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Autore: Adeia Di Elferas    08/03/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Isabella Este non parlava. Nemmeno sollevava lo sguardo dal suo scrittoio. Suo marito, che aveva fatto uscire con un gesto imperioso tutti i servi e le dame di compagnia presenti – come era stato solito fare, ma per motivi molto diversi, anni addietro non appena ritornava a casa dopo una lunga assenza – restava in silenzio, le mani sulla berretta e lo sguardo basso.

La donna, seduta composta, sollevava il profilo altero di quando in quando, ma solo per lanciare uno sguardo disinteressato fuori dalla finestra.

“Isabella...” sussurrò dopo un bel po' Francesco, il tono di un penitente.

“Non devi dire nulla.” fece la Marchesa, piccata, sempre senza guardarlo: “Le tue azioni hanno già parlato per te.”

“Sono stato da tuo padre e...” prese a dire l'uomo, cercando di cambiare discorso o almeno di non troncare subito quell'abbozzo di conversazione.

“Mio padre tornerà a considerarti suo genero quanto sarai in grado di avere un erede.” lo bloccò subito l'Este: “E per quanto mi riguarda, ci vorrà parecchio tempo, prima che se ne presenti l'occasione. La sola idea mi dà ribrezzo. Se vuoi una donna, tornatene a Brescia. So che là non aveva problemi a cambiarne una per sera. Per quanto riguarda me, dimenticami. Ti proibisco di visitare la mia stanza. Questa notte e tutte quelle a venire, fino a che non sarò io a cambiare idea.”

“Ma che...” fece il Marchese, il respiro rapido e il cuore a mille, vedendosi già spacciato.

Non era tanto l'idea di vedersi rifiutato dalla moglie, quanto quella di essere così apertamente disprezzato da lei.

“Sto lavorando a un accordo con Venezia. E anche con Milano.” spiegò Isabella, sollevando finalmente gli occhi dal suo libro e cercando quelli del marito.

Il contatto tra loro durò pochi istanti. Le iridi dell'Este erano lucide, come se stesse per piangere.

“Vedi di non rovinare tutto anche questa volta.” sussurrò lei, la voce incrinata: “E adesso lasciami sola. Non ho voglia di vederti.”

Assorbendo a fatica il colpo, il Marchese deglutì a fatica. Aveva la gola secca e riarsa. Sempre stringendo la berretta tra le dita, adesso tremanti e sudate, camminò all'indietro fino a raggiungere la porta e se ne andò, come sua moglie voleva.

 

“Non mi ero accorto che fosse destinata a vostra moglie...” spiegò Luffo Numai, con una certa tensione nella voce, mentre porgeva una lettera già aperta a Giovanni: “Posso consegnarla a voi?”

Il Medici, che sapeva che Caterina era in città per visitare il quartiere militare e che probabilmente non sarebbe rientrata a Ravaldino se nel tardo pomeriggio, annuì: “Come se l'aveste consegnata a lei.” assicurò, afferrandola.

Il Consigliere fece un mezzo inchino e poi uscì subito dallo studiolo del castellano.

“Sempre distratto, il caro Numai.” sospirò Cesare Feo, guardando il fiorentino con fare insinuante.

Il Popolano sollevò un istante le spalle e, lasciando il castellano a continuare da solo il lavoro di revisione dei conti della città – compito che normalmente sarebbe spettato a un Governatore – uscì un istante dallo studiolo per leggere in santa pace.

Aveva intravisto nel volto scavato del Consigliere qualcosa che proprio non gli piaceva.

Si appoggiò a uno dei davanzali delle finestre che davano sul cortile interno e spiegò la lettera. Gli bastarono poche righe per capire, bene o male, che razza di uomo fosse lo scrivente.

'Vi prego signora mia, ancora un incontro – lesse verso la metà del messaggio – chè io da quella notte non ho più pace e cred'io che potrei servirvi meglio d'ogne altr'uomo'.

