Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Old Fashioned    22/03/2018    13 recensioni
L'Ordine Templare sta attraversando una profonda crisi: i possedimenti in Terra Santa sono perduti, e la sua funzione di difensore della fede sta venendo meno.
Da una delle ultime zone di combattimento contro gli infedeli, un cavaliere viene richiamato in Francia, destinato a una commenda apparentemente tranquilla e pacifica. Allo stesso tempo, un cavaliere Teutonico non particolarmente ligio agli ordini viene inviato al castello di Metz, poco lontano dalla commenda in questione, e un giovane nobile di un feudo nei dintorni desidera disperatamente entrare nell'Ordine Templare. I destini di questi tre personaggi si incroceranno con quello del celebre ordine del Tempio, ed essi saranno testimoni degli eventi terribili che cominciarono con la fatidica data del 13 ottobre 1307.
Seconda classificata al contest "Leggende, Luoghi misteriosi e Miti" indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP.
Prima classificata al contest "Raccontami una Storia" indetto da milla4 sul forum di EFP
Genere: Azione, Drammatico, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Cari lettori e care lettrici,
ecco un’altra orrenda mappazza per voi, spero che non mi odierete troppo.
Ringrazio come sempre tutti coloro che sono passati di qui. Come solito, un ringraziamento speciale va a chi mi ha gentilmente commentato, ovvero Saelde_und_Ehre, Jon Spangler, alessandroago_94, syila, queenjane, evelyn80, mystery_koopa, Rose Ardes, Enchalott, molang e _Polx_






Capitolo 4

Gwenel percorse per l'ennesima volta la stanza in cui aveva trascorso la notte, poi andò alla finestra e si rizzò sulle punte dei piedi per guardare fuori. Finalmente era comparso il vago chiarore che precede l'alba, e già i fratelli di mestiere stavano cominciando a svolgere i primi compiti della giornata.
C'era più fermento del solito, in realtà, perché presso la commenda si trovavano alcuni ospiti: un Cappellano e il Luogotenente del Gran Maestro che avrebbero dovuto officiare la sua investitura, più tutto il loro seguito. Se ne sentì quasi in colpa. Ormai aveva imparato a conoscere fratello Geffroy, perlomeno nelle sue caratteristiche più salienti, e poteva solo immaginare quanta agitazione e preoccupazione gli causasse quello che sarebbe di lì a poco successo.
In effetti, lui stesso era agitato e preoccupato. Di non essere degno di ciò che stava chiedendo, principalmente. Di dare cattiva prova di sé, di rivelarsi una delusione per fratello Roland.
Ripensò al ruvido guerriero che si era accollato l'onere di ultimare la sua preparazione: per quanto tutti i cavalieri dal manto bianco gli sembrassero meravigliosi e solenni, gli era chiaro che fratello Roland, nel bene e nel male, a Vaux era un lupo in mezzo ai cani.
Era una creatura selvatica, torva, spesso chiusa in silenzi impenetrabili. L'aveva visto raramente sorridere, ma la sua non era la puntigliosa acrimonia di fratello Adrien, per il quale niente era mai come sarebbe dovuto essere. Dava piuttosto l'idea di tristezza ardente, che come una fiamma lo rendeva luminoso ma al tempo stesso inesorabilmente lo consumava.
Pensò che nonostante il dolore interiore che sembrava tormentarlo, avrebbe voluto essere come lui.
Rivolse lo sguardo al crocifisso, appeso al centro di una parete completamente bianca. Teoricamente avrebbe dovuto trascorrere il suo tempo pregando. Avrebbe dovuto invocare Cristo e la Vergine Maria.
La verità era che ogni volta che ci provava, il suo pensiero cominciava a saettare in ogni direzione, sottraendosi alla sua volontà come un cavallo riottoso.
Quando la situazione si fece insostenibile, andò alla porta e la schiuse. Si affacciò all'esterno: nessuno sembrava fare caso a lui. Non sapeva se gli fosse permesso abbandonare la stanza, ma era certo che non sarebbe riuscito a rimanere tra quelle quattro mura un istante di più.
Quasi non ricordava più l’entusiasmo che l’aveva pervaso all’inizio. Come un prato fiorito che viene coperto da una tardiva nevicata, esso era stato nei giorni raggelato da un tormentoso senso d’inadeguatezza.
A ogni momento sentiva su di sé il peso di ciò che stava per fare, delle aspettative che gli altri nutrivano nei suoi confronti, e di quelle che lui stesso aveva per la vita che da lì in poi avrebbe condotto.
Fece qualche passo all'esterno: l'aria era ancora fredda, le superfici conservavano l'umidità della notte. La porta della chiesa era aperta e da dentro proveniva una luce. Sorella Agathe stava lavando il pavimento, e intanto canticchiava a bassa voce.
Passarono due fratelli di mestiere, trasportando una tavola di legno su cui erano disposte delle forme di pane bianco ponte per il forno; l'addetto alle cantine uscì reggendo con cautela un'anfora impolverata.
Gwenel se ne sentì più che mai in colpa: tutto ciò stava accadendo a causa sua. Immaginò il commendatario a fare i conti delle spese straordinarie e dei mancati guadagni causati dall'impiego dei fratelli di mestiere per allestire la cerimonia. Continuò a camminare, rabbrividendo nei suoi abiti leggeri. Si sentiva la testa pesante per la stanchezza della veglia notturna, ma al tempo stesso era pervaso da una smania che non gli concedeva requie. Ancora e ancora andava ai momenti in cui fratelli cavalieri che non aveva mai visto prima gli avevano fatto visita, e gli avevano posto domande sulla sua vita passata, e su quello che si aspettava dalla sua vita futura. Si chiedeva se le sue risposte fossero state giuste, se avessero fatto buona impressione.
Nessuno del resto gli aveva dato suggerimenti su come e cosa rispondere, nemmeno fratello Roland, che sulla cerimonia di investitura era stato paradossalmente il più reticente di tutti.
Si accorse infine di aver preso il sentiero che conduceva al vigneto. Raggiunse quello che sapeva essere il luogo favorito del suo mentore, ovvero le rovine della chiesa, e lì si sedette su una pietra in attesa del sorgere del sole.

Fratello Roland scivolò silenziosamente fuori dal dormitorio. Già il primo lattiginoso chiarore della giornata cominciava a delimitare i contorni delle cose, e nel cortile si udivano le voci e i passi dei fratelli di mestiere.
Andò alla porta che dava sull’esterno e la socchiuse. Fuori c’era Gwenel che passeggiava a capo chino, con le mani allacciate dietro la schiena. Persino con quella poca luce riuscì a cogliere la sua espressione preoccupata.
Si ritrasse. Probabilmente aveva ragione fratello Friedrich: quello non era il momento di raggiungerlo, né di mostrarsi soccorrevole e rassicurante come un bravo precettore. Il ragazzo doveva bere fino alla feccia l’amaro calice, assaporare fino in fondo l’orribile solitudine di chi è chiamato a prendere una decisione irrevocabile e a sopportarne per sempre le conseguenze.
Tornò al dormitorio. Nella luce tenue della fiammella ormai morente, i suoi confratelli coperti dalle coltri bianche gli ricordarono corpi avvolti nei sudari. Si sedette sul proprio letto, appoggiò la schiena alla parete e si circondò le ginocchia con le braccia.
Inspirò gonfiando il torace più che poteva, poi lasciò andare l’aria in un lungo sospiro.
A quel punto, fratello Séverin si girò verso di lui e a bassa voce gli chiese: “Per caso vuoi diventare un suonatore di olifante?”
Fratello Roland si voltò verso di lui. “Cosa?”
Sei preoccupato?”
No, io...”
L’altro abbandonò le coltri e si alzò in piedi, poi gli disse: “Vieni, andiamo di là.”
Lo condusse nella stanza attigua, in modo da non disturbare i confratelli ancora addormentati, poi gli chiese: “Che c’è, temi che il ragazzo possa ripensarci?”
Forse vorrei che lo facesse.”
Fratello Séverin lo fissò stupito. “Perché mai vorresti una cosa del genere, dopo essertelo tenuto sotto l’ala come una specie di chioccia per tutto questo tempo? Hai paura che ti faccia sfigurare?”
Fratello Roland scosse la testa. “No, è un bravo ragazzo.”
E allora di cosa hai paura? Temi che dopo l’inconvenientia sarà arrabbiato con te?”
L’inconvenientia è necessaria,” si limitò a replicare l’altro.
Fratello Séverin si grattò perplesso la testa. Dalla sua espressione era chiaro che riteneva di aver passato in rassegna tutte quelle che considerava possibili cause del malumore del confratello. Lo fissò sconfitto. “E allora cosa c’è?” si risolse a chiedergli.
L’altro si strinse nelle spalle. “Non lo so,” ammise. “È come un macigno che ho sul cuore, e neppure io riesco a capire che cosa sia. Forse dovrei confessarmi.”
Beh, giusto, fallo,” gli rispose fratello Séverin sollevato. “Svuota il mastello, ripulisciti dentro. Vedrai che dopo ti sentirai meglio.”
Fratello Roland scosse la testa. “Temo che non sia così semplice.”
Per qualche istante i due rimasero immobili, prestando un orecchio distratto ai rumori della commenda che pian piano si svegliava, poi fratello Séverin disse: “Invece è semplice, fratello. Cosa c’è di complicato nella nostra vita? Dobbiamo servire e pregare, tutto qui.”

§

Due cavalieri ammantati di bianco comparvero sulla soglia della stanza in cui Gwenel attendeva. “È l’ora,” annunciò uno di essi.
Il ragazzo si alzò in piedi in silenzio. Non aveva mai visto nessuno dei due, e questo contribuiva ad aumentare il suo disagio. Ancora una volta si chiese se stesse facendo tutto bene, se stesse dando buona prova di sé. Tentò di ripassare mentalmente le parole che avrebbe dovuto dire, ma nell’agitazione gli sembrava di avere una tabula rasa al posto del cervello.
Venite con noi,” disse il cavaliere, quindi gli girò le spalle e prese ad allontanarsi con andatura misurata.
Gwenel deglutì. Raggiunse la soglia e per un po’ rimase fermo a cercare con lo sguardo fratello Roland. È già in chiesa, si disse ansioso, deve essere già in chiesa.
Si voltò verso l’edificio: le due ante del portone erano spalancate, e da dentro proveniva il chiarore di innumerevoli candele.
Tutt’intorno c’erano mantelli bianchi, e qua e là qualche abito nero da sacerdote. I sergenti e i fratelli di mestiere osservavano da rispettosa distanza.
Raggiunse la chiesa e vi entrò. Fu attraversato da un onda di sollievo nel momento in cui scorse fratello Roland.
Come gli avevano insegnato, percorse la navata e si inginocchiò dinnanzi all’altare, coperto per l’occasione da una tovaglia ricamata. Giunse le mani, e cercando di non far tremare la voce si rivolse al cappellano dicendo: “Signore, sono venuto davanti a Dio, davanti a voi e davanti ai fratelli, e vi prego, vi imploro per Dio e per Nostra Signora, di accogliermi nella vostra compagnia e di farmi partecipe dei benefici della casa.”
Il sacerdote, un uomo alto, imponente, con una lunga barba grigia, prima di rispondere lo fissò grave. Infine disse: “Amato fratello, tu chiedi molto, perché del nostro Ordine non vedi che la scorza che è al di fuori. La scorza che tu vedi sono i nostri bei cavalli e le nostre armature; vedi che mangiamo e beviamo bene e abbiamo begli abiti, e per questo credi che con noi starai bene. Ma tu non sai quali dure regole vigono all’interno: perché è cosa dura per te, che sei nato signore, dover diventare servo altrui. Perché d’ora in poi non farai più ciò che desideri. Infatti, se vuoi stare di qua dal mare ti si manderà di là, se vuoi andare ad Acri ti si manderà in terra di Tripoli, o di Antiochia o di Armenia, oppure nelle Puglie o in Sicilia o in Lombardia o in Francia o in Borgogna o in Inghilterra o in molte altre terre dove abbiamo case e possedimenti. E se vorrai dormire ti si farà vegliare, e se qualche volta vorrai vegliare, ti si farà andare a riposare nel tuo letto. E quando sarai a tavola e vorrai mangiare, ti si comanderà di alzarti e di andare dove un altro vorrà, e tu non saprai mai dove. Le dure parole di rimprovero che tante volte ti saranno rivolte, dovrai sopportarle. Ora considera bene, dolce fratello, se potrai sopportare tutte queste difficoltà [1].”
Gwenel deglutì e dovette fare uno sforzo per mantenersi immobile con le mani giunte, perché nel caldo della chiesa piena di candele si sentiva avvampare, e aveva l’impressione che il sudore gli scendesse a rivoli sul volto. Con voce roca rispose: “Sì, signore. Le sopporterò se così vuole Dio.”
Il sacerdote riprese: “Amato fratello, non devi chiedere di entrare fra noi né per possedere ricchezze, né per stare negli agi, né per raccogliere onori. Devi invece chiederlo per tre cose: l’una, per abbandonare il peccato di questo mondo; l’altra, per servire Nostro Signore; la terza, infine, per essere povero e fare penitenza per salvare la tua anima.”
Prima di rispondere, il ragazzo cercò con gli occhi fratello Roland. Di nuovo si sentì vacillare per il calore e la mancanza d’aria, e ruppe la sua rigida posizione appoggiando una mano al pavimento.
Ti senti bene, fratello?” gli chiese qualcuno.
Sentì delle mani afferrarlo e sostenerlo.
Sto bene...” mormorò, mentre un’ineffabile sensazione di pace lo invadeva. Non chiedeva altro, in effetti, che quella comunione di spiriti, quell’attenzione reciproca. “Sto bene,” ripeté con voce più ferma. Si raddrizzò e giunse nuovamente le mani.
Il sacerdote annuì e chiese: “Vuoi essere, d’ora in avanti, per tutti i giorni della tua vita, servo e schiavo della casa?”
Gwenel si volse ancora fugacemente verso fratello Roland. Cercò il suo sguardo, ma il cavaliere lo teneva fisso in avanti. “Sì, a Dio piacendo, signore,” rispose, questa volta con voce ferma.
Vuoi anche rinunciare alla tua volontà, d’ora in avanti e per tutti i giorni della tua vita, per fare ciò che ti si ordinerà?”
Sì, a Dio piacendo, signore.”
L’altro annuì grave e lo scrutò attento, come per valutare in anticipo la saldezza dei suoi propositi, quindi concluse: “Ora esci, e prega Nostro Signore che ti consigli.”
Gwenel si alzò in piedi e percorse la navata in senso opposto. Si ritrovò all’esterno, e l’aria fresca di nuovo lo fece sentire talmente leggero che fu costretto ad appoggiarsi al muro con la mano per mantenere l’equilibrio.
Una voce attirò la sua attenzione: “Ce l’avete quasi fatta.”
Il ragazzo si voltò. “Fratello Olivier?”
Siete sempre deciso?” chiese il cavaliere.
Sì, certo che lo sono.”
L’altro rimase in silenzio per qualche istante, quindi in tono mellifluo soggiunse: “Siete ancora in tempo a rinunciare, sapete?”
Gwenel aggrottò le sopracciglia e lo fissò perplesso. “Perché mi state consigliando di rinunciare?” gli chiese.
Fratello Olivier scosse la testa con un sorrisetto di superiorità. “Non vi sto consigliando proprio nulla,” rispose, “Vi sto solo facendo sapere che nel caso decidiate di ripensarci, siete ancora in tempo.”
E questo l’avevo capito,” replicò il ragazzo. “Quello che non mi è chiaro è perché me lo stiate dicendo. Pensate che io non sia adatto all’Ordine del Tempio?”
Oh, voi siete indubbiamente adatto. Ma vedrete, vi aspetta una bella sorpresa.”
Prima che Gwenel potesse chiedergli a cosa si riferisse, un cavaliere uscì dalla chiesa per richiamarlo.
Il ragazzo tornò all’altare e di nuovo si inginocchiò e giunse le mani. Lo prese la vertigine di poco prima, ed egli si sentì come fluttuare, investito dal calore dei ceri e dall’odore pungente dell’incenso. Cercando come sempre di mantenere ferma la voce, si rivolse al sacerdote: “Signore, vengo davanti a Dio, davanti a voi e davanti ai fratelli, e vi imploro, per Dio e Nostra Signora, di accogliermi nella vostra compagnia e di ammettermi spiritualmente e temporalmente ai benefici della casa, come colui che vuole essere servo e schiavo della casa, ora e per sempre.”
L’uomo annuì grave e chiese: “Sei ben deciso, amato fratello, a essere servo e schiavo della casa, a lasciare la tua volontà personale per sempre e fare quella altrui? Vuoi sopportare tutte le durezze che sono in uso nella casa ed eseguire tutti gli ordini che ti verranno impartiti?”
Sì, signore, a Dio piacendo.”
Per l’ennesima volta cercò lo sguardo di fratello Roland. Il cavaliere lo stava fissando, ma non sembrava avere un’espressione soddisfatta. Dava piuttosto l’idea di essere turbato, o teso. Si chiese se avesse fatto qualche errore, se l’avesse in qualche modo scontentato, e le parole di fratello Olivier gli risuonarono in mente: siete ancora in tempo a rinunciare.
Si morse il labbro inferiore, si accorse che il sacerdote gli stava dicendo qualcosa. Levò imbarazzato gli occhi verso di lui.
Dicevo, fratello: Hai una sposa o una fidanzata, che potrebbe reclamarti con il diritto della Santa Chiesa?”
Gwenel scosse la testa. “No, signore.”
Hai servito in un altro Ordine? Hai pronunciato voti o promesse?”
No, signore.”
Alle spalle del sacerdote di fece avanti un cavaliere che reggeva solennemente una stoffa bianca ripiegata. In un angolo di essa si notava qualcosa di rosso.
Il ragazzo ebbe un tuffo al cuore: quello era il mantello.
Nonostante ogni suo proposito di fermezza, la testa cominciò a vorticargli. Si rese conto che gli venivano poste altre domande, alle quali rispose d’istinto, senza riuscire a staccare gli occhi dal prezioso indumento.
Infine, in preda a un’emozione che minacciava di sopraffarlo, tremante e col volto in fiamme, ascoltò dalle labbra del sacerdote la formula di accoglimento nell’Ordine: “Noi, in nome di Dio e della Vergine Maria, di San Pietro e del pontefice romano nostro padre, e di tutti i fratelli del Tempio, ti ammettiamo a tutti i benefici della casa. Ti promettiamo pane e acqua, e la povera veste della casa, e molta pena e lavoro.”
A quel punto l’uomo gli fece cenno di alzarsi, quindi prese dalle mani del cavaliere la cappa bianca con la croce scarlatta, gliela pose sulle spalle e gliela allacciò al collo: era un Templare.
Intorno a lui, tutti intonarono il salmo Ecce quam bonum et quam iucundum habitare fratres [2].
Successivamente fu recitato un Pater noster.
Conclusa anche quella preghiera, si fece avanti fratello Geoffroy, lo prese per le spalle e si piegò a baciarlo sulla bocca [3].
Ancora frastornato, esausto, ebbro di gioia, fratello Gwenel si sentiva abbracciare e dare pacche sulle spalle da ogni parte. Fuori suonavano le campane, i fumi dell’incenso erano più densi che mai.

Era ancora in quel trasognato stato d’animo quando fratello Roland lo afferrò per un braccio. “Vieni con noi,” disse in tono brusco. Assieme a lui c’era fratello Séverin.
Gwenel lo fissò, e il cipiglio del cavaliere raffreddò alquanto l’entusiasmo che l’aveva pervaso. “Ho fatto qualcosa di sbagliato?” chiese.
Vieni con noi.” ripeté l’altro evitando il suo sguardo carico d’apprensione.
Lo condussero in sacrestia, poi fratello Séverin chiuse la porta e si infilò la chiave nella scarsella. “E adesso baciami il culo, stronzetto,” gli disse.
Che cosa?” chiese il ragazzo stupefatto.
Ti ho detto di baciarmi il culo. Ora inginocchiati e obbedisci.”
Ma...”
Siamo tutti sodomiti, qui, non lo sai? E la Regola impone l’obbedienza, quindi se avrò voglia di scopare con te, tu non potrai rifiutarti.” Gli strizzò l’occhio con fare complice.
Il ragazzo arretrò bruscamente. “Che cosa significa questo?” Rivolse a fratello Roland uno sguardo che sembrava chiedergli aiuto, ma il Templare si limitò a mostrargli un crocifisso. “Rinnegalo tre volte,” gli ordinò in tono duro, “sputaci sopra, e poi fa quello che fratello Séverin ti sta ordinando. Hai sentito i discorsi sull’obbedienza, no? Credevi che fossero solo delle frottole per fare un po’ di scena?”
Io… non posso rinnegare Cristo,” ansimò. “Non posso farlo.” Scosse la testa, arretrando passo dopo passo. Si fermò solo quando arrivò con le spalle contro la parete. Fratello Roland lo raggiunse e gli disse: “Rinnega Cristo, avanti!” di nuovo gli mostrò la croce. “Te lo sto ordinando!”
Gwenel scosse la testa angosciato. Non riconosceva più il mentore in cui aveva imparato a confidare nelle ultime settimane: i suoi occhi erano accesi d’ira, brucianti. Il suo volto era una maschera feroce. “Ti ho ordinato di rinnegare Cristo, dannato moccioso!” ringhiò. “Cos’è, esegui solo gli ordini che ti piacciono?”
N-no, io…”
Un ceffone lo fece barcollare. “Rinnega Cristo per tre volte!” urlò fratello Roland afferrandolo per la veste, “Esegui l’ordine!”
Gwenel si accorse di avere le guance rigate di lacrime. “Roland, io...” balbettò.
L’altro gli diede un secondo violento manrovescio. “Fratello Roland, stronzetto! Credi di essere ancora nel castello di tuo padre? Credi di essere un principino? Qui non conti un cazzo, devi solo obbedire e stare zitto!”
E baciarmi il culo,” intervenne fratello Séverin, alzandosi la veste e mostrandogli le terga. “Anzi, già che ci sei, prendimelo anche in bocca. Tu devi essere uno che se la cava bene a succhiare il cazzo.”
Stupefatto, terrorizzato, indignato, fratello Gwenel arretrò brusco, sottraendosi all’incalzare degli altri due. Si buttò contro la porta e prese a percuoterla furiosamente col pugno. “Aiuto!” urlò. “Fratello Geoffroy, accorrete!”
Alle sue spalle, fratello Séverin ghignò. “Ma sentitelo, vuole il papà! Non è capace di difendersi da solo!”
Aiuto!” urlò di nuovo il ragazzo, poi si sentì strappare all’indietro da qualcuno che lo tirava per il mantello. Crollò al suolo, ma prima di riuscire a rialzarsi si trovò di fronte fratello Roland. Il suo sguardo bruciava come metallo fuso. “Sai quello che devi fare,” sibilò.
Il più giovane scosse la testa. “No, non voglio.”
Sei Templare da meno di cinque minuti e vuoi già disobbedire? È per questo che sei entrato nell’Ordine?” Imitò la sua voce, dandole però un’odiosa tonalità di falsetto: “Sì, a Dio piacendo, signore.”
Fratello Gwenel si asciugò la lacrime con mano tremante. “Ma… ma perché devo farlo?” singhiozzò.
L’altro lo afferrò di nuovo per i vestiti, lo strattonò in piedi. “Non c’è un perché, testa di cazzo!” sbraitò. “Quando ricevi un ordine devi obbedire, è chiaro? Devi obbedire!”
Accanto a lui, fratello Séverin in tono sprezzante constatò: “Questo qui è meglio che vada a fare il trovatore in qualche castello di effeminati. Con noi non ha niente da spartire.” Estrasse da uno stipo una statua di legno che rappresentava una specie di idolo barbuto, quindi aggiunse: “Dà un bacio a Bafometto, almeno, se non sei capace di fare altro.”
A… Bafometto?” Di nuovo il ragazzo fece guizzare lo sguardo smarrito dall’uno all’altro dei confratelli.
Obbedisci,” gli ingiunse fratello Roland.
Che cos’è quella statua? Che cosa significa?”
Il confratello lo fissò con durezza. “Tu fai troppe domande. Il tuo confratello più anziano ti ha appena dato un ordine, e tu non lo stai eseguendo.”
È un ordine blasfemo.”
Osi criticare?”
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia. “Che cosa significa tutto questo?” chiese per l’ennesima volta, “Volete farmi credere che l’ordine del Tempio sia un’accozzaglia di sodomiti eretici?”
Fratello Séverin gli diede uno spintone. “Attento a come parli, moccioso.”
Ma se siete stato proprio voi a chiedermi di… fare certe cose!”
Tu devi stare zitto e obbedire,” replicò l’altro, continuando a spintonarlo. “Obbedire, hai capito?”
Intervenne fratello Roland, che in tono duro gli disse: “Vuoi già perdere l’abito? Perché è questo che succederà, se non obbedisci.”
Ma mi stai chiedendo di rinnegare Cristo!”
Non te lo sto chiedendo, stupido moccioso, te lo sto ordinando! Capisci la differenza?”
Fratello Gwenel si trovò di nuovo con le spalle contro il muro, ansante, frastornato, con il cuore che minacciava di scoppiargli nel petto e brividi in tutto il corpo. In piedi di fronte a lui, i suoi confratelli lo stavano fissando con occhi di fuoco. Fratello Roland gli teneva il crocifisso davanti al viso. “Sputaci sopra,” gli ordinò.
Il ragazzo piegò la testa da una parte. “Non lo farò.”
A quelle parole seguì un silenzio raggelante. I due Templari più anziani rimasero immobili a fissarlo.
Fratello Gwenel sollevò adagio lo sguardo, lo fece guizzare dall’uno all’altro, ricevendone in risposta espressioni impenetrabili. Alla fine si slacciò il mantello e se lo fece scivolare giù dalle spalle, poi lo porse a fratello Roland. “Tieni,” gli disse.
Il maggiore non si mosse. “Credi che sia così facile?” gli chiese sprezzante. “Scusate, ho scherzato e ora me ne torno a casa mia? Credi che funzioni così?”
Ora sei un Templare,” intervenne fratello Séverin, “e le sanzioni seguono la Regola. Sarai imprigionato fino a che non deciderai di obbedire.”
Il ragazzo strinse i denti, ma non si mosse.
Ci fu un altro momento di immobilità carica di tensione, poi i due più anziani si scambiarono uno sguardo. “Io penso che possa bastare,” disse fratello Roland.
Sì, basta,” rispose fratello Séverin, “non c’è bisogno di strappargli anche i vestiti e sbaciucchiarlo da tutte le parti, altrimenti questo moccioso si caga addosso e comincia a invocare la mamma.” Raccolse l’idolo che aveva appoggiato su un mobile e lo ripose nello stipo. “Ecco che il vecchio Bafometto è tornato a casa,” ridacchiò.
Trasecolato, fratello Gwenel li fissava incapace di proferire parola.
Questa è una prova,” gli disse allora fratello Roland, “serve a far capire ai nuovi che quando si parla di vita dura e di obbedienza assoluta non sono solo vuote parole. Ora rimettiti il mantello che ti spiego il resto delle regole.”
Come sarebbe a dire?” chiese il ragazzo, senza abbandonare la sua posizione.
Hai capito benissimo. Questa è una prova, e tutti la devono passare.”
Mi hai insultato e picchiato.”
I saraceni ti farebbero di peggio. Essere Templare non significa leccare il miele, ricordatelo sempre. Significa sopportare e obbedire.”

