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Autore: Adeia Di Elferas    02/03/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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La sera dell'8 aprile, la Domenica delle Palme, il giorno dopo la mancata prova del fuoco, gli uomini e le donne di Firenze che erano in Santa Maria del Fiore per ascoltare le parole della predica, videro la loro apparente pace turbata da un improvviso vociare.

Tra loro, a macchia di leopardo, si erano messi dei Compagnacci e questi, uno dopo l'altro e con sempre maggior audacia e aggressività, cominciarono a gridare e dare spallate alle donne sedute sulle panche che avevano sotto tiro.

“Andatevene con Dio, Piagnonacci!” ululava uno.

“Piagnoni infami!” face eco un altro.

Spaventate per quello che stava succedendo, le donne prese di mira si alzarono tutte, una dopo l'altra, dalle loro sedute e, in cerca di protezione, non capendo fino a che punto i Compagnacci si sarebbero spinti, cercarono protezione presso gli altri uomini presenti nella chiesa.

Capendo che tutto poteva degenerare da un momento all'altro, i fortunati che erano vicino al portone sgusciarono fuori e cominciarono a correre, scappando a gambe levate.

Mentre il clima si surriscaldava sempre di più, i Compagnacci cominciarono a individuare tra la folla i sostenitori più noti e accaniti di Savonarola e, tirate fuori armi e bastoni da sotto i mantelli, cominciarono a inseguirli.

Questi, assecondati dalla folla di fedeli che si scostava al loro passaggio per permettere loro la fuga, lasciarono in fretta la chiesa e si riversarono verso via del Cocomero. I più lenti venivano presi dagli assalitori e picchiati a mani nude fino a stramortirli e, quando provavano a ribellarsi, venivano passati a fil di spada.

Nel giro di nemmeno un'ora, in tutta la città scoppiò una sorta di guerra civile, che vedeva contrapporsi i savonaroliani e i Compagnacci, senza esclusione di colpi o di sotterfugi.

Siccome, però, i Piagnoni erano stati colti alla sprovvista, le sorti del conflitto voltarono rapidamente in favore dei loro oppositori che, rapidi come un fulmine estivo, cominciarono a riversarsi verso San Marco gridando: “Ai frati! Ai frati! A San Marco!”

Come stregati dalla forza di queste urla, tutti i fiorentini, anche quelli che fino a quel momento non avevano preso in alcun modo parte ai tafferugli, bambini compresi, si accodarono, brandendo armi di fortuna e sassi.

I molti che erano in San Marco, chiuse le porte, si videro negare ogni via di fuga perché la folla inferocita stava prendendo a sassate ogni possibile sortita. Solo pochissimi astuti riuscirono a guadagnare la salvezza scappando dalla sagrestia, di nascosto.

Dopo un po', mentre ancora i colpi dei sassi contro il portone di San Marco rimbombavano nella fredda aria serale, dal Palazzo della Signoria arrivò un bando ufficiale.

“Chiunque piglierà frate Girolamo Savonarola, avrà mille ducati!” lesse a pieni polmoni il portavoce della Signoria.

Questa notizia infervorò ancora di più il popolo, che, come se il frate fosse di certo in San Marco, prese a colpire con maggior forza il legno già logoro della porta.

Erano ormai le dieci di sera quando, contro ogni aspettativa della folla, si capì che Savonarola non era nel suo convento. Molta parte della popolazione era sviata in piazza, in cerca di notizie più sicure.

Ad arringare i presenti arrivarono alcuni uomini a cavallo, dei Compagnacci, che iniziarono a gridare: “Alla casa di Francesco Valori! A sacco! A sacco!”

Come un gregge di pecore furiose, tutti quanti seguirono senza esitazione quelli che avevano inneggiato al saccheggio della dimora del Gonfaloniere di Giustizia e, in pochi minuti, arrivarono a destinazione e diedero fuoco alla porta d'ingresso. Una volta sfondato quell'ultima protezione, i più volenterosi e i più ferventi, entrarono nel palazzo e portarono via tutto quello che trovarono.

