì bocca, pronto a berciare nuovamente, ma poi, metabolizzata la frase, la richiuse con uno schiocco secco dei denti.

«E perché non mi hai avvisato prima?» le chiese, di colpo composto e pacato, come se la discussione fosse diventata d’un tratto noiosa e immeritevole di ulteriori impieghi di energie.

Sakura sorrise apertamente, trionfante e conscia di quanto il suo capo, da quello che Shisui aveva potuto intuire dal loro abbaiarsi addosso, stesse ostentando una noncuranza che mal celava un masticato — e deglutito a fatica — senso di vergogna e irritazione per essere stato preso così in contropiede.

«Avevi il telefono continuamente occupato» spiegò lei, canzonatoria. «A proposito, da quando sei così sociale? Ti stavi dando da fare per organizzare un attacco di Stato?».

Fu ben distinto il crash che infranse la bolla di inesistenza in cui Shisui era stato relegato e che, realizzò solo in quel momento, lo aveva protetto dall’ira del cugino.

«No...» mormorò Madara, come se stesse rispondendo più a se stesso che alla ragazza, mentre si voltava lentamente verso di lui. Di nuovo consapevole. A Shisui, stavolta, venne in mente di paragonarlo ai tirannosauri di Jurassic Park che erano praticamente ciechi in assenza di rumore; Madara si attivò più o meno allo stesso modo: era come se Shisui avesse camminato in punta di piedi fino a quel momento, ma fosse poi caduto rovinosamente ad appena un passo dalla zona di recupero superstiti.

«Stavo cercando di mettermi in contatto con mio cugino».

E così, allo stesso modo in cui gli aveva salvato la vita, Sakura lo condannò ad una lenta morte tra le più atroci agonie: Madara non lo chiamava mai “cugino”. Diceva che il solo pensiero di essere accostato a lui, per larga che fosse la parentela, gli metteva voglia di cavarsi lo stomaco a mani nude, tanto gli si sarebbe rivoltato e non se ne sarebbe fatto granché. L’ultima volta che era ricorso a quel termine, infatti, uno Shisui di dodici anni aveva accidentalmente dato fuoco alla collezione di vinili che Madara custodiva con maniacale gelosia — l’aveva sentito parlare ai dischi come la versione più sinistra e raccapricciante di Gollum e il suo fantomatico tesssoro — in una grossa cassa in ferro, più blindata di un caveau. Come fosse riuscito nella piromane impresa era rimasto un mistero. Non che all’Uchiha più grande sarebbe importato qualcosa delle sue spiegazioni.

«Per la tesi. Ma lui non rispondeva» continuò spiritato, avanzando verso di lui. «Vero, cugino?».

Era già pronto a risalutare il prozio Indra non appena Madara gli fu a due passi di distanza, aggirando la penisola della cucina dietro cui aveva pensato, ingenuamente, di potersi nascondere. Shisui giunse le mani in preghiera quando allungò le grinfie su di lui, determinato a riprendere da dove era rimasto. Una seconda volta, tuttavia, la voce di Sakura, in un rinnovo celestiale come la campanella al momento fatidico del match, trattenne il suo carnefice.

«Smettila di tormentare quel povero ragazzo e torna in ufficio con me, che abbiamo un mucchio di pratiche arretrate».

Madara sollevò nuovamente gli occhi al cielo, dando a Shisui una sensazione di sgradevole déjà-vu, e si morse un pugno con forza, ancora con le spalle a lei rivolte — possibile che non ci tenesse a farsi vedere più isterico di quanto Sakura non sapesse già. L’importante era che avesse funzionato, perché l’uomo si limitò a scoccargli un’ultima occhiataccia fulminante ma senza infierire oltre, giratosi poi verso la sua dipendente e dirigendosi con lei verso l’uscita. Quasi sperò che si fosse scordato della tesi, distratto dalla rinnovata carica di intenti omicidi che avrebbe tanto gradito sfogare su quell’impiastro di parente che gli toccava subire; Madara, quasi parve aver sentito il suo pensiero, tornò a guardarlo con la promessa di una vendetta inimmaginabile, puntandogli il dito contro in avvertimento.

«Ti do una settimana per mandarmi una copia della tua tesi».

Capito perché lo chiamo Samara?

Il più giovane deglutì rumorosamente e annuì in fretta, rispondendo al saluto di Sakura che, subito dietro a Madara, con un sorriso comprensivo e incoraggiante insieme, gli alzò entrambi i pollici in su.

