Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    06/03/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

L'aria della notte entrava prepotente dalle narici della Tigre mentre, le redini salde in mano, si addentrava nel bosco. Il vento si era placato un po', ma qualche soffio irriverente le alzava i capelli sciolti, facendoli sembrare guizzi di fuoco bianco in mezzo all'oscurità.

Gli animali che si nascondevano nel buio e nella vegetazione facevano pochi rumori, ma la Contessa riusciva a distinguerli, completamente concentrata su quello che la circondava. Quella solitudine, così completa e assorta, le stava permettendo di svuotare un po' la sua mente affollata da pensieri di ogni tipo.

Doveva mancare ancora un po' all'alba, ma la luce era già cambiata e sembrava che, oltre la luna, ci fosse qualcos'altro a mostrare la via al purosangue della Sforza.

La donna non aveva dato troppa importanza alla strada che stava seguendo. Tutto quello che le importava in quel momento era trovare un momento di stacco dal presente. Quando, però, arrivò a un piccolo spiazzo, si rese conto che la Casina non era lontana e tanto le bastò per reimmergerla in una serie di circuiti mentali che la indussero a fermarsi.

Sentiva il cuore pesante e avvertiva la solita stanchezza tornare a visitarla. Il ricostituente che aveva bevuto prima di partire, evidentemente, non aveva avuto grandi effetti sul suo corpo stremato.

Lego il cavallo al ramo basso di un albero e poi cominciò a camminare, le mani dietro la schiena, percorrendo il perimetro del piccolo spiazzo con il capo basso e un'espressione corrucciata.

Non era abituata a fare i conti con i limiti del proprio fisico. In circa trentacinque anni di vita, la sua prontezza di ripresa era stata una delle sue più grandi forze. La nascita di Ludovico, e anche gli ultimi tempi della gravidanza, l'avevano invece messa davanti all'evidenza più destabilizzante di tutte: stava invecchiando.

Ragionare sugli anni passati, più del doppio dei quali ormai passati lontani dalla sua terra natia, la fecero sprofondare in un vortice di emozioni contrastanti. Come le era già capitato alcune volte in passato, la Caterina del passato e quella del presente si confrontavano, criticandosi a vicenda, senza trovare un reale accordo.

Stanca di camminare, tornando verso il cavallo, la Sforza si sedette in terra, sull'erba umida e fredda, e appoggiò la schiena al tronco dell'albero. Chiuse un momento gli occhi, annusando l'aria che, forse, cominciava a sapere di primavera.

Le tornò in mente Giacomo, come sempre. Il chiodo fisso che nulla e nessuno sembravano capaci di strappare dal suo cuore era tornato anche quella notte a farle visita.

C'erano giorni in cui si odiava per la sua incapacità di dimenticarlo, altri in cui si odiava per aver anche solo pensato di poterlo dimenticare.

Asciugandosi una lacrima con il polsino della manica, la Tigre si mise a scrutare tra gli alberi, dapprima senza badarvi troppo, ma poi, notando un lieve movimento tra il sottobosco, con più attenzione.

Quando fu certa di aver visto bene, si alzò di scatto e prese subito la lancia assicurata alla sella del suo purosangue.

Attese un momento, quasi sperando che la bestia che aveva intravisto tra il fogliame se ne andasse.

Malgrado tutto, non si sentiva pronta ad affrontare un animale selvatico. Anche se era uscita bardata da caccia, l'unica cosa che cercava quella notte era la pace.

Il legno robusto dell'asta tra le mani, la Leonessa mosse un paio di passi in avanti. Le sembrava assurdo, ma anche in quel momento di tensione, la sensazione più forte era il dolore alle braccia nel tenere sollevata quell'arma così pesante.

Dopo qualche minuto in cui perfino il suo cavallo restò in perfetto silenzio, la Sforza si convinse che il pericolo fosse passato. Probabilmente la bestia aveva deciso di non sfidarla, per paura o perché non la riteneva una minaccia.

Si era appena rilassata un po', quando dal fianco, da un punto diverso da quello previsto, uscì di corsa una macchia nera e molto grossa.

