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Autore: Grell Evans    21/03/2018    1 recensioni
Artemisia, giovane infermiera, vive una vita tormentata da ricordi dolorosi dei quali non riesce a liberarsi.
Marco, infermiere anche lui, è perdutamente affascinato da quest'anima perduta.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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-Oggi il mare è stranamente calmo- pensò Marco guardando fuori dalla finestra. Le poche nuvole in quel cielo azzurro lo invitavano a tuffarsi tra le onde blu incurante dell’acqua gelida. Dopo essere tornato a casa il giorno precedente sentiva come un piccolo fuoco nel petto, come se qualcosa si fosse risvegliato dentro di lui. Era una sensazione scomoda, che non l’aveva fatto dormire come desiderava, come quando cominciano a formicolare le mani o i piedi e si fa fatica ad arrestare quella percezione. Solo a tarda notte era riuscito ad assopirsi; la troppa stanchezza aveva avuto la meglio anche sul suo cervello. Vide lo schermo del cellulare illuminarsi. Un messaggio. Lesse il nome ‘Celeste’ in alto e maledisse il primo santo che gli apparve in mente. Lei si divertiva a tornare e a sparire a suo piacimento, non curante che la sua vita scorresse ugualmente senza di lei, non curante che nel profondo questo gioco aveva in teoria smesso di infastidirlo, in pratica ancora lo indisponeva.
“Che ci fai qui?” disse aprendo la porta della piccola villetta.
“Ti ho portato la colazione, non mi ringrazi?” esordì lei varcando l’ingresso, sgusciando verso il salotto.
La osservò posare il vassoio della pasticceria sul tavolo, accomodarsi sulla sedia e accendersi una sigaretta.
“Fai con comodo.” questo fare da padrona in casa sua lo infastidiva terribilmente.
“Vuoi cacciarmi Marco? Ne avresti il coraggio?” incalzò lei aspirando una boccata di fumo.
“Non potrei, Celeste?” si fermò a guardarla qualche secondo. Il suo atteggiamento era sempre più insopportabile. “Sparisci così come sei entrata. Questa storia mi ha stufato, tutto mi ha stufato. Tu non hai alcun potere sulla mia vita, quindi prima che perda la pazienza ti prego di uscire e di finirla di tormentarmi con le tue incursioni giornaliere.” il suo tono era visibilmente alterato ma cercò di non far sfociare quella conversazione in una raccolta di urla.
La vide alzarsi e sistemarsi il tubino nei pressi delle cosce. Afferrò la borsa e si avviò verso la porta d’ingresso.
“Bastava dirlo che non mi vuoi più.” proferì lei mantenendo un’aria dignitosa ma sull’evidente punto di crollare. “Hai un’altra?” suggerì, fissandolo dritto negli occhi.
“No Celeste. Mi sono solo stancato dei tuoi giochetti. Non puoi divertirti con la vita degli altri usando le persone come scarpe vecchie. Nessuno ti deve niente. Io non ti devo niente.” rispose impassibile. Lei si accorse di quella freddezza e una lacrima solcò il suo viso, segno di una sconfitta.
 

 
***

 
 
Era rimasta a crogiolarsi tra le lenzuola, liberandosi di ogni pensiero. Aveva la mente vuota e la sensazione di oscillare nel nulla la tranquillizzava fortemente. Sentiva gli uccellini cantare fuori dalla finestra, un dolce vento soffiava delicato carezzandole la pelle. Quando iniziavano queste giornate si sentiva completamente a proprio agio nel mondo, come se fosse l’ultimo tassello mancante e perfetto di un puzzle. Poi i pensieri tornavano fieri e pesanti nella sua testa come a ricordarle che nulla avrebbe evitato di farla smettere di pensare e che solo un evento avrebbe potuto porre fine a tutto quel ciclo. Decise ormai di alzarsi, prese il telefono e si diresse in cucina dove si affrettò a versare in un bicchiere del succo alla pesca. Sua madre l’aveva chiamata già due volte e non volle richiamarla; non voleva parlarle perché non le era mai piaciuto farlo. Da adolescente perfino la odiava per tutto il male che aveva fatto a lei e a sua sorella, per l’eccessivo senso di protezione, per le continue vessazioni verbali e talvolta fisiche, per le sue fisime mentali che non le erano mai andate giù. Il loro legame non era mai stato il classico madre-figlia, anzi. Per lei i suoi genitori erano come delle scelte obbligate che tutti fanno perché è giusto così, perché tutti ce li hanno e allora li hai anche tu. Non ne sentiva un bisogno viscerale, senza di loro non stava male, piuttosto si sentiva in una profonda pace quando meno li sentiva. Si sforzava di capire cosa l’avesse portata a quel distacco tremendo fin dall’adolescenza ma nulla le appariva come la conclusione giusta. Alla base c’era la mancanza d’affetto, l’assenza totale di un punto di riferimento. Percepiva sua madre come un essere che dava ordini e che odiava essere contradetto, con il quale era impossibile confidarsi perché tutto ai suoi occhi appariva come una grande sciocchezza. Una biblica cazzata che non aveva alcun tipo di peso e sulla quale non valeva la pena discutere. Quindi fondamentalmente era cresciuta sentendosi una persona senza un minimo di importanza, con l’autostima sotto i piedi che non valeva nulla per nessuno perché neanche per sua madre lei aveva un valore.
Vladimir le aveva sempre consigliato di ignorarla, che prima o poi avrebbe smesso di sgridarla e rimproverarla, ma niente sembrava porre fine alla sua scontentezza. Andava sempre tutto male; quando chiamavano dei parenti raccontava sempre di quanto lei e Devonne la facessero arrabbiare e di quanto dovesse subire il loro menefreghismo. Per sopravvivere aveva eretto un muro, dove qualsiasi cosa negativa, sì, rimbalzava ma inevitabilmente la feriva e andava ad aggiungersi alle altre piaghe precedenti.
Pensò di farsi una doccia, rilassante e fresca, così da lenire quei ricordi difficili da dimenticare. Aprì l’acqua, si svestì della canotta e del pantaloncino nero che usava come pigiama, e si gettò nella cabina. -Chissà dove diavolo è Loris- chiese a sé stessa frizionando lo shampoo tra i capelli. Non vedeva suo fratello da diversi anni, più o meno da quando l’ultima volta era venuto a trovarla in ospedale, poi si era volatilizzato come il pulviscolo atmosferico che prima noti e poi non vedi più. -Dannato Loris- continuò a rimuginare strofinando lo scrub sulle braccia. “Maledetto.” sussurrò sull’orlo di una crisi di pianto. “Perché mi hai lasciata sola anche tu?”
 

 
***

 
 
Sentì qualcuno fischiettare e si accorse che era proprio Marco che si apprestava ad uscire dall’ascensore pronto per iniziare il turno.
“Ciao Artemisia.” disse avvicinandosi e baciandole delicatamente le guance.
Lei ricambiò il saluto e sorrise. “Ehi, buon pomeriggio.”
“Ciao ragazzi buon lavoro!” dissero in coro due voci provenienti dall’imbocco delle scale.
“Grazie, ci vediamo domani!” urlò Marco per entrambi, alzando una mano simbolicamente in segno di saluto.
“Carlo e Francesca sono davvero delle persone deliziose.” esordì lei con un timido sorriso.
“Non posso non essere d’accordo.” rispose dando una leggera occhiata ai fogli della consegna. “Come ti senti oggi?”
“Neutra e un po’ apatica, ad essere sincera.” il suo sguardo si posò su di lei, penetrante e indagatore.
“Nonostante non ti conosca affatto l’avevo intuito.” un leggero sorriso gli decorò il viso.
Artemisia sorrise di rimando perché non poteva fare diversamente.
Prepararono la terapia insieme; Marco si occupò della terapia orale mentre lei di quella endovenosa. Adorava diluire i farmaci fin dal suo primo tirocinio: ovviamente la prima volta le mancava la manualità e riusciva a stento ad aspirare i diversi contenuti dai flaconi.
“Sai” disse interrompendo il silenzio. “Durante la mia prima esperienza in reparto mi è esploso un antibiotico mentre lo stavo inserendo in una siringa. Ha impuzzolentito tutta la stanza per non parlare di quanto erano diventate appiccicose e puzzolenti le mie mani.” cominciò a ridere piano come quando si ricordano dei momenti buffi e poi li racconti ai tuoi amici che non potranno capirti.
“Ah, sì?” incalzò Marco guardandola. “Non avevo dubbi.”
“Ma come?! Che stronzo!” urlò ridendo abbandonando la siringa e tirandogli uno schiaffo sul braccio.
 
 


***
 


“Sai è sempre stato difficile per me esprimere le mie emozioni, soprattutto durante l’adolescenza.” afferrò la sigaretta gentilmente offerta da Marco e l’accese.
Lui la guardò, mentre aspirava un po’ di fumo. I suoi occhi la invogliavano a continuare, curiosi di scoprirla.
“Tutt’ora parlarne comporta per me un grande sforzo perché il mio cervello continua a sussurrarmi che forse al mio interlocutore non importa niente di chi sono e di cosa ho passato. Quindi me ne sto zitta e la finisco così.” osservò il viso di lui tranquillo e rilassato.
“Un metodo troppo disfattista per affrontare la vita.” aggiunse Marco fissando all’orizzonte il sole che tramontava. Una nuvola rada di fumo uscì dalle sue labbra dischiuse, dileguandosi in pochi secondi.
“Tu come la affronti la vita?” gettò lì la domanda a bruciapelo.
Lui la guardò e rivelò un sorriso mesto. “Io?” domandò. “Ho imparato a perdonare me stesso per il male che mi sono fatto fare da chi pensavo mi amasse e non ha fatto altro che ferirmi.” aspirò nuovamente socchiudendo gli occhi. “Vedi, non è importante che il diretto interessato lo sappia. Sei tu che devi trovare la pace perdonandoti.”
“E ci sei riuscito?” proseguì lei sfiorandosi il mento con la mano come per appoggiarci su il viso.
“Perdonare un padre anaffettivo che non ti ha mai regalato una carezza in tutta la tua vita né un abbraccio e una madre assillante fino al midollo con la tendenza soffocare ogni tua indole? Posso solo dirti una cosa piccola Artemisia. Non è un percorso facile ma piuttosto contorto, complesso e a tratti doloroso. Fare i conti con sé stessi è la battaglia più difficile senza la quale la guerra non potrà mai essere vinta. Rischi tutto, compresa la sanità mentale e l’unica cosa che avrai in cambio sarà la vera libertà, non quella del corpo ma quella dello spirito.” la sigaretta era quasi finita, consumata anche un po’ dal vento.
Lei assorbì quelle parole come una spugna cattura l’acqua saponata, riflettendo sul senso che queste avrebbero potuto assumere nella sua vita. Erano frasi enigmatiche, alcune più chiare, ma il segreto era tutto lì in quel vago alone di mistero. L’essenza del cambiamento consisteva nella ricerca costante di un senso che avrebbe mutato lentamente la sua vita.
“Ti vedo turbata.” disse lui piano.
“Probabilmente è così.” rispose lei sospirando. Aveva smesso già da tempo di mentire su come si sentiva; se si notava tanto valeva accettare la cosa, senza stare a negoziare sul suo stato d’animo.
“Non ti piace ‘sta cosa vero?” aggiunse spegnendo la sigaretta calpestandola con la scarpa.
“Che non mi piace è riduttivo, la odio profondamente.” asserì lei osservando il mozzicone rotolare fino all’ultimo gradino.
“Cos’è che ti piace allora?” domandò lui cercando i suoi occhi verdi in quel viso pallido, circondato da lunghi capelli neri.
Lei si ritrovò a guardarlo di rimando incontrando l’azzurro dei suoi occhi, così penetranti e profondi.
“Mi piaceva essere amata e considerata l’unica donna per il mio uomo. Mi piaceva essere un punto di riferimento per mia sorella e per gli altri e...  adoravo uscire con il mio gruppo di amici. Costatando che la maggior parte di questi elementi ora non ci sono più, direi che la lista si è quasi del tutto annullata.” un sorriso rassegnato comparve sul suo volto. I ricordi erano la peggiore cosa che potesse rattristirla e ci riuscivano sempre benissimo. “Sai, vorrei tanto non essere sopravvissuta. È diventato un enorme peso per me vivere con la consapevolezza di aver perso gli unici due elementi che mi tenevano in vita. Ho perso Devonne e Vladimir in un modo così ingiusto e inaspettato che volevo suicidarmi appena tornata a casa. Avrei voluto aprire l’acqua nella vasca da bagno, riempirla, per poi immergermi e tagliarmi le vene. Volevo galleggiare nel mio stesso sangue perché non meritavo di vivere senza di loro. Erano le mie rocce ed io il castello costruito su di loro, ma quando una frana porta via le fondamenta è quasi impossibile che tutto ciò che c’è costruito sopra rimanga in piedi. Ebbene sono ancora qui, perché sono una codarda e non ho il coraggio di togliermi la vita.” non pianse perché non voleva, era stufa di versare lacrime ogni maledetto giorno.
 “Non sei codarda... hai solo voglia di vivere.” commentò Marco continuando a guardarla. “Vieni.” le strinse la mano e la trascinò nel parcheggio diretto verso la sua moto.
“Tieni, indossalo.” le porse il casco e indossò il suo. “Salta su.”
Artemisia lo guardò stupita. Aveva una paura fottuta delle moto fin da adolescente ma calzò il casco ugualmente. Decise che il timore non l’avrebbe più fermata, che avrebbe vinto questa piccola e insignificante battaglia seppur per lei significasse tantissimo.
“Dove andiamo?” domandò lei montando sul sedile e stringendosi timidamente alla schiena di lui.
“In un posto magico, che durante la sera lo è ancora di più.”
Sentì il motore riscaldarsi e accendersi, la moto partì a una velocità sempre più crescente. Il vento le scompigliava i lunghi capelli neri e una forte emozione cominciò a crescere dentro di lei come un piccolo fuoco appena acceso che a mano a mano prende piede.
“Guarda dritto di fronte a te.” urlò marco indicandole l’orizzonte scuro dove il cielo e la terra non si distinguevano più.
Percepì l’aria frizzantina tipica delle zone di mare e il profumo della salsedine che le pizzicava le narici. A poco a poco che si avvicinavano alla costa il rumore del mare, in quella notte silenziosa, si faceva sempre più chiaro come una canzone fatta partire allo stereo. Era davvero una sensazione magica, che non provava da tanto tempo. Lasciò per alcuni attimi il busto di Marco, che ancora guidava sulla lunga strada principale a pochi passi dal mare, e liberò le braccia verso il cielo accogliendo tra le mani il vento e diffondendo nell’aria un urlo liberatorio.
Marco parcheggiò la moto a qualche metro dal mare perché la sabbia già prendeva il sopravvento sull’asfalto. Erano arrivati in un piccolo quartiere zeppo di villette dove la maggior parte delle persone passavano unicamente l’estate. Poi c’erano quelli come Marco che avevano deciso di viverci durante ogni stagione dell’anno.
“Grazie.” disse lui dopo essersi tolto il casco e aggiustato alla meglio i capelli biondi.
“E di cosa?” rispose lisciandosi la chioma nera con uno sguardo curioso.
“Ti sei fidata di me e questo vale molto.” un sorriso apparve sul suo volto illuminandolo come una stella meravigliosa fa risplendere un cielo buio.
Proseguirono la serata passeggiando sul lungomare, a qualche centimetro di distanza l’uno dall’altra come per mantenere un rispetto reciproco dei propri spazi. Giunsero poi in una spiaggia libera e decisero che avrebbero continuato a parlare lì.
Marco si apprestò a sedersi a qualche metro da dove le onde del mare terminavano il proprio corso per poi tornare indietro, facendo segno ad Artemisia di sedersi. Rimasero per diversi istanti in silenzio, cullati dal rumore del mare calmo come fosse una ninna nanna, a pensare a chissà cosa ognuno per conto proprio.
“Vorrei tanto essere un’onda.” sussurrò lei disegnando nella sabbia dei ghirigori.
“Ah, sì?” si voltò verso di lei per osservare, per quanto permesso dall’oscurità, tra i bagliori della luna, l’espressione di lei. Traeva da quella penombra una sentita malinconia che le sue parole non mascheravano di certo.
“Libera da ogni emozione e sentimento e vivere così; senza uno scopo e senza una meta, spostata a piacimento dal vento.” alzò la testa volgendo lo sguardo alla luna piena che si rifletteva magnificamente sullo specchio dell’acqua.  “Sento di aver bisogno di qualcosa che mi stravolga la vita in modo così violento da spedire tutti i ricordi tristi e dolorosi nei posti più reconditi della mia mente, così da poter iniziare da capo un’altra volta.” strinse le ginocchia al petto poggiando su di esse la testa rivolta verso di lui.
“E se l’unica cosa di cui tu avessi davvero bisogno fosse il ritrovare te stessa?” suggerì Marco aprendo il pacchetto di sigarette estraendone due. “Ti sei solo persa e hai smarrito la via. Prendi in mano la bussola, ritrova il nord e presto la strada ti sarà familiare e luminosa.” accese la sigaretta e porse quella ancora spenta ad Artemisia.
“Io forse la mia strada non l’ho mai trovata.” disse lei aspirando un lungo tiro dal filtro.
“Comincio a pensare che nel profondo questa sensazione di smarrimento tu non la voglia abbandonare. È come se ormai la ritenessi parte di te.” si sdraiò sulla sabbia fredda con le braccia dietro la testa. “Sei così diversa da tutte le persone che ho incontrato finora. Nel tuo non voler emergere tra la folla tu spicchi ugualmente; il tuo aspetto gotico affascina anche solo guardandoti di sfuggita ma più di tutto è come se tu emanassi un’energia diversa, una sorta di magnetismo.” una modesta nuvola di fumo emerse dalle sue labbra e sparì dissolta dal vento in un attimo.
“Cos’è un complimento?” domandò Artemisia mentre cercava di liberarsi dalla cenere che pendeva dalla sigaretta.
“Anche.” si limitò a rispondere Marco facendole cenno di sdraiarsi al suo fianco e dopo qualche attimo di esitazione si accomodò anche lei tra la sabbia a pochi centimetri da lui. Rimasero a guardare la volta celeste per quasi un’ora in silenzio, consumando quel poco tabacco che rimaneva, illuminati dalla luna e da quella miriade di stelle sopra di loro.
“Abbracciami.” sussurrò Artemisia accoccolandosi vicino al suo petto. “Per favore.” sembrò quasi una supplica, ma nascosta dietro a un muro di delicata dolcezza.
Marco rimase colpito da quella richiesta perché in parte non se l’aspettava e poi nessuno gli aveva mai chiesto di essere abbracciato; di solito era una cosa che veniva naturale e per la quale non c’era bisogno di chiedere. Quindi la strinse a sé, carezzandole i lunghi capelli neri contaminati dalla sabbia, stampandole un soffice bacio sulla fronte.
  
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