Per essere certo di non tralasciare nulla, Giovanni lesse fino alla fine e poi strappò in più pezzi che poté quella lettera. Non era la prima che gli capitava tra le mani. E ogni volta era una coltellata, anche se si trattava di fantasmi del passato.

“State bene?” la voce di Bianca Riario arrivò dal fondo del corridoio come un'eco lontana.

Il Popolano, infilandosi i pezzi di lettera nella tasca del giubbone, si voltò verso di lei e, abbozzando un sorriso, confermò: “Benissimo.”

La ragazza andò avanti per la sua strada eppure, ne era certa, il sorriso che le aveva fatto l'uomo si era fermato alle labbra, lasciando gli occhi chiari completamente freddi e inespressivi.

 

Marcello Virgilio Adriani aveva pregato Niccolò di avere pazienza. Solo in febbraio Machiavelli aveva avanzato la propria candidatura come segretario alla cancelleria e si era visto preferire un savonaroliano dichiarato, ma adesso, sosteneva il suo vecchio precettore, presto le cose sarebbero cambiate.

Niccolò credeva e non credeva alle parole di quello che era stato per lui un maestro prezioso, ma esigente, tanto abile nello spiegare, quanto avaro di ricompense per l'allievo diligente che pure Machiavelli era sempre stato.

Quel 19 aprile, stretto nella morsa della calca che si era presentata per assistere a quel secolare processo, Niccolò si chiedeva in che modo sarebbe cambiata Firenze.

Aveva sentito delle strane voci circa un riavvicinamento di alcune figure della Signoria con Milano, che però era stata fino a poco prima tacita alleata di Venezia. Si diceva che il Moro, banderuola al vento come non mai, si fosse lasciato lusingare da promesse e complimenti che alcuni emissari pagati dai Medici gli avevano sussurrato all'orecchio nelle ultime settimane.

La clausola, così pareva, stava nella caduta di Savonarola.

Quello, aggiunto al fatto che il fratello minore di Lorenzo Medici aveva sposato una Sforza – e ormai tutti a Firenze erano certi che la Tigre di Forlì fosse la legittima moglie del Popolano più giovane – rendeva molti ottimisti riguardo la guerra con Venezia e la riconquista di Pisa, ma anche frementi al pensiero di quanto il Ducato avrebbe cercato di ridimensionare l'indipendenza fiorentina.

Machiavelli, in tutta sincerità, non credeva che gli Sforza giocassero la stessa partita. Secondo lui tanto la signora di Imola e Forlì, quanto il padrone di Milano stavano solo sfruttando ciò che il campo offriva, senza in realtà essere in accordo tra loro su alcunché.

“Ma hanno chiamato il figlio Ludovico!” aveva esclamato Adriani, quando il suo pupillo gli aveva esposto il suo pensiero: “Chiaro segno di fedeltà al Duca di Milano. È chiaro che la Tigre di Forlì prende ordini dal Duca suo zio!”

Immerso nei suoi pensieri, Niccolò si accorse che aveva preso parola Savonarola solo quando il frate era già a metà del suo discorso.

Il vociare dei fiorentini presenti, tra cui spiccavano volti noti come alcuni Ridolfi – che con la cattura del domenicano si erano subito ben guardato dal ricordare a chicchessia le loro simpatie per Savonarola – lo stesso Lorenzo Medici e, poco distante da lui, Jacopo Salviati, quasi copriva le parole del frate.

Se Savonarola era sempre stato noto per la sua capacità di sfondare i timpani del suo pubblico, per la forza che ci metteva nel predicare, quel giorno si faceva fatica a distinguere le parole che snocciolava con fatica, quasi avesse perso la voce.

Quando il domenicano dichiarò di non essere un profeta, di non esserlo mai stato, e di aver sempre mentito su quel punto, la sala esplose di grida e commenti di ogni sorta.

Machiavelli attese di vedere le reazioni del Consiglio e poi, quando fu certo che quel gesto estremo non avrebbe comunque salvato il frate, lasciò la ressa e tornò al suo studiolo, già intento a ragionare su cosa sarebbe successo nelle settimane a venire.

