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Autore: shilyss    31/03/2018    12 recensioni
I Nove Regni sono rimastati schiacciati sotto il pugno di ferro di un nemico invincibile: Thanos, il Titano Conquistatore. Coloro che non sono morti nel tentativo di combatterlo, cercano di sopravvivere come possono. Mentre il potere del nuovo signore di aumenta a vista d’occhio, si dice che ci sia qualcuno che lavora nell’ombra per fermarlo. Che si tratti di una vana speranza?
Dal cap. 1: “Thanos aveva preteso la sua vendetta comunque (…) Il destino di un traditore doppiogiochista era inevitabilmente tinto di rosso. Loki Laufeyson non era andato da Thanos nelle vesti di capo di stato, ma col ghigno beffardo di uno che non aveva niente da perdere, come un lupo solitario egoista e crudele pronto a recuperare in fretta il tempo perduto e il prestigio svanito.”
La mia personale visione dell’Infinity War (assolutamente NO spoiler). Seguito delle mie fanfic “Tutte le tue bugie” e "Oltre l'inganno." Non è necessario averle lette.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Loki, Sigyn, Thor
Note: Lemon, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La tela degli inganni'
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Tensione affilata


 
Fissò la sua immagine riflessa nello specchio cercando, nella confusione della sua testa leggermente annebbiata dal vino, di registrare i cambiamenti occorsi nelle ultime due ore e, allo stesso tempo, imprimere nella memoria il suo viso com’era in quel momento, a una manciata di minuti dall’inesorabile fine di quella serata straziante, ma necessaria. L’idromele bevuto fino a farle girare la testa non l’aveva ubriacata purtroppo, ma le era scivolato in gola lasciandola confusa e accaldata. Con una mano si massaggiò la nuca, con l’altra carezzò la carta ruvida su cui spiccava una firma corsiva tracciata con un segno rapido e deciso: la sopravvivenza di Vanheim segnata su un foglio di carta, la flebile speranza che i suoi bambini potessero ancora vivere sereni, protetti. Sigyn si morse le labbra nel tentativo di contenere un sospiro strozzato. Sonje e Vali a quell’ora erano a letto, certamente dormivano già. Li immaginò rannicchiati nei loro lettini, avvolti nelle coperte calde, circondati da animali di pezza. Le mancavano in maniera disperata, assoluta, atroce. Sentiva il bisogno di accarezzare i loro soffici capelli, di annusare il profumo di cuccioli che emanavano; moriva dal desiderio di stringerli e coccolarli e dir loro che tutto sarebbe andato bene. Sonje non le avrebbe creduto, all’inizio. Con quei suoi occhi grigi identici ai suoi, ma taglienti come quelli del padre, si sarebbe concessa il beneficio di attendere, aspettare. Nello sguardo verde e quasi trasparente di Vali, invece, avrebbe scorto la dolce e ingenua speranza innata che nutrono i bambini verso le cose del mondo.

Si asciugò una lacrima frettolosa facendo attenzione a non rovinare la polvere nera che circondava i suoi occhi bistrati, tentò di placare il respiro corto. La nostalgia di casa, di Vanheim, spesso si mescolava a un feroce rimpianto per ciò che era stato e aveva perso, ma questi erano tutti ragionamenti sbagliati che avrebbero rischiato di infrangere il precario equilibrio di quella serata dove tutto fino a quel momento era andato per il verso giusto. Si era prefissata l’obiettivo di essere affascinante e divertente e piacevole e c’era riuscita: lo aveva sedotto. Ora poteva sentire la sua voce secca e perentoria oltre la porta della stanza. Quanto tempo aveva ancora, a sua disposizione? Un paio di minuti forse, non di più. Inghiottì il dolore che la lontananza dai suoi figli, anche se breve, le provocava, e si concentrò sul suo viso. Sugli occhi grandi e grigi sfumati di nero, sull’acconciatura elaborata che le lasciava appositamente la nuca e il collo esposti e non privava gli uomini del piacere di poter ammirare la chioma bionda e folta che le ricadeva sulla schiena. Poi il suo sguardo scese giù, verso la scollatura bianca incorniciata dalla seta nera del suo abito di un’eleganza sfacciata. Rabbrividì ricordando come era stata guardata, quando a cena gli era apparsa davanti con quel vestito attillato che le fasciava la vita e il seno per poi scivolarle leggero sulle gambe tremanti. Fremette, osservando la spallina sottile ora penzolante che era stata brutalmente tirata giù e ora scopriva la spalla nuda, esposta. Lo aveva sedotto e le era piaciuto farlo.

No, il vino che avrebbe dovuto ubriacarla e al mattino giustificare i suoi errori non aveva sortito l’effetto sperato: Sigyn era lucida, ogni suo pensiero veniva formulato nella sua testa con la massima precisione e puntualità. Era il suo corpo a tradirla, a vibrare quando non doveva lasciandole una sensazione di umido calore tra le gambe. Un desiderio che il suo ospite aveva carpito, intuito, sentito persino. Con la coda dell’occhio, fissò il mantello abbandonato con malagrazia sulla poltrona soffermandosi sul vessillo di Thanos che spiccava sulla stoffa rossa. Nascose il foglio con un gesto rapido della mano, afferrò la caraffa d’acqua posta sulla toletta e bevve un lungo sorso che non riuscì a calmarla né a dissipare la confusione che le regnava dentro, ma servì solo a bagnarle le labbra e a prendere – o sarebbe stato meglio dire perdere, tempo.

La porta si aprì con un cigolio metallico, e subito la voce alta e chiara dell’uomo riempì la stanza portandosi dietro gli ultimi brandelli di una conversazione spaventosa intrapresa con leggerezza, che il legno e le pareti le avevano risparmiato e ora emergeva prepotente. Un ordine perentorio e implacabile capace di turbarla, perché le ricordò dov’erano rimasti prima che fossero interrotti, alla fine della cena. Rivisse il turbamento provato baciandolo, la disperata perdizione in cui era scivolata quando gli aveva concesso di liberarle la spalla da quel pezzo di stoffa, di afferrarle i fianchi e sollevarla. Era sola da troppo tempo perché le cose potessero andare diversamente, eppure.

 “Non voglio rubare ulteriore tempo alla vostra udienza privata con la Regina dei Vanir, Generale.” Sigyn tremò sentendo quel titolo, ma non distolse lo sguardo dalla sua immagine riflessa nello specchio. Non voleva incontrare lo sguardo né di lui, che certo ora la stava fissando, né quello dell’untuoso interlocutore che aveva assistito alla loro cena e l’aveva osservata mentre affascinava e irretiva il guerriero dal sorriso compiaciuto e lo sguardo attento che era sulla soglia. La porta si chiuse senza una risposta – forse il Generale si era limitato a sorridere e basta. La raggiunse e lei poté vedere i suoi occhi feroci sulla superficie riflettente, sentì le sue labbra che indugiavano sulla nuca e sul collo, stregata dalla tensione affilata che permeava quell’incontro. I loro respiri si incrociarono, le mani del guerriero le raggiunsero i seni e lei sospirò con forza a quel tocco, precipitando di nuovo in quello smarrimento da cui il pensiero di casa, di Vanheim, per un momento l’aveva risollevata. Le era necessario quel contatto. Voleva essere toccata, baciata, presa. Amata forse, ma del suo cuore ferito non poteva curarsi, ora. Lo aveva giurato sul trono di Vanheim e promesso a se stessa, a Sonje a Vali e a Loki, persino, che quella corona era riuscito solo ad accarezzarla appena.

No, Sigyn non era affatto ubriaca, ma avrebbe voluto esserlo perché aveva bisogno di quella notte così com’era, anche se le mani che la spogliavano erano quelle di un generale di Thanos. Non aveva importanza perché rabbrividiva a quel tocco e doveva mordersi le labbra per non gemere. Il Regno dei Vanir e i suoi problemi erano lontani anni luce anche se era per loro che si trovava lì, e non per soddisfare un bisogno fisico che l’aveva colta di sorpresa con la sua spiazzante urgenza. Il corsetto era slacciato fino all’ombelico, la bocca e la lingua del tirapiedi di Thanos la esploravano con un desiderio almeno pari al suo. Non resistette all’impulso di artigliargli i capelli e di dirgli di farla sua adesso, in quel momento.

Il Generale ghignò, la guardò con attenzione, cercandole sotto la gonna le prove di quel turbamento che le rendeva lo sguardo languido e annebbiato. “Non è ancora il momento. Possiamo divertirci di più” decise, e riprese a tormentarle i seni con implacabile, atroce lentezza, a baciarle le labbra per zittire le sue proteste.

Avevano respirato tutti l’affilata tensione che c’era stata tra loro, a cena. Erano stati intercettati sguardi, sorrisi, battute, allusioni velate, persino. Il modo in cui lei gli aveva offerto la mano e, più tardi, si era sfiorata l’orlo superiore del vestito guardandolo, anche quelli potevano essere annoverati come inequivocabili segnali del bisogno che li avrebbe spinti sul letto senza che ci fossero altre parole oltre a quella richiesta e al rifiuto che ne era seguito. Ma prima di godere l’uno dell’altra tra le lenzuola fu lì, davanti allo specchio di quella toletta che il Generale, con la stessa fermezza con cui comandava gli eserciti del Titano, la sollevò fin sul piano di legno e le aprì le gambe.

Sigyn gli sfiorò con le dita gli spallacci decorati e i gradi del comando e lo accolse dentro di sé senza esitazioni, aggrappandosi alla stoffa ruvida segno indelebile della sua sconfitta, abbandonandosi alla disperata voglia che il giorno dopo avrebbe maledetto ma non ora, non ora per le Norne. Gli cinse i fianchi e fu sua su quel mobile e dopo sul letto. Glielo gridò e disse, incapace di resistere al piacere basso e intenso che le provocava sentirlo finalmente dentro di lei. Lo assecondò in ogni suo movimento – anche questo era stato filato dalle tre entità che decidevano il destino?

Il Generale si compiacque per quell’ennesima vittoria. Anche lui aveva desiderato averla dal primo istante in cui l’aveva vista e non aveva creduto, quando gli si era seduta di fronte con quell’abito nero addosso, di poter finire così piacevolmente la serata. Avrebbe scommesso tutto quello che aveva su un suo sdegnoso e ragionevole rifiuto, piuttosto.

 “Sembra che con questa divisa ti piaccia di più,” constatò con voce roca, sentendo le mani delicate a ansiose della donna stringere disperate la stoffa scarlatta. Aveva ragione, ovviamente. Sigyn non lo avrebbe ammesso in nessun caso ad alta voce e non sarebbe mai riuscita a rendersi conto di come fosse possibile, ma era vero. Lo aveva voluto in maniera sfacciata quando aveva visto le insegne rosse e nere di Thanos addosso al suo corpo di guerriero, e quella che prima le era parsa una strategia disperata, aveva assunto i toni di una sfida intrigante che essere nuda con lui non bastava a placare. Perse il controllo all’improvviso e il Generale subito dopo di lei.

Si ritrovarono scossi e stremati, col fiato corto e ancora stretti l’uno all’altra, ma il desiderio impellente aveva lasciato spazio anche ad altro: alla ragione, finalmente. Grosse lacrime calde scivolarono dalle ciglia nere di Sigyn. Pensò a Sonje e a Vali, ai suoi bambini adorati e ignari di ogni cosa e pianse in silenzio ciò che aveva perso con gli occhi rivolti al soffitto, mentre la sua mano abbandonava con lentezza la stoffa scarlatta della divisa del Generale ancora steso sopra di lei. Lui si sollevò quel tanto che bastava per guardarla.

“Un rimpianto? Te ne penti?” domandò increspando le labbra in un mezzo sorriso. Aveva ancora il fiato corto.
Lei distolse lo sguardo. “Lo volevo, lo sai.”
“Allora cosa?”
“Sai anche cosa voglio. Che Thanos mi restituisca mio marito.”
Lo sentì tendersi, irrigidirsi, allontanarsi. Cambiare posizione e maledire il cielo, il destino e chi lo filava.
“Puoi biasimarmi?” insistette Sigyn. Cercò di coprirsi con un lembo di coperta, incapace di guardarlo negli occhi e di controllare la sua voce che sentiva sul punto di incrinarsi. “Sinceramente Loki, puoi biasimarmi?”
Il Generale di Thanos e dio degli inganni tirò su la schiena passandosi una mano tra i capelli scuri e la fissò come si guardano le cose amate e perdute. Era la prima volta che lo chiamava per nome da quando l’aveva rivista. Si era ostinata ad appellarlo con il suo grado militare per tutto il tempo facendolo impazzire di rabbia e desiderio. Si contenne.

“Povera moglie mia. Sei bellissima, stasera,” commentò asciugandole una lacrima.
“Vali è andato a cavallo per la prima volta, una settimana fa, e Sonje è sempre più brava con le rune. Gli manchi, ti cercano: non possono farsi bastare un’ombra che non li può abbracciare né stringere o consolare.” Si era ripromessa di non alludere mai, per nessuna ragione, al calore familiare cui l’Ase aveva voltato le spalle.  Loki serrò le labbra, guardò la toletta dove aveva ceduto al desiderio di averla.
“Lo dici come se fossi libero di andarmene. Non mi aiuti così,” le ricordò.


Era stata così forte. Aveva firmato editti, indetto riunioni, parlato ai comandanti, ai soldati, alla povera gente. Njord era morto stringendo la sua mano e lei, da quel momento, non era crollata un solo istante se non qualche volta nel letto matrimoniale divenuto all’improvviso troppo grande e freddo. Prima di prendere qualsiasi decisione importante, si tormentava la fede che aveva spostato dall’anulare alla collana che indossava tutti i giorni nel tentativo di provare a calmare il respiro e ragionare con la stessa pungente analiticità con cui Loki era solito sezionare ogni fatto. Rivederlo dopo tutti quei mesi era stato terribile, lancinante, distruttivo. Non aveva dimenticato di che colore fossero i suoi occhi perché li riconosceva tutti i giorni nel viso di Vali, ma si era resa conto di come avesse scordato il modo in cui la guardava: quel misto di divertita dolcezza e compiaciuta attenzione che l’aveva fatta arrossire nei tempi lontanissimi in cui litigavano ai banchetti e di cui non era sempre riuscita a cogliere l’inafferrabile senso nemmeno quando, più tardi, erano diventati amanti e si nascondevano negli angoli più remoti del palazzo dei Vanir.

Nessuno, nei Nove Regni e oltre, avrebbe mai osato dire che Loki Laufeyson avesse uno sguardo dolce: i suoi occhi chiarissimi erano densi di ombre di impenetrabile durezza, ma quando guardava lei, per le Norne, avevano una luce differente. Gli era cara – l’amava, anche se non glielo aveva mai detto apertamente. La Lingua d’Argento si era inceppata e non era riuscita mai a sciogliere il nodo rappresentato da quelle due semplici parole. Non era nella sua natura altezzosa, forse, cedere a voce a qualcosa di evidente. Sigyn nel tempo si era convinta, a ragione, che il dio degli inganni non avrebbe mai pronunciato le fatidiche parole, ma aveva riconosciuto il loro eco in una serie di piccoli gesti nascosti e quotidiani cui aveva imparato a fare attenzione: nel braccio che le cingeva a volte la vita la notte, nell’attenzione che prestava ai suoi discorsi o nella coperta che lasciava gli rubasse nelle sere di più fredde. Dopo un’avventura rocambolesca di cui spesso a lei non arrivavano che dettagli, sceglieva di ritornare da lei, da loro, e anche questo era amore.

