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Autore: Grell Evans    19/03/2018    1 recensioni
Artemisia, giovane infermiera, vive una vita tormentata da ricordi dolorosi dei quali non riesce a liberarsi.
Marco, infermiere anche lui, è perdutamente affascinato da quest'anima perduta.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Sentì la sveglia suonare e disturbare quel poco sonno che aveva fatto fatica a prendere. Allungò la mano verso il pavimento cercando il telefono che continuava a squillare, portandola sulla retta via per una fantastica crisi isterica alle cinque del mattino. Si affrettò a lavarsi e a mettere in sesto il proprio viso con un po’ di trucco; disegnò le sopracciglia fine e tondeggianti, delineò l’eyeliner su entrambi gli occhi e passò il mascara sulle sue ciglia nere e incurvate. Sorrise alla sua immagine riflessa nello specchio del piccolo bagno e osservò l’outfit. Gonna in tulle e corsetto nero, stivali in pelle nera e borchie abbinati a un’ampia borsa a cartella, ovviamente nera. Non era certo l’abbigliamento che una personale ‘normale’ avrebbe indossato per il primo giorno di lavoro ma se ne fregava totalmente del giudizio degli altri riguardo al modo di vestirsi. Si sentiva bene indossando capi neri e stravaganti e niente poteva convertirla ad uno stile bon ton sui toni del rosa e del bianco. Prese le chiavi e si avviò verso la macchina, pronta per partire.
Parcheggiò in un posto riservato al personale e rimase affascinata dall’enormità del policlinico: moderno già dall’esterno la allettava tantissimo; edifici alti e larghi formano una sorta di enorme quadrato diviso in più blocchi dove ognuno ospitava un padiglione. Era arrivata con mezz’ora in anticipo e con una discreta calma si avviò verso il suo nuovo posto di lavoro. Tirò dritto verso una stradina piccola che la portò verso un lungo vialone alberato. Lesse “V padiglione” e a seguire “Medicina interna”; era arrivata.
Delle graziose panchine precedevano l’ingresso, salì quei pochi scalini e si ritrovò in un corridoio che dava verso alcune sale d’attesa adiacenti agli ambulatori. L’ascensore era già al piano e schiacciò il pulsante che segnava il numero due. Lo stomaco cominciò a dolerle ma resistette, non voleva mangiare, era troppo presto.
“Buongiorno.” - sussurrò entrando nella prima stanza che trovò segnata come ‘stanza infermieri’. 
Due donne si voltarono, fissandola stralunate. “Buongiorno a te, chi sei?” mi rispose la più alta tra le due alzando un sopracciglio.
“Artemisia Lynch, la nuova collega.”
“Ah, sei in borghese.” Soggiunse l’altra mentre chiudeva alcune compresse in una garza
Le guardò e le loro facce apparivano non molto contente di vederla. -Forse mi sbaglio- pensò.
“Beh, devo ancora capire dove sono gli spogliatoi e la mia divisa.” Richiamò la loro attenzione facendo qualche passo in avanti. Non fecero in tempo a fissarla un’altra volta che uno dei campanelli cominciò a suonare fortissimo e come due saette la sorpassarono ed uscirono dalla stanza.
Osservò l’ambiente intorno a lei curiosando un po’: due bei carrelli per la terapia sia orale che endovenosa erano sulla sua destra intervallati da un secchio per i rifiuti ospedalieri. Seguiva poi una grande scrivania con annesso computer e scartoffie, una poltrona apparentemente morbida era stata affiancata alla finestra che affacciava sul padiglione di fronte. Un bel lavandino, con tanto di specchio, era sistemato appena vicino la porta allineato ad un enorme armadio ben fornito di farmaci e ad una vetrinetta con fisiologiche, paracetamolo, glucosio al 5%, emoculture e molto altro.
“Alessia, Sara, buongior...”
Come una ladra colta di sorpresa si girò spaventata, assorta com’era nei suoi pensieri. Un uomo intorno al metro e ottanta si affacciò nella stanza, i suoi occhi azzurri sembravano due purissimi zaffiri. Non riuscì a dargli un’età precisa ma non gli attribuì più di trentacinque anni.
“E tu chi sei?”  disse guardandola dall’alto in basso, scrutando il suo abbigliamento gotico, sorridendo.
“Ahm, salve. Sono Artemisia Lynch, la nuova collega. Sto aspettando qualcuno che mi faccia capire dove devo andare per svestirmi e rivestirmi.” Sorrise a sua volta e gli porse la mano.
“Piacere mio, sono Marco De Rosa.” Mi strinse la mano e mimò un baciamano mentre lei lo ringraziò fingendo un mezzo inchino.
“La caposala mi ha raccomandato di darti la tua divisa, le chiavi dell’armadietto e di tutte le porte del reparto.” Le sorrise ancora mentre in un attimo raccolse le sue cose e gliele poggiò tra le braccia.


 
***

 
 
La divisa, di una bella punta di bordeaux, le piaceva tantissimo e trovò che le stesse molto meglio di quella bianca dell’altro ospedale. Uscì dall’ascensore e trovò Marco ad aspettarla.
“Ti va un caffè per dare una botta intensa a questa giornata?”
“Ma sì, la colazione ancora non l’ho fatta quindi non è male come idea.”
“Splendido, allora seguimi che faccio strada.”
La cucina era piccola, fatta unicamente per contenere un tavolo, un lavabo con fornelli annessi e un frigo di medie dimensioni.
“Benvenuta nella nostra super lussuosa cucina che, a confronto, quelle di Master Chef possono accompagnare solo.” Disse allargando le braccia come a mostrare un’opera d’arte.
Timidamente entrò e prese il bicchiere di plastica con il caffè caldo. Lo sorseggiò e si accorse che era amarissimo.
“Puoi chiederlo lo zucchero se vuoi e guarda, solo per questa mattina, puoi anche fare il latte e caffè.” Le porse i diversi contenitori facendole l’occhiolino avendo notato la sua espressione disgustata.
“Grazie, non volevo chiedere troppo.” Rispose assemblando la sua colazione.
“Non diventeremo poveri per dello zucchero e mezzo bicchiere di latte.”
Annuì e sorseggiò la sua bevanda fissando la finestra che affacciava dallo stesso lato di quella della stanza infermieri. Marco aveva già finito il suo caffè e si apprestò a gettare il suo bicchiere nel cestino quando Alessia e Sara imboccarono in cucina.
“Marco! Finalmente sei qui, che bello vederti!” urlò Sara baciandolo sulle guance, guardandola con la coda dell’occhio mentre Alessia riproponeva lo stesso gesto. Alzò un sopracciglio e sembrarono non notarlo, per loro fortuna. Non riuscì a capire cosa c’era da fare le lascive e le gatte morte. Era appena arrivata e già sentiva di stare sulle palle a qualcuno. Meraviglioso, tanto ricambiava la sensazione.
Si alzò e si diresse in corsia dove il lungo corridoio ospitava otto stanze con due letti ognuna, per un totale di sedici letti. La fila di destra ospitava gli uomini mentre quella di sinistra le donne.
-Non è male come disposizione- pensò mentre raggiungeva le prime due camere, una dedicata alla biancheria e alle scorte di presidi sanitari e l’altra riservata alla raccolta di biancheria usata e ai rifiuti ospedalieri, con annesso lava padelle.
Ritornò in stanza infermieri alla ricerca della consegna infermieristica per capire un po’ cosa accadeva durante la notte e farsi una vaga idea del comportamento notturno dei pazienti ospitati.
“Tutti hanno riposato quindi niente problemi notturni, effettuata terapia.” Esordì Marco alle sue spalle. La spaventò un’altra volta, ma fece finta di niente.
“Potevano anche scrivere i cognomi dei pazienti, non credi? Non si capisce nulla.” Propose mostrandogli la scarsa pagina e mezza scritta dalle colleghe. Lui fece spallucce, come se non l’avesse mai notato e chiuse il quaderno rubandoglielo dalle mani.
“Non farti il sangue amaro per queste piccolezze. Sei appena arrivata.”
Lo guardò confusa. Aveva solo fatto un’osservazione costruttiva e non una polemica sterile.
“Non ti piace sentire critiche?” gli domandai alzando un sopracciglio.
“Se non mi riguardano no. Se ti disturba un comportamento va’ dal diretto interessato. Le trovi al piano meno uno, dovrebbero essere ancora nello spogliatoio.” Le rispose intento a preparare gli stick per la glicemia.
Lei non disse niente perché sentiva che non aveva tutti i torti, così rimase a fissarlo mentre bagnava i batuffoli di cotone con il disinfettante.
“Capisco di essere bello, ma se inizi a guardarmi così spudoratamente...” Disse in tono ironico porgendole la vaschetta con l’occorrente preparato, facendole intendere il finale.
“Ti stavo solo osservando, che modestia.” Rispose afferrando il contenitore sorridendo.

 

 
***

 
 
Decise di annotare sul registro dei parametri vitali le evacuazioni, le diuresi e le temperature che aveva precedentemente appuntato sul suo blocchetto che aveva sempre, fin dai tempi dell’università, nella tasca posta in alto a sinistra della casacca.
“La signora al letto otto ha segnato qualche antipiretico?” domandò mentre segnava il numero trentotto nella casella giusta.
“Mh sì, ha del paracetamolo al bisogno.” le rispose Marco consultando la scheda unica di terapia.
Lo guardò aprire la vetrinetta, prendere il flacone, inserire il deflussore nell’apposito buco e far scorrere un po’ di farmaco fino ad eliminare tutta l’aria. Sentì alcune gocce bagnarle il viso e in una frazione di secondo realizzò che Marco la stava schizzando con la flebo.
“Smettila che appiccica!” disse ridendo, cercando di nascondere il viso dietro le mani.
“Addirittura, per due goccioline hai bisogno di difenderti? Ti porto uno scudo così eviti lo tsunami!” imitò una grossa onda con le braccia e poi uscì diretto verso la stanza infondo al corridoio.
-Chissà come fa ad avere sempre quel sorriso dipinto in faccia-  pensò. -è quasi surreale-
Si accarezzò gli avambracci, passando con delicatezza sulla lira che si era tatuata a vent’anni poco sotto la piega del gomito. Sorrise al ricordo di quella giornata con il suo ragazzo e la sorella. Una pazzia partorita nel bel mezzo di una passeggiata al centro commerciale qualche settimana prima del suo compleanno. Lui e la sorella non avevano paura, anzi erano super entusiasti all’idea di tatuarsi, lei invece aveva più timore della reazione dei suoi genitori che di altro. Si rattristì mentre il ricordo diventava più intenso e le lacrime istintivamente cominciavano a riaffiorare; non voleva piangere quindi tirò indietro la testa cercando di respingerle.
“Ti mancavo così tanto?” esordì Marco avvicinandosi.
Lei lo guardò con un’espressione indecisa tra il sorriso e la tristezza. Come se non sapesse se rispondere a quelle parole con ironia o con un racconto deprimente sul suo passato, così decise di rimanere in silenzio.
“Capisco. Una storia brutta lunga e triste, non è vero?” incalzò lui osservando il tatuaggio sull’avambraccio sinistro di lei. “Non l’avevo notato.” disse indicandolo.
Provò a formulare una frase ma dalla sua bocca non uscì alcun suono e nel frattempo i pensieri continuavano ad affollarsi nel suo cervello come incastrati. Incastrati tra la voglia di non parlarne e l’intenzione di liberarsi di un peso troppo grande.
“Scommetto che non hai voglia di parlarne.” continuò lui controllando le schede di terapia. “Prima o poi, con chiunque tu voglia, dovrai liberarti di ogni dolore e parlarne. Non ha senso accumulare dolore, su dolore, su dolore.” I suoi occhi azzurri tornarono a guardarla. “Si vede che soffri.”
“Non mi conosci...” ebbe solo il coraggio di rispondergli intrecciando le dita in un gesto nervoso.
“È vero. Ma basta soffermarsi un attimo di più sul tuo viso per capire che non sei felice. I tuoi occhi sono un libro aperto che nessuno per stupidità o indifferenza non ha mai voluto leggere.”
“Ne parliamo dopo il turno, se hai tempo da dedicarmi, sennò un’altra volta...” gettò l’invito senza pensarci. Infondo aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno e Marco, anche se lo conosceva da sole quattro ore, sembrava un buon ascoltatore e consigliere. Lo vide sorridere e notò una fossetta formarsi sull’angolo destro delle sue labbra. Era un sì.
 


 
***

 
 
Marco la stava aspettando seduto su una delle panchine appena fuori il padiglione. Indossava una camicia bianca messa all’interno di un paio di pantaloni blu e delle sneakers bianche.
“A cosa devo tutta questa eleganza?” disse in modo ironico scendendo i pochi gradini.
“E io a cosa devo tutta questa trasgressione?” rispose altrettanto ironicamente rivedendo il suo outfit.
“C’è un ristorante nei dintorni molto carino, dove si mangia bene, se ti va possiamo iniziare la nostra conversazione lì.”
“Andiamo a piedi?” approvò lei avviandosi sul viale.
“Beh, è qui vicino quindi direi di sì.” Ribatté lui mettendosi al suo fianco.
 
Scelsero un tavolo vicino alla vetrata; la giornata era bella e soleggiata, il cielo chiaro e senza nuvole trasmetteva un senso immediato di libertà.
“Dunque, io inizierei dalle presentazioni, visto che sappiamo solo il cognome e il nome l’uno dell’altra. Comincia pure.” esordì lui sistemandosi l’orologio sul polso destro.
“Mi chiamo Artemisia Lynch. Ho una sorella gemella e un fratello più grande. Lavoro da circa cinque anni da quando mi sono laureata e posso dire di essere stata fortunata. Ah, dimenticavo, ho ventisette anni.” bevve un sorso d’acqua e si asciugò le labbra con il tovagliolo.
“Breve ma interessante. Io ho trentadue anni e sono nato e cresciuto qui. La vita in città mi ha stufato e a un certo punto della mia vita ho deciso di trasferirmi vicino al mare. Amo viaggiare, tremendamente.” concluse lui spostando le posate più a destra.
“Marco De Rosa... sembra più un nome da medico che da infermiere.” aggiunse lei giocando con il bicchiere.
“Dici?” sorrise. “I medici non sono dei bei tipi.” continuò lui.
“C’è sempre l’eccezione, non credi?”
“Lo credo.”
Vennero interrotti dall’arrivo della cameriera che consegnava loro i primi piatti.
“Hai un grazioso anello all’anulare. La tua dolce metà sarà d’accordo con questo tuo pranzo in compagnia?” la guardò mentre masticava un boccone dei suoi maccheroni alla carbonara.
Artemisia portò lo sguardo sul suo solitario che indossava sulla mano destra. “Non sono sposata.” soggiunse tagliando un piccolo pezzo della sua bistecca.
“Non era questa la domanda.” rise. “Hai l’anello dalla parte opposta e comunque neanche io lo sono, se può esserti di conforto.”
Sentiva l’ansia salire alle stelle e non capiva perché. Marco la stava mettendo a proprio agio e lei di rimando si stava chiudendo nel suo guscio protettivo ed autodistruttivo. Si concentrò sull’osso della carne come a sfogare la sua frustrazione.
“Okay.” decise che era il caso di iniziare il discorso. Doveva smettere di fare la bambina e cominciare a costruire questo monologo e liberarsi. Era lì per quello.
“Stamattina, mi hai trovata sull’orlo del pianto per una ragione. Quando guardo il mio primo tatuaggio mi tornano nuovamente in mente il mio fidanzato Vladimir e la mia gemella Devonne.”
“Capisco.”
“Una notte di quattro anni fa stavamo tornando a casa dopo aver mangiato come dei maiali al ristorante. Vlad non aveva bevuto, cosa che faceva sempre quando sapeva di dover guidare. Una macchina ha pensato bene di sorpassare entrando sulla nostra corsia, coinvolgendoci in un incidente frontale. Devonne è morta sul colpo...” si fermò. Sentiva un grosso nodo alla gola tipico di quando sopprimeva i singhiozzi dovuti al pianto.
“Vladimir è morto in ambulanza. Aveva la gabbia toracica sfracassata e non è potuto scampare all’arresto respiratorio.” fece un’altra pausa bevendo un sorso d’acqua. Intanto la cameriera portò il conto e vide Marco pagare per entrambi. La sua espressione era piuttosto contrariata ma lui sembrò non notarla.
“Andiamo.” si alzò e si avviarono fuori il locale. Attraversarono la strada e tornarono nel parcheggio dell’ospedale. Lei lo seguì, intuendo il motivo.
“Non mi sembrava il luogo adatto per una conversazione simile. Troppo andirivieni, siediti.” disse indicandole il sedile di una moto sportiva nera come la notte più buia mai vista. Lei tentennò.
“Forza non morde, è la mia. Continua pure.” sorrise immaginando il perché della sua esitazione.
“Io ho riportato un trauma cranico importante. Ero in coma quando sono arrivata in ospedale e ci sono rimasta per due settimane. Svegliarmi è stato terribile perché appena è accaduto sentivo un peso enorme sul petto, avvertivo che qualcosa non andava ma non credevo minimamente che la mia vita sarebbe cambiata per sempre. Le due persone più importanti della mia vita erano morte ed io ero l’unica sopravvissuta a quell’incidente.” Cominciò a piangere e forse non se ne rese neanche perfettamente conto. Rivoli di lacrime scendevano come piccoli affluenti verso il suo collo facendola sentire tremendamente fragile. Sentì la mano di Marco cingerle la testa e attrarla verso il suo petto mentre l’altra le carezzava la schiena.
“Sfogati, piangi, urla se vuoi. Tenerti dentro tutto questo dolore ti logora e non ti permette di iniziare nuovamente a vivere. Non puoi restare rinchiusa in questa gabbia di solitudine e di ricordi, devi essere felice anche per loro perché i tuoi occhi sono anche i loro adesso, come ogni tua emozione e sensazione. Ricordali con amore e vivi.”
  
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