Si imbatterono nella moglie del Gonfaloniere e nelle sue figlie, e nelle di loro balie. La rabbia di Firenze si abbatté su di loro con una crudeltà inaudita e in pochi minuti furono tutte morte.

Nel frattempo, Valori, che era tra quelli rinchiusi a San Marco, ne uscì senza che nessuno degli altri Piagnoni se ne avvedesse.

Attraversò l'orto e arrivò alle mura della città. Stava per riuscire a fuggire, contento di aver salvato la pelle, anche se si sarebbe trovato fuori da Firenze senza soldi e senza amicizie, ma due contadini di passaggio lo videro e lo riconobbero.

Questi, convinti che vi fosse anche su di lui una taglia, come sulla testa di Savonarola, lo portarono di peso al suo palazzo e da lì lo affidarono ai Compagnacci che lo portarono al Palazzo della Signoria.

Lungo la strada, però, vicino a San Procolo, mentre Valori, ormai senza forze, seguiva i suoi carcerieri muto e sordo a ogni insulto che gli veniva gridato dai fiorentini, uno dei ribelli si spostò dal bordo della strada, raggiungendo il Gonfaloniere di Giustizia.

Prima che qualcuno potesse fermarlo, calò la roncola che portava in mano sulla testa di Valori per tre volte. Il cranio si spaccò sotto la lama e Francesco cadde morto in una pozza di sangue che si allargava sempre di più sotto il suo corpo.

La notte di follia in cui era caduta Firenze durò ancora molte ore. Venne messa a sacco la casa di Andrea Cambini, una casa della via Larga, appartenente a un poveraccio che, spaventato dai tumulti, aveva gettato delle tegole in testa ai Compagnacci. A San Marco scoppiò una vera e propria guerriglia, e non servì molto tempo prima che qualche facoltoso portasse addirittura tre passavolanti in via Larga in via del Cocomero, provocando morti e feriti in gran numero.

Alle sei del mattino, mentre il sole timidamente tingeva il cielo di un rosa pallido e tenero, la porta di San Marco e quella del chiostro vennero date alle fiamme. In chiesa si combatté, come su un campo di battaglia, ma, nonostante la durezza dell'assalto, ancora i frati del convento gridavano che non avrebbero mai consegnato Savonarola.

Ci volle un po' e alla fine si trovò un punto di incontro e i Compagnacci promisero di tenere in vita il frate, se fosse stato consegnato alla Signoria.

Alle sette, sotto un cielo livido e silenzioso, passando davanti a una folla ancora riarsa dall'odio, ma incredibilmente composta e immobile, capace solo di urlare ingiurie, frate Domenico e frate Silvestro scortarono Savonarola al palazzo.

Solo nella piazza, dove s'erano radunati i più coraggiosi, qualcuno andò contro al predicatore, tirandogli calci nelle gambe e sbeffeggiandolo: “Va là! Tristo!”

Appena davanti al palazzo, sotto lo sguardo ammonitore e pesto del frate, che occhieggiava verso il pubblico, facendo vibrare in aria il grande naso adunco, le guardie gli misero i ferri alle caviglie e ai polsi, stringendo molto più del necessario, senza esimersi dal riempirlo di improperi e ingiurie, calcando il più possibile la mano e lasciandosi andare a volgarità di ogni tipo.

 

Simone aspettava paziente al portone d'ingresso della rocca di Ravaldino. Gli sembrava impossibile che le guardie non lo riconoscessero, ma era così felice che non aveva alcuna intenzione di lasciare che un simile dettaglio lo facesse arrabbiare.

Aveva chiesto della Contessa o, se questa non avesse avuto tempo o voglia di ricevere il Governatore di Imola, di messer Medici e così adesso stava aspettando con ansia che uno dei due si profilasse davanti a lui e lo lasciasse entrare.

Come aveva immaginato, dopo qualche minuto fu Giovanni ad arrivare al portone. Si stringeva nel giubbone rosso e oro, il passo claudicante e il sorriso sulle labbra.

“Giovannino!” lo salutò Simone, mentre finalmente le guardie gli permettevano di entrare.

I due si abbracciarono per un lungo istante e il Medici alla fine si ritrasse un po' e guardò l'altro fiorentino per dirgli: “Grazie di essere arrivato tanto presto.”

Gli aveva scritto appena un paio di giorni prima, dicendogli che non era il caso di correre subito a Forlì, visto soprattutto il momento di tensione con Faenza.

“Ho deciso di passare per i boschi.” spiegò Ridolfi, per tagliar corto il discorso: “Allora, mi porti dal mio figlioccio?”

Giovanni annuì subito e, sfregandosi le mani l'una nell'altra per scaldarle un po', assicurò: “Certo.”

Il cugino guardò di traverso le sue dita e si rese conto con una stretta allo stomaco che avevano qualcosa di diverso. Sapeva di cosa soffriva il Medici e aveva visto in altri uomini – molto più vecchi di lui – quel genere di stigma sulla mani.

Mentre Giovanni lo scortava al piano di sopra, Simone si trovò a pensare anche a come l'amico fosse ulteriormente dimagrito, rispetto a come lo ricordava, e a come zoppicasse più vistosamente.

La tristezza che quelle considerazioni gli stavano mettendo quasi gli impediva di ascoltare le parole entusiaste dell'ambasciatore, che stava magnificando la bellezza e l'intelligenza del figlio, già di forte carattere, a sentirlo lui, benché avesse pochissimi giorni di vita.

“E la tua Caterina?” chiese Ridolfi, appena prima di arrivare alla stanza in cui era stato sistemato il neonato: “Già a caccia o a guidare l'esercito?”

Giovanni deglutì un momento e poi rispose: “Non è stato un parto semplicissimo, per lei. Si sta riposando.”

Simone restò stupito da quell'informazione, dato che aveva sentito dire che la Tigre era famosa per la rapidità con cui si riprendeva dopo la nascita di un figlio. Tuttavia, siccome il Medici pareva già pronto a farsi mesto al pensiero della difficoltà della moglie, il Governatore sollevò una spalla e chiese altre notizie sul piccolo Ludovico.

“Vieni, te lo presento...” fece Giovanni, sorridendo.

La stanza li accolse subito con un tepore placido e lo sguardo di Simone venne subito catturata da un quadretto così intimo e familiare che, per qualche istante, si sentì di troppo.

La Contessa, una coperta sulle gambe, era su una poltroncina vicina al camino acceso e poco lontano, vicino alla culla, stava sua figlia Bianca, intenta a guardare e vezzeggiare il fratellino nato da poco.

Prima ancora che Ridolfi potesse scrollarsi di dosso la sensazione di essere un elemento estraneo in quella famigliola, Bernardino, il figlio di sette anni e mezzo della Tigre, lasciò il suo mezzo nascondiglio – fino a quell'istante era rimasto infatti dietro la poltrona della madre, forse a giocare con il soldatino di legno che aveva in mano – e corse verso il Medici.

Prendendo per mano il patrigno, lo trascinò verso la culla di Ludovico, dicendogli: “Guardate! Ho messo il mio cavaliere di legno vicino a mio fratello e gli piace!”

Giovanni fece un cenno al cugino di seguirlo. Ridolfi fece un cenno di saluto alla Sforza, che ricambiò con un gesto della mano e un mezzo sorriso, quasi a permettergli di andare a vedere il nuovo nato, e poi fece quello che l'ambasciatore gli diceva.

Quando si trovò davanti al piccolo, beatamente coricato accanto a un piccolo cavaliere intagliato nel legno, lo fissò per un lunghissimo istante e poi, sollevando lo sguardo prima verso il cugino, poi verso Bianca, scoppiò a ridere ed esclamò: “Che diamine, Giovannino! È uguale identico alla tua donna!”

Il Medici sollevò l'angolo delle labbra e ammise: “Lo credo anche io.”

Simone si voltò platealmente verso Caterina e, dopo aver colmato con un paio di passi la distanza tra loro, si inginocchiò e le baciò una mano che la Contessa gli concesse con una vaga ritrosia: “Vi ringrazio, mia signora, per aver concesso un figlio tanto bello al nostro caro Giovannino. Avete abbellito la schiatta medicea.”

“Sei sempre il solito stupido.” lo rimbrottò il Popolano, ma senza vero rimprovero.

“Io trovo che Ludovico assomigli molto anche a suo padre.” li contraddisse la Contessa, che però, in tutta coscienza, aveva scorto come loro una certa somiglianza tra il bambino e se stessa.

“Posso prenderlo in braccio?” chiese Ridolfi, tornando a guardare il Medici, quasi fosse certo che fosse lui il più autorevole tra i due, in merito alle sorti del piccolo.

Giovanni, allora, guardò la moglie e, dopo averla vista fare un cenno di assenso, lasciò che l'altro fiorentino sollevasse Ludovico dalla culla.

Il bambino, accigliato e assonnato, fissò il nuovo arrivato con aria sospettosa. Simone, che non aveva mai tenuto tra le mani un bambino tanto piccolo, non sapeva bene come muoversi. Ci pensò il cugino ad aiutarlo e quando, finalmente, il Governatore di Imola ebbe Ludovico ben saldo tra le braccia, il neonato spianò la fronte, tranquillo.

“Gli piaci.” notò il Medici.

“Temevo di fargli paura, con la barba che mi ritrovo in questi giorni...” ridacchiò l'altro, tenendo gli occhi puntati in quelli ancora molto schiacciati del neonato.

“Mio figlio è coraggioso. Non si spaventa certo per una barba scura.” buttò lì la Sforza, alle loro spalle.

Ridolfi convenne, aggiungendo, rivolgendosi direttamente a Ludovico: “Impara da tua madre. Ci vuole la sua forza d'animo, per sopravvivere qui in mezzo...”

Dopo qualche altro minuto passato a conoscere il piccolo, Simone lo rimise nella culla e poi scambiò qualche parola con la Contessa. La donna gli offrì ospitalità per la notte e Ridolfi accettò senza indugio, ben felice di non dover ripassare tanto presto dai boschi.

“Possiamo parlare un momento noi due..?” fece a un certo punto Giovanni, sfiorando il braccio del cugino per attirare la sua attenzione.

Ridolfi annuì subito: “Certo. Contessa...” si congedò, lanciando un bacio con la mano e dedicandole ancora un sorriso prima di sottolineare nuovamente: “Vostro figlio è identico a voi.”

Giovanni, dopo aver salutato in fretta il figlio, Bianca e Bernardino e aver scambiato un rapido eppur profondo bacio con la moglie, che rimase seduta al suo posto, condusse l'altro fiorentino fino nella sua stanza, convinto che nessuno li avrebbe disturbati, lì.

“Tua moglie non ti ha accompagnato?” gli chiese, mettendosi a rintuzzare il camino.

“No.” rispose laconico l'altro fiorentino, guardando con attenzione la stanza, curioso di immaginarsi la vita familiare del cugino.

“Come va con lei?” proseguì il Medici, incrociando le braccia sul petto in modo da nascondere il più possibile le mani un po' rovinate.

Simone fece una smorfia e poi dichiarò: “Insomma...”

“Cioè?” indagò il Popolano, notando troppa mestizia nella sua voce.

“Il mio è un matrimonio di convenienza.” spiegò Ridolfi, con un velo di acidità: “Come puoi capire, tu, che ti sei sposato per amore...”

Giovanni capì di aver toccato un nervo ancora troppo scoperto, così sospirò e fece per cominciare a dire qualcosa di confortante, senonché il cugino lo interruppe sul nascere, agitando una mano, un po' irritato: “Ma hai voluto portarmi qui solo per chiedermi di Lucrezia?”

A quelle parole, il Medici si rabbuiò un po'. Simone non ne capì il motivo e temette di averlo urtato con il suo tono. Però, da come Giovanni spostò il peso, un po' a disagio, da un piede all'altro, l'amico comprese che doveva esserci sotto qualcosa di più grosso.

“Senti, devo chiederti una cosa importante.” gli sussurrò.

Ridolfi si fece anche lui molto serio, quasi preoccupato e poi ribatté: “Tutto quello che vuoi.”

“Io ho paura che la mia salute possa precipitare da un momento all'altro – disse piano il Popolano, mostrando le mani al cugino – adesso sto discretamente bene, ma lo sai, dannazione, lo sai che la gotta è una malattia infida...”

Simone quasi tratteneva il fiato. Non aveva mai visto il cugino tanto prostrato e arrabbiato. Era quasi irriconoscibile, rispetto a com'era quando si trovava davanti a Ludovico e Caterina.

“Se dovessi morire all'improvviso, ho paura che...” Giovanni deglutì un paio di volte e poi, chiudendo un istante gli occhi, riprese: “Ho paura che mia moglie... Che possa lasciarsi... Possa lasciarsi andare. Mi fido di lei, ma ne ha passate già troppe.”

Ridolfi sentiva il cuore battere con forza contro il petto, rifiutandosi di immaginare uno scenario del genere. Eppure la preoccupazione del cugino era tangibile e probabilmente motivata. Lui conosceva la Tigre molto bene e quindi probabilmente parlava a ragion veduta.

“Cosa vuoi che faccia?” chiese il Governatore, appoggiando in modo saldo le mani sulle spalle del Popolano.

“Se dovessi morire, vorrei che tu aiutassi mia moglie.” soffiò il Medici, come se quelle parole gli costassero una fatica incredibile: “Non dico che la dovresti sorvegliare, ma solo esserle di sostegno se ne dovesse avere bisogno. Lei e Ludovico. Tutti e due...”

Ridolfi sentiva le lacrime pungergli gli occhi così, invece di fare grandi discorsi, tirò a sé il cugino e lo strinse in un abbraccio silenzioso.

Quando fu finalmente certo di aver ricacciato indietro il pianto, si scostò da lui e assicurò: “Fidati di me. Se ce ne sarà bisogno, e io credo che non ce ne sarà, starò accanto alla tua Caterina come un fratello e veglierò su di lei e su tuo figlio come potrò.”

Giovanni annuì piano e poi, gli occhi chiari arrossati, disse: “Grazie Simone, sei un amico.”

 

Lorenzo Medici si passò la mano sulla barba ispida. Erano giorni che non si badava minimamente del proprio aspetto.

Firenze era nel subbuglio più totale e lui era passato da casa sì e no un paio di volte giusto per mettere qualcosa nello stomaco.

Malgrado la confusione, erano arrivate alcune lettere, ma il Popolano non aveva ancora avuto modo di aprirne nemmeno una. Masticando ancora la stopposa carne che l'unica cuoca rimasta al palazzo gli aveva preparato, l'uomo si alzò goffamente dal tavolo e andò a recuperare il plico di lettere.

Avrebbe letto solo quelle indispensabili. Quel giorno ci si aspettava che da un momento all'altro Savonarola venisse fatto comparire davanti al bargello cittadino, dunque non aveva tempo da perdere.

Scartò a priori dei messaggi di gente che, dopo quei tumultuosi giorni, aveva perso ogni potere e ogni importanza, mise da parte alcune missive dei suoi amministratori, lesse in fretta una lettera della moglie, che lo informava della buona salute dei loro figli, ma saltò l'ultima parte, che lo invitava a tenere la condotta di Ottaviano Riario come primo argomento da discutere alla Signoria una volta passata la buriana. Era quasi in fondo al blocco di lettere quando riconobbe la grafia del fratello.

Aprì subito il suo messaggio e lo lesse in fretta, il cuore che batteva sempre più forte. Giovanni lo informava di essere diventato padre, e che sua moglie aveva superato bene il parto, così come il bambino, che era stato chiamato Ludovico.

Lorenzo si sentì allo stesso tempo sollevato e adirato, stizzito per aver avuto dal fratello la notizia solo a cose fatte, ma contemporaneamente felice come non mai per lui, sapendo quanto desiderava una famiglia tutta sua e in piena regola.

Arrabbiato prima di tutto con se stesso per la sua incapacità di gestire quella girandola di emozioni, il Popolano accartocciò la lettera e la lasciò sul tavolo nella montagnolo di quelle da gettare.

Lasciò la carne a metà e si alzò da tavola. Si pulì la bocca con il dorso della mano e poi tornò all'ingresso. Indosso il mantello pesante, e diede voce a un servo di bruciare le lettere che avrebbe trovato sulla sinistra e di mettere nel suo studio quelle di destra.

Una volta di nuovo in via Larga, un vento strano e freddo che gli sollevava il bordo della cappa, Lorenzo avvertì il bisogno di piangere. Se per commozione o nervosismo, non lo sapeva nemmeno lui.

Per fortuna la vista di una chiazza di capelli ricci e ribelli scompigliati dai refoli impertinenti lo distrasse abbastanza da fargli passare quella stretta alla gola: “Macchia!” chiamò, camminando più velocemente per raggiungere Machiavelli: “Oh, che? Andate alla Signoria?”

Niccolò, mal celando il suo disappunto per essere stato intercettato proprio dal Medici, lo aspettò e con un sorriso secco gli confermò: “Ovviamente. Stanno portando Savonarola in catene davanti al bargello cittadino.”

 

Ludovico Sforza stava guardando quasi annoiato Bartolomeo, che non la finiva più di rintronarlo di parole.

Isabella d'Aragona era stata in centro città assieme al figlio e lì qualche milanese aveva inneggiato a Francesco chiamandolo Duca. Nulla di nuovo. Non lo chiamavano più con diminutivi vezzeggiativi o soprannomi, ma poco cambiava. Napoli era a pezzi. La vedova di Gian Galeazzo non avrebbe potuto mai e poi mai mettere in atto un colpo di Stato.

Se anche il suo bambino veniva chiamato Duca, restava solo un mezzo orfano di cui Ludovico poteva fare quel che preferiva.

“Un dispaccio urgente!” disse una staffetta, facendo irruzione senza troppe cerimonie nel salone in cui il Moro e il cancelliere stavano discutendo.

Ludovico lo fulminò con lo sguardo. Quel giorno aveva un mal di testa atroce e sentire qualcuno parlare a voce così alta era una tortura.

“Chi vi ha fatto arrivare fino a qui?!” sbottò, afferrando il messaggio con una delle manone e rendendosi conto, sconcertato, che qualcuno l'aveva già aperto.

“Sono stato io.” fece Ermes, comparendo alle spalle del messaggero, il fiato appena un po' corto per la camminata svelta: “Dovete leggere subito.”

Il Duca, sbuffando, fece come il nipote gli diceva. Strinse gli occhi alla luce incerta che filtrava dalla finestra e quando arrivò alla fine, restò a bocca spalancata.

Guardò Calco e poi Ermes e poi balbettò: “Re Carlo è... Morto? Ma... Come... Com'è potuto succedere?”

La staffetta deglutì e, stando sull'attenti, riferì: “Il re stava recandosi a cavallo a una gara di jeu de paume. Malauguratamente ha battuta la testa contro un architrave di pietra ed è spirato poche ore dopo.”

Ludovico, che aveva ascoltato solo con un orecchio, giusto per sapere se Carlo VIII fosse morto per malattia o per mano di qualcuno, avvertì un fortissimo senso di nausea. La morte di quel re per lui poteva solo significare una cosa: la catastrofe.

Malgrado tutto, con re Carlo Milano se l'era sempre cavata, anche se con qualche figuraccia. Ora il trono sarebbe passato quasi sicuramente al Duca d'Orléans. Lo stesso Duca d'Orléans che aveva sempre concupito Milano, reclamando il Ducato come proprio.

Il Moro si sentì mancare la terra sotto i piedi. Doveva cominciare da subito a rafforzare la propria posizione. La prima mossa gli parve scontata.

“Calco.” disse, imperioso: “Fate subito portare il figlio dell'Aragona a Pavia. Che non esca più da quel castello, nemmeno se fossero il papa in persona o l'Imperatore a volerlo!”

Bartolomeo annuì e lasciò la sua sedia, pronto a portare l'ordine a chi di dovere, ma poi chiese: “E di madonna Isabella e delle sue figlie?”

Ludovico fu tentato di dare ordine che anche loro fossero riportate a Pavia, ma poi si rese conto che finché restava con il figlio, Isabella poteva essere un problema: “Lei e le bambine resteranno qui a Milano. Ma che vengano controllate a vista.”

   
 
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