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Autore: Adeia Di Elferas    16/03/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“No, non dobbiamo badare a spese. Non in questo caso.” disse Giovanni, con fermezza, scartando con una mano le stoffe più ruvide che Caterina aveva indicato come scelte.

“Ma stiamo mandando dei soldati in guerra, non dei damerini a una festa!” si oppose la donna, alterandosi un po'.

Le lettere che il Medici aveva ignorato, qualche sera prima, ne nascondevano una di suo fratello Lorenzo che, in via ufficiosa, lo informava del fatto che Firenze aveva accettato le pretese della Tigre e che, dunque, se a loro compiaceva, era il momento di preparare la truppa e Ottaviano alla partenza per Pisa.

Dopo un paio di giorni appena era arrivata la conferma ufficiale attraverso un messaggio formale della Signoria. L'unica aggiunta che i fiorentini si erano permessi di fare stava nella richiesta di un segno di buona volontà, ovvero l'invio anticipato di un piccolo contingente dimostrativo che cominciasse a prendere contatti con il grosso dell'esercito.

Senza pensarci un momento, vista la rischiosità di quel compito, Caterina aveva incaricato subito Achille Tiberti, sottolineando con enfasi il fatto che quella era un'occasione più unica che rara per cercare di riottenere la fiducia che aveva così spesso calpestato.

“Ascoltami Caterina – fece il Popolano, abbassando la voce e cercando i termini giusti per non dare brutte impressioni ai messi della sartoria che erano in attesa di conoscere la loro decisione – io li conosco, i fiorentini. Ci sono cresciuto in mezzo. Qui e sul campo di battaglia potrà valer poco un abito, ma ti assicuro che quando Ottaviano passerà in rassegna i suoi soldati davanti alle teste di Firenze, quelli guarderanno di che colore ha la giubba, piuttosto che di quale metallo è fatta la sua spada.”

La Sforza fissò per un lungo istante le iridi chiare del marito. Erano almeno due giorni che battibeccavano su cose del genere. Se da un lato la Tigre voleva equipaggiare il figlio in modo essenziale, ma sicuro, dall'altro Giovanni insisteva per farlo partire bardato come un principe.

“Allora – prese in mano la situazione il Medici, con un leggero sbuffo, rivolgendosi direttamente ai messi della sartoria – Ottaviano e i suoi attendenti dovranno essere vestiti di seta. I suoi secondi, in panno, ma con abiti della medesima foggia. Gli armigeri dovranno avere dei tabarroni a quartieri. E gli altri, delle giornee coi busti serrati e il resto aperto, che si vedano i ricami. Per i cavalli...”

Gli occhi del fiorentino corsero finalmente di nuovo alla moglie, che, con un sospiro, decretò: “I cavalli dovranno essere i migliori della mia scuderia. Su questo eravamo già d'accordo.”

Il Medici annuì e concluse: “Dovrò far preparare finimenti d'oro e d'argento per gli alti in grado. E poi voi dovrete preparare anche diciassette pezzi di padiglione, tende e trabacche. E dovremo dargli dietro anche almeno una ventina di muli per le vettovaglie.”

La Leonessa si morse le labbra, ma non commentò, limitandosi a congedare i giovani della sartoria con un semplice: “Avete sentito? Vedete che sia tutto pronto per la fine del mese.”

Questi raccattarono gli esempi di stoffe che avevano portato e, con ossequiosi inchini, lasciarono la camera di gran fretta parlottando tra loro.

Appena furono di nuovo soli, la Contessa diede una piccola spinta alla spalla del marito: “Ma ti rendi conto della spesa che comporterà questa messinscena?!”

Giovanni sbuffò e frenò la mano della moglie, appena prima che gli desse un nuovo scossone: “E ti rendi conto che pagherò tutto di tasca mia?”

“Nessuno te l'ha chiesto.” fece subito la Sforza, rabbuiandosi.

Maggio si era già fatto molto caldo e Caterina stava vivendo giornate difficili. Da un lato c'erano le preoccupazioni per la campagna militare – amplificate davanti alla manifesta incapacità di Ottaviano che si rendeva ridicolo a ogni esercitazione – dall'altro la difficoltà che lei stessa incontrava nel riprendersi ogni qual volta che faceva qualche sforzo fisico eccessivo e il sonno, che le mancava di continuo per gli incubi che si erano fatti sempre più invadenti e vividi, e dall'altro ancora c'era l'insofferenza nel sottrarre tempo a Ludovico.

Ogni giorno sembrava che la ragion di Stato le strappasse occasioni per stare insieme al suo ultimo figlio. Anche Giovanni, malgrado fosse meno coinvolto, ufficialmente, di lei nella preparazione della campagna, stava soffrendo quelle distrazioni e avrebbe solo voluto stare con Ludovico e sua moglie, invece che trascorre ore intere ad ascoltare finezze politiche e altro.

“Credevo che non avremmo più litigato per i soldi.” soffiò il Medici, sulle sue.

La Sforza sollevò le spalle e, andandosi a sedere sull'ottomana sotto alla finestra, da cui entrava una luce soffusa di fine pomeriggio, decretò: “Lo sai che mi pesa, il fatto che tu sia più ricco di me.”

“Non tutti possono essere analfabeti e nullatenenti.” commentò a denti stretti il Popolano, voltandole le spalle e fissando la parete, ostinato.

Quelle parole ferirono la moglie, che restava sempre attonita, nelle rare occasioni in cui il marito osava fare certi riferimenti a Giacomo. Schiuse le labbra, per ribattere in qualche modo, ma la voce le morì in gola.

Guardava la schiena di Giovanni, dritta, in contrasto con la posa un po' innaturale presa dalle gambe. Stava abbastanza bene, in quel periodo, ma sembrava che le deformità delle ossa stessero aumentando e la stessa Contessa, quando aveva chiesto consiglio al medico, si era scoperta a non voler sapere, in realtà, la gravità della situazione.

“Scusami.” sussurrò dopo un bel pezzo il Medici, guardandola da sopra la spalla: “Non volevo dirlo.”

“Sono io che non dovevo parlarti a quel modo – si schermì la Sforza, alzandosi e avvicinandosi a lui – quello che stai facendo per me è più di quanto avrei mai potuto sperare da chicchessia. Dovrei esserti solo grata, e invece non faccio che criticarti.”

Mentre gli parlava, la donna lo aveva stretto a sé, standogli alle spalle, una mano aperta a ventaglio sul suo petto e un'altra appena più in basso, sul ventre tanto piatto da rientrare.

Giovanni sfiorò con le dita quelle della moglie e poi bisbigliò: “Ci prendiamo una mezza giornata solo per noi? Credo che ne abbiamo bisogno.”

La donna annuì, la testa appoggiata alla schiena del fiorentino, le narici piene del suo sentore: “Sì, ne abbiamo bisogno.”

“Stiamo un po' insieme... Ci facciamo una bella cavalcata nei boschi... Se vuoi andiamo anche a caccia...” cominciò a elencare il fiorentino, con un vago sorriso sulle labbra.

“Oppure – propose la donna, stringendolo un po' di più – una volta tanto ce ne stiamo tranquilli, senza niente e nessuno a disturbarci. Solo noi due.”

Il Medici inspirò con forza: “Mi sembra l'idea migliore del mondo.”

Senza aspettare oltre, benché fosse quasi sera, la Contessa e l'ambasciatore passarono dalla stanza di Ludovico, restarono con lui per un'oretta, e poi presero due cavalli e andarono alla Casina, ritornando solo il giorno seguente a pomeriggio inoltrato con un'umore decisamente migliorato e due sorrisi distesi sulle labbra.

 

Lorenzo teneva il calice di vino davanti al naso, senza sorbirne nemmeno una goccia. Non gli piaceva la gente con cui era seduto, non gli piaceva l'osteria in cui si erano andati a chiudere e non gli piaceva soprattutto la puzza di stantio che si sentiva ovunque. Era solo per combattere quella che teneva il vino sotto le narici, anche se pure quello aveva un tanfo strano, come se fosse aceto andato a male.

“Quello che è successo ieri, secondo me, è oltraggioso.” stava dicendo Chimenti Ciarpelloni, scuotendo il capo con aria grave: “Gli Ufficiali del morbo faranno anche il loro lavoro, ma cacciare dall'ospedale in quel modo i poveri... Suvvia, non si è mica bestie noi!”

“Siete sempre il solito stolto.” lo rimbrottò Niccolò Popoleschi che, in quei giorni, faceva di tutto per dimostrarsi assennato e saggio, sperando che le promesse di diventare Gonfaloniere si trasformassero in realtà: “Se non si cacciano i poveracci, la peste si spanderà anche in città. E allora che nuovo governo vorrai dare a Firenze? Quello d'un cimitero?”

“Non dico questo – fece Ciarpelloni, bevendo un po' del suo vino e trattenendo un piccolo rigurgito acido – dico solo che Dio non vorrebbe che...”

“E basta con questo Dio!” sbottò Lionardo Gondi: “È per discorsi così, che siamo finiti in mano a Savonarola per anni!”

“E voi che ne pensate?” domandò Filippo Cappegli, guardando Lorenzo Medici, che se n'era rimasto zitto fin dal principio.

“Io dico solo che oggi il mandatorio del papa ci ha permesso finalmente di chiedere tre decime ai religiosi e di giudicare Savonarola come preferiamo.” fece il Popolano, alzandosi e appoggiando di malagrazia il calice al tavolo: “Tutte le altre sono solo chiacchiere da osteria.”

Dopo aver detto così, l'uomo dedicò a tutti uno sguardo ammonitore e se ne andò, dopo aver lanciato qualche moneta sul tavolo per offrire da bere.

“Ma che cosa gli sta capitando?” chiese a voce bassa Cappegli, dando di gomito a Jacopo Salviati.

Quello, che di norma non amava molto quel genere di conciliaboli, scrollò le spalle e dissimulò la sua stessa preoccupazione dicendo: “Si vede che la lontananza dalla moglie comincia a dargli sui nervi.”

“E perché mai, con tutte le belle donne che si trovano a Firenze?” rise l'altro.

Salviati approfittò di quella battuta di dubbio gusto per alzarsi, scusandosi: “Permettete? Ho ricordato solo ora di avere un impegno.”

“Vorrei ricordarvi che questo Medici – interloquì Cappegli, con un sorriso malevolo – è lo stesso che ha fatto esiliare vostro cognato!”

Facendo finta di non aver nemmeno sentito, Jacopo salutò ancora gli altri e poi lasciò l'osteria a passo svelto, evitando di guardarsi alle spalle.

 

Rinieri della Sassetta, quando aveva visto l'esercito fiorentino schierato nella piana di San Regolo si era sentito mancare.

Aveva subito mandato una staffetta rapida a chiamare gli aiuti pisani, in modo tale da mettere almeno in minoranza numerica i nemici, e poi aveva deciso per un attacco.

Mentre caricava la marcia, però, i suoi occhi nascosti dalla celata avevano visto uno strano stemma, che non riconobbe immediatamente, proprio alla testa della colonna nemica: una vipera che sembrava quella viscontea unita a una rosa d'oro.

Appena dietro lo stendardo, in sella a un poderoso cavallo da guerra, Achille Tiberti, nel vedere avanzare i veneziani, diede voce ai suoi che, primi tra tutti i soldati di parte fiorentina, si lanciarono all'attacco.

“Aspettate!” gridò alle sua spalle Ranuccio da Marciano, ma Tiberti, che aveva avuto ordini precisi e voleva a tutti i costi mettersi in mostra, tanto con la sua signora, quanto con Firenze, finse di non aver ascoltato e, spada in pugno, guidò i suoi fino all'impatto.

La battaglia, sotto al sole rovente del 20 maggio, imperversò per ore, tanto da dare il tempo al provveditore veneziano Tommaso Zeno di arrivare sul campo assieme ai rinforzi.

Achille, che ancora non si era del tutto ripreso da una brutta caduta da cavallo successo un paio di mesi addietro, era stato disarcionato e combatteva ormai da appiedato. Aveva perso lo scudo e l'elmo, ma aveva recuperato una mazza chiodata che, assieme al suo spadone, gli stava facendo un gran servizio.

Tuttavia, le sorti dello scontro sembravano segnate. I fiorentini erano pochi e qualcuno cominciava a scappare, mentre la parte veneziana contava su un contingente fresco e ben armato.

Ranuccio da Marciano, nel cuore della battaglia, lanciò un urlo. Malgrado il fracasso che lo attorniava, Tiberti lo sentì distintamente, tanto da distrarsi e prendersi un forte colpo in testa che gli fece perdere i sensi.

Ranuccio, una mano al fianco, dove una lancia nemica aveva trovato lo spiraglio tra le placche dell'armatura, era piegato su se stesso. Non era molto lontano da Rinieri della Sassetta e così, approfittando di un momento di calma che gli si era creata attorno, smontò di sella e, lasciando il cavallo libero, camminò a fatica fino al comandante dell'esercito nemico.

Rinieri diede un segno ai suoi e così fece anche Ranuccio. I soldati si fermarono tutti, nel giro di pochi minuti, in attesa di vedere cosa sarebbe successo tra i loro comandanti.

Ranuccio si piazzò davanti all'altro, che stava ancora in sella al suo cavallo da guerra. Chinò il capo e poi, cercando di non gemere per il dolore dovuto alla ferita, gli porse in modo plateale lo stocco e un guanto, in segno di resa.

Rinieri della Sassetta non trattenne una risata e, levandosi l'elmo, prese i due simboli della disfatta nemica e urlò: “Fateli tutti prigionieri!”

 

Caterina si svegliò di colpo, sudata fradicia e con il fiato corto. Il solito odioso incubo l'aveva tormentata anche quella notte. Ormai non c'era volta che non si svegliasse a quel modo prima dell'alba.

Il fantasma di Ludovico Marcobelli la stava tormentando come non mai e non riusciva a togliersi dalla testa che parte della colpa fosse il nome che lei e Giovanni avevano dato al figlio. Era stata una scelta ragionata, dalle forti connotazioni politiche, che per certi versi aveva già dato i suoi frutti, visto il modo in cui il Moro si era ammorbidito nei loro confronti. Tuttavia, più il tempo passava, più la Sforza si convinceva che non fosse stata una scelta giusta.

Il Medici, al suo fianco, dormiva. Gli era venuto un sonno più pesante, rispetto ai primi tempi che stavano insieme. Solo un anno prima, nel sentire la moglie mettersi seduta tanto di scatto, il Popolano si sarebbe svegliato all'istante.

Quella minor reattività, aveva suggerito il dottore, una volta mentre parlava con la Tigre, poteva voler dire tutto e niente. Però Caterina era stata certa, dal suo tono, che non fosse secondo lui un buon segno.

La donna guardò per un po' il marito addormentato. La luce della luna gettava strane ombre sul suo viso, rendendo il suo naso più affilato di quanto non fosse e le sue guance più scavate.

Siccome nella sua testa l'immagine di Giovanni, placidamente preda del sonno, e quella di Ludovico Marcobelli, morto in terra e coperto di sangue, continuavano malignamente a sovrapporsi, la Sforza decise di uscire per un po' dalla stanza, per prendere aria.

Non si vestì troppo, valutando che la notte non fosse poi molto fredda, e poi si chiuse con delicatezza la porta alle spalle.

Vagò per un po', passando dalle balconate interne fino ai camminamenti. Si intrattenne a parlare con qualcuno dei soldati, in particolare con il Capitano Rossetti, che era di guardia, facendo domande puntuali sull'arsenale che stava mettendo insieme.

Quando fu stanca di parlare di armi, visto che mancava ancora troppo all'alba per pensare di starsene in giro per la rocca fino al mattino, Caterina imboccò la strada per tornare da Giovanni.

Mentre lo stava facendo, però, sentì nel corridoio silenzioso risuonare altri passi oltre ai suoi. Si voltò, curiosa di sapere chi fosse, in quell'ala della rocca, e non si stupì più di tanto nel riconoscere il profilo di Ottaviano.

“Rientri a quest'ora?” gli chiese, vedendo, non appena il giovane passò sotto una delle torce a muro, come avesse indosso ancora gli abiti del giorno prima.

Il figlio si fermò sul colpo e la guardò per un lungo istante, indeciso su cosa rispondere. Si sistemò distrattamente una ciocca dei lunghi ricci dietro l'orecchio e poi schiuse appena le labbra.

L'espressione un po' colpevole e un po' spaventata che campeggiava sul viso lungo del ragazzo fece perdere la pazienza alla madre, che rivide ancora una volta il suo primo marito nei tratti del suo primogenito: “Eri al bordello? Hai picchiato a sangue altre donne? Hai usato loro violenza? Sei fiero di quello che fai?”

Il Riario abbassò lo sguardo, senza dire nulla. Sua madre aveva ragione, era stato in uno dei postriboli di Forlì, ma quella sera non era riuscito a combinare proprio niente. Aveva la testa confusa, molto più del solito, e sapere che presto sarebbe dovuto partire per la guerra lo terrorizzava tanto da avergli tolto perfino la rabbia che di norma riversava sulle ragazze che gli capitavano a tiro.

Nel frattempo la Tigre, fissando il figlio, non riusciva a smettere di pensare a quello che Bernardi le aveva detto il giorno prima. Era passata dalla sua barberia più per dovere che non perché ne avesse bisogno e il Novacula le aveva subito riferito cose che non avrebbe voluto sentire.

Le aveva detto che Ottaviano era stato visto infastidire un paio di giovani popolane, nelle settimane prima, e che si diceva che ormai le donne di strada non gli bastassero più.

Quelle dicerie, che la Sforza non aveva avuto il coraggio di verificare, le avevano aperto scenari nuovi e le avevano fatto pensare in modo più serio a quello che suo figlio stava facendo. Oltre all'orrore per la perpetrazione della violenza che era stata un tratto proprio di Girolamo, era probabile che Ottaviano avesse anche già dei figli.

Così, quando Caterina si era trovata a passare davanti a uno dei bordelli e aveva visto una delle ragazze uscire in strada con un neonato al collo, si era sentita sprofondare all'idea che forse, in una di quelle case, stava crescendo un suo nipote.

“Quando mi farete partire?” chiese dopo un po' il giovane, ritrovando la voce e dando finalmente fiato a un tormento che gli toglieva anche il sonno: “Perché io... Io non sono pronto. Io non so nemmeno come... Io sono ancora giovane, non...”

La Tigre, che si sentiva in procinto di esplodere, volle trattenersi. Se si fosse messa a gridare in quel corridoio, avrebbe svegliato tutta Ravaldino. Non voleva più dare simili spettacoli.

Così, con un gesto repentino, lo prese per la collottola e gli sibilò: “Vieni con me.”

Spaventato, Ottaviano si lasciò trascinare fino alla sala delle armi. Guardò impotente la madre che accendeva qualche torcia in più e poi prendeva dal tavolo una spada.

Quasi temendo che volesse sgozzarlo, il Riario socchiuse gli occhi, mentre gli si avvicinava. La risata glaciale che gli giunse alle orecchie, però, gli fece capire che aveva sbagliato valutazione.

“Se hai paura di me, come pensi di sopravvivere in battaglia?” gli chiese la madre.

Ottaviano ammutolì ancora di più, ma Caterina non vi diede peso. Senza che il figlio si capacitasse davvero di quello che la Contessa stesse facendo, la donna prese a elencargli qualche trucco e suggerimento.

“E quando devi colpire un uomo in armatura – proseguì, dopo quasi mezz'ora di spiegazioni – evita di colpirlo di punta. Ti faresti solo male.”

Il giovane ascoltava, annuendo di quando in quando, malgrado tutto attento come un grillo, conscio del fatto che quei suggerimenti fossero preziosi e che la madre non glieli avrebbe ripetuti.

“Il modo più rapido per arrivare al cuore di un uomo – disse infine la Tigre, con in mano un pugnale – non è colpirlo qui.”

Ottaviano abbassò lo sguardo, mentre la Leonessa appoggiava la punta del pugnale sulla parte sinistra del suo petto.

“Se fai così, debole come sei, rischi di impattare con una costa e storcerti il polso e basta.” spiegò la Contessa: “Mentre se infili la punta qui, appena sotto allo sterno...”