Era un cinghiale di dimensioni notevoli, come quelli che spesso riusciva a trovare in quella riserva in primavera o in autunno.

I tempi di reazioni della Contessa non furono eccellenti come suo solito, tanto che riuscì a inginocchiarsi e contrarre i muscoli di braccia e spalle solo all'ultimo minuto.

L'animale, forse non avvedendosi della lunga lancia portata dalla sua rivale, non interruppe la sua corsa, andandole direttamente incontro.

L'impatto tra la punta di metallo e il corpo robusto e solido del cinghiale fecero indietreggiare la donna, costringendola a un durissimo sforzo per non lasciare la presa.

Più la lancia si approfondava nelle carni della bestia, più il sangue rovente della preda le schizzava addosso e più l'urlo strozzato e agonico dell'animale le riempivano le orecchie, più Caterina tornò a sentirsi viva.

Ritrovando la prontezza di un tempo, seppur per pochi istanti, la Tigre non solo non perse più terreno, ma riuscì a spingere in avanti il legno. Per fortuna si trattava di una lancia di ottima fattura, creata apposta per quel genere di scontri, altrimenti si sarebbe spezzata per la violenza dell'attacco.

Il cinghiale ancora si lamentava, cieco e pazzo di dolore. Riuscendo addirittura a rimettersi in piedi, la milanese riestrasse a fatica l'arma dal corpo martoriato della preda e, appena prima che questa riuscisse a contrattaccare con l'audacia dei disperati, colpì di nuovo, questa volta con precisione, trapassando il cranio della bestia e uccidendola sul colpo.

Una volta sicura che il suo avversario fosse morto, la Leonessa si rimise seduta in terra, laddove il sangue cominciava a spandersi sul manto erboso.

Riprese fiato poco per volta, ignorando il cavallo che alle sue spalle scalpitava un po', forse agitato per via dell'odore ferrigno e ferale che arrivava dal cinghiale morto.

Quando fu di nuovo padrona di sé, Caterina si rese conto di avere le braccia doloranti per lo sforzo, le spalle a pezzi e il cuore che batteva ancora all'impazzata per la paura.

Cercando di non scivolare, si rimise in piedi e guardò per un lungo momento il cinghiale che l'aveva attaccata. A ben guardarlo, visto quanto era grosso e le zanne affilate che gli uscivano dalle fauci, era un miracolo se era sopravvissuta.

Prese la lancia che le aveva regalato Giovanni e la pulì con cura, prima di rimetterla a posto.

Indecisa su cosa fare con la preda che aveva ucciso, la Sforza attese ancora un po', fino a quando sentì i muscoli tornare a rilassarsi e poi, accompagnata dalla luce nascente del sole, si diede da fare per legare per le zampe il cinghiale a un ramo e cominciare a macellarlo.

 

Francesco aveva passato la notte pressoché insonne. La permanenza a Ferrara gli aveva tolto non solo le poche speranze che ancora nutriva, ma anche il sonno.

La freddezza e la distanza del suocero Ercole non l'avevano sorpreso, ma quando si era visto negare un aiuto in modo tanto plateale era rimasto di sasso. Sapeva benissimo che l'Este era tirchio e che spendeva solo per i propri scopi, infischiandosene di aiutare perfino i parenti.

Però credeva di trovarlo concorde nel fatto che un finanziamento del Marchesato sarebbe stato un bene anche per lui.

“Voi e mia figlia Isabella – aveva invece controbattuto il ferrarese – avete i soldi, ma non li sapete usare.”

Perfino la compagnia di Alfonso, di solito molto amichevole e comprensivo con il Gonzaga, si era dimostrata deprimente e inutile. Il giovane, vedovo da poco, passava le sue giornate in mezzo ai fabbri, rifuggendo spesso perfino la caccia, che era sempre stato il suo secondo interesse.

Francesco lo aveva trovato molto più taciturno di prima, chiuso in se stesso e sempre più insofferente alle etichette di corte, tanto da scapparne appena ne aveva la possibilità.

