Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    12/03/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Il 26 aprile era giunta a Firenze una staffetta ufficiale che portava con sé il mandatorio papale, che in sostanza lasciava alla Signoria la decisione non solo sui vari prigionieri accusati di essere di parte savonaroliana, ma addirittura sullo stesso frate.

La confusione che ne era seguita aveva portato i fiorentini ad accalcarsi nelle piazze e riversarsi, verso le tre del pomeriggio del giorno appresso, in quella dei Signori.

Qui, su un palchetto che lo metteva ben in mostra, il bargello cittadino aveva letto l'elenco dei condannati e, fino a sera, uno dopo l'altro erano stati attaccati alla corda.

Lorenzo Medici aveva assistito con ansia per tutto il tempo, vedendo passare sotto il giudizio non solo suoi oppositori, ma anche alcuni suoi conoscenti con cui era pure capitato di fare conversazioni piacevoli.

Firenze era un calderone, ormai, ai suoi occhi, ed era il momento di mettervi un coperchio. Quando la Signoria si era riunita, ancora senza la guida di un vero e proprio Gonfaloniere di Giustizia, il Popolano aveva fatto del suo meglio per insistere sulla pena capitale da infliggere a Savonarola e, subito dopo, aveva riattirato l'attenzione sulla guerra.

“Il Moro – aveva cominciato a dire, non appena aveva ottenuto l'attenzione di tutti – crede nella nostra causa ed è pronto a difenderci a tergo da Venezia, se noi accettiamo la condotta di Ottaviano Riario!”

“Il figlio di vostra cognata?” chiese subito, mellifluo, uno dei suoi oppositori più infidi, uno di quelli che erano perfino riusciti a scampare al giudizio del bargello: “E chi ci guadagnerebbe? I Medici, suppongo...”

“Prima di tutto, non potete dire con certezza che la Sforza sia mia cognata – lo tacitò Lorenzo, le guance, ogni giorno più scavate, che si imporporavano – e poi se vi fermaste a ragionare, capireste quanto ne abbiamo bisogno!”

“Già abbiamo concesso una condotta a quel delinquete di Ottaviano Manfredi...” iniziò a dire un altro, allargando le braccia.

“Lo abbiamo fatto perché ci ha promesso che in cambio, con i soldi che gli daremo, rovescerà suo cugino e farà di Faenza uno Stato a noi amico.” precisò Jacopo Salviati, presente per caso quel giorno.

Le riunioni della signoria, dalla morte del Gonfaloniere di Giustizia, si erano avvicendate in modo sempre più caotico e tutti quelli che arrivavano nella sala sembravano autorizzati a parlare, gridare, commentare e criticare le parole dei membri effettivi della Signoria.

“Faenza, però, è nulla, senza Imola e Forlì.” precisò Lorenzo, felice dell'intromissione di Salviati, così provvidenziale da dargli l'appiglio che cercava: “Se ingaggiamo il Riario, sua madre si impegna a fare dei suoi Stati un nostro satellite.”

“Figuriamoci!” sbottò un fiorentino del pubblico: “Tutti sanno che la Sforza non ha mollato il suo Stato nemmeno quando le hanno ammazzato non uno, ma due mariti! E fossi in vostro fratello, starei attento a quello che mangio e bevo, prima di finire stecchito come i primi due!”

Il Medici dovette trattenersi con tutto se stesso per non esplodere. Sentiva lo stomaco bruciare e il cuore si rivoltava in modo strano, come se un pugno invisibile lo stesse stringendo.

Si appoggiò una mano sulla pancia e deglutì, rimandando indietro l'acido che stava risalendo e poi disse, con una certa distensione: “Come ho detto prima, non potete dire che mio fratello abbia sposato quella donna. Ha solo tenuto buoni rapporti con uno Stato la cui alleanza è cruciare per Firenze.”

La discussione andò avanti per molto, fino a che non si toccarono i punti richiesti espressamente dalla Tigre di Forlì, in particolare l'esoso compenso.

“Si impegna a portare dalla nostra parte l'esperienza del suo esercito. Le sue armi e la sua astuzia. E perdonatemi se mi permetto, ma...” fece Lorenzo, mentre ogni parola buona dedicata a quella donna gli costava una fatica inaudita: “Firenze ha poco di tutto ciò. Con lei al nostro fianco, presto potremmo avere l'intera Romagna.”

Gli altri membri della Signoria si trovarono quasi messi alle strette da una simile enunciazione e anzi, malgrado i loro tentativi di smontare la sicurezza del Medici, alla fine fu il Popolano a spuntarla.

“E sia – concluse il Gonfaloniere ad interim – concederemo la condotta al Conte Ottaviano Riario, ma sia chiaro, ripeto, sia chiaro, che non vedrà un soldo finché non avremo conferma del valore del suo esercito.”

 

Bianca aveva appena lasciato le cucine. C'era rimasta parecchio, per farsi insegnare a disossare come si deve un coniglio, e poi aveva deciso di andare dal fratello Ludovico.

La ragazza, che in pochi mesi avrebbe compiuto diciassette anni, stava scoprendo un lato di sé che non immaginava di poter avere. Stare con il fratellino nato da poco le aveva fatto capire quanto le piaceva, riversare le proprie attenzioni e il proprio amore su qualcuno di tanto piccolo e indifeso.

Si era accorta che sua madre l'aveva osservata da vicino, da quando Ludovico era venuto al mondo, e per qualche giorno era stata anche convinta che la donna l'avesse fatto per controllarla, come se avesse paura che potesse fare del male al piccolo.

Bianca, invece, gli si era dedicata da subito con grande solerzia e non appena trovava un momento libero, non faceva che correre da lui. Con un che di acido, a volte pensava tra sé che, anche se sua madre si stava dimostrando molto più affettuosa con Ludovico che con qualunque altro dei suoi figli, era lei, Bianca, ad averlo più spesso tra le braccia.

Quando stava per raggiungere la stanza del fratello, la ragazza ricordò all'improvviso uno strano stralcio di conversazione avuto proprio con la madre il giorno prima.

La Contessa le aveva fatto un mezzo complimento per come riusciva a far stare calmo Ludovico che, in quei giorni, si stava agitando un po' per qualche colica da neonato.

Bianca aveva alzato le spalle e aveva accennato distrattamente al fatto che non faceva nulla di particolare. Lo teneva in braccio e lo calmava, niente di più.

“Alla tua età – aveva allora detto la Sforza, con un tono difficile da interpretare – io stavo per partorire Cesare.”

E poi, senza dare il tempo alla figlia di fare domande o commentare in qualche modo, la Tigre aveva lasciato la sua poltrona e se n'era andata.

Rimuginando ancora sull'inclinazione di quelle parole e sull'espressione triste e spenta che aveva in viso sua madre mentre le diceva, Bianca aprì la porta della stanza di Ludovico ed entrò, annunciandosi con un sorriso.

Tuttavia si fermò quasi subito. Nella camera non c'erano le balie, come si era attesa, né la nutrice.

Seduto sulla poltroncina, con il figlio appoggiato al petto, c'era Giovanni. L'uomo la guardò e le sorrise, senza parlare per non svegliare il piccolo che dormiva beato appoggiato a lui, le braccia alzate e allargate.

Bianca fu tentata di andarsene, per non disturbarli, ma appena fece per voltare sui tacchi, il bambino si svegliò, aprendo a fatica le palpebre.

Il Medici, allora, lo raddrizzò, tenendolo saldamente su un braccio e accarezzandogli lentamente la schiena. Le sue labbra carnose erano attraversate da un sorriso quieto e i suoi occhi, tanto chiari che a volte alla Riario sembravano trasparenti, osservavano colmi d'amore il figlio.

“Siediti. Resta qui con noi.” la invitò Giovanni, senza sollevare lo sguardo, ma incitandole appena con la testa l'altra poltroncina.

La ragazza fece come le era stato detto e rimase a osservare il Popolano e Ludovico per parecchi minuti. La mano del fiorentino, dalle dita lunghe e armoniose, seppure già abbastanza rovinate dalla gotta da costringerlo a portare il nodo nuziale al collo, appeso a una catenina, si muovevano lente e sicure sul bambino che, libero dalle fasce, era avvolto solo da una sottile coperta.

Il neonato teneva gli occhi fissi sul padre. Era tranquillo. Molto più ancora di quanto non riuscisse a farlo stare tranquillo Bianca.

Mentre erano così vicini l'uno all'altro, la Riario non poté evitare di fare un confronto e di esprimerlo ad alta voce: “Avete gli stessi occhi.”

Le labbra del Medici si sollevarono in un sorriso: “Dici?”

“Sì.” confermò la ragazza, sicura.

Giovanni sollevò un sopracciglio e, passando delicatamente la punta dell'indice sulla fronte del figlio disse: “Forse un po' la forma, questo te lo concedo. Ma non li ha del colore dei miei.”

“Però l'espressione ricorda la vostra.” insistette Bianca: “Da adulto, vi assomiglierà di sicuro. Avrà il vostro sguardo.”

Ci fu un lungo momento di silenzio, durante il quale il fiorentino diede un bacio sulla testa al piccolo, sfiorandogli appena i ciuffi di capelli sottili e radi che restavano alzati e scompigliati.

“L'hai più rivisto quel ragazzo? Quello che lavorava al mastio?” domandò l'uomo, forse per cambiare discorso.

La Riario non capiva a fondo perché, ma aveva notato che parlargli in quel modo di Ludovico lo aveva un po' rattristato. Era come se qualcosa, nell'immaginare il figlio da grande, gli facesse fare pensieri cupi.

“No.” fece Bianca, scuotendo il capo e raddrizzandosi sulla poltrona.

“Come mai?” chiese Giovanni, senza una particolare intenzione, se non evitare che il discorso tornasse alle somiglianze tra lui e Ludovico.

Aveva il terrore di non poterlo vedere crescere e anche solo scoprirsi a fantasticare su come sarebbe stato, gli dava una stretta al cuore che quasi gli toglieva il fiato.

La Riario alzò una spalla e disse la semplice verità: “Dopo che nostra madre ci ha visti mentre ci baciavamo, quella volta, lui ha iniziato ad avere paura di me. E alla fine non ci siamo più visti.”

Il Medici fece un sospiro e si appoggiò allo schienale imbottito, Ludovico sempre saldo in braccio, tranquillo come un papa: “Tua madre fa questo effetto a tanta gente.” convenne.

La ragazza non alimentò oltre la discussione. Si fidava di Giovanni e con lui aveva fatto un patto morale che voleva che fossero sinceri l'uno con l'altra. Tuttavia non le andava di dirgli troppo su di lei. In fondo, ne era certa, il fiorentino restava veramente fedele solo alla Leonessa di Romagna.

Dopo un po' Ludovico fece capire di essere stanco e così il Medici si alzò e, con dolcezza, lo rimise nella culla, coprendolo con attenzione e dandogli ancora un bacio.

Nel vedere quei semplici gesti d'affetto, Bianca sentì un groppo salirle in gola e le lacrime velarsi.

“Stai bene?” le chiese Giovanni, quando si accorse di quel cambiamento.

“Sì.” rispose lei, la voce un po' arrochita: “È solo che mi ricordate mio padre.”

Il Popolano si irrigidì un istante e restò fermo dov'era. La Riario comprese subito il motivo della sua reazione, perciò si affrettò a dare maggiori spiegazioni.

“Anche lui cullava così i miei fratelli più piccoli. Me lo ricordo. E credo che prima abbia cullato così anche me.” la sua voce era persa in un misto di malinconia e incertezza, ma quando andò avanti lo fece con la sicurezza di chi è convinto di quel che dice: “Con noi era dolce.”

L'ambasciatore aveva incrociato le braccia sul petto e guardava la giovane che aveva davanti con la fronte aggrottata. Non sapeva nemmeno lui se fosse il caso di dire qualcosa o meno. Da un lato avrebbe voluto saperne di più, anche per capire meglio Caterina e il suo rapporto con il passato e con i suoi figli di primo letto, ma dall'altro lato, non ne voleva sentire nemmeno parlare, di Girolamo Riario. Quello che sua moglie gli aveva raccontato di lui gli aveva dato un tale voltastomaco da bastargli per l'eternità.

Bianca aveva capito benissimo che il patrigno stava giudicando le sue parole in modo sbagliato, perciò si alzò dalla poltrona e, tormentandosi una mano nell'altra, cercò di fargli capire davvero cosa intendeva: “Io ho anche dei bei ricordi, di mio padre, non ho solo quelli brutti. Ricordo i litigi, certo, quelli cruenti e disperati che avevano mia madre e mio padre, senza contare i momenti di follia in cui mio padre si chiudeva per conto suo in una stanza anche per giorni, senza uscire per nessun motivo...” prese fiato, cercando di controllare la voce e riprese: “Mio padre era un uomo debole e aveva... Lui... È vero, ho tanto ricordi brutti della mia infanzia, ma di lui ricordo anche le cose belle. Ricordo che ci faceva giocare, che se ci arrivava una carezza, era dalla sua mano e non da quella di mia madre...”

“Quello che ha fatto a tua madre, però, è inconcepibile.” l'attaccò Giovanni, senza riuscire a trattenersi, interrompendola a metà frase: “Dovreste odiarlo e disprezzarlo per quello che le ha fatto! A maggior ragione perché siete anche voi una donna!”

Bianca deglutì: “Lo so. Ma malgrado ciò non posso dimenticare le cose belle di mio padre. Per metà, il sangue che scorre nelle mie vene è il suo. Come potrei odiarlo?”

Il Medici non disse nulla, guardando l'unica figlia della moglie con occhi un po' diversi da come aveva fatto fino a quel momento.

“Mio padre era l'unico a dare un po' di calore a noi figli.” rimarcò la ragazza, con la fermezza di chi vuole essere compreso appieno: “Era fragile, è vero, e aveva molti momenti in cui non era lucido. E sapeva essere un uomo violento. Ma era malato. Non era colpa sua. Quando è morto, ha lasciato un vuoto, per me e per i miei fratelli. Mia madre non è stata in grado di capirlo. Ha sempre fatto come se la sua morte fosse solo un sollievo. Per lei lo sarà anche stata, ma per noi no. Restare senza di lui, con una madre distante e aspra come la nostra non è stato facile.”

“Io sono cresciuto senza madre.” intervenne Giovanni, mentre la Riario riprendeva fiato, sfiancata da quella lunga arringa che l'aveva scossa tanto da farla tremare.

Erano troppi anni che la giovane teneva dentro di sé quel groviglio velenoso di ripicche e recriminazioni e adesso che ne aveva fatte uscire un po', si sentiva stremata.

“Mia madre è morta quando sono nato io – continuò il fiorentino, perdendo un po' dell'aggressività, a lui così di norma estranea, con cui aveva iniziato il discorso – e quindi non ho avuto nessuna madre, nemmeno una distante o aspra.”

“Ebbene – soffiò la Riario, mentre una lacrima le scendeva sulla guancia – in alcuni momento per me è stato come non averla, una madre. E poi voi avevate ancora vostro padre.”

“Caterina ha una miriade di difetti.” fece il Medici, avvicinandosi alla ragazza, quasi minacciosamente: “Ma almeno c'è. E mio padre è morto quando avevo nove anni, quindi credimi, quando ti dico che lo so, come ci si sente a rimanere da soli.”

Bianca osservò le iridi chiarissime dell'uomo che aveva davanti. Ne seguì il profilo dritto e un po' altero del suo naso e la linea allungata dei suoi occhi, così simile a quella che già si scorgeva anche in Ludovico.

Giovanni aveva compiuto da pochi mesi trent'anni. Per la logica del loro mondo, sarebbe stato un marito più credibile per lei che non per sua madre.

“Avete ragione.” concluse la Riario, facendo un passo indietro.

L'uomo aveva capito di non averla convinta affatto, ma a quel punto non gli importava. Bianca gli sembrava solo una bambina spaventata.

Anche se il suo corpo da adolescente riecheggiava già con chiarezza quello di una donna, promettendole una bellezza seconda solo a quella della madre, per Giovanni quella era poco più di una ragazzina spaurita e piena di ferite che aveva imparato a nascondere dietro qualche sorriso e un tono di voce pacato.

Smosso da un sentimento paterno che si era acuito, dalla nascita di Ludovico, estendendosi anche a tutti gli altri figli della moglie, il Medici colmò la distanza tra sé e Bianca e l'abbracciò.

La giovane restò di sasso davanti a quello slancio, ma la presa forte e calorosa del fiorentino la fece sciogliere una volta per tutte in un pianto che rimandava da troppi anni.

Il Popolano la tenne contro di sé fino a quando non la sentì respirare in modo più regolare e poi, riallontanandosi, cercò i suoi occhi blu scuro e le disse: “Non sarò tuo padre, ma sappi che su di me potrai contare sempre.”

Bianca annuì piano e poi, schiarendosi la voce, si asciugò gli occhi sulla manica dell'abito e dedicò uno sguardo al fratellino che, per tutto il tempo, tranquillo e silenzioso, se n'era rimasto buono buono nella sua culla.

Prima che arrivassero le balie, Giovanni consigliò alla figlia adottiva di andarsi a dare una sistemata. Quando la giovane tornò, trovò il Medici ancora da solo.

Alzandosi dalla sua poltrona, proprio mentre tornavano le domestiche, l'uomo le sussurrò: “Ti affido mio figlio. So che con te è in ottime mani.”

 

“Sapevo che vi avrei trovato qui.” disse la voce di Isabella d'Aragona, rimbombando appena tra le navate della chiesa di Santa Maria delle Grazie.

Ludovico si voltò di scatto, rimettendosi in piedi un po' a fatica. Era inginocchiato davanti alla tomba della moglie e della figlia.

Quel giorno aveva raggiunto di buon'ora la chiesa per vedere il lavoro del maestro Leonardo per il refettorio. Ormai l'ultima cena di Cristo era quasi ultimata e il Moro non vedeva l'ora di proseguire con gli abbellimenti per quella che era l'ultima dimora della sua Beatrice.

“Che volete da me?” chiese il Duca, sulla difensiva, guardando interrogativo l'Aragona.

La donna, che, pur rimanendo dai tratti gentili e aggraziati, dimostrava più dei quasi ventotto anni che portava, fece un sorriso spento e domandò: “Avete forse paura di me?”

Ludovico, riacquistando un po' della sua solita presenza scenica, raddrizzò la schiena e, mettendo così in mostra il pancione rigonfio, ribatté: “Con tutto il rispetto, un Duca non può avere paura di una donna.”

“Nemmeno un briciolo di pietà, tra l'altro.” aggiunse lei, fissandolo con rancore.

Portava i lunghi capelli rossi raccolti in una crocchia e coperti da un velo di pizzo. Le mani, dalle dita lunghe e fredde, erano strette all'altezza del cuore. I suoi occhi erano gelidi e privi di spessore, come se fossero stati fatti di vetro.

“Sapete che ho allontanato vostro figlio Francesco per pura formalità, io...” prese a dire il Moro, le parole che sollevavano piccole nuvolette di vapore.

Anche se fuori il clima di metà aprile lasciava intravedere il tepore della primavera, tra le spesse pareti della chiesa sembrava ancora pieno inverno.

“Separare una madre dal proprio figlio non è una mera formalità.” lo contraddisse l'Aragona.

Il Duca piantò i pugni sui fianchi e poi alzò sensibilmente la voce, infischiandosene del silenzio sacro che regnava tra quelle navate: “State attenta a voi! Siete a un passo dal tornarvene a Pavia con vostro figlio!”

Il tremore che il Moro ravvisò nelle labbra rosse e pungenti della donna gli fece capire che era quello il motivo che l'avevano portata da lui. Se anche fosse significato di nuovo il carcere, Isabella preferiva stare con suo figlio.

Forse era per quello che, a differenza di come faceva sempre, non aveva portato con sé le figlie. Si era forse detta che loro avrebbero anche potuto restare a Milano. In fondo, non correvano poi molti rischi. Francesco, invece, finché restava da solo in una torre a Pavia poteva essere soggetto di qualsiasi tipo di attacco...

“Ma io sono un uomo misericordioso e incline al perdono.” bofonchiò lo Sforza, dopo un'occhiata rapida alla tomba di Beatrice: “Perciò vi lascerò stare qui a Milano.”

“Ma...” provò a dire Isabella.

“Non provateci, non provateci...” la bloccò Ludovico, rimettendosi in ginocchio: “Ricordatevi che le guardie di Pavia le pago io. State attenta a come vi comportate. Ci vuole poco, per far arrivare un ordine al castello...”

L'Aragona non disse più nulla. Il suo respiro, quasi immobile, si concretizzava in lente e diafane nuvole di vapore. Strinse le labbra, ricacciò indietro una lacrima e poi, con la consapevolezza che una volta di più il prepotente Ludovico Sforza l'avesse gabbata, si voltò e tornò verso l'ingresso della chiesa.

Non si fece nemmeno il segno della croce, né riuscì a borbottare una preghiera per l'anima della cugina. Tutto quello che aveva nel cuore erano rabbia e tristezza che, mescolate assieme, la divoravano, così come la vipera degli Sforza divorava il moretto che aveva tra le fauci.

'La peste – pensò tra sé la donna, mentre usciva, sentendo di nuovo il calore del sole d'aprile lambirle le guance – la peste a te e tutti quelli che parteggiano per te'.

Era già per strada, avvolta nel suo velo, tanto assorta da non avere nemmeno coscienza degli sguardi che qualche milanese le lanciava nel riconoscerla, quando ritrovò il sorriso.

Non era un sorriso allegro, né sereno, ma animato di furore e voglia di vendetta. Gonfiando il petto e risollevando il mento, accelerò il passo.

'Prima che la mia vita abbia fine – si disse, promettendolo a se stessa e a Dio – i miei occhi vedranno la caduta di Ludovico Sforza, la caduta del Moro. Dovessi campare mille anni per riuscirci, io lo vedrò cadere in ginocchio nella polvere'.

 

Caterina si lasciò cadere sul letto a braccia larghe. Quel giorno il sole aveva battuto su Forlì con tanta forza da dare un assaggio dell'estate.

Non pioveva da tempo, ormai, e il rischio di siccità stava diventato concreto. Quel pomeriggio, in barba alle lamentele del dottore e ai pallidi tentativi di dissuaderla di Giovanni, la Sforza aveva ripreso armi e armatura e aveva seguito una sessione di addestramento dei soldati già specializzati.

Si trattava di una truppa elitaria, che stava costruendo con fatica da anni, che aveva scelto come parte dell'accompagnamento di Ottaviano, non appena fosse arrivato il nulla osta da Firenze.

Così per quasi quattro ore non aveva fatto altro che menare le mani e parare fendenti e come risultato finale si era trovata tutta ammaccata e stanca come se fosse appena tornata da una guerra e non da un semplice allenamento. Si sentiva anche un po' di febbre.

“Hai esagerato, Caterina.” la rimproverò il Popolano, sedendosi alla scrivania e aprendo le lettere che il castellano gli aveva consegnato appena dopo cena.

Cesare Feo, per quanto fidatissimo e ineccepibile, stava diventando un po' lento e smemorato, tanto, almeno, da fargli avere quei messaggi con mezza giornata di ritardo.

“La guerra potrebbe iniziare a giorni. Non posso farmi trovare impreparata. Non dopo anni passati a prepararmi!” fece lei, restando stesa, gli occhi al soffitto e tutti i muscoli doloranti.

“Se ti farai venire un collasso, come ci andrai, a combattere?” le chiese lui, con un lieve sorriso, ritrovando un po' di buon umore nel pungolarla così.

La Tigre si puntellò sui gomiti e lo guardò: “Sto invecchiando, Giovanni. E lo sto facendo pure male.”

L'uomo strinse le labbra e scosse la testa, aprendo un messaggio che arrivava da Imola e che aveva tutta l'aria di essere l'ennesimo resoconto degli arruolamenti: “Non dire assurdità.”

“Scommetto che cominci a pentirti di avermi scelta come moglie.” fece la donna, rilasciandosi cadere sul materasso, i lunghi capelli biondi e bianchi a corona attorno alla testa: “Dovevi prendertene una più giovane. Una sedicenne. Invece ti sei fatto prendere all'amo da una che ha quattro anni più di te.”

“Così posso invecchiare con te.” scherzò lui, appoggiando il tagliacarte alla scrivania, ignorando le lettere che restavano.

Caterina fece uno sbuffo: “Nessuno potrebbe voler invecchiare con me. Lo sai che con gli anni si accentuano i difetti e svaniscono i pregi?”

Giovanni nel frattempo si era alzato dalla sedia e l'aveva raggiunta a letto. Si stese sul fianco, sopra al copriletto, accanto a lei e la fissò.

“Io lo voglio, invece. Pensaci. I tuoi capelli diventeranno tutti bianchi. I miei cadranno...” fece una risatina e, suo malgrado, la Sforza lo seguì subito: “Nostro figlio crescerà, lo vedremo conteso tra le ragazze di Forlì, e poi si farà adulto, e diventerà un grande condottiero, come te.”

Più parlava, più Giovanni si faceva mesto. La Leonessa gli accarezzò il viso, trovandolo un po' ispido di barba e poi gli passò il pollice sulle labbra, prima di baciarle.

Senza che l'uomo potesse fare nulla per frenarla, senza riuscire neppure a trovare lo spirito di ricordarle che si era già stancata abbastanza, per quel giorno, la Contessa lo indusse in fretta a sedurla, lasciandogli fare il grosso del lavoro, comportandosi una volta tanto come preda, più che come cacciatrice.

A notte ormai fatta, tenendosi stretta la donna che amava, nella penombra rischiarata solo dal camino, Giovanni sussurrò: “Bianca mi preoccupa.”

Caterina, che si stava quasi per assopire, la testa appoggiata al petto del marito, cullata dal suo respiro lento e dal battito regolare del suo cuore, chiese: “Perché?”

Il Popolano sospirò e spiegò: “Ha bisogno di qualcuno che le stia vicino.”

La donna colse la velata accusa nei suoi confronti e così chiuse in fretta il discorso: “Un giorno troverà qualcuno come io ho trovato te.”

Il Medici non fece commenti, scontrandosi una volta di più con il muro che a volte sua moglie erigeva perfino contro di lui. Passò lentamente la punta di indice e medio sulla pelle nuda della spalla della Tigre e poi si ricordò delle lettere che non aveva ancora letto. Anzi, di molte non aveva nemmeno controllato la provenienza.

Troppo stanco per rimettersi alla scrivania, prese il lembo della coperta e lo tirò un po' su, coprendo meglio sia se stesso sia la moglie e poi, felice malgrado tutto – perché avere Caterina addosso era sempre una cosa che lo rendeva felice – decise di lasciarsi vincere dal sonno.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas