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Autore: the angel among demons    27/03/2018    1 recensioni
"Io sono Evangelina, e voglio farvi una domanda:
Se la vostra vita, la vostra bella e abitudinaria vita venisse spezzata; se doveste lasciare la vostra città per trasferirvi in una nazione lontana chilometri e chilometri; se doveste fare conoscenze che non avreste mai creduto di poter fare; se doveste rimanere coinvolti in una associazione/organizzazione segreta pericolosa che potrebbe coinvolgere il mondo; e soprattutto, se doveste scoprire che la persona che avete avuto al vostro fianco fino ad ora non è chi dice di essere...come reagireste?
Io non molto bene."
In questa storia non c'è mai stato un caso Kira, nessuno shinigami goloso di mele, e nessun quaderno della morte. Ma semplicemente Eva, una ragazza che dovrà affrontare una grossa sfida nella sua vita, e qui incontrerà Near, Mello, Watary e molti altri.
Ma non avrebbe mai pensato, in una situazione come la sua, di (r)innamorarsi di una persona.
Soprattutto se esso è l'investigatore più bravo che ci sia, conosciuto al mondo con una sola lettera dell'alfabeto.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: L, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nonostante fossimo a Tokyo, il nostro appartamento si trovava in un quartiere tranquillo. E fui felice che non stessimo andando ad abitare in un grattacielo, ma in una normale comproprietà. Quella zona era veramente carina: i condomini erano a quattro piani, tutti simmetrici e di color canarino. Davanti a se avevano ognuno un piccolo cancello con la buca delle lettere, e per finire, un alberello ci ciliegio. Più guardavo la mia nuova casa, e più ero soddisfatta di aver scelto quella. Daniele stava optando di stabilirsi al centro della città, ma fu un idea che troncai subito, e fortunatamente non obiettò più di tanto. Con tutto il traffico che c’era lì, non avrei resistito più di due giorni.

Il nostro appartamento era al terzo piano, notai di buon gusto che c’era l’ascensore. Aperta la porta ci si ritrovava in un piccolo corridoio con a destra il bagno. Più avanti la cucina sulla destra e il salotto al centro nella stessa stanza, non molto grande ma per due persone andava più che bene. A separarli non c’era nessun muro, ma una penisola divisoria (tipo i banconi da bar, per intenderci). Una grande finestra con due tende faceva entrare bene la luce del sole. Nel muro a sinistra, la nostra camera da letto. Il design era classico, neutro e le pareti arancioni.

“Molto cute...”

Cominciai ad aprire la valigia, e ad un certo punto mi uscì uno sbadiglio. Sull’aereo avevo dormito poco e anche male. Quella sera, dovevamo andare a cena da mio padre, quindi mi mancavano ancora un po di ore prima che potessi dormire. “D’altronde...”. Nessuno aveva detto che dovevo smontare la valigia adesso, potevo anche farmi un riposino. 

Stiracchiandomi mi buttai a peso morto sul divano. Daniele, covacciato a terra intendo a tirar fuori la sua roba, mi guardò con un sopracciglio alzato e l’aria confusa.

- Cosa pensi di fare, pigrona? - mi domandò come per dirmi di muovere il culo.

- Non è abbastanza chiaro? -  risposi sarcasticamente. 

A passo svelto si avvicinò verso di me. - Te lo scordi, tu non dormirai ora -.

Odiavo quando faceva il burbero. - Eddai sto morendo di sonno, perchè non dovrei dormire un po? - lo guardai accigliata.

Lui si avvicino al mio viso, tanto da sentire il suo profumo di vaniglia, che per me era droga, e i suoi capelli castano scuro sfiorarmi la fronte. - Perchè volevo fare qualcos’altro - sussurrò in modo seducente, e un istante dopo cominciò a baciarmi il collo.

“Stronzo, lo sa che è il mio punto debole”.

- Che ne dici di inaugurare la nuova casa? - continuò a dirmi senza staccare le labbra dalla mia pelle, e la sua mano sotto la mia maglietta.

Mi feci scappare un mugolio. - Dico che è una bella idea - sibilai, e giusto il tempo di finire la frase mi alzò in un attimo prendendomi dai fianchi. Sembravo un koala che si teneva al suo albero. 