 

Caterina chiuse con lentezza la lettera e poi si mise a fissare l'orizzonte. Era salita sulle merlature della rocca e lì l'aveva raggiunta il castellano per consegnarle un dispaccio urgente arrivato da Milano.

La donna lo aveva ringraziato e poi, appena Cesare Feo aveva capito di doversene andare per darle un po' di privatezza nel leggere, aveva spezzato il sigillo che portava il simbolo di Ludovico Sforza.

Il camminamento era quasi deserto. Aprile si stava avviando alla fine e le giornate si stavano allungando. I turni delle guardie erano rilassati e, non vedendo rischi imminenti, la Tigre aveva pensato di concedere qualche uscita premio in più, contando sul fatto che un po' di libertà avrebbe reso le truppe maggiormente inclini a sopportare il sacrificio una volta che la guerra fosse cominciata.

Perciò passarono alcuni minuti, prima che un soldato di ronda le passasse accanto, inducendola a distogliere un momento la mente dai propri pensieri.

“Contessa.” la salutò questi, con un cenno del capo.

Caterina ricambiò il saluto, e attese che l'uomo la oltrepassasse, prima di riassumere l'espressione corrucciata di poco prima.

Strinse gli occhi contro il sole di fine aprile e, cercando di non guardare l'enorme statua di Giacomo che si ergeva proprio a pochi metri da lei, osservò la città che le si stagliava davanti.

Tanto Forlì, quanto Imola e tutte le campagna che dipendevano da loro erano inconsapevolmente appese al filo della sua volontà. Quello che avrebbe deciso di fare, avrebbe condizionato la vita di tutti i suoi sudditi e, in un modo o nell'altro, non ci sarebbe stato modo di tornare indietro.

Si schiarì la voce, pensando a cosa sua madre le avrebbe consigliato in quel frangente. Poi le tornò in mente di tutte le volte in cui Lucrezia aveva fatto proposte quanto meno strampalate, sempre in nome della pace o della convenienza.

Avrebbe quasi voluto chiedere subito consiglio a Giovanni, ma non voleva disturbarlo. E forse non voleva nemmeno essere influenzata da lui.

Da quando era andata a caccia di nascosto, per poi essere trovata dal marito, Caterina si era accorta di affaticarsi troppo in fretta. Il medico l'aveva rassicurata dicendole che era solo per via del parto, ma la donna a volte si sentiva strana e mai come allora temeva di vedersi di nuovo preda delle forti febbri malariche che più di una volta avevano minacciato la sua vita.

Il fiorentino, attento a lei come nessun altro, si era allora offerto di sostituirla in qualche incombenza di poco conto, per lo più per questioni amministrative come l'arrivo delle provviste o il controllo sul versamento delle tasse o l'ultimazione dei lavori al mastio.

Lei aveva accettato. Si fidava di lui e, forse indebolita dagli anni, aveva accettato senza nemmeno pensarci.

Smossa dal grido acuto di un volatile che era passato a poca distanza dalle merlature, la Sforza sistemò con cura la lettera nel tascone del suo abito da lavoro e poi, quasi in cerca di un suggerimento, scese dai camminamenti e andò verso il cortile d'addestramento.

Rimase in disparte, senza farsi notare, e si mise a osservare. Galeazzo stava duellando da solo con il maestro d'armi. Era volenteroso, come sempre, e Caterina credeva molto in lui. Se solo fosse stato un po' più grande, l'avrebbe scelto senza esitazione.

Poco lontano c'era Bernardino che, con un soldato, stava imparando a distinguere i vari tipi di punta da freccia. La Leonessa lo fissò per parecchio tempo, approfittando del fatto che il figlio non si era accorto di lei, nascosta dietro uno dei pilastri delle arcate.

Era concentrato, la fronte aggrottata e gli occhi attenti. Era bello, molto più degli altri suoi figli, e assomigliava ogni giorno di più a Giacomo.