Quando poi il Marchese gli aveva fatto formalmente le condoglianze per sua moglie, l'erede di Ercole aveva fatto un'espressione quasi stranita, tormentandosi le mani piene di cicatrici e segni di mal francese, per poi dire: “Che volete... Che volete... Cosa che possono capitare.”

Da quella volta, il Gonzaga aveva evitato di parlarne ancora con Alfonso, ma ne aveva approfittato per calcare la mano con Ercole. Gli aveva sottolineato l'importanza di cercare alleati a Venezia, ora che la doppia alleanza con gli Sforza si era rotta, prima per la morte di Beatrice e poi per quella di Anna Maria.

Ancora una volta, però, il suocero aveva fatto orecchie da mercante e gli aveva fatto capire che sarebbe stato meglio per tutti se se ne fosse tornato il prima possibile a Mantova.

E quindi quella mattina, mentre sorgeva l'alba, il Marchese se ne stava a occhi sgranati sul letto sfatto di una camera del castello di Ferrara, pensando alla partenza imminente. Poche ore e avrebbe rivisto Isabella.

E avrebbe dovuto dirle che per via dei loro problemi economici derivati dalla sua incapacità di tenersi stretta la condotta veneziana, avrebbero dovuto licenziare cento uomini d'arme.

Si rigirò tra le lenzuola, attonito e spento, desiderando di poter morire lì dov'era, per poter evitare la furia di sua moglie.

 

Il risveglio di Giovanni era stato un po' confuso. Il sogno caotico che stava facendo lo aveva strappato al sonno e per qualche istante aveva fatto quasi fatica a distinguere l'incubo dalla realtà.

Quando la coscienza aveva ripreso il dominio sul regno della fantasia, il Medici si era accorto che nel letto Caterina non c'era.

Si era messo a sedere e per prima cosa si era detto che probabilmente la moglie si era già alzata ed era andata subito a occuparsi degli affari di Stato. Rincuorato da quella certezza, il fiorentino si levò dal letto e cominciò a cambiarsi.

Voleva passare da Ludovico, prima di tutto, per salutarlo e vedere come stava e poi avrebbe cercato sua moglie.

Mentre infilava il giubbone, però, un dettaglio catturò la sua attenzione. Là, nell'angolo della camera, dove Caterina era solita lasciare i suoi stivali da caccia, non c'erano nulla.

Colto da un dubbio improvviso che gli fece avvertire un senso di freddo a livello dello stomaco, l'uomo controllò nella cassapanca e non trovò nemmeno gli altri abiti che di solito la Sforza usava per uscire per boschi.

Si dovette risedere ancora un attimo sul materasso. Non capiva nemmeno lui perché fosse così agitato, eppure sentiva il cuore rivoltarsi nel petto. Tentando di farlo rallentare, sfruttando profondi respiri per calmarsi, il Popolano ci ragionò sopra.

Sua moglie era un'ottima cacciatrice, l'aveva vista all'opera più di una volta, ed era sempre rimasto impressionato dalla sua abilità. Però in quei giorni l'aveva vista così stanca e indebolita, che temeva le potesse capitare qualcosa. Anche se, per esempio, la sua idea fosse stata quella di andare a caccia di beccacce, avrebbe comunque potuto trovarsi di fronte un lupo – dato che alcuni sostenevano di averne visti parecchi negli ultimi tempi – o peggio.

Sempre più frastornato dalle ipotesi che il suo lato più ansioso gli figurava, l'ambasciatore finì di prepararsi e uscì dalla stanza.

La prima tentazione fu quella di andare direttamente alla stalla, per vedere se mancasse il suo cavallo prediletto, ma alla fine si convinse a passare prima da Ludovico.

Nella stanza con il piccolo c'erano la nutrice, che aveva appena finito di allattarlo, una delle balie, che stava raccontando una storia a Sforzino vicino al camino, e Bianca, che stava risistemando il fratellino più piccolo nella sua culla.

Giovanni andò dal figlio, gli accarezzò la fronte e gli sorrise, poi, a voce bassa, per non farsi sentire dalle altre due donne e nemmeno da Sforzino, chiese a Bianca: “Dov'è tua madre?”

