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Autore: WillofD_04    15/03/2018    2 recensioni
Questa storia è il seguito di "Lost boys". Per leggerla non è necessario aver letto "Lost boys", ma è consigliato.
A quanto pare, l'avventura di Cami non è affatto finita, anzi, è appena cominciata! Che cosa le è successo? Sarà in grado, questa volta, di risolvere la situazione? Questo per lei sarà un viaggio pieno di avventure e di emozioni, che condividerà con persone molto speciali.
Non posso svelarvi più di così, se siete curiosi di sapere cosa le è capitato, leggete!
DAL TESTO:
Poco ci mancò che non caddi all’indietro dall’incredulità. Infatti dovetti reggermi agli stipiti della porta che era dietro di me per rimanere in piedi. Dieci paia di occhi mi fissavano, tutti con un’espressione diversa. C’era chi era divertito, chi indifferente, chi curioso e chi stupito.
«Oh cazzo...è successo di nuovo!» esclamai, al limite dell’esasperazione.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Base dei rivoluzionari. Posizione e nome sconosciuti.
Due settimane dopo.
 
«Vino?» chiese l’uomo seduto di fronte a me, con l’aria di chi la sapeva lunga. Non potei evitare di sorridere.
«Mi conosce. Sa che non ne rifiuto mai un bicchiere» affermai, sempre sorridendo. Anche sulle labbra di Dragon comparve un piccolo sorriso, consapevole che quando si trattava di vino non era mai un solo bicchiere. Poi, prese la bottiglia alla sua sinistra e versò un po’ del liquido vermiglio nel bicchiere. Io, con aria soddisfatta, allungai il braccio per prendere il calice una volta che lo ebbe riempito.
«Di cosa vuole discutere, oggi?» chiesi dopo che ebbi bevuto un sorso della sostanza alcolica, sistemandomi meglio sulla sedia e preparandomi ad affrontare qualsiasi argomento mi avesse proposto.
«Del tuo ritorno» rispose calmo. Il mio cuore saltò un battito e per un attimo mi immobilizzai completamente, con gli occhi sgranati.
«Quattro mesi sono passati, e tu mi hai detto tutto ciò che volevo sapere» continuò poi il padre di Rufy «Per te è tempo di fare ritorno dai tuoi compagni».
Mi umettai le labbra con la punta della lingua, distolsi lo sguardo ed annuii. Era arrivata l’ora di tornare. Non pensavo che il momento di ripartire fosse arrivato così presto, il tempo in quei mesi – a parte le prime settimane, in cui avevo avuto un po’ di problemi ad ambientarmi – era passato piuttosto velocemente. Probabilmente era merito della compagnia che mi avevano fatto Sabo e Koala. Anche Jasper e Hack mi avevano tenuto impegnata a modo loro. E poi c’era Dragon, che tutti i giorni per almeno un’ora aveva ascoltato i miei racconti su quello che era il mio mondo di provenienza. All’inizio non avevo idea di cosa raccontargli, ma con il passare del tempo quasi aveva dovuto zittirmi lui alla fine dei nostri incontri, perché non la finivo più di parlare. Anche se non potevo essere biasimata, data la portata delle informazioni che mi aveva chiesto. C’era così tanto da dire, così tanto da ricordare. A volte, mi faceva un po’ male. Per tutta la mia vita avevo cercato un modo per scappare da quel posto, un posto che sapevo non essere adatto a me e che – proprio per questo motivo – ritenevo orribile. Ma, alla fine, chiacchierando con Dragon, mi ero resa conto che non era poi così male come credevo. Era vero, c’era tanta sofferenza, tanto dolore, tanta indifferenza. Però c’era anche gioia, c’erano posti magnifici da visitare, gentilezza, meraviglia e calore. E il pensiero di aver perso tutto quello per sempre mi rendeva piena di rimpianti; perché ero stata incapace di godermi appieno quello che avevo. Ecco perché mi ero ripromessa di non sprecare l’occasione che mi era stata data dalla Stella. Avevo molto da imparare da Sabo, Rufy e compagnia.
Facendo il bilancio generale della mia permanenza nella base dell’Armata Rivoluzionaria, non avrei detto che quei mesi fossero stati una vacanza per me, ma neanche che non mi aveva fatto piacere trascorrerli lì. Avevo avuto le mie difficoltà, certo, ma mi ero anche divertita. Avrei detto persino che avevo avuto un piccolo assaggio di libertà. Mi morsi un labbro e sorrisi al pensiero, per poi ritornare alla mia espressione assorta. Molto probabilmente quella sarebbe stata la cosa che mi sarebbe mancata di più. Avevo trovato un efficace modo per svagarmi e per abbandonare per un po’ tutti i miei problemi, e mi dispiaceva rinunciarvi. Soprattutto perché sapevo che non avrei trovato qualcuno all’altezza del biondo – che bisognava riconoscerlo, aveva un certo talento – così facilmente, men che meno sul sottomarino. Anche perché non volevo complicare le cose, né la vita dei miei compagni. Stavamo bene come stavamo, eravamo in perfetto equilibrio. Tutti – o quasi – amici, niente complicazioni. Omen e Maya erano l’eccezione che confermava la regola, in cuor nostro tutti sapevamo che quei due non si sarebbero mai lasciati, e ne eravamo felici.
«Partirai tra cinque giorni. Il viaggio dovrebbe durare circa una settimana. Gli accordi sono che tu ti ricongiunga alla tua ciurma in un punto ad Ovest dell’isola Denim» mi annunciò. Presi mentalmente nota di tutto, sebbene al momento nella mia testa stessero vorticando molte domande.
«Non vorrei sembrare impertinente, ma come avete fatto a prendere accordi? Voglio dire, come fate ad essere certi che il luogo ed il giorno dell’incontro siano esatti?» volli sapere, riflettendo sul fatto che Law non aveva menzionato niente di tutto ciò. Quelle erano le prime parole che sentivo in proposito.
«Non te ne preoccupare. Ti ricongiungerai ai tuoi compagni nel giorno e nel luogo prestabiliti, sana e salva» mi liquidò lui, sebbene non sembrasse infastidito dalla mia domanda. Probabilmente, da uomo ragionevole quale era, sapeva che i miei dubbi erano legittimi.
Assottigliai gli occhi, sospettosa. Qualcuno non me la stava raccontando giusta. Tuttavia decisi di non preoccuparmene, mi fidavo di Dragon e dei rivoluzionari, e se dicevano che sarei arrivata a destinazione nel giorno e nel luogo prestabiliti e per di più sana e salva, ero sicura che sarebbe stato così.
«A questo proposito» la voce del padre di Rufy mi distolse dai miei pensieri «Sarò sincero con te, Camilla».
Sollevai le sopracciglia ed annuii, per incitarlo a continuare. L’uomo prese un respiro impercettibile.