Teneva la schiena dritta, le braccia allacciate dietro la schiena, in posizione di ascolto, il suo profilo era armonioso, ben delineato e faceva ben sperare per il futuro. Era abbastanza alto, per la sua età e il suo fisico era già slanciato e atletico. Tutto in lui lasciava intravedere la possibilità di farne un ottimo cavaliere, un giorno.

Tuttavia, man mano che il soldato andava avanti a spiegargli le minuzie di questa o quella punta, la Contessa rivedeva nel figlio la medesima confusa fatica che aveva macchiato la bellezza di Giacomo ogni volta che lei aveva cercato di spiegargli qualcosa che andasse oltre quei due o tre miseri compiti che era in grado di svolgere.

Distogliendo lo sguardo da lui con un nuovo dolore nel petto, la Sforza rivolse la propria attenzione al vero motivo che l'aveva portata al cortile: Ottaviano.

Il ragazzo era in abiti da addestramento. Un diciannovenne goffo, che faticava a tenere la schiena dritta quando lo colpivano con una spada spuntata, che alzava le braccia per difendersi con lo stesso odioso atteggiamento infantile che aveva sempre avuto Girolamo nel difendersi da Caterina.

La Tigre si portò una mano alle labbra, cominciando a sudare freddo. Lasciarlo partire in quello stato era una follia. L'avrebbe messa in ridicolo davanti a tutti. Cos'avrebbero detto di lei? Che mandava in guerra un figlio senza che nemmeno sapesse comportarsi da uomo?

Alla sua età, Ottaviano avrebbe potuto già essere marito, padre e rispettato uomo d'armi. E invece era solo un inetto spaventato persino dalla sua ombra, capace di alzare le mani solo sulle donne di strada e sui deboli.

Ricacciando indietro la propria rabbia, che iniziava a mescolarsi con la paura per quello a cui stava mandando incontro il proprio Stato, Caterina voltò le spalle al cortile e tornò nelle viscere della rocca.

 

“Dispensatemi dalla carriera ecclesiastica. Ve ne prego, padre! Che... Che cosa ci faccio, io, vestito da prete?!” sbottò Cesare, prendendo tra indice e pollice il bordo del suo abito talare, quasi gli facesse schifo toccarlo.

Il papa, che quel giorno era di pessimo umore, lo guardò in cagnesco e gli chiese: “Perché mi hai seguito fino a qui? Non avevi di meglio da fare che darmi il tormento?”

I giardini vaticani profumavano di primavera. Il finire di aprile stava portando su Roma il tepore che mancava da troppi mesi. Il cielo era di un tenero azzurro sfumato e la natura si stava risvegliando poco per volta.

Alessandro VI aveva sentito dire che in altre zone del centro il clima era molto meno clemente che non nella Città Eterna e che in molti già temevano carestie ed epidemie per la siccità. E tutti se ne lamentavano con lui, chiedendogli di trovare una soluzione.

La siccità era un gran problema, certo, ma che ci poteva fare lui? Era il papa, mica Dio.

“Voi non capite che...” riprese Cesare, il volto coperto di barba, che cresceva ormai a ciuffi, per coprire al meglio le cicatrici che iniziavano a deturpagli una guancia.

“Io non capisco?! Io, il papa, non capisco?!” si adirò Rodrigo, puntando l'indice contro il figlio e digrignando i denti: “Impara a tenere quella lingua al suo posto, prima di tutto! Se vuoi sopravvivere in questo mondo, devi imparare a usare la testa!”

Il giovane Borja tacque, ma la fiamma che si era accesa nei suoi occhi scuri non si spegneva, anzi.

“Che vorresti, eh?” chiese Alessandro VI, sedendosi pesantemente sulla panchina all'ombra di un ulivo: “Che ti spretassi e ti cercassi una moglie? Che ti dessi un esercito e ti mandassi da solo a conquistare la Romagna in nome mio?”

Cesare annuì, secco e deciso, come se quelle non fossero domande retoriche di un padre esasperato da un figlio troppo esigente.