Mi strinse il sedere e mi morse il labbro. - Ti amo, Eva - 

Sorrisi automaticamente - Anche io - risposi, e di rimando gli morsi il labbro pure io.

Con ancora me aggrappata al suo collo, si avvicinò alla camera da letto e aprì la porta. - Di ciao al nostro nuovo letto -.

- Ciao letto - risposi divertita.

 

Quando uscimmo da quella stanza, io con addosso la sua maglietta e lui solo con le mutande,  non sapevamo che ore si fossero fatte. Guardando il soggiorno, ancora vuoto e un po della nostra roba sparsa, ci mettemmo a ridere.

- Che disgraziati che siamo - disse Daniele andando a rovistare sulla sua valigia aperta qualche indumento da mettere quella sera.

Lo spinsi amorevolmente - Ed è colpa tua! - risi. - E del tuo essere così sexy -

- Colpa mia ma... non sembravi essere stata così dispiaciuta, di non avere dormito, lì dentro - rispose facendomi l’occhiolino. Alzai gli occhi al cielo, non potevo darli torto.

Mi presi l’intimo e andai verso il bagno. - Facciamo la doccia insieme? - chiesi aprendo già il rubinetto, e togliendomi la maglia.

 Lui mi raggiunse subito e mi diede una pacca sul sedere -Vuoi il secondo round? -

Sorrisi - No scemo, dobbiamo lavarci e prepararci - risposi mettendomi sotto la doccia.

- Come vuoi capo - finse di fare il soldato con il gesto della mano, e entrò anche lui.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

Carlo abitava a Yokohama, una città vicino Tokyo. Vicino per modo di dire, visto che con il treno ci mettevamo un ora ad arrivarci, ma era anche vero che i treni giapponesi sono molto più veloci rispetto a quelli italiani, se no ci avremmo messo due ore. “Quante volte mi sarebbero serviti anche in Italia...”

Come cittadina dovevo dire che mi piaceva più di Tokyo, i grattacieli c’erano lo stesso...ma era più ‘aperta’, c’erano molti più praticelli, una ruota panoramica e si affacciava sull’oceano. Apprezzavo anche il fatto che rispetto alla capitale, qua le persone non andavano tutti di fretta per qualsiasi commissione avevano. Erano molto più tranquilli.

Arrivammo all’indirizzo giusto, e riconobbi subito la sua casa perchè me la ricordavo dalle foto che ci mandò qualche tempo prima. Come zona e condomini erano molto simili a quelli del nostro nuovo quartiere.

Notai Daniele un po in difficoltà: in una mano aveva il prosecco e con l’altra si aggiustava la cravatta. Gli presi il prosecco dalla mano, così poteva sistemarsi per bene.

- Non c’era bisogno che ti vestivi così elegante, lo sai vero? - 

- Si invece! sto per incontrare tuo padre per la prima volta devo fare una buona impressione - dal tono della sua voce notai che era davvero in ansia.

- Non devi preoccuparti, gli piacerai sicuramente - cercai di tranquillizzarlo mentre gli sistemavo i capelli.

Sospirò. -Okay...sono pronto - disse riprendendosi in mano il prosecco. Detto ciò, allungai il dito verso il citofono, ma prima di pigiare il pulsantino, esitai un attimo. Stavo per rivedere il mio papà dopo tanto tempo, e stranamente mi accorsi di essere in ansia anche io. Forse stavo così perchè volevo che davvero Daniele gli piacesse. No, non era per quello, sapevo benissimo che si sarebbero piaciuti a vicenda. Non volevo entrare solo per paura di vederlo in una brutta condizione dopo la vicenda della mamma. E se lo avessi visto stare male, sarei stata più triste di quel che già ero. E’ terribile vedere una persona a cui vuoi bene, non che familiare, in una brutta condizione.

- Tutto apposto? - mi chiese a un certo punto Daniele vedendomi imbambolata in quella posizione.

Le sue parole mi scossero portandomi dov’ero. - Si - e suonai al citofono senza ripensarci. Si sentirono dei passi dall’altra parte della porta, e successivamente si aprì. 

Mio padre, vestito con una camicia e dei jeans, si stava asciugando le mani sul piccolo grembiule che portava alla vita, i capelli ormai tutti grigi erano tutti al loro posto come sempre, sul viso aveva un’espressione dolce e tranquilla. Il che mi rassenerò.

Istintivamente, lo abbracciai. Lo strinsi forte come non avevo mai fatto prima. Non credevo che mi fosse mancato così tanto fino a quando non lo ebbi avuto davanti. Lui mi strinse a sua volta. - Ciao tesoro mio - la sua voce si era fatta più profonda.

Dopo qualche secondo, si staccò piano. - Avanti, fammi conoscere il giovanotto - disse aggiustandosi gli occhiali.

“Giusto”. - Papà, lui è Daniele - immediatamente, si diedero la mano.

- E’ un piacere signor Rinaldi - si affrettò a dire muovendo la mano meccanicamente, evidentemente in imbarazzo.

- Il piacere è mio, ma per favore, chiamami pure Carlo - rispose mio padre rivolgendogli un sorriso. - Prego, entrate - aggiunse, facendosi da parte.

Appena entrati la cosa che andava subito all’occhio, era il tavolo circolare apparecchiato alla perfezione, le posate in scala e addirittura delle candele al centro del tavolo. “Questo non è da lui”.

- Avendo lavorato in un ristorante di lusso, ho dovuto fare del mio meglio per cui non mi potessi criticare male - mi disse papà vedendo la mia faccia stupita. 

Risi. - Non ce n’era bisogno! ma è davvero un gesto carino -  poteva sembrare una cavolata, ma quel gesto mi riempì il cuore di tenerezza.

- Posa pure il prosecco al tavolo Daniele, ora si inizia la cena - comunicò Carlo, e subito mi si aprì lo stomaco dalla fame.

 

Finimmo il primo e il secondo, e mi stupì di come papà abbia imparato a cucinare giapponese così bene siccome in Italia non cucinava quasi mai, e il poco che faceva non era mai molto buono. Ad ogni modo, la serata prese una piega per tutti inaspettata: non ci fu mai un momento di silenzio, parlammo del più e del meno e spesso ci ritrovavamo anche a ridere di buon gusto.

- Tenetevi un posticino allo stomaco, ora vi servo il dolce - 

- Lascia che ti aiuti - disse il mio ragazzo, alzandosi e sparecchiando.

- Grazie molto gentile - rispose mio padre andando a prendere dal frigo il dolce, che si trattava di un tiramisù.

- Papà, hai cucinato tutto giapponese e ora ci servi un dolce italiano? - chiesi un po stranita.

- Cosa vuoi che ti dica, lo sai che vado pazzo per i dolci, e qui in Giappone non ne ho trovato nessuno che mi abbia conquistato lo stomaco - disse poggiando il tiramisù in tavola, e dopo che Daniele mise i piatti e posate nuove, cominciai a tagliarlo e a dare una fetta a ciascuno.

- Allora, Daniele, sei pronto a lavorare alla Gelzin? - gli chiese mio padre alla sprovvista.

Lui lo guardò con gli occhi sgranati, non capendo se fosse una domanda ironica o seria - Ehm, si certo, e ti sono molto grato per aver insistito al tuo capo di assumermi -

- Il capo è un mio grandissimo amico, non c’è stato bisogno di insistere. Piuttosto, cerca di non fare errori, non subito almeno, i giapponesi sono molto severi riguardo a questo - lo avvisò lui.

- Ovvio farò del mio meglio, posso sapere quando inizierò? - 

- Dopodomani, ho voluto che prima respirassi un po e che ti organizzarsi tutto per bene prima di cominciare - disse ingerendo l’ultimo boccone di tiramisù.

- Mi sembra perfetto -rispose bevendo un pò di spumante.

- E tu Eva, dove lavorerai? -

- I tipo di ristoranti come quello in cui lavoravo io non accettano stranieri che non parlino bene la loro lingua, perciò nel frattempo che non l’avrò imparata del tutto lavorerò in un maid cafè, mi sono già informata e lì le straniere sono ben accette - affermai io.

Senza che me lo aspettassi, scoppiò a ridere, e io lo guardai confusa.

- Scusa cara...è che non ti ci vedo a comportarti come loro - disse facendosi scappare un altra risatina.

- In effetti l’idea non mi fa impazzire che degli sconosciuti ti vedano con quel tipo di divisa...ammetto di essere geloso - mi guardò male Daniele.

- Ma almeno è sicuro che mi assumono e i soldi ci servono specialmente ora che ci siamo appena trasferiti, per ora mi sembra la cosa migliore - feci spallucce.

 

Parlammo ancora per un bel po di tempo, e quando si stava facendo tardi, con i vari saluti e ringraziamenti, uscimmo di li con l’ultimo pezzo di tiramisù lasciatoci da mio padre.

- Visto? - dissi prendendo a braccetto Daniele avviandoci alla stazione - Non è andata così male -

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

Passò una settimana da quando ci trasferimmo, e come immaginavo al maid cafè, situato al centro di Tokyo, mi assunsero subito. Ero l’unica occidentale non che l’unica con delle forme evidenti, e questo piaceva molto ai clienti.

Non sopportavo di essere osservata, soprattutto se in quel modo, ma continuavo a dirmi che era solo questione di tempo.

Tutta via il locale non mi dispiaceva affatto, era molto ampio, luminoso e colorato, metteva vivacità. Alla fine il suo compito era proprio quello. Anche come dovevo comportarmi lì dentro mi stava iniziando a piacere, cioè da ragazzina kawaii come quelle che si vedono negli anime, più che altro la cosa mi divertiva molto. A volte avevo difficoltà con la lingua (nonostante ebbi iniziato a studiarla giorno e notte in Italia appena decidemmo di trasferisci, e tutt’ora a casa sto ore sui libri) ma le mie colleghe arrivavano subito ad aiutarmi. Perchè tutto sommato eravamo una squadra. I miei orari erano dalla mattina verso le dieci, fino alle cinque del pomeriggio. Non potevo assolutamente lamentarmi.

Per tornare alla stazione, in certi punti dovevo per forza passare per dei vicoletti stretti e oggettivamente non molto sicuri. Mi rassenerava il fatto che non uscissi molto tardi e quindi c’erano meno possibilità che accadesse qualcosa, e anche se fosse successo urlando sarebbe arrivato qualcuno.

Ma quel giorno qualcosa andò storto.

Uscita dal locale e con finalmente i miei normali vestiti addosso, notai subito che passava di lì molta meno gente del solito. Solo una figura sembrava non c’entrare molto in quella strada, con le persone occupate a far qualcosa, lui non faceva niente. Aveva un lungo cappotto nero, un cappello marrone e gli occhiali da sole. Era appoggiato al muro, le mani in tasca e guardava per terra.

Era strano, ma non ci diedi molto peso in quel momento. Perciò come al solito mi feci i fatti miei, avviandomi per la mia solita strada.

Arrivata al primo vicolo in cui dovevo svoltare, noto che quell’individuo si era mosso, sempre con lo sguardo giù, a quindici metri da me.

“Sta passeggiando per i fatti suoi Eva, non farti paranoie”.

Continuando a camminare, in poco tempo sentii dei passi dietro di me. Presi in mano il telefono per riflettere l’immagine di chi avevo dietro. 

Trasalii. Era ancora quel tizio.

Istintivamente velocizzai il passo facendo finta di non averlo visto. Ma lui fece lo stesso.

Ormai era sicuro: mi stava seguendo.

In quei momenti uno deve cercare di mantenere la calma, ma l’ansia mi travolse piu di quanto avrei voluto, e iniziai quasi a correre, sbloccando il telefono e andando nella rubrica pronta a chiamare qualcuno.

A pochi metri, saranno stati cinque, sarei uscita da quel vicoletto arrivando in strada e a quel punto sarei stata più sicura. 

Sospirai vedendo la luce (che in quel vicolo i tetti oscuravano) sempre piu vicina.

Ma proprio mentre stavo facendo l’ultimo passo, mi sento tirare indietro con forza.

Cercai di urlare e dimenare le braccia, ma mi tappò subito la bocca con un fazzoletto, inzuppato di cloroformio, ovviamente, e mi bloccò le braccia stringendomi forte.

Vedevo la strada allontanarsi sempre di più e con esse le mie forze di reagire.

In pochi secondi, il mio campo visivo si fece sfocato fino a non vedere più nulla: le mie palpebre non riuscivano più a stare aperte.

Feci un ultimo tentativo di liberarmi, ma il corpo mi cedette abbandonandosi a quel sonno ingannevole, e traditore.

 

 

 

 

 

 

Nota: se non sapete cos’è il maid cafè, vi consiglio di andarlo a cercare su internet per avere un idea chiara di cosa sia (:

   
 
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