§

Fratello Roland entrò nell’edificio del Capitolo. Ormai conosceva bene la strada per quello che aveva scoperto chiamarsi Tempio Nero, ed era in grado di percorrerla anche al buio.
Arrivò alla porta, che era già aperta, e discese adagio la scala umida.
Giù c’erano ad attenderlo fratello Geffroy e fratello Urbain, alla tenue luce di una candela. “Ebbene,” lo accolse il primo, “com’è andata oggi?”
Il più giovane si limitò ad aggrottare le sopracciglia.
L’inconvenientia è sempre spiacevole, ti capisco.”
Fratello Gwenel ne è rimasto molto turbato.”
Come è giusto che sia,” intervenne fratello Urbain. Poi, dopo una pausa: “Ti sei mai chiesto che significato abbia l’inconvenientia?”
So bene a cosa serve,” rispose fratello Roland. “Viene utilizzata per mettere alla prova i nuovi Templari, per valutare la forza del loro carattere.”
Fratello Urbain assentì col capo. “Anche,” concesse. “Mettere alla prova la debole mente non addestrata dei nuovi Templari può avere forse un'utilità pratica.” Lentamente si avvicinò all’altare e prese a sfogliare il libro che vi era posato sopra. “Come sempre, però, ci sono vari livelli di comprensione, fratello,” proseguì, lo sguardo fisso sulle pagine miniate, “ci sono significati nascosti, che solo lo studio permette di comprendere. Tu sai, per esempio, cosa significa il bacio sulle terga?”
Serve a far credere ai nuovi Templari che si troveranno in mezzo ai sodomiti, per vedere come reagiscono.”
Fratello Urbain scosse la testa come di fronte a una cosa molto ingenua. “No, no.” Addirittura gli aleggiò sul volto scavato un vago sorriso. “I saggi dell’Oriente insegnano che c’è un serpente addormentato alla base della spina dorsale. In questo serpente, che porta il nome di Kundalini, è insita una grande forza, che si manifesta se esso viene risvegliato.” Continuò a sfogliare le pagine una dopo l’altra, fermandosi alla figura di un uomo seduto a gambe incrociate, con fiori dai molti petali e dai vari colori dipinti lungo la colonna vertebrale, dall’osso sacro alla testa. “Questi, vedi, sono i Chakra,” disse fratello Urbain seguendoli col dito uno dopo l’altro. “Sono quegli elementi del corpo sottile nei quali è conservata l’energia divina. E qui,” picchiettò su una forma scura che si trovava all’altezza del coccige, “c’è la Kundalini addormentata. Ora, tu sai come si fa a risvegliarla?”
Fratello Roland scosse la testa in silenzio.
È l’alito di vita che la risveglia. Il respiro. Quello che viene adesso interpretato come bacio, in realtà non è altro che un soffio alla base della spina dorsale.” Indicò di nuovo la figura. “Il soffio della vita,” chiarì, “che risveglia la Kundalini e fa sì che essa scateni le sue energie.”
Capisco,” borbottò poco convinto il più giovane.
L’altro lo scrutò dubbioso. “No, tu adesso non capisci, perché non ne hai ancora gli strumenti. Ma avrai tempo per imparare.”
E lo sputo sul crocifisso, signore?” chiese allora fratello Roland. “È sempre quel vostro serpente che lo richiede?”
Altre pagine scorsero con un lieve fruscio. “E se io ti dicessi che quello che ti hanno sempre insegnato su Cristo non è vero?” chiese poi con uno sguardo astuto fratello Urbain. “Se ti dicessi che era un essere umano, perfetto ma mortale?”
Sarebbe eresia,” rispose in tono glaciale fratello Roland.
L’altro non parve molto turbato da quell’affermazione. “Sì, gli ignoranti potrebbero definirla tale,” rispose, poi lo fissò dritto negli occhi, e proseguì: “Ma noi rifiutiamo ogni rappresentazione fisica del divino, perché significherebbe svilirlo costringendolo nella materia bruta, e rifiutiamo la croce, in quanto odioso simbolo dello strumento di tortura usato per ucciderlo.” Si raddrizzò nella persona, e con voce solenne concluse: “Ecco perché sputiamo sulla croce, e perché rinneghiamo Cristo. Non sono che vuoti idoli, che distolgono dalla contemplazione della vera divinità.”
A quelle parole, fratello Roland rimase immobile. Fugacemente si chiese se anche quella che si stava svolgendo fosse una specie di inconvenientia, di tipo forse un po' più raffinato rispetto a quella normale, per valutare la sua forza d'animo in vista di qualche compito importante.
Ti sei mai chiesto perché i Templari possono confessarsi solo ai sacerdoti dell'Ordine?” lo riscosse fratello Urbain.
Queste cose non possono essere confessate a un sacerdote normale,” fu l'immediata risposta.
Di nuovo, l'altro non parve particolarmente impressionato. “La resurrezione della carne non esiste, l'intermediazione dei sacerdoti è inutile. L'individuo è solo nel contatto con Dio, e lo può raggiungere unicamente con un percorso personale di purificazione e conoscenza.”
Il libro si chiuse con un tonfo, lo spostamento d'aria fece tremare la fiammella della candela. “Dovrai imparare ancora molte cose,” disse fratello Urbain, “I principi dello gnosticismo e dell'ermetismo, il mitraismo, i precetti di base della qabbalah e dell'alchimia, la dottrina di Zoroastro. Colui che cerca, non cessi dal cercare, finché non trova. Quando troverà sarà commosso, e quando sarà commosso contemplerà e regnerà su tutto [4].”
Non capisco, signore.”
Capirai. Ora torna in camerata, e non fare parola con nessuno di quanto hai visto e udito.”

Quando fratello Roland se ne fu andato, gli altri due per un po' mantennero il silenzio. Infine, fratello Geoffroy chiese: “Continua a sembrarvi adatto, maestro?”
Più che mai. È bene che non ceda facilmente, le menti deboli sono influenzabili e prone alla paura.” Passò di nuovo la mano sulla rilegatura del libro, come per togliere un invisibile strato di polvere, quindi proseguì: “Ci serve qualcuno che sia intelligente e disciplinato, ma che abbia anche volontà e forza d'animo. Non deve cedere di fronte al primo che gli fa la voce grossa.”
Fratello Geoffroy si limitò ad annuire pensoso.
Fratello Urbain prese un pezzo di tela e lo stese sul libro, con un gesto che assomigliava a quello di una madre che stende una coperta sul figlio neonato. “Alle volte mi dispiace di non avere più tempo a disposizione,” sospirò. “Sarebbe davvero esaltante trasmettere tutte le conoscenze che abbiamo accumulato a quel cavaliere, e farne il guerriero perfetto.”
Il guerriero perfetto, maestro?”
Per prima cosa renderlo esperto di ogni dottrina ermetica, insegnargli i principi della geometria sacra e metterlo a parte dei segreti del Tempio di Salomone, e poi risvegliare la sua Kundalini, e renderlo in grado di padroneggiarne l'energia. Diventerebbe un guerriero invincibile.” Fece una pausa, durante la quale parve assorto in profonde meditazioni, quindi annunciò: “Devo vederlo combattere.”
Combattere? Intendete con le armi?”
Sì. Non basteranno le teorie, per quanto profonde, a salvare ciò che abbiamo accumulato. Saranno necessari il ferro e il sangue.”

§

Seduto al tavolo del suo studio, Fratello Geoffroy diede una scorsa a un foglio coperto di scrittura fitta e appesantito da numerosi sigilli, poi disse: “Sembra che alla fine il Siniscalco abbia deciso di dare seguito alla richiesta di quel cavaliere tedesco.”
Fratello Roland, in piedi davanti a lui, ebbe un tuffo al cuore, ma si guardò bene dal farlo trasparire. Si limitò a rimanere immobile, e fissò il foglio come se fosse stato completamente bianco.
Il commendatario proseguì: “Oggi andrai a Metz con la mula bianca. Quando sarai sulla strada del ritorno, ti fermerai presso il castello dei cavalieri tedeschi, e consegnerai al loro priore una missiva che io ti darò.”
Sì, signore.”
Speriamo solo che questa faccenda non crei troppa confusione,” sospirò l'altro tra sé e sé. Poi, a voce più alta: “Torna qui prima di partire, ti consegnerò la lettera per il priore del castello teutonico.”
Sì, signore,” rispose fratello Roland, ma non si mosse.
Fu fratello Geoffroy che dopo un po' alzò lo sguardo e chiese: “C'è altro, fratello?”
Ecco, signore, vorrei portare con me il nuovo confratello, in modo che possa cominciare a impratichirsi dei servizi che svolgiamo per il Tempio.”
Il più anziano annuì con energia. “Ma certo,” approvò, “molto giusto. Dirai a fratello Olivier che oggi andrai a Metz con fratello Gwenel.
Sì, signore.”
Come sta andando il nuovo fratello, dà buona prova di sé?”
Sì, certo, signore. Si impegna molto.”
Molto bene. Ora va', devo scrivere la lettera e ho bisogno di concentrarmi.”
Fratello Roland uscì, e percorrendo il corridoio del Capitolo non poté fare a meno di lanciare una fugace occhiata alla porta che conduceva al Tempio Nero, in quel momento serrata.
Talmente serrata, anzi, da far dubitare che fosse mai stata aperta.
Pensò che quella porta era un po' come fratello Geoffroy: umile e dimesso all'apparenza, ma nella sostanza custode di segreti inimmaginabili.
Uscì pensoso dall'edificio e vide che i servi stavano già preparando gli animali per il viaggio a Metz. Un garzone stava sellando il suo morello, altri due erano impegnati a bardare la mula bianca.
Era un po' inquieto all'idea di rimanere solo con Gwenel. Per quanto si fossero formalmente chiariti, capiva che il ragazzo non aveva ancora superato del tutto i fatti dell'inconvenientia.
Era diventato cauto, guardingo. Parlava raramente, e sempre osservandolo di sottecchi per spiare la sua reazione. Se poteva, evitava di rimanere da solo con lui.
Trovò il ragazzo in chiesa. “Va’ a metterti l’usbergo,” gli disse semplicemente, “Oggi andiamo a portare a Metz i guadagni della commenda.”
Gwenel si limitò ad annuire, poi si alzò dalla panca su cui era seduto e sempre in silenzio si allontanò.
L’altro preferì non seguirlo. Tornò in cortile, montò in sella e fece fare al destriero qualche passo sulla terra battuta, poi si piegò a controllare il sottopancia e lo tirò di un buco.
Quando si raddrizzò vide sopraggiungere fratello Gwenel in armi, con usbergo, spada ed elmo alla normanna. “Monta a cavallo,” gli ordinò, “e poi seguimi.”
Si allontanarono di qualche passo dai servi e dai fratelli di mestiere. “Adesso finiscila,” gli disse brusco quando furono a una distanza sufficiente, “la commedia è durata anche troppo.”
Il ragazzo gli rivolse uno sguardo di pietra. “Io mi fidavo di te,” replicò calmo.
E puoi ancora farlo.”
Dopo… quella cosa?”
Dì un po’,” lo aggredì fratello Roland in tono duro, “dove credevi di essere entrato, in un convento di Clarisse? Noi siamo soldati, prima che frati, e saper sopportare certe cose è necessario. Hai idea di cosa ti farebbero dei saraceni, se ti prendessero?”
Il più giovane rimase in silenzio.
Te lo dico io,” fu la brusca replica: “Se sei molto fortunato, ti decapitano e basta. Se invece non lo sei, prima ti torturano per giorni e giorni, e più a ungo duri, più loro si divertono. E poi, quando si sono stancati di sentirti urlare, ti uccidono.”
L’altro continuava a tacere.
Quindi, fratello Gwenel,” riprese fratello Roland spazientito, “a me non interessa se tu ti senti offeso e umiliato nel profondo. Hai voluto diventare un Templare? Comportati di conseguenza.”
Detto questo, spronò il cavallo e raggiunse i servi che stavano caricando la mula. “Si parte appena pronti,” disse a voce abbastanza alta da essere udito anche dal giovane confratello.

La strada per Metz era come sempre quasi sgombra di viandanti. Gwenel ricordava di averla percorsa qualche volta, in compagnia del padre e del fratello, ma era stato anni prima, e non riconosceva quasi nulla di ciò che lo circondava.
Il che poteva dirsi anche per tutto il resto: non riconosceva più nulla. Si era ripetuto fino all’ossessione che era solo una questione dei primi giorni, che doveva prendere confidenza con l’ambiente, che poi si sarebbe abituato, ma continuava nonostante tutto a sentirsi un pesce fuor d’acqua.
Aveva ricevuto delle frustate un venerdì mattina, dopo la riunione del Capitolo, e ancora non era riuscito a capire perché. Non c’era un codice scritto cui attenersi, del resto, solo il Gran Maestro e qualche alto dignitario ne possedevano una copia. Gli innumerevoli obblighi della vita monastica gli venivano comunicati giorno dopo giorno dai confratelli più anziani, ed era impossibile ricordarseli tutti.
Fratello Roland, sul quale aveva fatto affidamento fino al momento di prendere i voti, aveva rivelato un aspetto di sé che l’aveva spaventato a morte. Ancora non riusciva ad abbandonare la sensazione di disagio che lo coglieva quando aveva a che fare con lui.
Ricordava bene, del resto, il suo sguardo di fuoco, e la violenza che aveva messo nelle percosse che gli aveva inflitto. Ne aveva avuto la testa indolenzita per ore.
Chissà, forse aveva sbagliato, forse non era abbastanza duro per diventare un cavaliere del Tempio. Si voltò verso fratello Roland come per dirgli qualcosa, ma subito dopo rinunciò: una delle prime cose che aveva imparato era che non si doveva mai discutere al di fuori delle mura della commenda, ma anzi bisognava dare un’idea di concordia e mitezza: leoni con i nemici, agnelli con gli amici.

§

Andiamo al castello?” chiese fratello Gwenel, fissando i possenti bastioni della fortezza sul fiume.
Fratello Roland non poté evitare un vago sorriso: anche lui, la prima volta che l'aveva visto, aveva pensato che quel maniero appartenesse al Tempio. “È quello dei cavalieri tedeschi,” rispose. Evitò di definirli fratelli minori come era solito fare fratello Olivier. “Ci andremo dopo.”
Il ragazzo non rispose, probabilmente temeva di parlare a sproposito, quindi preferiva tacere. Fratello Roland rimpianse ancora una volta di non essere a Murcia: se Gwenel fosse entrato nell'Ordine laggiù, sicuramente le cose sarebbero andate molto meglio. Di nuovo sorrise fra sé e sé, pensando al modo che avevano i suoi vecchi confratelli di far superare al neofita le durezze dell'inconvenientia: la cosa aveva a che fare con molto vino e molte risate, e normalmente si protraeva fino all'alba del giorno dopo.
Si voltò verso fratello Gwenel e disse: “Devo portare una lettera al loro priore da parte di fratello Geoffroy, inoltre vorrei presentarti degli amici.”
Di nuovo silenzio da parte del ragazzo.
Ci passeremo dopo aver lasciato i soldi alla nostra magione.”

Il soldato alla porta sorrise vedendo fratello Roland avvicinarsi. “Sît ir willekommen, herre,” lo salutò, e poi si fece da parte per consentirgli il passaggio.
Il Templare avanzò adagio. Si voltò verso il confratello, e vide che questi lo stava guardando come avrebbe potuto fare con San Francesco mentre ammansiva il lupo.
Vieni,” gli disse in tono rassicurante.
Tu vieni spesso qui?” Il tono dava l'idea che Gwenel non si capacitasse della cosa.
Ogni volta che vengo a Metz.”
Fratello Roland smontò da cavallo e gli fece cenno di fare altrettanto, quindi si rivolse alla guardia: “Bruoder Friedrich?”
L'altro annuì soddisfatto nel sentire usare la propria lingua, e con un mezzo inchino del busto rispose: “Vi accompagno, herre.”
Li condusse al grande cortile lungo il fiume. Questa volta non si udivano il gorgogliare dell'acqua o lo stormire dei salici, perché l'aria risuonava di un furioso clangore di spade.
Nel centro dello spiazzo, due cavalieri stavano combattendo come belve inferocite.
Fratello Gwenel li seguì dapprima per un po' con lo sguardo, poi guardò fratello Roland con l'aria di chiedergli spiegazioni.
Questi distolse a fatica l'attenzione dallo scontro e disse: “Vedi? Quella è gente che viene da una zona di guerra. È gente che quando colpisce fa male.”
Il più giovane non proferì parola.
Fratello Roland tornò a concentrarsi sui cavalieri: uno dei due incalzava con colpi che sembravano quelli di un maglio, però di una precisione micidiale. L'altro non si lasciava impressionare, parava e rispondeva con uguale forza, tanto che a volte il primo era costretto a interrompere il proprio avanzare per difendersi. Si girarono intorno per un po', cercando dei punti scoperti senza trovarli, poi finalmente uno dei due ruppe la guardia per un attimo. L'altro non aspettava che quel momento, e di nuovo ripresero a duellare come se volessero uccidersi a vicenda.
Tedeschi...” sospirò dopo un po'.
Il ragazzo si voltò a fissarlo con espressione interrogativa. “Tedeschi,” ripeté l'altro, “se non si picchiano come fabbri ogni volta che hanno una spada in mano non sono contenti.” Detto questo agitò il braccio per attirare l'attenzione dei due cavalieri.
I due letteralmente si pietrificarono a metà di un assalto. Simultaneamente si voltarono nella sua direzione, quindi abbassarono le spade e gli si fecero incontro.
Quando si furono avvicinati, entrambi si tolsero l'elmo alla normanna che portavano e si fecero scivolare indietro i cappucci di maglia.
Fratello Friedrich, fratello Adalbert!” li salutò con calore fratello Roland. Si strinsero le mani e si diedero pacche sulle spalle. “Come state?” chiese poi, rivolto a entrambi.
Vedo che avete qui un confratello,” disse fratello Friedrich, rivolgendo sul giovane Gwenel il suo sguardo di rapace. Il ragazzo abbassò gli occhi intimidito.
Fratello Roland lo sospinse in avanti. “È un nuovo acquisto del Tempio: ordinato meno di un mese fa.”
Questo è molto bello,” apprezzò il cavaliere. Quindi, rivolto al più giovane: “Come vi chiamate, fratello?”
Gwenel de Jussy, signore,” disse d'istinto il ragazzo, poi si corresse: “Volevo dire fratello Gwenel, scusatemi.”
Io sono fratello Friedrich von Rotburg.” Indicò il compagno, poi aggiunse: “E lui è fratello Adalbert von Hohenburg.” Il chiamato si inchinò. “Piacere di conoscervi,” disse tendendo la mano.
Intervenne a quel punto fratello Roland: “Vedo che vi siete ristabilito, fratello Adalbert.”
L'altro si schermì con fare modesto. “Faccio ancora un po' di fatica, ma le forze mi stanno tornando.”
Allora sono davvero preoccupato, perché temo che vi saranno tornate del tutto quando ci incontreremo.”
A quelle parole, lo sguardo fratello Friedrich si fissò sul Templare. “Ci incontreremo?” chiese.
L'altro sorrise e annuì. “Ho qui una lettera del mio commendatario per il vostro priore. Chiede un torneo à plaisance, fra noi e voi.”
Questa è una magnifica notizia,” apprezzò il tedesco.
Sì, non so cosa l'abbia finalmente convinto, finora le mie preghiere non avevano ottenuto nulla.”
Dite davvero?”
Non ama accadimenti insoliti, che possano turbare la quiete della commenda.”
Il tedesco annuì perplesso. “Ach so,” commentò alla fine.

§

Per quanto fratello Geoffroy facesse del suo meglio per tentare di mantenere il decoro della commenda templare, il clima festoso e insolito aveva contagiato un po’ tutti. Dapprima erano stati i soldati tedeschi a fraternizzare con i garzoni e i fratelli di mestiere: avevano cominciato a comunicare, con il poco di francese che parlavano, o a gesti se non c’erano altri mezzi a disposizione, e ormai loro e i francesi si consideravano già amici e compagni d’arme.
Conservavano uno scrupoloso silenzio alla presenza dei superiori, ma appena quelli voltavano l’angolo, c’erano canti, risate e scambi di oggetti.
I sergenti mantenevano formalmente l’ordine, ma la curiosità reciproca era molto alta e anche loro, se solo ne avevano l’occasione, cercavano di fraternizzare con i loro omologhi stranieri.
Quelli che fraternizzavano più di tutti, poi, erano i cavalieri. Nonostante le vesti bianche e le croci, per un attimo erano tornati giovani nobili in attesa di battersi fra loro, e nel frattempo si raccontavano le rispettive imprese.
Vanitas vanitatum, et omnia vanitas [5],” borbottò fratello Adrien, lanciando intorno occhiate velenose. “Guardali qua, questi bellimbusti: subito pronti a fare la ruota come tanti pavoni.”
Non si rivolgeva a nessuno in particolare, e anzi si affrettò a distogliere lo sguardo quando uno dei cavalieri tedeschi lo fissò incuriosito.
Passò oltre, ingobbito, le mani dietro la schiena e la testa incassata nelle spalle. Qualcuno gli rivolse anche un’occhiata mentre si allontanava torvo, ma l’interesse di tutti tornò subito ai discorsi di combattimenti e giostre.

In piedi accanto a fratello Roland, Gwenel osservava il gruppo di cavalieri. Nonostante fosse a sua volta un Templare, nessuno faceva caso a lui, forse perché invece di buttarsi nelle conversazioni, che procedevano imbastite in uno strano miscuglio di tedesco, francese e latino, preferiva rimanere in silenzio.
Fratello Séverin stava ridendo e scambiandosi pacche sulle spalle con un tedesco grosso quanto lui, ma con i capelli biondi e le guance rosse da ragazzino. Fratello Philippe invece citava frasi delle Scritture che si potevano adattare alle necessità della conversazione, e il suo interlocutore, un tizio legnoso che sembrava un parente stretto di meister Wulf, gli rispondeva a tono.
Fratello Roland stava conversando amabilmente con i due cavalieri che gli aveva presentato a Metz e un terzo che lui non aveva mai visto, al quale i primi due traducevano le parti in francese.
L’unico che rimaneva in disparte, ostentando un’aria annoiata, era fratello Olivier.
Incuriosito, fratello Gwenel lo raggiunse. “Cosa fai qui?” gli chiese.
L’altro alzò le spalle in un gesto sprezzante. “Non mi interessano gli stupidi convenevoli con i cavalieri tedeschi. Dobbiamo batterci? Bene, battiamoci e facciamola finita, non vedo il motivo di perdere tutto questo tempo.”
Ma le regole della cavalleria...”
Cominci a parlare come il tuo amico Roland?” lo interruppe infastidito fratello Olivier. “Noi abbiamo un’unica Regola, ed è quella del Tempio. Tutto il resto sono solo vane chiacchiere.”
Fratello Gwenel aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi decise di rinunciare e si allontanò. Un passo dopo l’altro, abbandonò il cortile per dirigersi verso lo spiazzo delle esercitazioni.
Il posto non aveva nulla di diverso rispetto a come era sempre stato, non c’erano né bandiere né ornamenti di sorta.
L’unico elemento di novità erano un paio di fratelli di mestiere con dei rastrelli e altri con delle ramazze che si davano da fare per rendere il terreno liscio e senza asperità di sorta. Lungo la pista da galoppo, un altro fratello spingeva una carriola piena di terra, e dove gli zoccoli dei cavalli avevano lasciato le impronte più profonde, ne faceva cadere una palata.
Altri due stavano sistemando degli scanni lungo uno dei lati dello spiazzo. Gwenel ne contò tre: uno era sicuramente di fratello Geoffroy e l’altro del comandante del gruppo teutonico. Si chiese a chi fosse destinato il terzo.
Mentre era assorto in quei ragionamenti, sentì alle proprie spalle degli improvvisi clamori. Si girò e vide che gli scudieri stavano portando fuori i cavalli bardati.
Anche da quella distanza riconobbe il riottoso morello di fratello Roland e l’enorme, ma placidissimo castrone baio di fratello Séverin. Sorrise fra sé e sé: avevano proposto al confratello un destriero più nevrile per il torneo, ma la risposta era stata: “E se poi mi si imbizzarrisce mentre sono in mischia? Molto meglio un animale tranquillo.”
Il che, in effetti, aveva anche senso.
I cavalli dei Teutonici erano bardati con delle gualdrappe bianche ornate di croci nere, tanto che tutti gli animali, a dispetto del diverso colore dei manti, sembravano identici.
Mentre era assorto nella contemplazione di quegli strani fantasmi, Gwenel si accorse che fratello Roland lo stava chiamando.
Cominciamo a prepararci,” annunciò questi quando furono faccia a faccia. “Il commendatario vuole vedere prima la mischia.”
Il ragazzo si limitò ad annuire. Avrebbe dovuto essere contento di battersi, normalmente lo sarebbe stato, ma come ormai spesso succedeva, si sentiva messo alla prova, osservato.
Dalla sua condotta in quel frangente forse avrebbero preso decisioni su dove inviarlo, su cosa fargli fare. Aveva il terrore di essere ritenuto poco adatto al combattimento ed essere destinato a mansioni di scrivano o contabile. Maledisse la propria conoscenza del latino, che lo metteva a rischio di svolgere tali umilianti compiti, ma subito dopo maledisse anche il proprio orgoglio, che non lo rendeva sufficientemente umile di fronte agli ordini dei suoi superiori. Emise un sospiro.
Che c'è?” gli chiese fratello Roland. Gli mise una mano sulla spalla.
Come mai si fa questo torneo?”
L'altro involontariamente sorrise. “È bello misurarsi con altri cavalieri,” rispose volgendo lo sguardo verso il gruppo dei Teutonici. “E poi è un ottimo allenamento. Quando combatti sempre con le stesse tre o quattro persone, perdi flessibilità, non riesci più a far fronte a mosse impreviste.”
Tu dici che fratello Geoffroy ha fatto questo ragionamento quando ha chiamato i cavalieri tedeschi?”
Fratello Roland scosse la testa. “Non lo so,” disse poi. “Avrà avuto i suoi motivi, immagino.” Gli diede uno scherzoso pugno sulla spalla, poi soggiunse: “Intanto però godiamocelo, che ne dici?”

Fratello Gwenel fece un respiro profondo, e il fiato uscì come un sibilo di drago dalle fessure dell'elmo. Visto con un gran pentolare in testa, il campo era solo una striscia orizzontale, come il fondo miniato di una pagina.
Strinse appena gli occhi, il cavallo raspò il suolo con l'anteriore.
Buono,” gli raccomandò il ragazzo, dandogli qualche pacca sul collo, ma l'animale sbuffò e raspò di nuovo.
Lo schieramento dei Teutonici comunicava in effetti una vaga inquietudine. Avevano dei cimieri sugli elmi, ma nessun colore a parte nero e argento [6], così che sembrava di avere di fronte un esercito di statue, o di figure di ghiaccio.
Il morello di fratello Roland alzò la testa ed emise un nitrito, poi scosse la criniera. Il cavaliere dovette tirare le redini per trattenerlo.
Gwenel stava ancora rivolgendo la propria attenzione al riottoso animale quando giunse il segnale dell'attacco: in un istante si trovò lanciato al galoppo assieme a tutti gli altri, poi i due schieramenti giunsero in contatto, ed egli corse verso un cavaliere che sul cimiero aveva due ali eleganti rivolte all'indietro, color metallo ma con un bordo rosso e blu così sottile che da lontano non l'aveva neanche notato.
Strinse la lancia e le redini, tese i muscoli e si preparò all'impatto, ma all'ultimo momento il cavaliere fece fare una scartata al cavallo e sottrasse bersaglio, quindi fece girare l'animale sui posteriori e in un attimo fu alle sue spalle. Gwenel cercò di girarsi, ma già l'altro gli stava premendo la punta della lancia fra le scapole.
Rimasero per un attimo immobili, al ragazzo parve di cogliere un bagliore celeste nella fessura dell'elmo alato, poi il cavaliere tedesco si fece indietro, lasciò cadere la lancia ed estrasse la spada, come per fargli capire che gli concedeva un altro assalto.
Gwenel sfoderò a sua volta la spada. Osservò l'avversario, cercando di individuare un punto scoperto in quello che gli appariva più o meno come una specie di muro invalicabile, e finalmente gli parve di intravederlo: lanciò il cavallo in avanti, fintò un tondo dritto e poi, quando l'altro alzò la spada per parare, deviò la lama trasformando il colpo in un fendente rovescio.
Colpì nel segno, ma aveva scoperto la guardia, e si trovò con la lama del tedesco sul collo.
Avete vinto,” ansimò il ragazzo.
Entrambi abbiamo colpito,” fu la risposta, proferita in un francese spigoloso ma corretto. “Prego, concedetemi un altro assalto.”

Quando di comune accordo decisero di raggiungere i rispettivi margini del campo, di assalti ne aveano disputati parecchi. Dopo i primi momenti di imbarazzo, Gwenel aveva anche abbandonato le remore che fino a quel momento l'avevano trattenuto, e si era semplicemente divertito, dimenticandosi in quel breve lasso di tempo di ogni preoccupazione.
Smontò dal cavallo, che subito venne preso in consegna dagli scudieri, e si sedette sull'erba. Si tolse l'elmo e si fece scivolare all'indietro il cappuccio di maglia. Fu quasi grato che in quella giornata di inizio autunno non ci fosse il sole, perché i refoli d'aria fresca erano piacevoli sulla pelle accaldata, e la luce bigia che filtrava dalle nuvole non abbagliava.
Sul campo erano rimasti un paio di cavalieri per ogni schieramento. Riconobbe i due francesi, più che altro dai loro destrieri, visto che portavano l'elmo: erano fratello Roland e fratello Olivier.
Il primo stava duellando con un cavaliere che montava un animale poderoso, e portava un elmo con due grandi ali a semicerchio, con la parte inferiore nera e quella superiore bianca.
Per un po' rimase a fissarli affascinato: erano così veloci che faceva quasi fatica a seguire i loro movimenti. In pratica, tutto quello che vedeva era un vorticare di stoffe bianche su cui di tanto in tanto riusciva a distinguere qualcosa di nero o rosso. Il ferro non brillava in quella luce smorta, e se ne udiva solo il suono, quando le spade cozzavano l'una contro l'altra.
I due cavalli scalpitavano girandosi furiosamente intorno, e ogni scartata sollevava schizzi di sabbia che arrivavano fin sull'erba.
Quei due vanno avanti fino a domani,” sospirò qualcuno al suo fianco.
Gewnel si girò e vide uno dei due cavalieri che aveva conosciuto a Metz. Assorbito dallo scontro, non si era nemmeno accorto che si fosse seduto accanto a lui. “Cosa?” domandò stupito.
L'altro indicò il Teutonico. “Quando combatte, è peggio di un mastino che ha azzannato un osso, e mi sembra che il vostro confratello abbia la stessa indole.”
In effetti sì,” rispose il Templare.
L'altro annuì. “Sarà meglio che ci mettiamo comodi,” suggerì poi.
Fratello Gwenel seguì per un po' lo scontro, poi chiese: “Come mai portate quegli ornamenti sugli elmi?”
Per riconoscerci l'uno con l'altro, principalmente,” fu la risposta. “E forse anche per conservare un piccolo ricordo della nostra vecchia vita.”
La vostra Regola lo permette?”
In Livonia si combatte solo d'inverno,” spiegò il cavaliere, “Tutti bianchi, in mezzo al bianco: potete immaginare le difficoltà. I bracci delle croci a volte si confondono con i rami degli alberi, che contro la neve sembrano neri, ma un cimiero come i nostri si riconosce da lontano.”
Gwenel annuì. “Sì, credo di sì.” Fissò ancora una volta i due cavalieri sul campo, poi fece girare lo sguardo tutt'intorno. Notò a quel punto che uno degli scanni era occupato da qualcuno che portava un mantello bianco con il cappuccio tirato fin sugli occhi, tanto che da quella distanza sembrava avere solo un buco nero al posto della faccia. Cercò di capire se aveva sulla spalla una croce rossa o nera, ma non ci riuscì. “Conoscete quell'uomo?” chiese al cavaliere tedesco.
Questi lo osservò, poi scosse la testa. “Mai visto prima.”
Il Templare stava per replicare quando uno scoppio di acclamazioni li distrasse: sul campo, i due cavalieri si erano finalmente fermati. “Parità!” decretò fratello Adrien, che in virtù della sua acribia era stato scelto come giudice.

Fratello Roland smontò ansante da cavallo. Sin da quando era sceso in campo, e aveva riconosciuto l'elmo alato, si era aspettato che non sarebbe stato facile tener testa a quel cavaliere.
Non sapeva perché: forse si era fatto l'idea che un cimiero così vistoso dovesse necessariamente comportare equivalenti virtù guerriere, oppure, più semplicemente, il suo occhio addestrato da anni di combattimenti aveva riconosciuto nel modo di muoversi e nel portamento di quel cavaliere i tratti caratteristici di un avversario di valore.
Fatto sta che non aveva mai sudato tanto, e per strappare un pareggio, per di più!
Si tolse l'elmo e lo consegnò a uno scudiero, poi si liberò del cappuccio di maglia e si passò una mano sul volto rigato di sudore.
Ach!” esclamò il Teutonico quando lo vide in faccia, la voce ancora falsata dalla barriera di metallo. Si sfilò a sua volta il Grande Elmo.
Fratello Friedrich?” chiese quel punto fratello Roland stupefatto.
Voi! Dovevo aspettarmelo.”
E voi! Mi avete fatto sputare sangue.”
Anche voi!”
D'impulso si abbracciarono, dandosi ampie pacche sulle spalle.
È stato un piacere duellare con voi,” disse il tedesco.
Anche per me,” fu la risposta. “Il più bel combattimento degli ultimi anni.”
E ci restano ancora da disputare gli scontri individuali,” rispose fratello Friedrich, con l'aria di chi sta dicendo che rimane ancora da gustare il piatto migliore di un banchetto.
Sarà un piacere.”
In quel momento, fratello Roland vide arrivare fratello Gwenel in compagnia di fratello Adalbert. “Un bellissimo scontro!” apprezzò quest'ultimo, non appena si fu avvicinato. Il più giovane rimase in silenzio, limitandosi a riguadagnare la sua posizione accanto a fratello Roland.
Ti sei battuto bene?” gli chiese il maggiore, circondandogli le spalle con un braccio. Gli rivolse uno sguardo affettuoso.
Ho fatto del mio meglio.”
A quelle parole, intervenne fratello Adalbert: “Per caso montavate un baio con le balzane agli anteriori?”
Sì.”
Il tedesco si rivolse direttamente a fratello Roland: “Si è battuto bene, ve lo confermo.”
Eravate voi?” chiese il ragazzo stupito.
L'altro annuì.
Continuarono a parlare per un po' delle mischie disputate, scambiandosi pareri e consigli.

Dopo un pomeriggio di scontri, arrivarono a sera talmente stanchi che nessuno ebbe bisogno di imporre il silenzio in refettorio. Persino fratello Adrien, che di solito vigilava su certe cose peggio di un Cerbero, poté trascorrere la cena tranquillo come se fosse stato da solo.
Solo quando i cavalieri uscirono all'aperto le conversazioni ricominciarono, anche se su un tono minore rispetto a quelle del mattino.
Fratello Roland si allontanò da solo nel buio. Non si sentiva così felice, così appagato da molti mesi, e il suo carattere lo portava in casi come quello a cercare un beato isolamento. Inspirò socchiudendo gli occhi, poi emise il fiato lentamente, lasciandosi pervadere dalla sensazione piacevole dei muscoli che pian piano si rilassavano.
A un tratto, sentì un fruscio non lontano. Subito si immobilizzò, i muscoli si tesero nuovamente ed egli portò d'istinto la mano alla spada. “Chi c'è?” ringhiò.
Si fece avanti fratello Olivier. “Solo io.” Poi, dopo una pausa: “E togli quella mano, non sei più a Murcia.”
Che fai qui?” gli chiese fratello Roland, tornando lentamente alla posizione rilassata.
L'altro alzò le spalle. “Troppo chiasso. Non mi piace la confusione.”
Non ti sei divertito oggi?”
Non vedo il motivo di abbandonarmi a certi divertimenti stupidi,” fu la tagliente risposta.
Fratello Roland si voltò a fissarlo: un fisico snello ma robusto, che ricordava quello di un levriero. L'aveva visto combattere, e ne aveva tratto impressioni discordanti. Di velocità e di forza, principalmente, ma anche di una strana, serpentina freddezza.
Era bene, ovviamente, mantenere la mente fredda in battaglia, ma fratello Olivier gli aveva comunicato l'idea di qualcuno che svolge una professione ormai nota e nemmeno tanto interessante.
Non l'aveva visto appassionarsi al combattimento, né l'aveva sentito parlare dei duelli o della mischia, né a francesi né a tedeschi.
Eppure era un cavaliere, e teoricamente avrebbe dovuto esaltarsi come tutti gli altri per certe cose.
Con permesso, fratello,” gli disse, poi gli girò le spalle e raggiunse gli altri in preda alla strana sensazione che nel suo confratello ci fosse qualcosa di strano, come una nota dissonante in una musica, o una parola sbagliata in un testo.












[1] Testo originale della cerimonia di investitura, come riportato nella Regola. Anche la descrizione della cerimonia segue fedelmente lo schema di quella reale.
[2] Com’è bello abitare tutti insieme tra fratelli.
[3] Non insorgano i detrattori dello slash: si tratta del bacio di omaggio feudale.
[4] Vangelo gnostico di Tommaso.
[5] Vanità di vanità, tutto è vanità. (Ecclesiaste; 1, 2 e 12, 8)
[6] Il bianco in araldica.

   
 
Leggi le 13 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Old Fashioned