La ragazza corrugò la fronte, gli occhi blu interrogativi, e rispose: “Non saprei. Io l'ho vista l'ultima volta ieri sera. Credevo fosse con voi, come sempre.”

Il Popolano scosse il capo e, sistemando una ciocca di riccioli castani che gli era sfuggita sulla fronte, disse: “No... Cioè... Abbiamo passato la notte insieme, ma ha lasciato la stanza prima che mi svegliassi. Sono un po' preoccupato, perché in questi giorni è...” non finì la frase, limitandosi a fare un cenno di incertezza, come a dire che l'aveva trovata diversa dal solito.

Bianca fece un sospiro e, distogliendo lo sguardo dai tratti regolari e definiti del volto del fiorentino, ipotizzò: “Magari è uscita a caccia. Nulla la fa stare bene come uccidere qualche bestia con le sue mani, no?”

Il tono piatto con cui la giovane Riario aveva espresso la sua idea raggelò per un istante il Medici, che, tuttavia, si trovò abbastanza d'accordo con lei, anche se, quando parlò di nuovo, lo fece con un vago sentore di rimproverò: “La caccia è un passatempo che piace a molti. Anche se dovrebbe riposarsi, non vedo nulla di male nell'andare a caccia...”

“Come dite voi.” ribatté in modo abbastanza secco Bianca, lasciandogli intendere che non aveva voglia di discutere oltre.

Giovanni la guardò fisso mentre si allontanava dalla culla per andare vicino alla balia e sentire la fine della storia assieme a Sforzino. Poi si voltò verso Ludovico e lo trovò concentrato a osservarlo.

Gli passò la punta dell'indice sul naso, poi sulla guancia e sulla piccola mano e gli bisbigliò, cedendo come non mai all'accento della sua terra: “Ci si vede dopo, piccolo. Devo andare a cercare la tu' mamma.”

Con un salutò ai presenti, il fiorentino lasciò la stanza e si diresse senza altro indugio al piano di sotto.

Nella tromba delle scale, intento a guardare fuori dal finestrino, verso il cortile d'addestramento, trovò Ottaviano. Era di spalle, una gamba un po' piegata e le braccia allacciate dietro la schiena.

Quando sentì i passi alle sue spalle, il Riario si voltò di scatto e solo quando riconobbe il Medici si permise di rilassarsi un po'.

“Sto cercando vostra madre.” disse Giovanni, dato che il diciannovenne sembrava indeciso se parlargli o meno.

“Non sapete dov'è?” chiese Ottaviano, il viso lungo permeato da un misto di ilarità e irritazione.

“Se lo sapessi non la cercherei.” controbatté l'altro, già pentitosi di aver iniziato una conversazione con il primogenito della moglie.

“Provate a cercarla in qualche bettola.” fece il Riario, con una mezza risata amara: “Sarà assieme ai soldati a bere come il peggiore dei mercenari. O a fare di peggio.”

“Non dovreste parlare così di lei.” lo riprese il Medici, che già era teso di suo, senza bisogno che quel giovane uomo, tutto riccioli inanellati e boria, gli mettesse strani dubbi in testa.

In tutta risposta, Ottaviano gli voltò le spalle e tornò a guardare fuori dalla finestra e Giovanni ne approfittò per riprendere la sua discesa al piano terra.

Oltrepassò in fretta il cortile d'addestramento, maledicendo le sue caviglia irrigidite, che lo facevano camminare come uno storpio. In mezzo alla polvere si stavano addestrando alcune reclute e tra quelli che facevano da insegnanti c'era anche Galeazzo.

Distrattamente, prima di entrare nella sala della armi, il Popolano si prese un istante per vedere come si comportava l'erede designato di sua moglie. Lo vide spiegare con fare fermo, ma non arrogante, e poi correggere un paio di prese alle reclute che gli erano state affidate.

Soddisfatto, il Medici sparì nella penombra della sala delle armi e andò subito all'armario delle lance. Controllò un paio di volte, ma quella da cinghiali ovviamente non c'era.

Senza avere altri dubbi, prese una spada e anche arco e frecce, tanto per essere prudente, e poi andò alla stalla e si fece preparare un cavallo.