“Tu sei pazzo.” lo redarguì Rodrigo, passandosi una mano sul doppio mento per asciugarsi un po' di sudore.

Gli era bastata quella breve passeggiata per grondare e farsi venire il fiato corto. A volte si spaventava, nel vedersi tanto invecchiato.

“Non sono pazzo. Sono vostro figlio, e valgo mille volte quello che valeva mio fratello Juan.” si ostinò Cesare, incrociando le braccia sul petto.

“Non nominarlo mai più.” lo ammonì il Santo Padre: “E comunque... Solo perché hai ammazzato quel rintronato di Pedro Calderon e quell'oca giuliva di Pantasilea, non devi crederti un abile soldato. Sei senza scrupoli, quello te lo concedo, ma...”

“E che vorreste fare allora con la Romagna? Avete sentito anche voi Ascanio Sforza vantarsi, oggi, no? Ludovico il Moro e quella cagna della nipote si stanno spostando verso Firenze. Dobbiamo contrastarli con la forza, o si metteranno in testa di rovesciarvi e di mettere sul trono di San Pietro il loro parente!” esclamò Cesare, cominciando a camminare furiosamente avanti e indietro: “E allora che diranno? Che i Borja si sono fatti mettere i piedi in testa da un pazzo e da una put...”

“Tu parli più in fretta di quanto non pensi.” lo zittì Alessandro VI, quasi ringhiando: “Sottovaluti gli Sforza e fai male. Io li conosco bene. Se li attacchiamo, loro faranno altrettanto con noi e non credere che l'Imperatore resterà a guardare questa volta.”

Cesare parve acquietarsi per un istante, tanto che smise perfino di scalpitare e sollevò un sopracciglio, interrogativo, in cerca di maggiori informazioni.

“Sto cercando un intesa diplomatica con la Francia. Sto cercando di favorire i Medici a Firenze, per cacciare Savonarola. Ho cercato con tutto me stesso di non urtarmi con Ascanio Sforza e quindi con Ludovico Sforza. Adesso voglio legare la Tigre di Forlì alla nostra famiglia.” spiegò il papa, elencando man mano ogni progetto tenendo il conto con le dita: “Se leveremo le unghie a quella belva, gli stati della Romagna cadranno uno dopo l'altro, assoggettandosi a noi senza nemmeno provare a ribellarsi.”

Il figlio non parlava, gli occhi scuri e imbronciati rivolti all'ulivo sotto cui stava il padre.

“Per farlo, ho deciso di mandare il Vescovo di Volterra a fare da intermediario.” svelò Rodrigo, abbassando un po' la voce: “A breve sarà qui a Roma e io lo istruirò sul da farsi.”

“E cosa dovrebbe chiedere alla Leonessa, sentiamo.” fece Cesare, sbuffando.

“Di far sposare suo figlio Ottaviano a Lucrecia.” rispose subito il vecchio Borja.

Il figlio impallidì e poi soffiò: “No, non potete.”

“Posso invece.” ribatté fermo Alessandro VI: “E poi le farebbe solo bene, lasciare Roma. Anche se il piccolo Giovanni restasse in convento, alla fine tutti saprebbero e...”

“Ma non potete...” ripeté Cesare, quasi balbettando.

A quel punto Rodrigo si alzò di scatto e diede un forte schiaffo al giovane: “Posso. Voi siete roba mia. Vi amo, ma sono un uomo di questo mondo e devo seguirne le leggi. Lucrecia e Giovanni non fanno eccezione.”

 

Da un paio di giorni, Caterina era silenziosa, molto più del solito. Giovanni non aveva voluto assillarla con le domande, perciò, dopo il primo 'non ho nulla' in risposta alle sue domande, non aveva più insistito.

Quella sera, dopo cena, lui e la moglie erano rimasti per un po' nella sala delle letture, dove Bianca aveva mostrato loro i suoi ricami e Sforzino aveva ripetuto a memoria delle letture sacre che aveva imparato quel giorno.