Poi la catastrofe si era abbattuta su Asgard, e l’ombra delle sue macerie aveva travolto le loro vite per sempre. Scoppiò in lacrime anche se si era ripromessa di non farlo, artigliando con le dita la stoffa spessa di quella divisa estranea che conservava l’odore dell’Ase in silenzio accanto a lei. Profumo desiderato, cercato nell’armadio tra i singhiozzi per troppe notti, ora vicino a lei come il corpo che lo emanava. Di Loki che non le apparteneva più.
“Non aiuto te né Vanheim né loro. Tuo figlio ha gli incubi ogni notte, tua figlia è ombrosa, si è chiusa in se stessa. Ho qui i loro disegni, le loro lettere. Sarebbero felici se li avessi, ma tu non puoi tenerli,” constatò in un momento di lucidità improvvisa, asciugandosi in fretta le lacrime traditrici, il naso umido.

L’Ase la guardò con attenzione: il trucco nero si era leggermente sbavato, gli occhi grigi erano liquidi e carichi di una solitudine che mezz’ora di amore non aveva potuto soffocare, né l’abbraccio in cui erano ancora stretti. Le scostò una ciocca dorata dalla fronte – l’acconciatura si era irrimediabilmente disfatta, come i loro progetti di contenersi, e nel farlo le accarezzò il viso liscio, la pelle morbida.

“Sai che non posso tornare né portarvi con me. Ciò che non sai è quello che farebbe Thanos ai nostri figli, se li trovasse. Io sì,” confessò con voce tetra.
“E a te cosa farà?” Sigyn aveva fermato la sua mano e ora lo guardava fisso, in attesa delle ombre che gli avrebbero oscurato lo sguardo. Il destino di un traditore doppiogiochista era inevitabilmente tinto di rosso. Loki Laufeyson non era andato da Thanos nelle vesti di padre, marito e quasi capo di stato, ma col ghigno beffardo di uno che non aveva niente da perdere, come un lupo solitario egoista e crudele pronto a recuperare in fretta il tempo perduto e il prestigio svanito. Solo che abbindolare il Titano non era stato facile: la guerra contro Asgard poteva essere spiegata alzando fieramente il capo, ma il soggiorno presso Vanheim? Gli era toccato descrivere quella terra fertile e calda, dove anche gli inverni più rigidi erano tollerabili e miti, spezzati com’erano dalle correnti marine. Della giovane moglie e dei bambini non aveva fatto parola. Li avrebbe descritti con un’alzata di spalle come qualcosa di tangente che aveva interrotto il naturale corso della sua esistenza, una scorciatoia succosa verso un trono facilmente conquistabile: nello stesso identico momento in cui raccontava tutto questo al Titano, Njord moriva e Sigyn si ritrovava sola con la responsabilità di un regno intero sulle esili spalle.
 

“Non è il tipo di domanda che dovresti porti,” l’avvertì l’Ase, “e nemmeno la migliore che potresti rivolgere a me.”
Lei non sapeva niente. A volte, questo era l’unico pensiero consolante che gli attraversava la mente febbricitante, esaltata per aver intrecciato tra loro troppe rune. Sigyn era lontana, protetta dalle oscenità dell’universo, chiusa nel suo mondo incantato dove in inverno nevicava di rado, non più di un mese all’anno. Suddita di Thanos, come tutti, ma il Titano la ignorava. Purché lei gli obbedisse, ovviamente, e alla sua Sigyn non sarebbe passato nemmeno per l’anticamera del cervello di opporsi alla volontà del terribile dominatore, perché aveva visto cos’era successo a Thor e agli Asi. In un ultimo disperato tentativo di salvare il popolo che aveva dato vita agli indomiti guerrieri, Loki era arrivato persino a scatenare Surtur e a distruggere Asgard tutta: così la Voluspa si era compiuta. Mentre osservava i fiordi che circondavano il palazzo che era stato di Odino divenire rossi per le fiamme appiccate dal gigante di fuoco, il dio degli inganni aveva ripensato a Frigga, sua madre, quando tentava di spiegargli il senso nascosto di quella profezia implacabile e crudele che, un tempo lontano, lo aveva costretto a guardarsi allo specchio chiedendosi cosa ci fosse di storto, in lui.

Thanos aveva preteso la sua vendetta comunque. Vedere Asgard bruciare non gli era bastato. A Sigyn nemmeno Thor, ferito e fuggiasco, si era azzardato a raccontare la scena di Loki che, fingendo un sangue freddo che forse non possedeva del tutto e con gli occhi resi lucidi dall’aria densa di fumo, gli prometteva i suoi servigi. C’è qualcosa di tragico e nobile, in una resa plateale e disperata come quella messa in atto dal dio degli inganni. L’intera scena possedeva la gravità che solo i momenti fatali e decisivi vantano, unita al brivido d’eccitazione tipico di una scommessa azzardata: avrebbe osato barare, stavolta, il sagace ingannatore? Era conscio di quanto gli sarebbe costato, tornare nelle tetre fila di Thanos?

Ma lei non lo sapeva e nessuno glielo avrebbe detto e questo all’Ase bastava. Vanheim si era arresa e, nel preciso istante in cui ciò era avvenuto, il Titano aveva smesso di considerarla nient’altro che un punto verde sulla cartina. Anche Loki si era arreso, ma a lui non era toccato l’oblio né il disinteresse del conquistatore, e nemmeno questo lei doveva intuire. La morte di Njord, sotto questo aspetto, era stata provvidenziale perché la giovane regina non aveva avuto il tempo di pensare né di chiedersi che costo avesse, tornare dopo anni di assenza da un padrone abbandonato.

A volte però, nel cuore della notte, Sigyn si svegliava con in gola un grido sordo. Sobbalzando cercava istintivamente il corpo di Loki addormentato accanto a lei, come si era abituata a fare ormai da anni; mille volte la sua mano bianca e sottile aveva accarezzato i muscoli tonici del dio degli inganni addormentato; altrettante, spinta dal freddo o spaventata a causa di un incubo, gli si era stretta contro per cercare conforto tra le sue braccia. Lui a volte nemmeno se ne accorgeva, abbandonato com’era in un sonno profondo; alle volte, però, si svegliava sentendola scivolargli di fianco e la rimproverava con un mugolio basso, arrochito. Capitava anche che a causa del movimento leggero di lei l’Ase spalancasse gli occhi altrimenti verdi nel buio. Sentiva le gambe fredde di Sigyn avvinghiarsi alle le sue, il corpo flessuoso e caldo della giovane donna, con tutte le sue naturali e dolcissime curve, combaciare con la sua pelle nervosa, avvertiva il dolce gonfiore del seno premergli contro la schiena. Incapace di resisterle, sedotto da quella vicinanza, improvvisamente sveglio, con un gesto repentino era sopra di lei per baciare quelle sue labbra assonnate, il collo profumato, tirarle via l’inutile e leggera camicia da notte che indossava e farla sua. Colta alla sprovvista, Sigyn scopriva di volerlo con la stessa intensità e che le piaceva quel modo rapace dell’Ase di fare l’amore con lei. Qualche notte lo aveva trovato anche in piedi, intento a consolare il pianto infantile dei loro bambini.

Che spettacolo strano vederlo prendere in braccio un disperato Vali con i biondi capelli arruffati e bisbigliargli qualche frase consolatoria nella lingua dura degli Asi. Il bambino tendeva le braccia verso di lui, pretendeva che il dio degli inganni consolasse anche il suo giocattolo di pezza preferito, e Sigyn, immobile sulla soglia, nella penombra, ringraziava silenziosamente le Norne per quei momenti assolutamente perfetti. Loki che raccontava ai loro figli le avventure vissute con Thor e loro che lo guardavano e ascoltavano ammirati, Sonje che si arrampicava sulle sue gambe per stampargli un bacio umido sulla guancia e mostrargli tutta fiera un disegno o il traballante esercizio con cui cercava di imparare le rune, mentre lui, seduto sulla sua scrivania imponente, rispondeva alle numerose lettere, contrastava trattati, spulciava vecchie leggi in cerca di cavilli.

Non aveva smesso di essere il dio degli inganni neanche un momento. Le sue battute continuavano ad essere affilate come rasoi, la sua ambizione faceva conquistare a Vanheim una posizione di potere prima solo vagheggiata. Ciò che prima era stato fatto sotto pagamento di un lauto corrispettivo, ora veniva compiuto con volontà e decisione in vista di un futuro che si prospettava tutto sommato già scritto, lineare. Ripensare a quegli anni, adesso che Thanos aveva sconvolto ogni cosa, era come passarsi una lama tagliente sulla carne, perché non c’è cosa più terribile che rievocare i giorni felici, nella miseria, eppure anche allora c’erano stati giorni a loro modo tormentati. Del resto, Sigyn aveva sempre saputo chi fosse Loki. Si parlava di lui, alla corte di Njord, ben prima che Freya lo accogliesse a Vanheim. Le sue trovate sagaci – e crudeli – facevano spuntare un sorriso divertito sulle labbra sottili di suo nonno. Il ragazzo prometteva bene, Odino era stato abile e accorto: aveva tirato su rispettivamente un guerriero e un politico, il suo regno avrebbe proliferato, negli anni a venire. Gli Asi stavano perdendo la loro connotazione di barbari combattenti per diventare altro. Sigyn bambina ascoltava in silenzio, fantasticando su quei nomi che tanto spesso venivano pronunciati nella sua casa: Thor, Odino, Frigga, Loki, Asgard le erano quasi familiari.

Curiosa com’era, silenziosa come sarebbe stata ancora per poco tempo, assorbiva come una spugna discorsi e riferimenti. Nella sua testa, intanto, creava un mondo tutto suo, una Asgard immaginaria dove quegli Asi dal nome esotico avevano fattezze tutte particolari. Se Odino corrispondeva, con la sua barba bianca folta e candida e il suo occhio penetrante e acuto, al ritratto mentale della ragazzina, gli altri membri della casa reale erano decisamente differenti. La Frigga di Sigyn era più anziana di quanto non fosse in realtà, e così Thor e Loki. Come dovevano essere i figli guerrieri di un Re capace di schiacciare ben Otto Regni? Avevano senz’altro il viso segnato da rughe e ciuffi bianchi tra la barba e i capelli, almeno come zio Freyr, che certo un combattente non era. Sicuramente erano imponenti e massicci come il grosso capitano che governava le prigioni di Vanheim e riempiva con la sua stazza l’intero vano della porta. Però il dio dell’inganno non era esattamente un guerriero, o meglio, non era solamente questo: zia Freya raccontava stupefatta di come fosse anche un mago eccezionale, il fratello le ribatteva piccato che bilanciava così altre mancanze.

Che aspetto poteva avere, un maestro del seidr più abile persino di sua zia? Gli insegnanti e i precettori della ragazzina erano vecchi barbuti che avevano passato la vita a studiare e la bacchettavano per ogni errore di pronuncia, per qualsiasi distrazione che inficiava un suo esercizio matematico. Il figlio mago di Odino certo aveva studiato per anni su libri molto più complessi e difficili fino a perdersi gli occhi, e se suo fratello era un omone grande e grosso capace di sbaragliare da solo un esercito, lui senz’altro doveva avere una barba scura e arruffata che gli arrivava fino al petto e lo faceva assomigliare ai suoi insegnanti.

La prima volta che Sigyn lo aveva visto, aveva solo un paio di anni in più della loro figlia. Era una ragazzina magra e minuta con due spesse trecce bionde a incorniciarle il viso. Era sera, e le imposte tremavano scosse dal vento e dalla tempesta. Il cielo rivoltava sulla terra acqua e grandine, tuoni e fulmini squarciavano l’aria. Sigyn, spaventata, cercava sua zia per aiutarla a trovare la sua gattina che era fuggita dalla sua stanza qualche ora prima e temeva stesse bagnandosi sotto il temporale. Si era affacciata nello studio elegante di suo nonno e lo aveva visto seduto su una sedia, fradicio, ferito a una mano. Premeva sul palmo una pezza macchiata di rosso. Era rimasta incerta sulla soglia a fissare la scena strana che le si presentava davanti: Njord dietro la sua scrivania, a labbra serrate, e dietro di lui Freyr. Freya accanto alla sedia dove era seduto lo straniero vestito di nero con i capelli scuri tirati indietro e incollati al viso dal profilo affilato. Non era ancora Loki, in quel momento, ma solo un uomo giovane vestito in una maniera che assomigliava un po’ a quella degli Asi.

