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Autore: Le VAMP    23/02/2018    0 recensioni
Dal tormento d'una madre, d'un padre, a quello d'un amico col cuore in due spezzato; perché in due tu sei, balorda strega delle fiamme!
Compari nelle nobil case, nei più squallidi bordelli: quante vittime farai, miserabile creatura?
(Brani: Hellfire, Déchiré, Le Val d'Amour, Esméralda tu sais)
Genere: Drammatico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Infernal (παροδο[1]) – Première Partie

Confiteor Deo Omnipotenti
Beatae Mariae semper Virgini
Beato Michaeli archangelo
Sanctis apostolis omnibus sanctis

Se Amélie avesse conosciuto la natura di quell’uomo avrebbe preferito la morte piuttosto che sottostare a quel destino. Dopo i primi mesi di nozze tutto s’era fatto già più marcio e grigio, e di quelle dolci lusinghe che riceveva non ne era rimasto che un ricordo.
La prima guancia rossa se la procurò quando una sera litigò col coniuge che negli ultimi giorni rincasava spesso a tarda ora. La mattina successiva s’era guardata allo specchio: a quella s’aggiungeva la pelle stanca e nera sotto i suoi occhi, ed uno sguardo spaventato mentre la domestica le raccoglieva i capelli. Quella strega, quella falsa, continuava a vantarle la sua bellezza: Amélie sapeva che stava mentendo.
Non sapeva cosa pensare allora, la sua unica convinzione era quella che non avrebbe mai perso il suo orgoglio ed onore: avrebbe tenuto quell’evento per sé, e poi doveva esserci abituata. Una moglie che urlava contro il proprio marito era un pessimo comportamento.

Le cose peggiorarono quando la notte seguente Alain volle farsi perdonare, a tutti i costi.
Amélie non voleva le sue scuse: se solo le avesse accettate, forse avrebbe mantenuto la sua dignità di donna.
S’era trovata spinta giù su quel letto, già piena di rughe in viso e lo sguardo isterico, le tremavano le labbra. Era stato un colpo secco, e con quel colpo aveva perso tutto.
Rendersi conto che le sue volontà non valsero più nulla, che ciò che era rimasto dei suoi diritti si era disperso come fumo, causò la morte dei suoi occhi, puntati verso il soffitto della camera. Poi voltò lo sguardo spento verso le luminose stelle nel cielo, silenziose testimoni dell’accaduto.
Immuni, inette, indifferenti.

Quella mattina preferì non farsi aiutare da nessuno. Non appena ebbe visto le domestiche in volto c’era qualcosa in loro che le diceva di essere una fallita. Le donne...che infami creature che erano.
Ebbene; si erano rivolte a lei con uno strano sorriso quando le ebbero portato la colazione a letto: lo leggeva sulle loro labbra che sapevano del suo fallimento come moglie, e avrebbero tentato di prendere il suo posto.
C’era, fra loro, quella più giovane che la irritava terribilmente: si mostrava così vispa, volenterosa di lavorare...
Quindi s’occupò di pettinarsi allo specchio e poi conciare il viso con trucchi e unguenti, mentre i suoi pensieri erano rivolti a sua madre.
Sapeva che sua madre sarebbe rimasta delusa di quella situazione, gliene avrebbe fatto una colpa. Quella megera era così dura nei suoi confronti che appena ne sarebbe venuta a conoscenza l’avrebbe tempestata di rimproveri, e le avrebbe ripetuto ancora una volta, come se si fosse rivolta a una sciocca, di fare attenzione a tutte quelle domestiche! Sì, in quella casa c’erano troppe donne, troppe vipere pronte a mordere.

Madame Amélie riguardò i suoi comportamenti. Cercò di parlargli, di essere più solare: ogni mattina si offriva di sostenere brillanti conversazioni su qualsiasi tema –eccetto delle ultime esibizioni che il messere avrebbe dovuto sostenere, argomento ch’ella riteneva blando e noioso–, e si rendeva disponibile per discutere sulla beltà dell’arrivo prossimo della primavera, e del cielo azzurro che questa avrebbe portato.
S’accorse che ciò non bastava. Alain aveva compreso che nessuna delle sue gentilezze portava le vesti della sincerità, così tempo dopo fu lei stessa a proporsi per il marito.
S’era ritrovata costretta da quelle spinose circostanze a vestire di velo, e ad accoglierlo a braccia aperte quando giunse sul loro letto matrimoniale: ogni attenzione che riceveva valeva quanto una pugnalata al cuore.
Era terribilmente rigido, già vecchio come suo padre, e incapace di esprimere qualsivoglia forma d’affetto. Reclamava solo la proprietà sul corpo della moglie.
Le stelle, quando il cielo era privo di nuvole, continuavano a brillare per loro.

Ogni mattino che si susseguiva Amélie s’alzava col pensiero di legarsi i capelli. Era sempre da sola in casa e nella sua camera –ignorando la presenza delle domestiche–, il coniuge era già in viaggio per la città a quell’ora, doveva partire di buon’ora per giungere lì prima della tarda mattinata; e così ella trascorreva parte di quelle ore davanti al suo specchio, intenta a contemplare quanto della sua immagine era rimasto di puro, quante rughe s’erano accumulate sul suo collo; poi si riempiva il capo di spilloni per tenere l’acconciatura in ordine.
Evitava le inservienti durante il resto della giornata: quando le passavano davanti gli occhi notava i loro sguardi maligni su di sé. Stavano aspettando che crollasse.
Stavano attendendo la sua morte per poterla sostituire, quelle puttane.

Dunque, il conseguirsi di quelle notti di passione le regalò una splendida bambina. Affrontò da sola perfino i mesi dediti alla gravidanza: sentiva le cameriere bisbigliare, sussurrare preoccupate tra loro. Fu proprio la più giovane a volerla aiutare a camminare tutti i costi, soprattutto durante l’ultimo mese.
Anche in quel contesto si mostrava entusiasta, le chiedeva di continuo il nome che avrebbero dato alla piccina.

Quando le misero per la prima volta sua figlia in braccio lacrimava di gioia. Poté avere quel faccino tutto per lei e lo strapazzò di baci, poi se la strinse forte al petto.
Era sua, la sua bambina, e giurò a se stessa che non l’avrebbe mai data in sposa a nessuno.
Amélie l’amava come ogni altra madre ama i suoi figli, e quando si occupava di allattarla tentava di farla addormentare cullandola tra le sue braccia. Le cameriere cercavano anche loro di donarle delle attenzioni, solleticandone i piccoli piedi e facendosi stringere le dita da quelle minuscole mani, ma la padrona se la teneva per sé.

Madame Amélie conservava quella piccola creatura in una campana di vetro, la teneva al sicuro da suo padre. Quando capitava che il marito volesse prenderla in braccio, ella andava a rifugiarsi in un’altra camera.
Un pomeriggio, con ancora la bambina in braccio, il consorte le arrossò il viso come quella volta, e le rubò sua figlia, tenendola con sé il resto della giornata.
Amélie non riuscì a reagire: si limitò a procurarsi una sedia nel cortile e stare lì a guardar i germogli[2], illuminati dalla luce del sole che calava e andava a ripararsi dietro i monti.

Quell’avvenimento segnò una cicatrice nel rapporto con sua figlia.
Alain si stava vendicando di lei, cercando di passare con la piccina ogni qualvolta trovava del tempo da dedicarle, e quella madre, la notte in cui si svegliava per allattarla, cominciava a vedere in quella neonata solo una piccola parassita che succhiava di continuo il suo latte, e strillava, e le rinfacciava di aver fallito anche come genitrice.
Cercò di scacciare quei vergognosi pensieri.

Senza che se ne rendesse conto questi tornarono a distanza di quattro anni, volati via in un nulla. Erano le prime lezioni di piano per Chloé, da parte di suo padre: Amélie li scrutava da lontano. Quelle manine paffutelle s’accontentavano di far suonare i tasti del pianoforte, non si preoccupavano affatto di susseguirsi in movimenti ordinati per seguire una melodia precisa. Erano terribilmente sincere!

Avrebbe preferito che momenti come quelli fossero durati per sempre: col passare del tempo la piccola Ardennes cominciò ad attirare sguardi sempre più longevi da parte di suo padre.
Un pomeriggio Amélie l’aveva sentita dalla porta chiusa della sua camera rispondere con toni perplessi al genitore: «Otto anni, padre...compiuti quest’anno». Poi la porta s’era aperta, e suo marito era uscito da lì, accorgendosi che lo consorte lo osservava.

Quella stessa sera, ricongiunti nel letto, Alain continuava a spostarle ciocche di capelli dal viso, ponendole poi una domanda improvvisa: «non credi che la nostra Chloé stia diventando proprio una bella bambina?»
Ella si limitò a guardare il vuoto, assorta nelle proprie riflessioni.
Cominciava a divenire, giorno dopo giorno, sempre più cupa e schiva nei confronti di sua figlia.
Un giorno le mostrò un disegno: aveva un visetto da cui sprizzava gioia, allegria, e orgoglio per ciò che aveva rappresentato. Di nuovo. Cominciava a stufarsene. Dopo una prima occhiata Amélie la ignorò, continuando a guardare lo specchio mentre la piccina le tirava una manica sperando di attirare la sua attenzione. Stette lì a far nulla, ed infine la lasciò andare via amareggiata e col capo chino, con lo sguardo rivolto a terra.

Dovette trascorrere un anno perché Chloé comprendesse cosa dovesse fare per strappare via gli occhi di sua madre da quelli riflessi nel vetro incorniciato d’oro da cui si contemplava: «Mamma...» tentò la prima volta.
«Mamma» riprovò ancora, tenendo bassa la voce. Nell’ultimo tentativo vi verso serenità nelle sue parole: «La mamma non deve preoccuparsi: è la più bella del mondo. Non ha bisogno dello specchio».
Fu quando si voltò che difatti vide l’onesto sorriso della sua bambina dipinto sul viso; in pochi mesi era già cresciuta così tanto, già sapeva come trattar le altre donne. Eppure aveva l’animo puro, il suo unico scopo era veder sorridere sua madre. Non aveva nessuna colpa.
Solo allora, dopo anni che fu separata da lei, che se ne riavvicinò prendendo quelle piccole e paffute mani tra le sue, e prendendo a baciarle come non faceva da quando era appena nata.

Quello fu un giorno dannato. Quando la luna prese il posto del sole e suo marito venne a coricarsi, pensò che sarebbe rimasto al suo posto fino al canto del gallo, quando avrebbe dovuto alzarsi per andare in città come suo solito.
Gli eventi erano precipitati in pochi istanti: Alain già si mostrava differente dalle altre notti, particolarmente pensieroso.
Amélie provò a tirarlo verso di sé, ma questi non perse il suo sguardo nel vuoto. Quando gli passò il palmo sulla fronte, con l’intento di accarezzarlo e distrarlo dai suoi lascivi pensieri, non accadde nulla. Più tardi, al contrario, egli s’alzò dal letto. Gli afferrò una mano, ma lui la scacciò, ed allora la voce della moglie divenne gelida, imponendosi possente sul silenzio che aveva regnato nella camera da letto da quella mattina:
«Non osare».

Egli la ignorò e s’apprestò a camminare, ma la donna gli ghermì il braccio. Non riuscì a liberarsene, poiché se la tirò appresso trascinandola sul letto nuziale, e allora dovette ricorrere alla soluzione più vile.
Era la femmina più cocciuta e fastidiosa che avesse potuto conoscere: non se la tolse dalla vista con uno schiaffo, ma dovette colpirla più volte. S’avventò contro di lei come una bestia da abbattere, assicurandosi che non sarebbe stata più in grado di reagire. L’ultimo colpo glielo assestò sulla schiena, ed allora il suo corpo fu un ammasso di carne.  
«La mia bambina...la mia bambina...la mia bambina...»

Madame Amélie continuava così a pregare, a lagnarsi, a piangere sul letto disfatto. Non riusciva a muoversi. Sfogò la propria collera e disperazione in un ultimo grido, vedendo quello andare via e chiudersi la porta alle spalle.
«La mia bambina!» e continuò a lacrimare, bagnando le lenzuola.
Quella notte madre e figlia s’erano ricongiunte per l’ultima volta ascoltando l’una le urla disperate dell’altra.

Da lì cominciò ad avere visione d’una ragazzina dalla folta chioma bianca che le andava ad accarezzar il capo: aveva il volto della sua piccina, e le sorrideva.
Che fosse dannata! No, non poteva rubarle il suo sorriso!


[1] Parados, canto d’ingresso (in riferimento alla struttura della tragedia greca)

[2] Etimologia del nome Chloé

   
 
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