Il silenzio che seguì il chiudersi della porta sapeva paradossalmente di fracasso. Forse perché adesso era costretto, per forza di cose, a tornare a concentrarsi sui propri pensieri, scollegati e spediti da una parte all’altra del suo cervello ad una velocità impensabile. Gli erano già venuti in mente almeno una quindicina di modi in cui avrebbe potuto impiegare il tempo in più che gli era stato concesso, nessuno tra i quali prevedeva la stesura della fantomatica tesi. Non era però così sciocco da sottovalutare la rinnovata minaccia di Madara: che Sakura fosse passata di lì era stato un caso più che fortunato, si disse, già diretto verso la propria camera, dove lo attendeva il portatile. Per evitare di cadere nello stesso imbroglio della notte precedente, anziché Opera, aprì Chrome, amico di vecchia data e sicuramente più fedele e affidabile di quell’altro più moderno ma decisamente indiscreto. Dopodiché cliccò sull’icona di Word e scrisse, in alto e al centro:

Tesi di Laurea

In grassetto, come monito; sono qui e devi scrivermi, non puoi ignorarmi.

E lo avrebbe fatto. Sakura gli aveva garantito una seconda possibilità che avrebbe fatto in modo di non sprecare. Niente video di gattini e i loro salti da circensi modificati al computer, né, tantomeno, giri turistici su siti dai dubbi gusti estetici.

Anche se c’era l’icona del profilo da modificare.

E quella categoria che aveva attirato la sua attenzione, annichilendo il trauma inflittogli dalle altre. Oltretutto, il siparietto a cui aveva appena assistito continuava a frullargli in testa a ripetizione, più o meno fedele alla versione autentica, ma con delle modifiche inconsce che non riusciva a gestire. Per esempio, non gli era proprio chiaro il motivo per cui la sua mente gli proponesse la situazione analoga ma in chiave bondage, con Sakura con un completo da misstress interamente in pelle nera e cinghie sparse — più cinghie che pelle, in effetti. E più pelle di Sakura stessa che non della mise in sé — e possibilmente armata di una paletta da spanking in legno con sopra inciso bossy, mentre fissava ghignante un Madara incatenato ai piedi del letto e, soprattutto, imbavagliato. Ovviamente le avrebbe bestemmiato contro comunque per averlo conciato in quel modo, capacità di libera espressione o meno, ma superato il primo strato di pregiudizio nei confronti di una pratica tanto chiacchierata quanto mal apprezzata si sarebbe sciolto anche lui — o Sakura gli avrebbe sciolto della cera addosso, magari sui cape- insomma, avevano così tanto potenziale sprecato. E lui era lì, con quel vaso di Pandora tra le mani che non aspettava altro che essere aperto come un barattolo di Nutella dopo anni di dieta...

Il “Tesi di Laurea” sparì dal documento alla velocità dalla luce — poteva ignorarlo eccome — , lasciando posto ad un bianco di rinnovo che, stavolta, Shisui non detestò. Chiuse Chrome e riaprì Opera, che gli restituì la pagina del suo profilo nuovo di zecca, e caricò un’immagine stilizzata di un fulmine giallo, su uno sfondo grigio scuro, con gli occhiali da sole. Premette il tasto di conferma di modifica con euforia, con le dita pizzicanti come se si fossero appena risvegliate dall’intorpidimento. Infine, tornò su Word, regolò il font e, esaltato, con gli occhi tondi e sgranati — sicuramente anche un po’ strafatto a causa dei troppi glitter della home page —, cominciò a scrivere; la tesi e l’avvertimento già dimenticati. Madara un po’ meno.






Madara aprì gli occhi su uno sfondo nuovo e, ne era certo, totalmente sconosciuto alla sua persona; un ambiente buio, illuminato a malapena da una serie di piccole candele sparse per ripiani che non riusciva a mettere a fuoco, non ancora abituato alla penombra circostante, e sul pavimento — per quel poco che era in grado di vedere lateralmente. Provò ad alzarsi, cominciando ad avvertire la comoda consistenza di un materasso sotto la schiena, ma si ritrovò impossibilitato a compiere alcun movimento: sia le mani che le gambe, ad altezza di polsi e caviglie, erano bloccate, legate ai vertici delle estremità superiori e inferiori del letto. Con questa sbirciata ricognitiva ebbe anche modo di constatare di essere completamente nudo, o quasi; giusto per addentrarsi nel maniacale universo dei certosini, c’era qualcosa sulle sue parti basse. Nel senso stretto del termine, proprio sopra. Attorno. Pregò Kaguya, Hagoromo e tutti i suoi antenati affinché non gli avessero messo una catena anche , perché se per qualche malaugurato difetto igienico quella camera si fosse rivelata una culla di polvere — a cui lui era mortalmente allergico — e anche un solo, semplice e minuscolo granello gli fosse finito nel naso, costringendolo a starnutire… non voleva proprio sapere se e quanto avrebbe tirato.





Shisui scoppiò a ridere come uno psicopatico — il tipico muahahahah diabolico da cattivo spietato che vede il suo abominevole piano prossimo al compimento, per rendere l’idea. Rise e rise, e avrebbe continuato a ridere ancora al solo pensiero del terribile, temutissimo Madara sconfitto da un’allergia alla polvere. Poi della saliva gli andò di traverso e dovette fermarsi per forza di cose ma, scampato il pericolo con qualche liberatorio e deciso colpo di tosse, riprese nuovamente a battere sulla tastiera.





Tuttavia era ancora troppo buio perché potesse controllare per bene, ma non gli parve di distinguere nulla di simile ad una corda collegata a quel punto. Per il bene della propria salute mentale, decise di non indagare oltre su quel particolare e guardarsi attorno. Era indeciso se credere ad uno scherzo di pessimo gusto o ad un tentativo di innescamento prematuro della cataratta, considerando che più passava il tempo più era sicuro di star diventando cieco o prossimo ad una perdita considerevole delle sue diottrie. Escluse subito Hashirama, che era troppo stupido per riuscire ad organizzare una cosa del genere alle sue spalle — alle spalle di Mito. Senza contare che sarebbe letteralmente morto dai sensi di colpa e non ci avrebbe pensato due volte a correre in suo soccorso, col viso bronzeo pentito e devastato dal moccio.

Un po’ più lucido, si rese inoltre conto di essere imbavagliato… all’incirca. Non era certo che fosse un bavaglio convenzionale, dal momento che poteva sentire distintamente la consistenza sferica di una pallina dal dubbio materiale battergli sulla lingua. Riusciva a sentire la cinghietta in pelle che la teneva su rigargli le guance, salda abbastanza da rendergli praticamente impossibile anche solo tentare di sputarla fuori.

«Ghe ghaffu fuffeve?!» provò ad urlare, richiamando a sé la tutta la propria riserva baritonale, col risultato che gli uscì solo una voce gracchiante e da vecchia megera che strepita macumbe — maledetto chiunque fosse stato così stronzo da rapirlo e denudarlo proprio quando era debilitato dall’influenza. In effetti non sarebbe stato un bene neanche dare un colpo di tosse, perché, onestamente, se si fosse staccata la pallina? Chi gli avrebbe fatto la manovra di Heimlich, nel caso in cui fosse caduta nel senso indesiderato? Mica era certo che non si sarebbe magicamente ridotta di proposito, la disgraziata, tanto per asfissiarlo ancora di più. Non era poi così assurda nemmeno la teoria della sala delle torture medievale, dal momento che più fissava la parente di fronte al letto, rigorosamente in blocchi di pietra, più aveva l’impressione — e sperò vivamente che fosse ancora sotto l’effetto della droga con cui lo avevano trascinato lì — di scorgere arnesi da guerra — era un mazzafrusto, quello? — appesi al muro. Per non parlare degli articoli da falegnameria e utensileria varia, o bricolage, per i più casalinghi: c’erano le tronchesi; seriamente? Lo avevano scambiato per un tavolo da assemblaggio dell’Ikea? Oh, ma avrebbero dovuto provarci, quei bastardi sequestratori, ad avvicinarglisi con uno di quegli arnesi. Non avevano idea di chi era la persona che si erano inimicati per tutta la vita. Dunque un periodo relativamente breve, tenendo conto di quanto poco sarebbero durati tra le sue grinfie. Il fatto che stesse decantando l’impareggiabilità delle sue doti di torturatore mentre era imbalsamato come una stella marina non lo rendeva di certo meno credibile, figurarsi.

Le orecchie gli si tesero come quelle del miglior pastore tedesco addestrato in polizia quando, nel bel mezzo delle sue considerazioni in solitaria, la serratura della porta — nascosta dietro un arazzo raffigurante un… cos’era, una paletta per raccogliere la merda del cane? — scattò, mettendolo in allarme. Ogni parte del suo corpo scoperto si tese — cioè, oddio, non proprio ogni parte, mica aveva l’interruttore, per l’amor del clan Uchiha! —, guardingo, non appena una losca e… piuttosto familiarmente minuta figura fece il suo ingresso.

Non poté fare a meno di sgranare gli occhi, ammettendo miseramente il suo stupore, quando ne riconobbe i connotati, e prima ancora la voce che, carezzevole quanto una grattugia arrugginita, disse:

«Ti ho portato il caffè, Madara».





Lo stomaco di Shisui brontolò come un vulcano prossimo all’eruzione.

Effettivamente erano quasi le cinque del pomeriggio e lui non era andato oltre una pallina al formaggio che gli si era incastrata in gola, per giunta. Guardò un attimo lo schermo, indeciso sul da farsi. Avrebbe potuto continuare dopo aver mangiato, in fin dei conti. Sì, gli sembrò il giusto compromesso.

Salvò il documento, tentennando un istante sulla rinomina del file finché, ispirato, batté un nome temporaneo di bozza. Dopodiché si affrettò verso la cucina, indeciso su cosa preparare; il computer in standby.

Quella sera, per la prima volta, Shunshin459 avrebbe pubblicato la sua altrettanto prima storia su Print Wheel, originale, premurandosi di aggiungere l’omonimo disclaimer: Riferimenti a fatti, persone o luoghi realmente esistenti sono puramente casuali. Mentre una nuova cartella, a nome “Fanfiction”, riportava il suo primo file di testo.

MadaSaku BDSM al caffè

Ed era bastato premere su un’inserzione che si era trovato davanti nella più innocente casualità.

 

 

 

 

 


 


1 gli è partita la ship <3 

 

   
 
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