Anziché indossare gli abiti sontuosi di seta e broccato che si usavano tra i Vanir, portava infatti vestiti di pelle, tessuti pesanti, calzava stivali. Sentendola spuntare dall’ombra, si era immediatamente voltato verso di lei puntandole addosso un paio di occhi chiarissimi e verdi. Freya le aveva chiesto cosa volesse e l’aveva mandata via in maniera piuttosto sbrigativa, promettendole che avrebbe ritrovato lei stessa l’animale. Mentre Sigyn si allontanava, aveva ascoltato sua zia rivolgersi allo straniero.
“Perdona l’interruzione, Loki.”

Quel nome l’aveva fatta sobbalzare e girare di nuovo verso lo studio illuminato a giorno. Quel nome. Tornò a prestare attenzione allo sconosciuto seduto vicino a Freya: era un uomo di bell’aspetto, giovane, sbarbato. Un paio di lividi sul viso magro non intaccavano la sua aura regale, ma certo non facevano di lui il mago temibile e mortalmente esperto dei racconti che aveva sentito.
“Lui non puoi essere Loki!” La frase le era uscita letteralmente di bocca. Vide suo nonno alzarsi, la zia avvampare. Si sarebbero infuriati, l’avrebbero giustamente messa in punizione perché, come al solito, parlava a sproposito, si impuntava a voler ascoltare i discorsi degli adulti.
Il dio degli inganni aveva sogghignato. “Non posso?!”

Il sorriso feroce e sbieco dell’Ase l’avrebbe messa a disagio, anni dopo, e anche una volta che sarebbe diventata sua moglie avrebbe continuato a lasciarle addosso lo strascico di qualcosa che era, allo stesso tempo, paura, fascinazione, attrazione, confusione. A dodici anni pensò che fosse semplicemente bello.
“Credevo che fossi un mago degli Asi con una lunga barba e molto più vecchio di così,” osservò Sigyn guardinga. Loki buttò il capo all’indietro ridendo di gusto e, per un istante, assecondò la sua immaginazione cambiando aspetto, mutando forma, assumendo le sembianze che lei gli aveva attribuito. La ragazzina, spaventata, corse via.

Continua...


Ebbene sì. Sono stata davvero crudele con questo incipit. Volete protestare o dimostrare un vostro eventuale apprezzamento? Fatelo lasciando una recensione, una battuta, un messaggio privato mi fa sempre molto piacere avere un feedback. Stimola anche la mia creatività. Capito il messaggio subliminale? Che altro dire? A mercoledì! Passate delle buone feste!

Lo spiegone noioso dell’Autrice:
Per creare questa storia ho utilizzato e rielaborato tutto il materiale proveniente dalla trilogia di Thor e da quella di Avengers e Avengers: Infinity War (per quel poco che si è visto). Per questa ragione, non ho indicato nelle note la dicitura “Spoiler”: il rimaneggiamento, a mio avviso, non rivela contenuti. Trame e sensazioni si sono andate a fondere con il ciclo di storie che parte da “Tutte le tue bugie” e prosegue con la raccolta di shot “Oltre l’inganno” e “Altro che il Ragnarok” (quest’ultima è una cosetta comica perché non di solo angst e dramma si può vivere): come sempre, non serve necessariamente aver letto tali storie per iniziare questa, perché credo che ogni testo debba essere autonomo e conclusivo. Ovviamente, però, alcuni riferimenti al passato è inevitabile che ci siano. Che altro dire? Buona Pasqua.

 

 
   
 
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