Dopodiché si erano rintanati nella stanza di Ludovico, chiedendo alle balie e alla nutrice di lasciarli un po' soli. Avevano vezzeggiato il bambino e avevano trascorso un po' di tempo a quel modo, senza un reale scopo se non stare insieme.

Una volta andati in camera loro, il Medici si era messo a cospargersi ginocchia e caviglie con un unguento preparato dalla Tigre. Non era nulla di particolare, ma in effetti gli dava qualche sollievo.

Il clima secco di quei giorni, poi, lo aveva preservato dai soliti acciacchi e quindi, tutto sommato, il Popolano si sentiva bene.

La Contessa, invece, era mesta, pensierosa e, dopo essersi cambiata per la notte, si era coricata e si era messa a fissare il soffitto con occhio vitreo, senza nemmeno dedicarsi, come faceva abbastanza spesso, alla cura del proprio corpo spalmandosi creme o districandosi i nodi dei capelli.

L'odore particolare dell'insieme di erbe pestate e miscelate che erano gli ingredienti principali dell'unguento che stava usando Giovanni riempiva la stanza con la sua presenza pungente.

Il fiorentino finì con attenzione di cospargere i tofi, per fortuna disinfiammati, e poi attese che la pelle si asciugasse un po'.

Mentre era ancora in piedi, con addosso solo il camicione e le gambe, lunghe e snelle, per quanto un po' rovinate, all'aria, non resistette più e chiese di nuovo: “Si può sapere che hai in questi giorni?”

Caterina finalmente lo guardò. Il marito era serissimo, eppure, in altre occasioni, la Sforza si sarebbe messa a ridere nel vederlo in quello stato: le giunture unte di lozioni, le gambe nude e il camicione bianco e sottile come unico indumento, a lasciare ben poco all'immaginazione, i pugni sui fianchi e le labbra carnose in fuori, in un'espressione esageratamente scocciata.

Ma, invece di ridere, la Sforza si rabbuiò ancora di più: “C'è una cosa che non ti ho detto.”

Colto da uno strano brivido, il Medici tornò con la mente alla lettera che lui stesso aveva da poco strappato con le sue mani, quella di uno dei tanti amanti del passato della moglie che aveva cercato di entrare nelle sue grazie riportandole alla memoria uno dei momenti più bui della sua esistenza.

E invece, quando parlò, Caterina fece letteralmente trasecolare il marito: “Mio zio Ludovico vuole aiutarmi a far avere la condotta fiorentina per Ottaviano.”

Confuso, il Popolano si andò a sedere sul letto accanto e lei, che, nel frattempo, si era tirata su.

“Dice che la Signoria si sta aprendo a lui e che lui ha abbastanza influenza da accelerare la cosa e riuscire così a farci partecipare alla presa di Pisa.” spiegò la Tigre, con un filo di voce.

“Dannazione...” fece Giovanni, sbattendo le palpebre: “Perché mio fratello non me l'ha detto?”

“Chiaramente, anche se non l'ha detto, Ludovico poi vorrà qualcosa in cambio.” proseguì Caterina, come se il marito non avesse parlato: “E immagino che tra queste cose ci sia la nostra disponibilità a entrare in guerra contro Venezia. Non più come baluardo per Firenze, ma come incudine per Milano, che da nord farebbe il martello.”

L'ambasciatore cominciava a capire l'apprensione della moglie. Si passò una mano sulle labbra, improvvisamente molto teso. Non avevano mai calcolato seriamente Milano nei giochi di forza di quella guerra.

“E se ci rifiutassimo?” chiese, titubante.

“Pensi che tuo fratello riuscirebbe a opporsi alle ingerenze del Duca di Milano?” domandò la Sforza di rimando.

Giovanni si prese un attimo per ragionarci sopra lucidamente e poi dovette ammettere: “No.”

“E allora se non accettiamo, l'unica speranza sarebbe rivolgerci a Venezia, cambiando fronte.” si azzardò a dire Caterina.