Il ragazzo trasalì, nel sentire la punta del pugnale contro il punto di passaggio tra torace e addome.

Per un istante, solo un soffio, ma sufficiente a farlo sudare freddo, sentì la madre premere un po' di più, tanto da fargli un piccolo buco sul giubbetto.

Poi, però, la pressione diminuì e la donna parlò con voce dimessa: “Spingi verso l'alto. Troverai meno resistenze e gli aprirai il cuore senza fatica. Sarà morto prima che si accorga che l'hai colpito.”

Ottaviano guardò di traverso la lama che si allontanava dal suo corpo e si permise di tornare a respirare solo quando la Leonessa abbassò del tutto la punta del pugnale.

Il ragazzo stava per fare un'obbiezione, esporre un pensiero angoscioso che lo perseguitava fin da quando si era reso conto che sarebbe dovuto partire davvero.

Come leggendogli nella mente, nel vedere il suo smarrimento, Caterina sussurrò: “Non chiedermi se uccidere un uomo è difficile.” la donna deglutì e poi, con la voce un po' strozzata, precisò: “In fondo l'hai già fatto, dovresti saperlo. Non avrai impugnato tu le armi che hanno passato le sue carni, ma Giacomo me l'hai ucciso tu.”

Il Riario aprì la bocca, prese aria a fatica, il petto stretto dalla morsa della paura, come sempre quando ripensava alla congiura che lui stesso aveva animato, e poi, appena prima che riuscisse a dire qualcosa, la madre gettò di nuovo il pugnale sul tavolo e lo fissò un istante, zittendolo. Era più alto di lei. Era alto almeno quanto lo era stato Girolamo, prima che si ingobbisse un po', schiacciato dal peso del suo vizio di mente. Non lo si poteva definire brutto, ma la trascuratezza e l'inquietudine avevano reso il suo viso e il suo corpo privi di ogni freschezza.

Abbassando le difese, senza nemmeno volerlo, la Contessa sentì il bisogno di abbracciarlo. Lo strinse a sé con forza, perfino con violenza, finendo per fargli quasi male. Nonostante ciò, il ragazzo non fece nulla per tirarsi indietro, anzi, dopo un primo momento di sbigottimento, si chinò un po' e le sue braccia, che aveva tenuto lungo i fianchi, si alzarono, quasi in automatico, restituendo l'abbraccio alla madre, con altrettanta forza e slancio.

Caterina gli mise una mano sulla nuca, facendo sì che lui avvicinasse l'orecchio alle sue labbra e gli sussurrò: “Non farti ammazzare. Mi è costato troppo, tenerti in vita fino ad adesso.”

Di scatto, con altrettanta violenza di quando l'aveva abbracciato, la Tigre lo lasciò, inducendolo anche a fare qualche passo indietro con una piccola spinta.

“Non farmi pentire di averti risparmiato tre anni fa.” soggiunse, tirando su col naso e non riuscendo più a guardarlo.

Ottaviano annuì appena, incapace di parlare e poi rispose con un cenno del capo al saluto secco della madre. La guardò uscire dalla sala delle armi e poi rimase immobile per un po', sotto la luce incerta delle torce.

Si appoggiò lentamente al tavolo con una mano, sentendo solo in quel momento le gambe farsi molli. Quello che era appena accaduto tra lui e sua madre era per il giovane Riario una cosa difficile da elaborare.

Da quando era nato, aveva sempre e solo cercato un contatto con lei, eppure, ogni volta che credeva di esserci riuscito, si era reso conto di averlo fatto nel modo sbagliato.

Gli stava dando un'altra possibilità. Probabilmente l'ultima. Non voleva deluderla ancora. Voleva, anzi, sapeva di poter far sì che si ricredesse su di lui.

Si prese la testa tra le mani, cominciando a piangere in silenzio. Poteva, era vero, ma quanto sarebbe stato difficile? Lui non era nato per la guerra. Non voleva andare in battaglia. Non voleva morire.

Finite le lacrime, si asciugò le guance e poi si disse che voleva sopra ogni altra cosa l'amore di sua madre. E se per farlo avesse dovuto uccidere o essere ucciso, allora lo avrebbe fatto.

   
 
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