 

“Mio cugino Troiano non può averla vinta!” sbottò Troilo Savelli, sbattendo un pugno sul tavolino da campo e guardando in cagnesco Gian Giordano Orsini e Morgante Baglioni: “Voi non vi rendete conto! Palombara Sabina spetta a me! Questa città è mia!”

Bartolomeo d'Alviano, che dopo essersi ripreso dalla rovinosa caduta da cavallo dell'ultima battaglia, soffriva spesso di mal di testa, gli fece imperiosamente segno di tacere, ma l'uomo proseguì imperterrito.

Gian Giordano, vedendo il vedovo di sua zia tanto sofferente, cercò di fare del suo meglio per placare gli animi: “Troilo, ma non lo vedete? Vostro cugino ha costruito nuovi camminamenti, disseminandoli di arcieri. Ha costruito un maledetto fossato largo dieci piedi! Come facciamo ad assalirlo? Come?”

Savelli restò in silenzio per un po', poi riprese, con un po' meno baldanza: “Il papa di certo ci darà...”

“Il papa ha i suoi grattacapi a cui pensare.” si intromise Morgante Baglioni, spostando un po' l'Orsini, quasi a far capire che era lui il più alto in grado: “Tanto che ci ha già esortati una volta a deporre le armi, se non riusciamo a chiuderla subito.”

Bartolomeo li ascoltava, ma non era interessato alle loro ciance. Era uno stratega abbastanza accorto e un soldato sufficientemente sveglio da capire che quella guerra sarebbe finita con una clamorosa sconfitta, se non si fossero arresi in tempo.

“Un ultimo assalto. Se non sfonderemo, la chiuderemo qui.” decretò, a voce bassa e implacabile, usando appena una manciata di parole.

Gli altri restarono in silenzio e lo guardarono mentre usciva lentamente dal padiglione. Nessuno osò contraddirlo nemmeno quando se ne fu andato.

Da quando era diventato 'un Baglioni', come sosteneva Morgante, Bartolomeo si era fatto l'uomo più taciturno, implacabile e obbedito di tutto l'esercito. E anche quella volta, avrebbero fatto come l'Alviano aveva deciso.

 

Giovanni aveva vagato a vuoto per almeno un'ora, cercando tracce recenti del passaggio della moglie nella sua riserva privata di caccia.

Cominciava ad avere il dubbio che fosse andata da qualche altra parte, quando vide in uno spiazzo erboso una grande chiazza di sangue secco. Scese da cavallo e sfiorò il terreno, ma si rese subito conto che chiunque avesse lasciato quei segno doveva essersi spostato già da tempo.

Con fatica riuscì a intuire la direzione presa grazie a qualche striscia di sangue che portava verso il limitare del bosco più fitto. Rimontato in groppa al suo baio, forte della luce prepotente del sole d'aprile che rischiarava anche attraverso le fronde più fitte, il fiorentino si rimise in cerca.

Arrivato a un punto difficile da attraversare a cavallo, il Popolano scese di nuovo dal suo animale e si mise a camminare, stando attento a non inciampare in una radice. Con la sua situazione tragica, una storta gli avrebbe causato un dolore insopportabile.

Continuava a girarsi a destra e a sinistra, il cuore in gola, convincendosi che a breve avrebbe trovato la moglie ferita. Anche se tutto quel sangue probabilmente era di qualche animale, temeva che nello scontro anche Caterina fosse stata colpita.

Stava per aggirare un gruppo di cespugli, quando si trovò davanti al naso la punta di una spada.

La paura di quella improvvisa comparsa si stemperò all'istante in un sollievo senza precedenti.

Mollando inavvedutamente la presa dalle redini del baio, Giovanni si lanciò subito ad abbracciare la moglie, che aveva appena abbassato la spada: “Ommioddio, Caterina, stai bene...” le disse, il volto immerso nei suoi lunghi capelli biondi e bianchi.

La Sforza, che aveva seguito il marito per un po', prima di farsi di farsi trovare, costatando tra sé il rischio che il fiorentino stava correndo per colpa della sua chiara distrazione, non sapeva se essere irritata per la sua apprensione o meno.

“Credevi che sarebbe bastato un cinghiale solitario ad ammazzarmi?” gli chiese, senza inflessione.

Il Medici la liberò dal suo abbraccio e la scrutò un momento in viso. Era scarmigliata e aveva qualche macchia si sangue sulla fronte e sulle guance. Se aveva cacciato qualcosa, era chiaro che non dovesse essere stato facile.

“Sei una testarda.” le disse, una strana rabbia che gli montava dallo stomaco e trovava la strada delle labbra: “Un'incosciente e una testarda. Che ti costava startene tranquilla ancora qualche giorno? Ma lo sai quanto mi hai fatto spaventare?!”

“Non volevo farti spaventare. Ma io non ce la facevo più.” ribatté la donna, sollevando il mento e assumendo un'espressione perentoria alla quale Giovanni ne oppose una contrariata.

“Ma sai che se ti succede qualcosa, io muoio?” le chiese, deglutendo a fatica: “Ti chiedo solo di stare attenta. Almeno potevi dirmelo che volevi uscire a caccia...”

“Così avresti fatto tante di quelle parole che alla fine...” cominciò a dire la Tigre, ancora però colpita da quello che il marito le aveva detto.

“Alla fine niente, saresti uscita comunque.” la contraddisse subito lui.

“Prendi il cavallo o scapperà.” gli fece notare lei, indicando con la mano che portava la spada il baio che si stava allontanando a passo tardo e lento.

Il Popolano fece qualche passo claudicante e riuscì a riacciuffare il cavallo fuggitivo: “Vieni qui, dove credi di andare...”

“Ti piacerebbe avere le redini per tenere a freno anche me?” gli chiese la Contessa, massaggiandosi la fronte.

“Questo no.” fece Giovanni, tornando verso di lei: “Solo a volte vorrei che fossi un po' meno testarda e incosciente.”

“A tratti lo sei anche tu, quindi...” sorrise lei, ricordandosi di quando lui stesso si era dato dell'incosciente, quando si erano amati nello studiolo del castellano senza curarsi nemmeno di chiudere la porta a due mandate.

Anche il Medici tornò con la mente a quell'episodio e le sua labbra carnose si incurvarono verso l'alto: “Piuttosto, che stavi facendo?”

“Stavo andando al fiume a prendere un po' d'acqua – spiegò la donna, mostrando il fiaschetto che teneva assicurato alla cintola – per bere qualcosa quando sarà pronto il cinghiale.”

“Hai cacciato un cinghiale.” soffiò Giovanni.

“Sì, ho cacciato un cinghiale. E se ne vuoi un pezzo, puoi venire con me alla Casina, che è quasi pronto.” lo invitò la Leonessa.

Il fiorentino preferì non obiettare. Anche se una forza misteriosa lo teneva ancorato alla rocca, dove stava suo figlio, l'idea di passare qualche ora completamente solo con Caterina era irresistibile.

Dopo aver recuperato l'acqua, tornarono alla Casina. Un profumo di carne arrosto riempiva l'aria e Giovanni decise di cedere al desiderio di mettere sotto i denti qualcosa di sostanzioso, benché temesse sempre che la gotta lo punisse per essersi lasciato andare.

Bevvero anche un po' del vino che era rimasto dall'ultima volta e mangiarono tutta la carne che la Sforza aveva messo sul fuoco. Non era moltissima, perché era teoricamente solo per lei, ma alla fine sentirono entrambi lo stomaco pieno.

Erano seduti sul letto, spalla contro spalla, parlando di niente, come a volte capitava quando era sufficiente stare vicini per sentirsi bene. Solo dopo un po', alzandosi per bere ancora un sorso di vino, Caterina decise di entrare in un argomento un po' più spinoso di quelli vaghi affrontati fino a quel momento.

Sorbì qualche sorso di rosso. Le stava già annebbiando un po' la mente. Dopo mesi in cui aveva rifiutato completamente il vino, le sembrava di non essere più in grado di reggerlo come una volta.

Era stato straordinariamente curioso vedere come, nato Ludovico, l'avversione per quella bevanda si era di nuovo trasformata in desiderio.