Avvertì il marito irrigidirsi accanto a lei, ma quando lo sentì dire: “Se è quello che...” lo interruppe all'istante, cercando la sua mano e stringendola nelle proprie.

“Venezia significherebbe Astorre Manfredi. Non voglio.” mise in chiaro: “Sono giorni che ci penso. Da quanto mi è arrivata la lettera di mio zio. E ho deciso che non voglio costringere mia figlia a essere una vittima della politica. La sono già stata io. Non voglio la sia anche lei.”

Il Medici si sentiva sollevato, tuttavia capiva bene che quel ragionamento portava a una soluzione che alla moglie stava ugualmente molto stretta.

“E poi il Doge non ci riterrebbe affidabili.” stava continuando la donna, quasi a convincersi da sola che non c'erano alternative: “Tu sei un Medici e...”

L'uomo la zittì con un bacio. Le accarezzò lentamente la guancia, trovandola molto calda, come se quel discorso l'avesse infiammata più di quanto non sembrasse.

“Ce la faremo.” le sussurrò: “Accettiamo quello che propone tuo zio. A tempo debito, vedrò di far pesare il mio cognome e chiederemo a Firenze di scollarcelo di dosso.”

Caterina, che non avrebbe potuto chiedere di meglio, ricambiò il bacio e, abbracciato l'uno all'altra, si trovarono coricati.

La Sforza si fermò, appoggiando il volto sulla spalla del marito: “Ottaviano non è pronto.”

“La condotta ormai non potrà che essere spiccata tra almeno un mese. Da lì il tempo di fargli fare il viaggio... Non arriverà sul campo prima di giugno. Vedrai che per allora il grosso dell'esercito sarà già schierato e lui dovrà fare solo una comparsata.”

Rincuorata, solo in parte, da quelle parole, la Contessa preferì distrarsi in altro modo, dopo giorni passati a rimuginare sulla sua precaria situazione politica.

Senza trovare nel marito alcun ostacolo – com'era stato da dopo il loro incontro alla Casina, che aveva tolto ogni dubbio nel Medici – la Tigre riprese a baciarlo, lo spogliò e, mettendosi sopra di lui, lo catturò ancora una volta nella sua rete.

Quando si trovarono stretti l'uno all'altra sotto le lenzuola, quando ormai la frenesia del desiderio aveva lasciato il posto a una piacevole sonnolenza, Giovanni ebbe finalmente il coraggio di mettere a parte la moglie di una cosa che lo assillava da un po': “L'altro giorno ho letto una lettera indirizzata a te...” iniziò a dire.

La donna attese la spiegazione per intero e quando capì che il marito, in più di un'occasione, aveva intercettato e letto varie lettere di suoi vecchi amanti occasionali per poi distruggerle, il suo unico commento fu: “Che diamine... Avrei dovuto buttarne di più, giù dal pozzo...”

“Non mi devo preoccupare, allora?” chiese il Medici, premendo la fronte contro quella della moglie.

“Fosse per me, li lancerei tutti giù dalle merlature della rocca.” confermò la donna.

Siccome il fiorentino sapeva che la moglie sarebbe davvero stata capace di fare una cosa del genere, fece un breve sorriso e l'attirò ancora un po' a sé, fino a sentirne la pelle calda e liscia contro la propria.

“Da quanto tempo non potevo abbracciarti così...” sussurrò, alludendo all'ingombro del pancione che, per qualche mese, si era frapposto tra loro.

Senza commentare, Caterina restò tra le sue braccia, fino a che prese sonno. Giovanni la seguì poco dopo, ma prima ebbe il tempo di dirsi che, se anche Milano o Venezia, o perfino Roma o Firenze fossero piombate su di loro per distruggerli, nessuno di loro, né il Moro, né il Doge, né il papa, tantomeno la Signoria, con tutte le loro armi e i loro soldati, avrebbero mai potuto portar loro via quei momenti di pura pace.

   
 
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