«Sei una risorsa preziosa per l’Armata Rivoluzionaria. In futuro potresti essermi molto utile, anche più di quanto lo sei stata in questi mesi» constatò, lasciandomi alquanto sorpresa dalle sue parole. Non pensavo di poter essere così importante per lui. «Per questo è importante che tu non corra rischi, almeno durante il viaggio di ritorno» affermò poi, facendomi aggrottare la fronte. Non sapevo dove voleva arrivare, ma qualcosa mi diceva che la soluzione che mi avrebbe proposto non mi sarebbe andata a genio. Quando voleva, Dragon sapeva essere estremamente conciso. Altre volte, però, la sua capacità di tenermi sulle spine andava oltre ogni immaginazione. Supponevo che un po’ ci marciasse su questo, dopotutto era fatto così. Essere misterioso e sfuggente erano dei tratti che lo avevano sempre contraddistinto. Non avrebbe potuto essere il capo di un’organizzazione volta a rovesciare il Governo Mondiale, altrimenti.
«Ho deciso di affiancarti Sabo. Lui ti accompagnerà e rimarrà con te fino a che non si sarà accertato che sei al sicuro» mi comunicò, calmo. Abbassai il mento e schiusi leggermente la bocca, fissandolo con quella che poteva essere considerata un’espressione da ebete.
«Tra l’altro, so che tra voi è nato un bel rapporto» aggiunse poi, senza darmi il tempo di metabolizzare quella notizia. Avvampai all’istante. Non potevo vedermi, ma ero sicura di essere diventata di un salutare color fucsia acceso. Boccheggiai per qualche secondo. Volevo parlare, volevo dire qualcosa, ma non sapevo da dove cominciare. E temevo che qualsiasi cosa avessi detto avrebbe peggiorato la situazione. Che diavolo voleva dire Dragon affermando che sapeva che tra noi era nato un bel rapporto!? Era a conoscenza del tipo di relazione che avevamo instaurato? O lo diceva solo perché aveva notato un’innocente complicità? Incurvai le sopracciglia. Mi vorticavano così tante domande e così tanti pensieri in testa, al punto che pensavo di non essere in grado di contenerli. Perché, tra tutti, doveva accompagnarmi proprio Sabo? Non che mi dispiacesse, di certo sarebbe stato divertente passare un po’ di tempo con lui su una nave, solo che quella poteva essere una benedizione così come poteva essere una maledizione. I miei compagni lo avrebbero visto? Avrebbero notato il nostro comportamento “strano”? Il biondo avrebbe fatto il malizioso come suo solito e ci avrebbe traditi?
«No.» dissi infine, decisa «Non c’è alcun bisogno di mobilitare il Capo di Stato Maggiore» affermai poi, evitando volutamente di chiamare il rivoluzionario per nome, nel tentativo di darmi una parvenza di formalità che non avevo mai avuto. Non con Sabo, almeno.
Fissai il mio interlocutore con risolutezza, senza nemmeno sbattere le ciglia. Era importante che capisse che non avevo bisogno di essere scortata dal suo uomo migliore per tutto il viaggio. Ed era ancora più importante che capisse che sarei stata in pericolo se il biondo fosse venuto con noi. Perché non ero capace di resistergli. Non potevo resistergli. Già sapevo come sarebbe andata a finire se fossimo partiti insieme. Né io né lui saremmo stati in grado di controllarci. Perché la nostra passione, quella che avevamo l’uno per l’altra, era pericolosa. Estremamente pericolosa. No. Non potevo permettermelo. Non doveva accadere e non sarebbe assolutamente accaduto.
«La mia decisione è irrevocabile» sentenziò Dragon, tranquillo. A quel punto, sospirai. Poi arricciai il naso e storsi la bocca. Sapevo che ormai non c’era nulla che potessi dire o fare per tentare di dissuaderlo. Aveva emesso la sua sentenza definitiva. In un’altra occasione, probabilmente avrei riso. Con Rufy era lo stesso. La mela non cade mai lontana dall’albero, del resto.
Sbuffai, cercando di non farmi sentire dall’uomo dall’altra parte della scrivania. Non era una buona idea. Non era affatto una buona idea. Sabo mi avrebbe trascinata a fondo con lui. Ne ero sicura. Sarei caduta – per l’ennesima volta – in tentazione, e sarebbe stata la fine. La mia fine.
«Abbiamo finito» decretò il mio interlocutore, invitandomi implicitamente ad andarmene. Annuii e, senza indugiare ulteriormente, mi alzai dalla sedia e mi avviai verso la porta, scoraggiata ed infastidita dalla strampalata decisione che aveva preso il “Grande Capo”. Non ero arrabbiata, ero... nervosa. Preoccupata, perfino. Il perché, però, non avrei saputo spiegarlo. C’era qualcosa di quella situazione che mi metteva inquietudine. C’erano Sabo, la mia incapacità di resistergli, un viaggio di una settimana su una caravella che dovevamo affrontare insieme e un ultimo tassello del puzzle che non riuscivo a collocare. Forse, nel profondo, sapevo cosa mi rendeva preoccupata, ma non volevo ammetterlo a me stessa. Se l’avessi ammesso, poi avrei dovuto affrontare il problema, e io non volevo in alcun modo affrontare il problema, quale che fosse. Anzi, non volevo proprio averlo, un – altro – problema da risolvere.
Mi richiusi la porta della stanza di Dragon alle spalle con un enorme senso di frustrazione addosso. Non potei soffermarmi a pensarci più di troppo, però, perché proprio in quel momento dei passi risuonarono in corridoio. Mi voltai alla mia destra, iniziando a picchiettare ritmicamente un piede sul pavimento. Come pensavo, a pochi metri da me, c’era il fulcro dei miei problemi. Il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria. In un’altra situazione, probabilmente mi sarei abbandonata ad una risata. Dopotutto, era ironico che colui che faceva da repellente per le mie preoccupazioni me ne causasse il doppio. Eppure, eccolo lì, in piedi di fronte a me, con la sua postura fiera e il fastidioso alone di allegria che lo circondava.
«Hai saputo la lieta notizia?» mi chiese, con un sorrisetto fin troppo impertinente stampato sulla faccia. Quindi lo aveva saputo prima di me. Come al solito, ero l’ultima a venire a conoscenza dei fatti che mi riguardavano in prima persona.
Digrignai i denti, con così tanta intensità che per un momento pensai di aver consumato la loro superficie. Poi, sollevai l’indice e glielo piazzai sotto il naso.
«Non. Una. Parola.» lo minacciai torva. Ci mancava che si mettesse a fare lo spiritoso in un momento del genere.
Sabo iniziò a ridere di gusto. Fu quando lo fissai con lo sguardo carico di odio, che capii qual era il problema.
La verità era che non avevo paura di non riuscire a controllarmi. Non avevo paura di cedere ai piaceri della carne. Lo avevo già fatto – fin troppe volte – in passato, e non era di certo un po’ di sano sesso a spaventarmi, soprattutto perché ero piuttosto sicura che in quella base ormai sapessero tutti ciò che accadeva tra me ed il biondo dietro le porte delle nostre camere da letto. Io avevo paura che non sarei più riuscita a staccarmi da lui. Avevo paura che mi sarebbe mancato troppo e che non mi sarei più abituata alla sua assenza. Ma, più di tutto il resto, avevo paura che i miei timori diventassero realtà. Per questo credevo che fosse di gran lunga più semplice salutarlo sulla terraferma, insieme a tutti gli altri. Perché così sarebbe stato più facile prendere le distanze, disintossicarmi da lui, dal suo profumo, dal suo tocco, dai suoi baci e dalle sensazioni che mi faceva provare. Passare una settimana a stretto contatto con lui sarebbe stato il colpo di grazia finale.
Sospirai, fissandomi la punta delle scarpe. Potevo solo sperare che lo scenario che mi ero immaginata non diventasse realtà. Non c’era altro modo di evitare la catastrofe.
«Non fare quella faccia. Vedrai, sarà divertente» fece il biondo, accompagnandosi con un molesto occhiolino. Sbuffai una risata, esasperata, scuotendo la testa. Quando lo vidi ghignare selvaggiamente, alzai gli occhi al cielo, mi voltai di scatto e cominciai a camminare nella direzione opposta alla sua. Dovevo stargli lontano il più possibile in quei giorni, altrimenti lo avrei ucciso. Non valeva la pena di mettersi a discutere con lui, non lì.
Camminavo a passo svelto, aprendo e chiudendo i pugni ritmicamente, per cercare di calmare il mio nervosismo, che sembrava aumentare ad ogni centimetro che percorrevo. Poi, però, ci ripensai. C’era un’ultima cosa che dovevo chiedere a Dragon, e dal momento che ero lì tanto valeva approfittarne. Mi fermai e mi girai di nuovo verso la porta. Sabo non si era mosso. Era rimasto con la schiena appoggiata al muro, ad osservarmi mentre me ne andavo e probabilmente a ridere. Non ne ero del tutto sicura, però. Il rumore dei miei pensieri aveva coperto tutti gli altri suoni. Nel dubbio, lo fulminai con lo sguardo. Solo allora si decise a fare ciò per cui me lo ero ritrovato tra i piedi. Si scostò dal muro e si piazzò davanti al portone della stanza. Non potevo lasciarlo entrare. Lo raggiunsi in un paio di ampie e rapide falcate e non lo spintonai prepotentemente da una parte.
«Non ho ancora finito» lo informai, continuando a guardarlo male. Quello fece un passo indietro, alzando le braccia in segno di resa, tuttavia continuando a sorridere, divertito da quel siparietto.
Quando l’area davanti alla porta fu sgombra, mi sistemai i vestiti – nel tentativo di ricompormi – e bussai, prendendo un respiro profondo.
«Avanti» fece la voce dall’altra parte del portone. Entrai, cercando di sembrare seria e sicura di me, sebbene la situazione non mi facilitasse la cosa. Dragon sollevò la testa, fino a quel momento china sulla scrivania. Molto probabilmente stava leggendo uno degli ultimi rapporti che gli erano arrivati, ed io mi sentivo a disagio ad averlo interrotto, soprattutto perché la questione di cui avevo intenzione di parlargli poteva dare l’impressione di essere futile. Ma per me – e per gli altri poveri Pirati Heart che mi aspettavano fiduciosi – non lo era affatto.
Feci qualche passo in avanti e mi strinsi nelle spalle.
«Mi rendo conto che potrebbe risultare una richiesta inusuale e forse anche un po’ irrispettosa, ma...» feci una breve pausa ed aggrottai la fronte «Potrei prendere un po’ di pane dalle vostre scorte, prima di tornare dalla mia ciurma?».
Mi parve di scorgerlo alzare appena un sopracciglio. Non riuscivo a capire se fosse infastidito o se invece fosse solo perplesso. Boccheggiai un paio di volte, senza sapere bene cosa dire o fare.
«Prendi ciò che ti serve» asserì, tornando poi a concentrarsi sui fogli sotto di lui. Per fortuna aveva risposto senza che ci fosse bisogno di ulteriori – imbarazzanti – sollecitazioni da parte mia. Congiunsi le mani e sorrisi speranzosa.
«Grazie, grazie mille!» esclamai, quasi con occhi lucidi.
Lo salutai, facendo un piccolo inchino in segno di rispetto ed uscii dalla sua stanza per la seconda volta. Se non altro, da quella caotica giornata era venuto fuori qualcosa di positivo. Il pane. Finalmente avremmo avuto un po’ di pane su quel dannato sottomarino. Non che questo risolvesse i miei problemi, ma poter fare la scarpetta con il sugo era già un gran passo avanti.
 
***
 
Chiusi gli occhi e presi un respiro profondo, sollevando anche le spalle. Buttai fuori tutta l’aria che avevo in corpo e, quando riaprii gli occhi, tutto diventò scuro, nero come la pece, ad eccezione di una figura, a qualche metro da me, che invece appariva candida e nitida. Avevo attivato l’Haki. Avevo circa cinque minuti prima che il suo effetto svanisse. Durante quei cinque minuti sarei dovuta rimanere calma. Era necessario non perdere la propria compostezza per poter utilizzare l’Ambizione. Cercai di immaginarmi nei panni di un Angelo della Morte. Non avevo le ali, né una falce, ma potevo farcela lo stesso. Dovevo essere fredda, rapida e precisa. Era la mia ultima occasione per mostrare il mio valore al maestro di karate.
«Sei pronta?» mi chiese Hack, preparandosi a combattere. Annuii e mi misi in posizione d’attacco.
Quello era uno dei miei ultimi addestramenti con lui. Dovevo farcela, dovevo vincere almeno una volta. Dovevo dimostrare che ero in grado di abbattere nemici anche più potenti di me.
Piegai le gambe fino a poggiare una mano per terra. Poi, affondai le unghie nel terriccio. Il cuore mi batteva forte nel petto e tutti i miei muscoli erano tesi. Per la prima volta in vita mia, fremevo per iniziare a combattere.
«Cominciamo» proclamò l’uomo-pesce, solenne.
Senza indugiare oltre, scattai in avanti, e lui fece lo stesso. In meno di un secondo, i nostri corpi si scontrarono. Piegò il busto verso sinistra e provò a sollevare la gamba per tirarmi un calcio, ma io lo anticipai e lo schivai prontamente. Captavo i suoi pensieri, e sapevo esattamente quali sarebbero state le sue mosse. La cosa che rendeva Hack un fantastico addestratore era che i suoi attacchi non erano mai prevedibili. Con Bepo – forse perché avevo passato anni ad allenarmi con lui – non era così. Era molto bravo e sicuramente più paziente del rivoluzionario, ma i suoi movimenti erano sempre gli stessi. Con il tempo avevo imparato a notarlo, li ripeteva ciclicamente, e questo lo rendeva un avversario meno temibile dell’uomo-pesce. Non meno valido, però.
Mi girai su un fianco, piegai la gamba sinistra e tentai di colpirlo allo stinco con un movimento rotatorio della gamba destra. Tuttavia, il colpo andò a vuoto, perché appena prima che il mio piede sfiorasse il suo polpaccio, Hack saltò indietro. Non persi tempo e lo seguii, gettandomi in avanti con tutta la forza che avevo. Feci per tirargli un pugno, ma questi indietreggiò ancora. Lo osservai per una frazione di secondo. I suoi movimenti erano così leggeri ed aggraziati che il suo corpo sembrava fluttuare per aria. In un attimo, la sua mano afferrò il mio avambraccio, stringendolo in una morsa di ferro. Provai a liberarmi, ma la sua presa era troppo salda, e lui era troppo forte per me. Ci guardammo, seri ma inespressivi.
«Non affondare. Non andare dove ti porta il tuo nemico» quasi mi ammonì.
Ghignai impercettibilmente, lo sguardo fiero e sicuro. Non ero andata dove mi aveva portato il nemico. Avevo portato il nemico esattamente dove volevo che fosse. Del resto, avevo imparato dal migliore. Il suo braccio libero indietreggiò, preparandosi a sferrare un pugno che mi avrebbe spazzata via, se mi avesse colpita. Fu lì che scattai. Saltai a piedi pari – schivando per miracolo il suo temibile pugno – ed incurvai la schiena, ritrovandomi a testa in giù in una perfetta posizione verticale. Con il braccio ancora bloccato, c’era ben poco che potessi fare. Ma “ben poco”, non stava a significare che non potevo fare niente. Diedi una rapida occhiata alla sua posizione. Il polso sinistro era ancora teso. Avrei potuto provare a colpirlo, ma sarebbe stato troppo prevedibile. Sollevò un ginocchio. Avevo pochissimo tempo. Mi portai la coscia della gamba destra al petto, poi, senza esitare, stesi la gamba in direzione della sua faccia. Il suo naso sfuggì per pochissimo al mio calcio, ma io non mi lasciai scoraggiare. Ero sicura che lo avrebbe schivato, per questo avevo elaborato un piano B. Senza allentare la presa sul mio braccio destro, fece oscillare la mano con cui lo teneva, pensando di destabilizzarmi. Tuttavia, io avevo previsto anche questo, e inconsapevolmente mi aveva fatto un grosso favore. Artigliai le mie dita alla sua spalla. Fu una mossa che mi permise di eseguire una torsione del busto e di stampargli una potente pedata sulla tempia. Il colpo lo stordì appena e lo fece allentare la stretta sul mio avambraccio, giusto per il tempo di cui avevo bisogno per liberarmi. Quando i miei piedi toccarono terra, qualche metro più in là, non potei fare a meno di sorridere. Il primo round lo avevo vinto io.
Mi girai verso di lui. Non si era mosso di un millimetro, ma aveva accusato il colpo, di questo ne ero sicura. Dopo qualche secondo anche lui si voltò verso di me. Fece un piccolo cenno del capo, che stava ad indicare che avevo la sua approvazione. In un altro contesto avrei sicuramente gioito, tuttavia non era quello il momento di deconcentrarsi. Sapevo che sarebbe tornato all’attacco con più ferocia di prima. Non per vendicarsi del “torto” subìto, ma semplicemente perché sapeva di potersi spingere oltre. Doveva farlo. Perché nella guerra che – presumibilmente – avrei affrontato a breve, contro Kaido e le sue Bestie, di certo non ci sarebbe stato spazio per convenevoli e complimenti. Non avrei avuto neanche il tempo di riprendere fiato. Mi attendevano battaglie cruente, crudeli e senza pietà. Non mi aspettavo che fosse facile, o divertente, ecco perché desideravo che Hack ci andasse giù pesante con me. Fino a un certo punto, era sottinteso.
Scossi la testa, sgombrando la mente da tutte le mie riflessioni superflue e tornai a concentrarmi. Intorno a me divenne di nuovo tutto scuro. La figura del mio avversario si mosse. Indietreggiai di qualche passo, per guadagnare tempo e preparami ad un eventuale attacco. Fece arretrare il gomito sinistro. Voleva darmi un pugno. Un pugno mi avrebbe colpito il torace, appena sotto il seno. Mi accinsi a schivarlo; tuttavia, quando fu ad appena mezzo metro da me, lasciò ricadere il braccio lungo il fianco e saltò in aria. Lo seguii con lo sguardo. Puntava alla mia testa. Maledizione. Mi aveva ingannato! Ero stata troppo impegnata ad osservare, piuttosto che percepire. Bepo me lo rinfacciava sempre. Avevo ancora tanto da imparare.
Digrignai i denti ed incrociai le braccia sopra il capo. Quella era l’unica cosa che avrei potuto fare. Le mie ossa scricchiolarono per la collisione con il tallone dell’uomo-pesce, e dovetti trattenere un gemito di dolore. Non ci era andato giù leggero. Nella settimana successiva mi avrebbero fatto compagnia un paio di macchie violacee sulla pelle. Ma era meglio così. Dovevo essere preparata al peggio, e temevo che quello non ci avvicinasse neanche, al peggio. Per fortuna, in quei mesi Hack non mi aveva solo urlato contro e riempito di botte: mi aveva anche insegnato un modo per ridurre la potenza dell’impatto. Un metodo che quel giorno non fu tanto efficace, perché le mie gambe cedettero ed io caddi in ginocchio, grugnendo poco elegantemente. Senza avere nemmeno il tempo di sbattere le palpebre, mi ritrovai con il ginocchio del rivoluzionario piantato nel petto. Tossii e sputai saliva, poi ricaddi per terra di schiena, con un tonfo. Chiusi gli occhi. Con il fiato corto, cercai di riprendere possesso del mio corpo. Non era facile, dato che ogni muscolo sembrava essersi arreso. Scossi la testa, dispiaciuta ed amareggiata, già pronta ad issare bandiera bianca con il mio addestratore.
Coraggio, Camilla. Reagisci.
La sua “voce interiore” mi arrivò chiara come il sole. Era rimasto immobile a qualche passo da me, forse per darmi il tempo di riprendermi. Ma a me non serviva tempo. Serviva forza.
Ritornai con la mente a quel fatidico giorno. Il giorno in cui Doflamingo mi aveva portato via tutto. Il giorno in cui avevo davvero pensato che sarei morta. Il giorno in cui avevo pensato che Law sarebbe morto. Volevo davvero che accadesse un’altra volta? Volevo davvero che i miei nemici l’avessero vinta così facilmente? Avremmo dovuto affrontare una guerra. Una guerra contro un Imperatore. Una guerra che non avrebbe fatto prigionieri. E questa volta, nessuno sarebbe venuto in mio soccorso. Dovevo farcela con le mie sole forze. No. Non avrei permesso a nessuno di sconfiggermi di nuovo.
Riaprii gli occhi di scatto e mi puntellai sui gomiti, iniziando a strisciare all’indietro. Hack non perse tempo. Mi fermò dal retrocedere bloccando i miei capelli – che avevo raccolto in una coda, come sempre quando si trattava di combattere – a terra con la pianta del piede. Se non fossi stata impegnata a trovare un modo per capovolgere la situazione, probabilmente avrei sbuffato una risata. Tradita dai miei capelli. Chi mai se lo sarebbe aspettato? Per fortuna erano lunghi e mi permettevano di avere un discreto spazio di manovra. Quella che stavo per fare era una delle cose più sleali che avessi mai fatto, ma... come diceva il detto? In amore e in guerra tutto è lecito. Mossi contemporaneamente il braccio e la gamba sinistri, nel tentativo di colpire il mio addestratore. Ovviamente, i miei colpi andarono a vuoto e i miei arti furono bloccati dalle sue mani. Quello, però, era solo un diversivo. Un diversivo che mi diede il tempo di sfilare uno dei pugnali dallo stivale. Non indugiai nemmeno per un secondo e gli graffiai la caviglia. Non se lo aspettava. Lo sentii ringhiare e ritirare il piede. Dentro di sé, stava maledicendo l’intero universo. A quanto pareva non era l’uomo posato ed equilibrato che voleva far credere di essere. Ero piuttosto convinta che non fosse per il dolore, quanto per il fatto di essersi fatto cogliere di sorpresa. Ma questo poco importava, al momento, perché avevo un lavoro da finire. L’adrenalina mi scorreva nelle vene, la sentivo fluire in tutto il mio corpo. Le dita formicolavano, pervase da potenti scosse di elettricità. Il cuore batteva forte, la testa sembrava impazzita, quasi come se fossi un vampiro bramoso di sangue. Non sapevo come, né perché, ma mi sentivo improvvisamente invincibile.
Mi liberai, scattai in ginocchio e poi in piedi. Schivai un colpo di Hack e, tenendo ben stretto il pugnale, ruotai su me stessa con il braccio teso avanti a me, puntando alla gola dell’uomo-pesce. I miei occhi erano fissi e spietati. Ero completamente assorbita dallo scontro; così tanto che neanche mi resi conto che avrei potuto ucciderlo compiendo quella mossa. Mi sentivo come se la mia vita dipendesse dall’esito di quel combattimento. Per fortuna il rivoluzionario era veloce. Si scansò appena in tempo.
L’impeto che avevo messo in quella azione fu tanto che mi ritrovai tutti i capelli sugli occhi. Fu come un colpo di frusta, che mi distrasse. Mi fece perdere l’equilibrio e mi rese cieca per un paio di secondi. Nonostante lo avessi previsto, non potei evitare l’inevitabile. Un potente pugnò affondò nel mio stomaco e mi catapultò all’indietro. Il coltello mi cadde dalle mani. Volai per circa cinque metri, per poi ricadere a terra con un sonoro tonfo, con tanto di capriola all’indietro. Il nero che mi circondava sparì ed il mondo ritornò colorato. Le mie interiora bruciavano e si contorcevano dal dolore nel punto in cui ero stata colpita. Mi mancava il respiro. Annaspavo e tossivo, incapace di muovermi. Il rumore dei passi di Hack riecheggiava nell’aria. Procedeva lento verso di me, segno che il combattimento era ormai giunto al termine. Una delle mie guance premeva contro il terreno, aspro, duro e freddo, mentre con la mente cercavo di metabolizzare la sconfitta. L’ennesima, per la precisione.
«Dannazione!» sibilai a denti stretti, sbattendo un pugno sul terriccio. Ce l’avevo quasi fatta. Accidenti a me e ai miei capelli.
Sopra di me, si ergeva la fiera figura dell’uomo-pesce, che se ne stava a gambe leggermente divaricate e braccia incrociate, in attesa che mi tirassi su. Per quanto mi concerneva al momento, poteva anche starsene ad aspettare in eterno. Non avevo nessuna intenzione di rimettermi in piedi. Volevo rimanere lì, a compatire me stessa.
Mi porse una mano per aiutarmi a rialzarmi. Dovevo ammettere che ancora non mi ero del tutto abituata al fatto che avesse le dita palmate e la pelle giallastra. Alla fine la afferrai sbuffando e mi rialzai. Ci guardammo per un po’, in religioso silenzio e con espressione seria. Poi, il dolore allo stomaco mi costrinse a piegarmi in avanti. Iniziai a massaggiarmi la pancia con movimenti lenti e circolari. Sulla mia faccia era comparsa un’espressione piuttosto sofferente.
«Non male. Sei migliorata» mi fece sapere. Non ne ero sicura, ma mi era parso di cogliere una punta d’orgoglio nella sua voce.
«Ma?» chiesi, in un sussurro soffocato. Ero ancora a corto di fiato. Alzai lo sguardo verso di lui, in attesa. Negli anni avevo imparato che c’era sempre un “ma”, quando le persone iniziavano così i discorsi.
«Dovresti tagliarti i capelli. Non puoi permetterti inadempienze, sul campo di battaglia, e oggi mi hai dimostrato che i tuoi capelli sono uno dei punti deboli che potrebbero portarti alla disfatta».
Espirai con forza, dopodiché mi sforzai di ritornare in posizione eretta. Subito i miei occhi si posarono sulla mia fluente chioma castana, raccolta in una coda alta la cui lunghezza sfiorava l’ombelico. Hack mi consigliava di rinunciare a quella meraviglia, che ero riuscita a far crescere con tanta fatica e dopo tanto tempo.
Non dissi né feci niente. Avevo bisogno di pensarci un po’.
«Dovresti farti disinfettare il taglio» gli consigliai a mia volta, indicandogli la caviglia con un cenno del capo. La ferita perdeva ancora sangue. Pensai che a Jasper avrebbe fatto molto piacere occuparsi di quella lacerazione, sebbene fossi consapevole che l’uomo-pesce non si sarebbe mai affidato alle cure di un ragazzino inesperto. Un piccolo sorriso fece capolino sulle sue labbra. Lo vidi allungare il braccio e porgermi il pugnale che aveva recuperato da terra un paio di minuti prima, mentre io ero troppo impegnata a contorcermi dal dolore. Lo presi, me lo infilai di nuovo nello stivale e lo ringraziai. Poi lo salutai e me ne andai, rientrando all’interno della base. L’allenamento era comunque finito.
 
“Ala sinistra. Terzo piano. Corridoio centrale. Seconda porta a sinistra” continuavo a ripetere nella mia mente. Forse sarebbe stato meglio scriverlo da qualche parte. Non avevo problemi di memoria, quanto di orientamento. E districarsi in quel labirinto di stanze che era la base dei rivoluzionari non era semplice. Mi venne da ridere nel pensare che Zoro probabilmente sarebbe morto nel tentativo di venirne fuori. Io non ero messa così male, ma avevo comunque le mie difficoltà. Più volte mi ero chiesta come facessero gli altri. Forse la forza dell’abitudine li aveva aiutati a memorizzare meglio le varie posizioni di tutti i luoghi, o forse, semplicemente, avevano adottato la mia stessa strategia: ricordarsi solo le ubicazioni dei posti che frequentavano di più e chiedere informazioni per tutto il resto. In quei mesi, avevo appena fatto in tempo ad imparare dove fosse la mia camera, quella di Sabo, quella di Koala, il bar e l’enorme ufficio di Dragon. Non sapevo nemmeno dove fosse la stanza di Jasper, o di Hack. Ma a dire la verità neanche mi importava più di tanto. Sarei ripartita un paio di giorni dopo, e a quel punto qualsiasi legame avessi instaurato con i membri dell’Armata Rivoluzionaria sarebbe svanito. Una morsa mi strinse lo stomaco. Non sapevo se fosse perché ero finalmente giunta a destinazione – dopo essermi persa circa quattro volte – o perché il pensiero che a breve avrei perso gli affetti che avevo trovato lì mi lasciava l’amaro in bocca. Poteva anche essere una reazione ritardata al pugno che mi aveva dato il maestro di karate quella mattina. Qualunque fosse la soluzione giusta al mio “dilemma”, non diedi a me stessa il tempo di rimuginarci sopra, perché non appena fui davanti alla porta della camera che stavo cercando da mezz’ora, bussai. Quando si aprì, pochi secondi dopo, trattenni il fiato. In piedi, davanti a me, apparve la bizzarra figura di una donna. Una donna per metà arancione e per metà bianca. Nella mano sinistra teneva un calice contenente vino rosso. Socchiusi la bocca, un po’ sconcertata. Non mi aspettavo di vederlo – o meglio, vederla – in tali panni, ma supponevo che succedesse più spesso di quanto mi immaginassi. Emporio Ivankov doveva averci messo lo zampino. Anzi, le unghie.
«Camilla» mi salutò la rivoluzionaria, piacevolmente sorpresa.
«Inazuma» la salutai io, accompagnandomi con un cenno del capo.
«Cosa posso fare per te?» mi chiese, accompagnando le sue parole con un sorso di vino. Fissai il bicchiere mordendomi il labbro inferiore. Non lo volevo bere, speravo solo che fissare la sostanza alcolica che di solito mi dava tanto coraggio me ne desse anche quella volta.
Ritornai a guardare Inazuma, poi presi un respiro profondo e mi decisi a parlare.
«Ho sentito che sei il barbiere...» mi stoppai e la squadrai da capo a piedi «La parrucchiera. La parrucchiera ufficiale dell’Armata Rivoluzionaria» mi corressi, iniziando a torturarmi le dita.
«Vuoi una sistemata alla barba?» domandò, ghignando.
Risi, e la tensione che mi ostruiva le vene si sciolse. La sua versione femminile era meno seria e posata di quella maschile. Avrei detto che era perfino più sbarazzina. Anche la sua espressione era diversa.
Si fece da una parte e mi invitò ad entrare nella sua stanza con un cenno del capo. Sospirai, mi dondolai un paio di volte sulle punte dei piedi ed infine varcai l’uscio. Quando la rivoluzionaria richiuse la porta, sperai e pregai di aver preso la decisione giusta. Ma ormai non c’era tempo per i ripensamenti. Era arrivata l’ora di darci un taglio. Letteralmente.
 
***
 
Osservai il mio riflesso. Quella sarebbe stata l’ultima volta che mi sarei specchiata in quello specchio. Lo specchio ovale che c’era in camera mia, sopra al comò, appeso alla parete celestina alla destra del mio letto. Quello con la cornice dorata che sembrava la versione meno inquietante di quello della Regina Cattiva in “Biancaneve e i sette nani”.
Mi sistemai i capelli, ormai lunghi appena abbastanza da sfiorarmi le spalle, dietro le orecchie. Inazuma aveva fatto un buon lavoro con la mia chioma castana. Quasi mi piacevo più, con quel taglio. Il mio viso appariva più luminoso, i miei occhi più grandi e la mia capigliatura sembrava più folta e voluminosa di quanto fosse mai stata. Inoltre, mi sentivo molto più leggera, ed ero più tranquilla per quanto riguardava il dover combattere. Avevo ancora tante pecche, ma se non altro avevo depennato dalla mia lista uno dei punti deboli che avrebbero potuto costarmi la vita. Mi pareva di aver capito che anche a Sabo e Koala piacessi di più, con i capelli corti. Quando Hack mi aveva visto dopo il “cambio di stile” non aveva detto niente. Si era limitato a rivolgermi un cenno d’assenso.
La decisione di accorciare i capelli di circa mezzo metro, fino a qualche anno fa, per me sarebbe stata una scelta critica. Ma la verità era che stando lì avevo imparato a discernere le cose realmente rilevanti da quelle di poco conto. E quella non era una cosa importante; non troppo, almeno. I capelli sarebbero pur sempre ricresciuti, prima o poi.
Appoggiai le mani sulla superficie liscia del comò e sospirai. Il legno, sotto i miei palmi, era freddo. Mi soffermai ad osservare gli intarsi preziosi. Sembravano avere più valore di quanto avesse la mia vita. Mi sarebbe mancato, tutto quello. Il comodissimo letto a baldacchino e la vasca da bagno enorme sarebbero state le due cose che mi sarebbero mancate di più. Ma avrei sentito la mancanza anche dell’incredibile varietà di colori che tinteggiavano le pareti ed i pavimenti di quella base. Una volta tornata sul sottomarino, tutti quei colori si sarebbero ridotti ad appena due – non troppo felici – nuances: il grigio e il bianco. Avrei avuto nostalgia persino degli immensi e maestosi quadri appesi ai muri dei corridoi, che talvolta mi suscitavano inquietudine. Sbuffai una risata al pensiero.
“Al diavolo i colori e i quadri” pensai “ho bisogno di tornare dai miei amici”. I Pirati Heart erano la cosa più vicina ad una famiglia che avessi al momento, ed ero felice di potermi finalmente ricongiungere con loro. Sentivo che era quello il mio posto, con tanto di austerità e grigiore.
Staccai le mani dal mobile e mi diressi verso il bagno. Non volevo pensare alle persone la cui assenza avrei avvertito più, perché non volevo intristirmi. Non subito. Non ero nemmeno partita, ancora. Avrei avuto tutto il tempo di pensarci una volta salita sulla nave. Per il momento, volevo imprimermi tutto nella mente, per ricordarmi di quell’esperienza, di come mi avesse cambiata, fortificata e resa una persona migliore. Volevo pensare solo alle cose positive, come le persone che avevo conosciuto e quelle che avevo rivisto e di cui avevo alimentato i sogni e le speranze. Volevo pensare all’utilità che avevo avuto e al ruolo – seppur decisamente piccolo – che avevo giocato nell’ipotetico rimodellamento e miglioramento di quel mondo. Tenni lo sguardo fisso sulla vasca da bagno per un paio di minuti. Un piccolo sorriso fece capolino sulle mie labbra nel momento in cui mi ricordai dell’episodio avvenuto poche settimane prima proprio in quella vasca: io e Sabo, schiacciati come sardine, che giocavamo con la schiuma, ci schizzavamo e ci provocavamo a vicenda. Il pavimento era diventato il teatro di una sanguinosa guerra all’ultimo schizzo. Quella vicenda faceva parte di una lunga lista di ricordi che avrei custodito nel cuore per sempre.
Mi appoggiai allo stipite della porta ed incrociai le braccia. La stanza era immersa in un silenzio assordante. L’unico suono che udivo era il rumore dei miei pensieri. Sospirai di nuovo, spostando lo sguardo sulla parete di fronte a me. Non ci avevo mai fatto caso fino a quel momento, ma il motivo che vi era dipinto era molto bello. Le piastrelle erano verde bottiglia, mentre alcuni disegni a spirale ed arzigogolati in oro brillante coprivano la parte superiore del muro ed andavano a formare un fiore ad otto punte ogni quattro mattonelle. Di certo, chiunque fosse stato a scegliere l’arredamento delle varie stanze della base in cui mi sarei trovata ancora per poco aveva buon gusto e sembrava essere una persona accorta, raffinata ed elegante. Quasi mi stupii di me stessa nel momento in cui lo pensai. Se non altro, se fossi stata costretta ad abbandonare la mia carriera da chirurgo, avrei potuto pur sempre ripiegare su quella da arredatrice di interni, o da critica d’arte, perché no. Proprio mentre riflettevo sulle possibili professioni alternative che avrei potuto svolgere, qualcuno bussò alla porta. Mi voltai ed aspettai qualche secondo prima di andare ad aprire.
«È tutto pronto, Camilla-san» mi fece sapere la voce di un anonimo rivoluzionario, in piedi di fronte a me, una volta che ebbi aperto la porta.
“Ci siamo. È ora.” pensai, poi annuii un paio di volte.
«Dammi un minuto. Arrivo.»
Quello assentì, dopodiché fece un passo indietro. Richiusi il portone di legno senza curarmi dell’uomo. Non sapevo se mi stesse aspettando o se se ne fosse andato, ma in ogni caso avrebbe capito.
Scrutai per l’ultima volta la camera che in quei mesi mi aveva ospitato. Mi premurai di squadrare ogni centimetro e di imprimermelo bene nella mente. Quando toccò al letto, in me riaffiorarono tanti ricordi. Dopotutto, non avendo altra roba all’infuori delle mie armi e dei miei stivali, i ricordi che avevo di quel posto erano tutto ciò che potevo portare con me. Lo visualizzai con le lenzuola sgualcite, mentre i vestiti giacevano abbandonati sul pavimento; Sabo che tentava di tirare via le coperte per vedermi ancora una volta nuda. Rividi tutte le evoluzioni che io ed il biondo avevamo fatto su quel materasso ed il cuscino bagnato dalle mie lacrime a causa dei terrificanti incubi che per settimane avevano infestato il mio sonno. Ripensai a tutte le volte che mi ero buttata sulla trapunta di ritorno dagli allenamenti di Hack, distrutta, dolorante e stanca morta.
Gettai un’occhiata alla finestra. I tramonti, il cielo stellato e l’oceano, visti da lì, apparivano mozzafiato. Mai quanto la vista che c’era dal terrazzo dell’ultimo piano – avevo passato tutto il giorno precedente appollaiata lassù – ma era pur sempre meglio dell’infinita e scura distesa d’acqua che vedevo ogni volta che mi affacciavo dall’oblò del Polar Tang.
Alzai una mano e la mossi guardando un punto imprecisato all’interno della stanza, come a darle il saluto finale. Non avevo avuto la possibilità di dire addio alla mia famiglia, però potevo rifarmi salutando quella camera. Forse era stupido, ma non mi importava. Non avrei fatto lo stesso errore una seconda volta. Avevo smesso di dare tutto per scontato.
Mi girai, avanzai verso la porta, la aprii e me la richiusi alle spalle, senza voltarmi a guardare indietro. Ero pronta ad andare.
 
«Grazie per non esserti arreso con me. E grazie per essere stato un maestro inflessibile» dissi ad Hack, in piedi di fronte a me «Se sono diventata più forte, è solo per merito tuo» gli feci sapere poi, stringendomi nelle spalle. Eravamo entrambi piuttosto imbarazzati dalla situazione. Lui sembrava addirittura un po’ scocciato di stare lì. Non gli si poteva dare torto, però. Ero sicura che avesse di meglio da fare che mettersi a scambiarsi manifestazioni d’affetto con una ragazzina in pubblico.
Una schiera di persone, allineate come un plotone d’esecuzione sulla banchina di quel porto improvvisato, era venuta a salutarmi. Alcuni erano lì semplicemente per cortesia, dato che non li avevo mai visti prima, mentre altri erano venuti a salutare i loro amici – quelli che facevano parte dell’equipaggio che mi avrebbe condotto dai Pirati Heart –, che non avrebbero rivisto per un paio di settimane. Un gruppetto di rivoluzionarie civettuole, invece, era venuta a salutare Sabo. Vederle sbracciarsi per cercare di attirare l’attenzione del Capo di Stato Maggiore mi aveva fatto ghignare con malizia, e in un momento di cattiveria avevo pensato che ero stata io a vincere l’oggetto dei loro desideri, per giunta senza fare alcuno sforzo. Ma questo non c’era bisogno che lo sapessero.
«Tieni bene a mente quello che ci siamo detti in questi mesi.»
La voce del maestro di karate mi fece tornare alla realtà.
«E cerca di restare viva» si limitò a dire una volta che ebbe di nuovo la mia totale attenzione. Annuii solenne. Apprezzavo molto il fatto che me lo avesse detto, perché stava a significare che in fondo, molto in fondo, si era affezionato a me.
«Non deluderò il mio maestro» affermai convinta, poi feci un piccolo inchino all’uomo-pesce. Non sapevo che altro fare. Sospettavo che odiasse gli abbracci, e non mi sembrava il caso di stringergli la mano. Nessuno lo faceva, in quel mondo. Io, invece, odiavo gli adii. Mi mettevano malinconia e non avevo mai idea di cosa dire o fare. Non mi piaceva pensare che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei mai visto la maggior parte di loro. E mi piaceva ancora meno pensare alle parole giuste da pronunciare. Se dovevo separarmi da qualcuno, volevo che fossero spontanee, come lo erano state quelle che mi ero scambiata con i miei famigliari. A loro, però, non mi era stato concesso di dire addio.
«Fai buon viaggio, Cami».
Per la seconda volta, una voce mi distrasse dai miei pensieri. Alzai lo sguardo di scatto. Koala si era posizionata davanti a me e mi stava fissando con i suoi occhioni color cobalto. Sembrava serena, ma sapevo che le dispiaceva doversi congedare da me. Guardai oltre la sua spalla. I membri dell’equipaggio stavano caricando le ultime casse di legno sulla caravella. Osservai per qualche secondo la nave. Era piccola, ma ero convinta che potesse affrontare il mare e cavalcare le onde con coraggio, proprio come la Going Merry. Sulla fiancata sinistra, di un color bianco brillante, c’era scritto il nome della barca: Marie Jolie. Un nome insolito, per essere una nave appartenente all’Armata Rivoluzionaria. Forse lo avevano scelto apposta, per non destare troppi sospetti.
«Mi mancherai. Mi mancherai tantissimo» confessai alla mia interlocutrice, ritornando a guardarla.
«Anche tu! Ma ci rivedremo, prima o poi. Ne sono sicura» mi disse, prendendomi una mano tra le sue e stringendola. La sua pelle era calda, morbida e confortevole.
Annuii con convinzione. Avevamo entrambe gli occhi lucidi.
«La prossima volta che ci vediamo, andiamo a fare shopping insieme. Offro io. Ti devo dei vestiti, dopotutto» le feci sapere, con un tono scherzoso ed al contempo autoritario.
Ridemmo insieme. Quando rideva, gli occhi le si increspavano agli angoli e la sua espressione era ancora più radiosa del solito. Avrei sentito molto la sua mancanza. Era diventata mia amica molto in fretta, ma non era solo un’amica. Per me era anche una guida, un modello da seguire, una presenza piacevole e positiva nella mia vita. Rappresentava una delle poche certezze che avevo in quel momento, e privarmene sarebbe stata dura.
La abbracciai stretta ed inspirai il suo odore. Perfino il suo profumo era buono. Sapeva di limone, vaniglia e fragola.
«Tieni d’occhio la bestia» si raccomandò Koala una volta che ci fummo staccate, indicando un punto imprecisato della caravella con il capo. Ci guardammo eloquentemente. Ero chiaro come il sole che si riferisse a Sabo, che infatti era già a bordo della barca.
«Lo farò, anche da parte tua. Questa settimana ci penso io a lui, ti prometto che lo terrò in riga. Non farà danni, vedrai» la rassicurai con sguardo fermo «O almeno, non ne farà troppi» aggiunsi, distogliendo lo sguardo e riflettendo sull’impossibile carattere del biondo. La ragazza rise di nuovo.
«Se si comporterà male lo verrò a sapere e gliela farò pagare» affermò, con un grazioso sorrisetto diabolico dipinto sul volto. Avevo trovato qualcosa con cui ricattare il fratello di Rufy.
«Me lo saluti tu Dragon?» le chiesi. Un po’ mi dispiaceva non essere riuscita a farlo di persona, ma non potevo sapere che sarebbe partito per una missione proprio un paio di ore prima che lo facessi io. Non che fosse un problema, sapevo che Koala lo avrebbe fatto al posto mio, e sarebbe stata anche felice di farlo. Di tutti quelli che avevo conosciuto in quella base, lei era la più affidabile. Non per niente annuì.
Ci abbracciamo un’altra volta. Le strofinai affettuosamente le mani sulla schiena e lei fece lo stesso.
«Grazie di tutto» le sussurrai, appoggiando il mento sulla sua spalla.
«Grazie a te!» mi sussurrò di rimando, stringendomi ancora più forte.
Quando ci staccammo, da brava mamma chioccia mi sistemò i vestiti, allisciandone la superficie con il palmo delle mani. Poi mi diede un’ultima occhiata, colma di commozione e nostalgia allo stesso tempo. Le sorrisi. Quello non era un addio definitivo. Ci saremmo riviste, me lo sentivo.
«Pare che tocchi a me» fece Jasper, con un’alzata di spalle. Lo squadrai alzando un sopracciglio.
«Non ho molto da dirti, ragazzino» gli feci sapere, dura.
La sua espressione si incupì appena. Sembrò rimanerci male. Non era di certo un mistero che fosse permaloso. Gliel’avevo fatta.
«La prossima volta che ci vedremo, sarai diventato un grande medico» affermai. Il mio viso si aprì in un ampio sorriso.
Sorrise anche lui. Per la prima volta da quando lo conoscevo, sul suo volto vidi un accenno di gioia.
«Puoi starne certa!» esclamò, negli occhi aveva un luccichio.
Gli sorrisi di nuovo, fiera e materna, poi gli feci l’occhiolino ed un piccolo cenno del capo, che stava ad indicare che avevo piena fiducia in lui. Sapevo che ne aveva bisogno, perché anche io, a suo tempo, ne avevo avuto bisogno. E forse ne avrei avuto bisogno ancora.
Gli poggiai una mano sulla testa – senza mancare di notare che era diventato più alto di me in quei mesi – e gli scompigliai affettuosamente i capelli, che diventarono ancora più vaporosi dopo che li ebbi spettinati. Jasper rise e cercò di scacciare la mia mano dalla sua chioma. Anche se era cambiato, il suo lato burbero era rimasto lo stesso di sempre.
«Ehi, Wein» chiamai il barista, anche lui accorso lì per salutarmi «Non servire troppe bevande alcoliche al ragazzino» mi raccomandai una volta che si fu avvicinato. Ridemmo insieme.
«Senza di te, per la prima volta dopo quattro mesi, le mie scorte di vino rimarranno intatte» disse, facendomi sbuffare una risata «Ecco perché ne ho fatti caricare due barili sulla caravella» aggiunse, strizzandomi l’occhio con aria eloquente. Lo fissai stupita, cercando conferma nella sua espressione. Quando capii che non stava scherzando, alzai le braccia al cielo.
«Oh, grazie a Dio!» dichiarai, con fin troppa enfasi. Per fortuna ci aveva pensato Wein a rallegrarmi la giornata. Entrambi sapevamo che non avrei potuto stare senza vino per una settimana intera.
«Ti stanno chiamando. Forse dovresti andare» intervenne Jasper, osservando la caravella alle mie spalle.
Mi umettai le labbra con la punta della lingua, poi feci un cenno d’assenso. Mi girai e, prendendo un respiro profondo, mi incamminai verso la nave. Percorsi la passerella che fungeva da scala senza pensare a niente. Non sapevo se essere dispiaciuta per le persone che mi stavo lasciando alle spalle o se essere contenta per quelle che avrei rivisto a breve.
Quando misi piede sul ponte della caravella, alzai la testa e vidi Sabo. Mi sorrideva, circondato dal suo solito alone di allegria.
«Sei pronta?» mi chiese.
«Sì» risposi, appena prima che la passerella venisse ritirata.
Mi voltai e mi appoggiai al parapetto di legno, mentre una leggera brezza faceva ondeggiare i miei capelli. Da lì si vedeva tutta l’isola. Koala, Jasper e Wein mi stavano salutando con la mano. Ricambiai il gesto. Mi piaceva pensare che avevo lasciato qualcosa di me, a quelle persone. A quel posto. Loro lo avevano fatto, con me. Era stata un’esperienza difficile, ma unica e magnifica.
Mentre un membro dell’equipaggio impartiva l’ordine di levare l’ancora, nella mia mente riaffiorarono una miriade di immagini. Conservavo un ricordo per ogni centimetro di quella terra dal nome e dalla posizione sconosciuti. Tuttavia non era il momento di pensarci. Da adesso in poi avrei dovuto guardare al presente, prima di tutto, e poi al futuro, che mi stava aspettando a braccia aperte.
La mia partenza da quell’isola non segnava la fine di niente. Era solo l’inizio di un nuovo capitolo della mia vita.





Angolo autrice
Ci siamo! Finalmente Cami sta per tornare dai suoi adorati compagni! Per l'occasione si è anche fatta fare un nuovo taglio di capelli da Inazuma, l'esclusiva e richiestissima parucchiera dei VIP nel mondo di One Piece!
Scherzi a parte, in questo capitolo è presente un paragrafo dedicato interamente all'addestramento di Camilla. Scriverlo è stato un lavoraccio, ma ci tenevo a fare una panoramica generale sull'allenamento della ragazza, sul trattamento che le riserva Hack, su come sia migliorata nell'usare l'Haki e sulle cose sulle quali deve ancora lavorare. Spero che le scene proposte in tale paragrafo siano chiare, scorrevoli e non troppo noiose o ripetitive.
Quanto al resto, mi auguro che il capitolo vi sia piaciuto! Ringrazio di cuore chi ha ancora la pazienza di seguire la storia e chiunque vorrà lasciarmi una recensione. <3
A presto!
 
   
 
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