“Hai più avuto notizie da tuo fratello?” gli chiese, riappoggiando il calice sul tavolo.

Anche Giovanni si alzò, nervoso: “Sì, mi ha scritto.”

“Ah...” Caterina si schiarì la voce: “Non me ne avevi parlato...”

“Ha risposto alla mia lettera in cui gli dicevo della nascita di nostro figlio. Ha detto che adesso che Savonarola è in crisi, appena ci sarà un governo stabile si muoverà per far avere la condotta a Ottaviano.” per un momento, nel citare il giovane Riario, il Medici fu tentato di riferirle quello che gli aveva detto poche ore prima alla rocca, ma poi decise di non farlo, per evitare di gettare altra legna sul fuoco.

“Che commenti ha fatto sulla nascita di Ludovico?” domandò la Sforza.

Il Popolano si rabbuiò. Era a un passo da lei e i suoi occhi chiarissimi cercavano le fiamme del camino. Fece un paio di sospiri e poi strinse le labbra scuotendo la testa.

“Non ha detto nulla. Come se non glielo avessi scritto.” sussurrò.

Caterina gli si avvicinò e lo strinse tra le braccia. Capiva il suo sconforto e non riusciva a comprendere a fondo Lorenzo. Forse, all'inizio, poteva condividere la sua perplessità nel sapere il fratello sposato all'improvviso con una donna come lei. Però tutta la freddezza e l'ostilità che erano seguite le parevano ormai eccessive e gratuite.

Dall'abbraccio consolatore, senza rendersene conto, la Tigre passò a un tipo di stretta molto più intima. Trovandosi di nuovo così vicino il marito, riavvertì la fame che quella notte l'aveva tormentata rifarsi strada dentro di lei.

Forse era fuori luogo, ma decise di far capire in modo chiaro a Giovanni quello che voleva. Gli passò lentamente le labbra sul collo e poi lo baciò, mentre le mani correvano ai lacci delle spesse brache di cuoio. Aveva saziato stomaco con la carne del cinghiale, ma adesso voleva placare anche un altro tipo di appetito.

Il Medici, che come la moglie sentiva da giorni lo stesso bisogno, era riuscito fino a quel momento a trattenersi, tenendo come monito le parole del dottore, che gli aveva spiegato chiaramente come fosse meglio per Caterina aspettare ancora qualche giorno.

“Sono stanca di avere pazienza. Non sono mai stata paziente, io.” gli bisbigliò nell'orecchio la donna, senza fermarsi: “Che il nostro medico si strozzi con un osso di pollo mentre è a cena. Io ti voglio.”

“Ho paura di farti male.” tentò di opporsi il marito, senza però respingerla.

“Tu mi ami. Non mi farai alcun male.” mise in chiaro la donna: “Mi fai molto più male a rifiutarmi.”

Vinto in ogni difesa dalla voce un po' roca della Tigre e dall'insistenza con cui lo stava cercando, Giovanni riprese a baciarla, con più veemenza di quanto non avesse fatto lei e, iniziando subito a sollevarle le gonne, la riportò verso il letto.

Quando uscirono dalla Casina, passato il mezzogiorno, il fiorentino issò sul purosangue i pezzi di cinghiale che la moglie aveva personalmente macellato quella mattina. Legò in fila i due cavalli, montò in sella e poi aiutò la Contessa a salire anche lei sul baio.

Caterina, soddisfatta per quella doppia caccia, ma molto più stanca di quanto non fosse stata quella notte quando era partita da Ravaldino, si aggrappò al marito, abbracciandolo possessiva.

Mentre lui dava un colpetto sul fianco al cavallo per farlo partire, la Sforza si appoggiò alla sua schiena, annusando il loro odore e quello della carne arrosto che era rimasta sul giubbone di Giovanni.

Cullata dall'andamento lento e cadenzato del baio, stremata per tutto quello che aveva fatto in quelle ore, nello stomaco ancora il piacevole calore del vino e sulla pelle il sentore del suo uomo, Caterina, senza allentare minimamente la stretta attorno alla vita del fiorentino, si assopì prima di arrivare in vista delle mura cittadine.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas