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Autore: Grell Evans    30/03/2018    1 recensioni
Artemisia, giovane infermiera, vive una vita tormentata da ricordi dolorosi dei quali non riesce a liberarsi.
Marco, infermiere anche lui, è perdutamente affascinato da quest'anima perduta.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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-Dannazione- pensò Marco scalciando via le coperte per il troppo caldo. -Cosa diavolo mi sta succedendo- si scompigliò i capelli biondi come per scacciare quei pensieri che gli vorticavano nella mente. I suoi lunghi capelli neri, il corpo pallido e formoso, quegli occhi verdi velati di tristezza lo avevano folgorato e non se l’aspettava. Non credeva di potersi invaghire così in fretta non solo di un corpo ma soprattutto di un’anima malinconica e oscurata dal dolore.  Decise che era meglio alzarsi e prepararsi un caffè, quindi imboccò il corridoio e arrivò in cucina. Stava cominciando a bruciare dentro di lui un intenso fuoco, un forte desiderio di calore umano, quella sensazione piacevole che inebria l’essere nella sua totalità e che da tempo non provava più. Cominciò a sorseggiare il caffè caldo con attenzione, mescolando col cucchiaino per far sciogliere quel poco di miele che aveva aggiunto. Osservò al di fuori della finestra la tranquillità della mattina presto quando solo chi va a lavorare fuori sede è in giro per strada insieme a qualche valoroso corridore.
Era tutto perfettamente in pace, tranne sé stesso. Percepiva un tornado di emozioni che non facevano altro che versare altra benzina sul quel piccolo fuoco che sarebbe diventato di quel passo un incendio; e purtroppo per lui non c’erano pompieri da chiamare o vestiti da gettare al di sopra. Il suo cuore voleva tornare ad amare terribilmente, voleva di nuovo impazzire d’amore per inebriarsi di quella sensazione ma il suo cervello e l’orgoglio ferito bloccavano questo flusso sempre più forte e vigoroso con la paura. La paura di essere usati e poi gettati via, di struggersi per amore e rimanere delusi, di dedicarsi troppo e con eccesiva dedizione e ricevere in cambio solo della fredda indifferenza. Si sentiva esattamente come sul l’orlo di un precipizio: con coscienza o torni indietro consapevole di non procurarti sicuramente del dolore o azzardi un salto e rischi di farti male, tanto o poco non si sa.
“Fanculo.” sussurrò gettando con noncuranza la tazzina nel lavabo della cucina.
 
 
***
 
 
Rachel aveva la nomina di essere una grande ritardataria e anche quel pomeriggio non aveva smentito l’epiteto affibbiatole da Artemisia fin dai tempi del liceo. Sapeva che per lei le diciassette sarebbero diventate le diciassette e trenta ma si ostinò ad arrivare puntuale, prendendo posto al bar nel quale si erano date appuntamento. Inaspettatamente notò la chioma bionda riccia, sfumata verso il castano, varcare la soglia del locale e un sorriso nascere sul suo volto.
“Amore mio!” esclamò allargando le braccia e stringendola forte fino a quasi toglierle il fiato.
L’amica ricambiò l’abbraccio stampandole due baci sulle guance.
“Allora racconta, sono curiosissima!” disse Rachel sedendosi e mimando un applauso muto.
Artemisia la guardò, poi abbassò lo sguardo stringendo i pugni in un gesto nervoso.
“Mi trovo bene, non poteva capitarmi partner migliore.” affermò sorridendo alla cameriera che portò al tavolo una porzione di tiramisù e una fetta di torta al cioccolato.
“Non ti sembra di star parlando troppo?” ironizzò Rachel assaggiando il dolce al cacao. “Argomenta!” aggiunse quasi irritata.
“Beh, è un bell’uomo, alto, occhi azzurri e capelli biondi e.… sembra capirmi senza che io stia a parlare per ore.” rispose Artemisia concentrandosi sul piattino in ceramica bianco, sporco di mascarpone.
L’amica la guardò intensamente per qualche secondo. “La cosa ti turba?”
“In realtà mi fa comodo ma, allo stesso tempo, mi inquieta perché non capisco come faccia a comprendermi così efficacemente sapendo poco e niente di me. Lo conosco da due giorni e mi sembra come se fosse sempre stato accanto a me.” quasi si vergognò di quelle parole ma era quello che sentiva.
Un’espressione soddisfatta apparve sul viso di Rachel come se le sue supposizioni fossero sempre state giuste.
“Prendimi pure per stupida per quello che sto per dirti ma devo farlo; credo che lui sia la tua ‘scheggia d’anima’. Forse è troppo presto per poterlo decretare quindi... col tempo me lo confermerai o no.” disse raccogliendo con la forchetta le briciole lasciate dalla torta. “Ora vado, ho le prove con la compagnia teatrale.” aggiunse alzandosi e abbracciando l’amica che ricambiò stringendola ancora più forte.
“Cos’è una scheggia d’anima?” sussurrò Artemisia all’orecchio di Rachel.
“È l’ultimo tassello che rende la tua anima completa.” rispose lei mentre abbandonava il loro abbraccio.
 
 
***
 
 
Il turno di notte iniziò nel peggiore dei modi desiderabili: sembrava che in alcuni giorni i parenti dei pazienti si mettessero d’accordo per infuriarsi con gli infermieri di turno e quella volta toccò a Marco e ad Artemisia sorbirsi lamentele di ogni tipo.
‘Come mai a mia madre è spuntato questo livido sulla mano? Ma è normale ‘sta cosa? Che diavolo le fate?’ oppure ‘Perché mio padre ha i polsi legati? Cos’è un animale?’ e ancora ‘Da quando mia madre è in isolamento? A casa stava benissimo: è arrivata qui e si è presa le peggiori malattie!’.
Artemisia aveva ascoltato e compreso le loro preoccupazioni rispondendo ad ogni dubbio anche se esposto in maniera maleducata ed incivile. ‘Il livido lo ha già da tempo, purtroppo può capitare nei pazienti anziani un versamento di sangue dopo l’inserimento di un ago cannula e l’estrazione di quest’ultimo per uno scarso funzionamento.’ e ‘Suo padre ha i polsi legati perché ha tentato più volte di strapparsi il catetere e il picc e il medico ha quindi deciso, per preservare la sua incolumità, di adoperare dei mezzi di contenimento per limitare i danni.’ oppure ‘Sua madre è immunodepressa per questo ha contratto l’infezione da Clostridium che purtroppo attacca spesso tutti coloro che sono più deboli dal punto di vista immunitario.’
Quando l’orario di visita terminò, il reparto sembrò tornare ad un’apparente pace che tranquillizzò tutti i ricoverati. Artemisia durante i pochi anni di lavoro e l’esperienza fatta negli anni di tirocinio aveva potuto appurare che erano i parenti ad agitare i pazienti portando eccessiva ansia ed apprensione nelle loro stanze. Figli che obbligavano i genitori più che novantenni a ricoverarsi quando questi desideravano semplicemente morire tranquilli a casa loro e non subire lo stress della routine ospedaliera, anziani parcheggiati in ospedale come se fosse una casa di riposo per poter andare in vacanza senza preoccupazioni, altri lasciati soli durante tutti i giorni o le settimane di ricovero. Una realtà degradante che lei stessa faceva fatica ad accettare e che anzi, le forniva più elementi per contestare i criteri di accettazione dei ricoverati.
Erano da poco passate le ventidue e Marco era intento a preparare la terapia orale come al suo solito, ma non sembrava il Marco di sempre, qualcosa in lui non andava. I suoi occhi azzurri le erano apparsi spenti, privi di quel bagliore che li aveva contraddistinti durante quei giorni. Anche nel suo modo di fare sembrava meccanico, privo di passione, come agisce un robot tramite l’invio di alcuni comandi così appariva Marco quella sera: senza emozioni.
“Qualcosa non va?” domandò lei preparando alcuni flaconi di soluzione fisiologica sul carrello delle diluizioni.
“Mh?” mugugnò lui ruotando leggermente la testa verso Artemisia che era intenta a scegliere alcune siringhe. "Come?” fece finta di non aver compreso la domanda.
“Non fare il finto sordo, hai capito. Se non vuoi parlarne è un altro paio di maniche.” lo guardò con decisione, come a non voler essere presa in giro.
“A cosa devo quest’aggressività?” propose Marco fissandola intensamente.
“Non sono affatto aggressiva.” rispose lei alzando lievemente un sopracciglio.
“Ah, no?” tolse dal blister una compressa di ferro.
“Sono responsabile di quello che dico non di quello che percepisci tu.” fu decisamente una risposta acida.
“Sei acida e aggressiva stasera, ti sta marcendo il sangue o qualche organo in particolare, tipo il cervello?” le lanciò una forte provocazione pronto a coglierne anche gli effetti pur di non dover parlare di sé.
Il sopracciglio di Artemisia si alzò di nuovo, stavolta in modo più teatrale. “Scherzi, vero?”
Un interminabile silenzio si instaurò tra i due che nervosamente ripresero a fare il proprio dovere.
“Non è mia intenzione farmi i fatti tuoi.” aggiunse la ragazza mantenendo un certo contegno.
“Nessuno ha detto che non puoi.” disse Marco avvicinandosi ad Artemisia sfiorandole delicatamente una guancia con i polpastrelli. “È che non voglio far pesare i miei problemi su di te, hai già tanti pensieri per la testa.” concluse fissando il suo viso stupito da quel tocco. Notò l’arrossire sulle sue gote che risplendeva dolcemente sul pallore del suo volto.
“Tu credi che io non possa ascoltare ciò che ti tormenta perché ho ferite ancora aperte che non intendono rimarginarsi?” lui abbassò lo sguardo come a sentirsi colpevole per ciò che aveva detto un attimo prima. “Il fatto che sto soffrendo non vuol dire che non possa essere d’aiuto a chi mi è stato vicino.” i suoi occhi brillarono come feriti, come se quelle parole l’avessero toccata troppo nel profondo, intaccandole l’orgoglio.
Marco si allontanò, avvicinandosi alla finestra. La notte era ormai calata e il cielo scuro, ornato da qualche stella, ospitava un grande luna piena e luminosa. “Scusa.” disse infine lui appoggiando la schiena alla finestra chiusa. “Non volevo farti sentire inutile.”
Lei lo guardò intensamente, intenta a capire se mentiva o meno, ma non riuscì a cogliere alcun elemento che potesse confermare una delle due tesi. Continuò a scrutarlo, dando importanza al viso definito, senza barba, dove i suoi occhi troneggiavano imponenti incorniciati dai capelli biondi. Sembrava turbato, come se quella conversazione l’avesse sconvolto, come se quelle parole fossero state pronunciate d’impulso senza la ragione a sostenerle. Ebbe il sospetto che quelle frasi potessero essere solo uno strumento di difesa, non mirate ad offenderla, ma piuttosto a proteggere sé stesso dall’affrontare un argomento spiacevole.
“Non si reagisce così, Marco.” continuò a diluire gli antibiotici posti sul carrello distogliendo lo sguardo.
“È solo che ultimamente non riesco a capire me stesso, ed essendo io una persona razionale, non mi capacito di come alcune cose possano accadere senza poter essere spiegate.” ammise lui tornando al carrello della terapia orale.
“Forse perché al momento non hai ancora le capacità per capirti a pieno.” aggiunse la ragazza tornando a guardarlo. “Tempo al tempo.” e gli sorrise.
“Quando non riesco a spiegare razionalmente qualcosa mi agito come se il mio cervello volesse a tutti i costi trovare una soluzione. Penso e ripenso, ma niente.” disse quasi rassegnato.
“I sentimenti e le emozioni spesso non si possono spiegare a parole, figurati se si può conferire loro un aspetto sensato. Non si può Marco, semplicemente non possiamo concretizzare l’amore, la paura o l’ansia pensando che una volta avvenuto questo si possa trovare una soluzione definitiva ogni volta che queste emozioni verranno tirate in ballo. Ogni volta che ci innamoriamo proviamo una sensazione diversa, come quando sentiamo la paura o l’ansia. Non ci sono procedure standard, vanno vissute e basta.” Artemisia tornò a sorridergli come per rassicurarlo. Marco sentì un brivido corrergli lungo la schiena e di nuovo un calore riscaldargli il petto. Percepì il bisogno di abbracciarla, di sfiorarle di nuovo la pelle spettralmente bianca, di condividere quel calore che gli avvampava il petto.
“Sembra che la mia anima apprezzi la tua.” disse infine Marco terminando col traffico delle compresse.
“Penso che la mia ricambi il sentimento.” rispose lei evitando intenzionalmente il suo sguardo.
Lui si limitò a sorriderle e delle graziose fossette apparvero sul suo viso, tirò il carrello verso di sé e si avviò verso l’uscita. “Andiamo.” le consigliò mentre imboccava il corridoio del reparto.
 
 
***
 
 
Ci sono luoghi, parole, canzoni che riporteranno sempre alla memoria determinati eventi o ricordi. Momenti dolci, forti o terribili che vissuti nuovamente risvegliano sensazioni che forse sarebbe meglio socchiudere in un cassetto della mente.  Avrebbe desiderato volentieri dormire, ma il suo corpo voleva restare vigile. Diede uno sguardo alla sua camera da letto, che un tempo era anche di Vladimir, e ricordò quanto amavano ritrovarsi a casa dopo una giornata intera, passata separati a causa del lavoro, e quanto lui adorasse sdraiarsi completamente nudo a fianco a lei totalmente svestita. Le piaceva guardarla, ammirare le morbide curve che formava il suo corpo adagiato su un lato, sfiorarle con i polpastrelli e vederla rabbrividire. Passavano le nottate uno di fronte all’altra, carezzandosi e regalandosi piccoli baci.
“Ti amo, principessa.” sussurrò Vlad prendendola per i fianchi e attirandola a sé.
“Ti amo.” rispose piano Artemisia affondando il viso nell’incavo del suo collo, sfiorando il leone tatuato sul suo bicipite. Ruggiva.
Rimase immobile sulla soglia della porta a fissare il letto vuoto, come se avesse avuto un’allucinazione e scivolò lungo lo stipite fino a toccare il pavimento.
“Solo la morte ci poteva separare, vero principe? Dopo dodici anni, insieme solo la morte.” strinse attorno a sé le sue stesse braccia come a simulare un abbraccio. “È così che doveva andare? Sono stata felice e amata troppo a lungo, doveva finire prima o poi.” scosse la testa come a negare le sue parole. “Perché a me? Sono stanca di lottare Vlad, dove sei? Torna da me.” fu quasi un urlo, un grido disperato che intendeva varcare qualsiasi mondo ultraterreno, come Orfeo tentò tutto per riprendere Euridice, anche lei era disposta a sacrificare qualsiasi cosa per rivederlo anche solo per l’ultima volta, dargli un bacio e dirgli addio. Ma come spiega il mito è impossibile riportare i morti nel mondo terreno; ciò che si può fare è convivere con il proprio dolore, lavorare con esso e trasformarlo in amore per la vita.
Si alzò di scatto, strappò le lenzuola da letto con violenza gettandole a terra, urlò trascinando a terra tutto ciò che c’era sulla scrivania di fronte alla finestra, poi batté i pugni contro la parete continuando a urlare come se mille avvoltoi le stessero divorando gli organi, uno ad uno. Cadde a terra, rannicchiandosi in posizione fetale con le mani strette tra i lunghi capelli neri. Scoppiò in un pianto nervoso e violento, si dimenò, tirò qualche debole calcio e sempre più lentamente si addormentò come se qualcuno le avesse somministrato qualche calmante. Il suo respiro affannoso e accelerato, col passare dei minuti, si regolarizzò, le dita abbandonarono il cuoio capelluto portandosi dietro alcuni capelli e le lacrime cessarono di cadere. Rimase immobile sul pavimento per ore, assopita in un sonno nervoso, indotto dalla stanchezza e dalla violenza di quei ricordi.
Il sogno che fece era piuttosto confuso, scuro e al risveglio non ricordò nulla, nessun dettaglio. In un battito di ciglia era tutto svanito. Aveva un forte mal di testa dovuto al pianto isterico che l’aveva messa al tappeto, seguito da un forte dolore articolare. Quando provò a mettersi in piedi vacillò come disorientata ma ritrovò subito l’equilibrio. Evitò con menefreghismo il caos da lei stessa prodotto poco tempo prima e raggiunse il telefonino per orientarsi e capire che ora fosse; lesse le quattordici e zero due.
Il campanello suonò insistentemente, procurandole un fastidio di dimensioni bibliche. Si avviò alla porta e curiosando dallo spioncino rimase di stucco e indugiò sull’aprire la porta o meno.
-Che diavolo vuole- pensò tra sé e sé mentre tentava di eliminare il nero colato nella zona perioculare. -Cazzo-
“A cosa devo questa visita?” disse Artemisia con il tono più amichevole possibile aprendo la porta e facendo segno di entrare alla figura minuta che aspettava lì fuori. “E soprattutto dov’è Loris?”
“Ci siamo lasciati un’altra volta, non so dove sia.” rispose lei entrando e chiudendo la porta dietro di sé.
“E allora che vuoi?” domandò con insofferenza prendendo una sigaretta dal portaoggetti e accendendola senza farsi troppi problemi. “Non sono una terapeuta di coppia.”
Serena rimase in silenzio come per scegliere le parole più adatte per iniziare il suo discorso. “Artemisia, so che mi detesti e che mi hai aiutata in passato solo perché mi vedevi veramente in difficoltà, ma stavolta la cosa è più seria del previsto e io devo trovare Loris.”
Rise di gusto sentendo quella richiesta. “Ma ci sei o ci fai? Non vedo mio ‘fratello’ da tre anni, perché avete ben pensato di spassarvela in giro come se io non esistessi più, e ora che lui è scappato un’altra volta vieni a chiedermi aiuto? Tra un po’ non so neanche che faccia abbia e vieni a chiedermi una mano per cercarlo?” aspirò abbondantemente un tiro di fumo e restò a guardarla disgustata.
“Sono incinta.” ammise Serena carezzandosi debolmente il ventre.
“Raccontala a qualcun altro, io le tue finte gravidanze non me le bevo più. È rimasto solo quel cretino di Loris che ti crede...o forse neanche lui.” il tono sprezzante in cui le rispose era quasi umiliante.
“Come puoi dubitare?” sussurrò offesa la ragazza raccogliendo la borsa e tornando verso l’ingresso.
“Ho smesso di credere alle vostre cazzate. Sparite tu e Loris, non fatevi più vedere.” non si alzò neanche per aprirle la porta che sbattè rumorosamente.
Si era stancata di essere sempre disponibile per chi non lo meritava come se a lei dovesse importare per forza dei problemi degli altri mentre questi potevano deliberatamente infischiarsene di lei. In fondo la colpa era solo sua se si era resa così disponibile per certi personaggi che poi si erano rivelati dei perfetti approfittatori ed i peggiori erano proprio coloro che in teoria le sarebbero dovuti stare vicino.
Spense la sigaretta e la accartocciò nel posacenere, con un moto di stizza. -Maledetti- pensò, mentre incoscientemente
ne accese un’altra.
  
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