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Autore: queenjane    09/03/2018    0 recensioni
Riprendendo spunto da una mia vecchia storia, Beloved Immortal, ecco il ritorno di due amati personaggi, due sorelle, la loro storia, nella storia, sotto altre angolazioni. Le vicende sullo sfondo tormentato e sontuoso del regime zarista.. Dedicato alle assenze.. Dal prologo .." Il 15 novembre del 1895, la popolazione aspettava i 300 festosi scampanii previsti per la nascita dell’erede al trono, invece ve ne furono solo 101.. "
Era nata solo una bambina, ovvero te..
Chiamata Olga come una delle sorelle del poema di Puskin, Onegin ..
La prima figlia dello zar.
Io discendeva da un audace bastardo, il figlio illegittimo di un marchese, Felipe de Moguer, nato in Spagna, che alla corte di Caterina II acquistò titoli e fama, diventando principe Rostov e Raulov. Io come lui combattei contro la sorte, diventando baro e spia, una principessa rovesciata. Sono Catherine e questa è la mia storia." Catherine dalle iridi cangianti, le sue guerre, l'appassionata storia con Andres dei Fuentes, principe, baro e spia, picador senza timore, gli eroi di un mondo al crepuscolo" .... non avevamo idea,,, Il plotone di esecuzione...
Occhi di onice.
Occhi di zaffiro."
"Let those who remember me, know that I love them" Grand Duchess Olga Nikolaevna.
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Periodo Zarista
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Dragon, the Phoenix and the Rose'
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Al principio dell’estate 1918 la guerra tra l’armata rossa dei bolscevichi e dei bianchi favorevoli alla monarchia aveva coinvolto tutto il paese. Infatti,  la pace di Brest-Litonsk aveva consegnato la Crimea, l’Ucraina e molti altri territori  ai tedeschi, che li avevano prontamente occupati. In parallelo, in Siberia era scoppiata la rivolta dei cecoslovacchi, vi erano circa tra i 40.000 e 50.000 prigionieri che i rossi avevano cercato di arruolare in modo forzato con scarso esito, la maggior parte voleva andarsene.  Il 14 maggio 1918 era scoppiato a Celjabinsk uno scontro tra cechi  e ungheresi, i bolscevichi arrestarono i cechi. Tempo di tre giorni, l’esercito ceco aveva invaso la città, liberato i prigionieri e scacciato i rossi. Si unirono all’armata bianca, iniziò l’offensiva in Siberia, il sette e l’otto di giugno i cechi avevano occupato importanti centri bolscevichi, come Omsk e Samara.
I rossi persero  il controllo della ferrovia Transiberiana,  del Volga e di tutte le linee ferroviarie dagli Urali dirette a est. Ekaterinburg  rimase in contatto con Mosca solo con le linee telegrafiche.
Si combatteva, una battaglia senza regole o lealtà.
Lenin, il cui fratello maggiore era stato assassinato per avere tentato di uccidere lo zar Alessandro III, era della linea di pensiero che, ove si fosse presentata l’occasione, era basilare per la politica sterminare la famiglia imperiale.
La prima, reale azione fu la fucilazione del granduca Michele, il fratello dello zar, che venne prelevato il 12 giugno a Perm, ove era agli arresti domiciliari in un albergo. Preso assieme al suo segretario, furono condotti in un angolo isolato di una foresta alla periferia cittadina, fucilati e i corpi distrutti nella fornace di una fabbrica.  Dissero poi che era scomparso, una tecnica di confondere le acque. In parallelo circolarono voci che lo zar e i suoi erano stati uccisi, per saggiare la eventuale reazione della Russia e dei governi stranieri dinanzi a questa ipotesi. La risposta fu il SILENZIO
E ve ne era bisogno, di essere imperturbabile.
La città di Ekaterinburg era sui pendii degli Urali, basse le colline su cui era collocata, circondate  da folti gruppi di pini e betulle, sede di fabbriche e miniere.  Scoperte delle risorse minerarie, il denaro era affluito e la città era stata abbellita, da vasti viali alberati, un giardino pubblico lungo il lago che si trovava ai piedi delle colline. Vennero eretti due grandi alberghi, il Palais e l’America, sul viale Voznenskij che tagliava in due l’abitato. Su questa arteria si trovava casa Ipatiev, al margine di una collina, rinominata “Casa  a destinazione speciale”. La facciata della dimora dava appunto sul Viale V. e piazza dell’’Ascensione, ove era situata una cattedrale intonacata di bianco. Un lato della casa dava su via Voznenskaja, ove vi era un secondo ingresso.
Una palizzata di legno, le finestre imbiancate, i Romanov confinati a un solo piano..
Dieci guardie, una nell’atrio di ingresso del primo piano, una seconda nel corridoio posteriore, che conduceva al bagno e al gabinetto, e via così fino a controllare ogni angolo e avere la completa visuale.  Nella balconata del retro della casa e alla finestra di uno degli abbaini avevano messo due mitragliatrici.
Oltre alle guardie collocate all’interno, dieci, che vivevano nelle stanze del seminterrato, ve ne erano anche altre all’esterno, alloggiate in casa Popov, proprio di fronte, sulla via Voznenskaja. Settantacinque uomini in tutto, scelti per lo più tra gli operai locali.
Il comandante Adveviv aveva trentacinque anni, aveva detto Mattias, i suoi amici lo definiscono un vero bolscevico, rozzo, bevitore e maleducato.
Fissai le assi sconnesse del pavimento, lo sporco che si annidava in ogni dove, nelle narici il profumo di sapone.  Scrutai commossa le scarpe che occhieggiavano dalle gonne scure, fino a passare al rilievo sottile di vita e gomiti, una candida camicetta, sbattei gli occhi per non piangere e.. sentii la misura, quasi fisica di un esame attento, di uno sguardo lucido, abbassai la testa, scoprendo le maniche e arrotolando i polsini, apparve la cicatrice sull’avambraccio sinistro, il  pendant di un’altra che avevo nella parte alta dell’arto destro, due regali della guerra, dell’essere stata come un soldato.
Un respiro strozzato, girai il mento verso la spalla. 
“TU” sussurrò Olga, che mi aveva riconosciuto. A prescindere  dai vestiti logori, le spalle ingobbite e il sudicio di una settimana, fingevo di essere una contadina giovane, sporca e ignorante, le ginocchia piegate per nascondere la mia statura.
Argo ..
Il nome del cane di Ulisse, solo lui e la sua nutrice lo avevano riconosciuto quando era tornato, come un mendico straniero a Itaca, in incognito.
Per come ero conciata manco mia madre mi avrebbe riconosciuta, invece Olga era sempre Olga.
“Mia stupida, coraggiosa eroina” mi accolse con la solita ruvida gentilezza, un  abbraccio così forte da rompermi le costole era il successivo passaggio“perché” un sussurro, una questione che riassumeva tutta la nostra storia “Perché ti voglio bene, lo sai, sempre”un sospiro, un’eternità contro i suoi capelli .. Dio, grazie .. almeno vi vedo ..
“.. Mattias lo conosciamo, una delle vecchie guardie, i tuoi infiltrati, ha detto Argo fino a diventare scemo.. I mendicanti entrano in ogni dove, eh”
Annuii, mi baciava le guance, il mio viso tra le dita, davanti a noi uno secchio solmo di acqua con annessi strofinacci.
.. e strinsi Tatiana e Marie, svelta, dovevo passare le consegne, dire, non perderci nel valutare i danni della lontananza. “Vi voglio bene, lo sai” “Sì” tra me   e lei correvano meno di dieci mesi e pareva .. spenta. Vecchia, consapevole, magra e affilata, i grandi occhi azzurri come mio figlio Felipe, la sua assenza scagliata come un pugno nei denti.
Resistetti, avrebbe dimenticato che mi aveva chiamato “MAMMA” a ogni sussurro, prima che me ne andassi.
Felipe. Leon.. qualsiasi cosa fosse successo erano in Spagna, al sicuro, avevano attraversato un continente in guerra, inflessibili per quanto piccoli.  Xavier Fuentes, mia madre Ella e Sasha li avevano portati, loro erano al sicuro, mentre mio zio R-R aveva iniziato una nuova battaglia, si era unito alle truppe dei bianchi che combattevano i rossi, due colori contrapposti per il dominio su una nazione.
Ne vale la pena?
Sei una pazza, ed una egoista.
Dico di sì a entrambe le domande.
“Sei una pazza”
“E mio marito pure.. due pazzi ne fanno uno sano, forse”
“Vattene “ mi salutò lo zar “Che ci fai qui?” Toccandomi la spalla, come quando gli avevo chiesto di sposare Luois, cinque anni e rotti erano passati, e TANTO.. .. Figlia mia.. Papa, sussurrai, era  la ultima e prima volta che proferivo quel termine davanti a lui, scorsi la sua barba piena di fili grigi, le rughe.
“Vai da tuo fratello, è quasi un anno che ti aspetta”
“Prima devo pulire.. dobbiamo, il Signore ci scampi se viene fuori qualcosa” mi misi a fregare il pavimento, il lavoro di una mezza ora fatto in tre minuti “Ditegli che arrivo”
“Aleksey”gli baciavo la fronte,le guance, avevo lasciato un ragazzino, ritrovavo un adolescente,il viso fiero e solenne, pallido come una pergamena, così magro da stringere il cuore “Aleksey”mi sfiorò la guancia, rafforzai la stretta delle braccia “Ciao Cat” Per quanto potessi essermi preparata in teoria, mi veniva da piangere a vederlo. “Mica sto delirando” “No, sono io” mi tirò un  pizzicotto per cautela, risi, tornai seria, lo serrai, mentre parlavo, rapidi sussurri.. E ascoltavo, gli strofinai il pugno contro le scapole E parlavamo. “Aleksey, Alejo tesoro”
.. ne avrei avuto di tempo su cui riflettere, intanto ti stringevo, Cat, ricambiato con zelo, eri tesa, le braccia irrigidite quando lo dissero, non pronunciasti una parola e tanto  ormai avevo imparato a conoscerti, non quello che dicevi ma le tue reazioni, i gesti.
Il primo sussurro di Mattias ruppe l’aria.
NO.
NO.
“Lasciami, è un ordine” disse Alessio e intanto mi stringeva, disperato, come me “Ti saluto ora con un bacio e un arrivederci, qualsiasi cosa mi facciano o dicono, non reagire.. Non reagite, fate finta di nulla”
“NO” .. Cat non mi lasciare, ti prego, voglio stare con te, voglio venire in Spagna … NON MI LASCIARE. Dicevo una cosa e ne volevo un’altra, da prassi e tradizione, e non avevo la febbre,  mi avevi scosso, ricordandomi che esisteva il mondo, oltre la sedia a rotelle, le stanze chiuse e la tristezza, che di nuovo volevo sentire la pioggia sul viso, l’erba sotto le mani e ridere, avevo da compiere 14 anni me lo meritavo. Le colpe dei padri e delle madri non dovrebbero ricadere sui figli, come ci stava succedendo. E in mezzo a tutto quanto, mi sentivo di nuovo sicuro, che ..
“Invece sì… le truppe di rinforzo arriveranno al massimo verso il 25 luglio” lo baciai  sulla guancia, per quello che avevo sentito facevo prima a uscire con lui in braccio, andando come bersagli sotto una  mitragliatrice, le possibilità di uscirne vivi erano maggiori.. Oddio. “Ti voglio bene, Alessio, sempre” sussurrai, annichilita, il mio cervello che macinava, disperato.
Il secondo sussurro ruppe il momento, sussultai, Alessio mi aveva tirato un morso, mio malgrado mi scostai per istinto “Vattene, Cat..” una pausa “Scusami “
“Scusami tu.” Mi inchinai, vietandomi di toccarlo “Alessio, andremo via..”
“Già..” Morti o vivi, non poteva durare per sempre. Ed ero arrabbiato, rivederti confermava che potevo stare meglio,  ora avevo due possibilità su un milione, prima manco una me ne concedevo .
Eri leggenda, Catherine, mai ti saresti fermata.
Eri il sole.
 
Il terzo sussurro “Cerca di uscire in giardino e mangiare se ti riesce”mi stringesti per una breve eternità “Io non mi faccio ammazzare, intesi, ti porto via, ti voglio bene”
“Anche io, Cat, portami via”
“Ora no,  presto” E dimmi il motivo, quello vero. Non ti facevi ammazzare, come quando mi avevi salutato a Mogilev, nel settembre 1915, era una promessa. Tirai in alto il mento, le spalle indietro come quando avevo reagito alle guardie che mi volevano fregare una catena d’oro,  Nagorny agli arresti, suo solo crimine la devozione verso di me. Il tuo solo peccato l’amore che ci portavi.
Vidi mia madre invecchiare ancora di più nel giro di pochi minuti quando dicesti che il tuo primo figlio aveva gli occhi chiari.
.
 
La costernazione.
Ma ero arrivata fino a lì,  non potevo mollare.
Papa stracciò un foglio, la rabbia trattenuta quando Mattias dichiarò che ti avevano perquisito sia in entrata che uscita, per sincerarsi che non avessi nulla addosso, Avdeiev si era premurato di metterti le mani addosso con zelo, non raccontò balle. Il marito la aspettava fuori dalla porta, a quella puttana, disse poi Avdeiev, una stanga di due metri, o quasi,era circondato dai suoi e Andres li aveva messo paura.
BENE.
..avevo avvisato di non reagire, me per prima, che la rabbia stava tracimando quando mi aveva toccato, le spalle, il seno e le braccia, scendendo sui fianchi e i glutei e poi le gambe, scivolando verso il mio sesso. Mi sentivo un toro dentro l’arena, la scarlatta muleta agitata dinanzi a me, non scattai per puro miracolo.
Era violenza.
Fui contenta che a quel giro fosse toccato a me, almeno le mie sorelle se lo risparmiavano.
   
 
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