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Autore: SpenteStelle    30/03/2018    2 recensioni
Per tutti era l’idiota del paese, il povero scemo che non sapeva neanche cambiare espressione. A nessuno era venuta in mente la spiegazione più facile: lui, nel suo cuore semplice, era felice.
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Raccoonto molto diverso dagli altri due che ho qui su EFP. Ho cercato, per una volta, di cambiare stile, di non essere ampollosa, costruita e ridondante come al solito, ma di lavorare per sottrazione. Pensato lungamente e solo per arrivare a quell'ultima frase finale, da cui in realtà è nato tutto, ma scritto di getto in una sola ora (mai successo)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IL  RAGAZZO DELLE NUVOLE

 


Per tutti era l’idiota del paese. Ma lui, nel suo cuore, sognava le nuvole.

 


Che ci fosse qualcosa che non andava, in quel bambino silenzioso e troppo tranquillo, era stato presto evidente. E il tempo aveva soltanto confermato ciò che tutti avevano già capito. Non parlava - nessuno sapeva se fosse muto o, piuttosto, semplicemente, in quella testa vuota non avesse nulla da dire. Se  se gli si diceva qualcosa sembrava capire solo le cose più semplici. Soprattutto gli ordini: a quelli obbediva sempre, come un cagnolino docile, ben ammaestrato, volenteroso. Appena era stato in grado di camminare da solo per le vie del paese, aveva immediatamente attirato su di sè la curiosità crudele degli altri bambini, per i quali era un bersaglio fin troppo facile: ma non sembrava neanche accorgersi delle risatine al suo passaggio, dei ragli da asino che, presto, avevano cominciato a fargli dietro, dei veri e propri codazzi sghignazzanti che, dopo un po', avevano iniziato a seguirlo. Constatato che, benché ormai alto e forte per la sua età, era completamente innocuo e questo lo rendeva il bersaglio ideale per la vigliaccheria spacciata per coraggio, un giorno uno dei più arditi nel seguito che ormai si portava dietro ogni volta che attraversava il paese, gli aveva lanciato un sasso. Niente: lui si era portato una mano al braccio, dove era stato colpito, l’aveva massaggiato un po’, e aveva continuato a camminare come se niente fosse.


Sorridendo.

Perché sorrideva sempre.


Per tutti era l’idiota del paese, il povero scemo che non sapeva neanche cambiare espressione. A nessuno era venuta in mente la spiegazione più semplice: lui, nel suo cuore puro, era felice.


Felice di respirare, di essere al mondo. Felice delle belle giornate o del profumo della pioggia, felice di sedere contro un muro al sole, a riposarsi, gli occhi chiusi per sentire meglio il calore amico, o di lavorare tutto il giorno nei campi. Felice di spalancare la finestra al mattino e ritrovare il mondo che amava, scintillante e nuovo e pieno di colori come se fosse stato ridipinto di fresco quella notte stessa, quanto di assaporare, la sera, il semplice piacere di lasciar abbandonare sul letto il corpo rotto dalla fatica.
Ma, più di tutto, lo rendeva felice guardare le nuvole. Ne era affascinato, le amava: erano così meravigliose e varie; sempre diverse. Ce n’erano di mille tipi, da quelle alte e cupe, quasi nere, che annunciavano i temporali a quelle lievi e delicate, poco più del sogno di una nuvola, impalpabili come veli da sposa. E quelle rosate del tramonto, che a volte volevano esagerare in lusso e stupore e si bordavano d’oro lucente. O quelle come batuffoli di lana appena cardata, come lo zucchero filato che aveva visto una volta alla festa del paese. Spesso, anche nei giorni più sereni, ce n’era una sulla punta del Dente della Stria. Era familiare e buffo insieme, per lui, vedere il Dente, la montagna che si ergeva subito dietro i pochi campi coltivabili con quella sua forma così caratteristica e consueta, da un lato il ripido declivio erboso, dall’altro una scarpata di roccia quasi verticale, quasi sempre ornato dalla sua nuvoletta in cima, come un uomo che non esce di casa senza cappello.


Quando poteva, quando aveva finito prima del tempo il lavoro che suo padre gli aveva assegnato, si sdraiava nell’erba e stava a guardarle. Si chiedeva che sensazione avrebbero dato, a poterle toccare; se fossero tiepide e accoglienti come il manto di una pecora o scintillanti di freddo, pungenti come la brina di inverno. Ma sicuramente le pensava soffici, morbidissime; qualcosa in cui sprofondare e girarsi e muoversi senza peso. Libero.

 

 

Quando compì quindici anni, come regalo suo padre decise che, dato che lavorava come una bestia e come una bestia taceva, bestia era. E quindi una stanza ed un letto per lui erano roba buona sprecata. Quella sera, quando lo vide che stava per entrare nella sua piccola camera, lo prese per un braccio senza una parola, lo condusse fuori da casa e poi nella stalla, e gli indicò un mucchio di paglia. Poi tirò il pesante portone dietro di sé.
Il figlio sedette sulla paglia senza capire e aspettò, paziente e fiducioso, che il padre tornasse a prenderlo. Attese, seduto lí, con mite pazienza, tutta la notte. Quando vide filtrare da sotto il portone la prima luce dell’alba, capì.
Da quella notte, la stalla diventò la sua casa.

 

All’inizio non fu facile: l’odore penetrante, acre ed onnipresente delle bestie, il tanfo del letame, in quel piccolo spazio chiuso, erano quasi insopportabili. Ma ci si abitua a tutto, soprattutto se non ci sono alternative. E finì coll’abituarsi anche a quello. E poi, il suo cuore gentile cominciò a cogliere un lato bello anche in quella situazione. Lo trovó negli sguardi miti e dolci delle sei mucche, silenziose e di poche pretese come lui. Lo trovó nella lentezza mansueta dei loro movimenti, nel calore rassicurante e amico che emanava dai loro grossi corpi docili.
Quando poi nasceva un vitellino, scoprì, era la cosa più bella, un dono per il suo cuore gentile e stupito. Poteva restare per ore incantato a guardare quella esistenza nuovissima, che il giorno prima non c’era ed ora era lì sotto i suoi occhi, vera e reale, mentre con fatica e ostinazione cercava di reggersi sulle zampe ancora troppo deboli, incerte. Così fragile eppure già così decisa, così tenacemente innamorata della vita.

 


Ne aveva già visti nascere molti, di vitellini. Molti anni erano scivolati via, anche se lui non sapeva tenerne il conto, quando accadde della coperta. Tutto nacque da un fatto piccolissimo. Una vacca si era sgravata il giorno prima, ma lui si era accorto quasi subito che qualcosa non andava come avrebbe dovuto. Il vitellino non cercava le mammelle rigonfie e romai dolenti della madre, quasi non alzava la testa; sembrava senza forze, esausto, svuotato. All’inizio della notte, iniziò ad essere scosso dai tremiti. Lui non sapeva cosa fare: cercò di scaldarlo abbracciandolo, ma non bastava, il piccolo corpo tremava sempre di più, come per un freddo invincibile che solo lui poteva sentire. Allora il ragazzo ebbe un’idea: uscì dalla stalla –aveva imparato ad aprire il chiavistello dall’interno- e scavalcò una finestra di casa, quella la cui maniglia era da aggiustare quasi da sempre. Cautamente, in punta di piedi per non fare rumore, andò in quella che era stata la sua vecchia stanza. Tutto era ancora lì, immutato. Sul letto c’era ancora la stessa coperta, di lana grigia spessa e ruvida, che una mano ormai persa nel tempo aveva cercato invano di ingentilire con dei miseri fiorellini ricamati, ormai mezzo mangiati dalle tarme. La prese, tornò nella stalla e ci avvolse il vitellino.

Quando al mattino suo padre aprì il pesante portone per far uscire le bestie, lo trovò così, che dormiva beato con il capo appoggiato sul fianco del vitellino avvolto nella coperta. La coperta grigia con i fiori, sporca di paglia e lordata di letame. L’uomo non ci vide più dalla rabbia. Afferrò il figlio con un braccio e, prima che lui potesse rendersi conto di cosa stava accadendo, lo trascinò fuori. Senza capire il perchè, in un attimo il ragazzo si ritrovò, da addormentato contro il tempore dolce e amico del vitellino che verso l'alba aveva smesso di tremare e preso a respirare normalmente, a scaraventato faccia avanti nell’erba. La pioggia di botte iniziò subito dopo. Un asse o il manico di qualcosa; non fece in tempo neanche a capirlo. In realtà era più alto di suo padre e forte il doppio, anni e anni di lavoro senza sosta gli avevano sviluppato spalle ampie e robuste e braccia con muscoli da taglialegna: non solo avrebbe potuto difendersi, ma sarebbe stato in grado di sollevare da terra il padre, ormai vecchio e indebolito, e scaraventarlo lontano da sè. Ma non era mai stato capace di far male ad una mosca e così rimase lì, a terra, quasi un gigante che se ne stava rannicchiato cercando solo di proteggersi la testa, singhiozzando e  gemendo ad ogni nuovo colpo come un animale ferito mentre suo padre lo picchiava come impazzito. Lo picchiò per la coperta -una vecchia eredità di qualche parente di sua moglie, un oggetto dimenticato di cui non gli era mai importato nulla- e perché non era quello che sarebbe dovuto essere; perché era nato sbagliato. Lo picchiò per i ragazzini che gli ridevano dietro e lui neanche se ne accorgeva, lo picchiò per gli amici che da quando aveva quel figlio si lanciavano uno sguardo ogni volta che entrava all’osteria. Lo picchiò perchè non era il figlio che avrebbe voluto e quello che sarebbe dovuto essere; lo picchiò perché  era lo scemo, lo zimbello, l’idiota del paese e portava il suo cognome. Lo picchiò perché sorrideva sempre e sembrava sempre felice.

 


Smise solo quando le braccia arrivarono a fargli talmente male da non poterle più sollevare ancora per un altro colpo.


Lui rimase a terra. A lungo, molto a lungo. Ad aspettare che il dolore in ogni parte del corpo diminuisse, ma anche ad affrontare lo stupore, la scoperta, sconcertante e devastante –che faceva male ancora più delle botte- che il mondo non era giusto e la vita non era bella.
Per la prima volta in vita sua, aveva smesso di sorridere.
Quando ce la fece, si pulì come poteva dal sangue che, da un sopracciglio spaccato, gli era colato negli occhi e si girò sulla schiena. Aveva male lo stesso, ma almeno, da lì, poteva guardare le nuvole.
Le sue amiche erano lì –tante, quel giorno; il cielo era azzurro ma costellato di piccoli batuffoli candidi – ma erano così alte e lontane, così irraggiungibili, non potevano aiutarlo. Erano sempre state lontane e non avrebbero mai potuto aiutarlo, si rese conto in quel momento.

Il Dente della Stria aveva la sua solita nuvoletta, proprio in cima.

 

E fu allora che seppe cosa doveva fare.

 


Le botte prese avevano lasciato il segno, e pesante; e camminando, erano ancora più dolorose. Aveva un occhio semichiuso perché una palpebra era gonfia e sanguinante. Ma era abituato a stringere i denti e soprattutto ora, per la prima volta nella vita, sapeva dove andare. E stranamente, man mano che saliva il ripido versante erboso, la sofferenza fisica pareva quasi diminuire. Non era mai salito sul Dente ma aveva sentito dire che ci voleva molto, quasi una giornata. Ma ormai, non importava più. Ormai, niente aveva più importanza.  Niente che fosse in basso, giù, nel pese e nel fondovalle: quel mondo, se lo era lasciato alle spalle. Per la prima volta capiva con chiarezza che non era mai stato il suo mondo, e che lui non era mai stato di quel mondo. In quel momento, ora che per la prima volta non sorrideva più, ora che le botte e l’ingiustizia gli avevano tolto il velo dagli occhi,  divenne improvvisamente consapevole. Dei ragazzini che lo deridevano da anni, della stalla in cui dormiva mentre la sua camera, in casa, era vuota ed inutilizzata; degli anni di lavoro ininterrotto, senza mai sosta e senza mai una parola gentile. Capì di essere sbagliato, o di essere nato nel mondo sbagliato. Ma non aveva più importanza. Solo quella nuvola in cima, che si faceva man mano un po’ più vicina, aveva importanza.
Quando ci arrivò dentro, rimase sorpreso. Nella sua vita non aveva mai visto la nebbia, quindi fu qualcosa di completamente nuovo, irreale, una specie di vertigine, quel trovarsi avvolto da un'aria  bianca che si spostava e correva capricciosa come un gregge di pecore, un momento vedevi le montagne lontane e un attimo dopo quasi nulla, neanche a pochi passi davanti a te. Ma continuò a salire. Fino a quando raggiunse un paletto di legno seccato dal sole, che indicava la vetta. Non conosceva quel posto e la nebbia –la nuvola- era abbastanza fitta; ma lo aveva osservato molte volte da lontano e sapeva perfettamente come muoversi. Fece ancora qualche passo, finchè la roccia sotto i piedi gli fece capire di essere sull’orlo dell’altro versante, il precipizio. Spalancò le braccia, chiuse gli occhi. Respirò a fondo, più che poteva, per riempirsi di nuvola. E fece un passo avanti.

 

Nela nuvola.
                                     
Nel vuoto.

 


La sua mente era sempre stata lenta e poco attiva, ma in quei pochi attimi fu come se una scossa l’avesse svegliata da un sonno durato una vita e divenne velocissima. “Cosa ho fatto?”, si chiese mentre iniziava a cadere giù. Si disse che si sarebbe schiantato sulle pietre ai piedi del scarpata, che era stato un pazzo a credere che la nuvola lo avrebbe raccolto. Che le nuvole –lo aveva scoperto quel giorno- sono solo aria. Strana, bianca, bellissima, ma pur sempre aria: e l’aria non ha mai sorretto nessuno, tantomeno salvato. Ma poi si disse che, forse, era solo questione di crederci.
Di crederci fino in fondo.
E con tutto se stesso, in quei pochi secondi che gli rimanevano, cercò di farlo.

Crederci.


Crederci.


Crederci.


Cred...

 

                                                                         * * *

 

Per tutti era l’idiota del paese, quello che hanno trovato morto ai piedi del Dente della Stria.
Ma lui, adesso, vola su una nuvola.

 


   
 
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