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Autore: WillofD_04    05/04/2018    3 recensioni
Questa storia è il seguito di "Lost boys". Per leggerla non è necessario aver letto "Lost boys", ma è consigliato.
A quanto pare, l'avventura di Cami non è affatto finita, anzi, è appena cominciata! Che cosa le è successo? Sarà in grado, questa volta, di risolvere la situazione? Questo per lei sarà un viaggio pieno di avventure e di emozioni, che condividerà con persone molto speciali.
Non posso svelarvi più di così, se siete curiosi di sapere cosa le è capitato, leggete!
DAL TESTO:
Poco ci mancò che non caddi all’indietro dall’incredulità. Infatti dovetti reggermi agli stipiti della porta che era dietro di me per rimanere in piedi. Dieci paia di occhi mi fissavano, tutti con un’espressione diversa. C’era chi era divertito, chi indifferente, chi curioso e chi stupito.
«Oh cazzo...è successo di nuovo!» esclamai, al limite dell’esasperazione.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Mi svegliai. Un rumore fastidioso continuava a penetrarmi nelle orecchie e ad insinuarsi fin dentro il cervello. Qualcosa gracchiava, ormai da un paio di minuti. E non accennava a voler smettere. Aprii gli occhi controvoglia. Una flebile luce filtrava dall’oblò della cabina, segno che il sole aveva appena iniziato a sorgere. Solo in quel momento realizzai che quel suono irritante proveniva da un lumacofono. Un dannato lumacofono. Ma chi era il pazzo che chiamava all’alba!? E perché, poi? Era forse successo qualcosa? C’era un’emergenza? Al momento non mi importava. Avevo sonno e volevo solo dormire. Inoltre, non era il mio Den Den Mushi che squillava, ma quello di Sabo. Era un problema suo.
Grugnii poco elegantemente, poi infilai la testa sotto al cuscino e me lo premetti sulle orecchie per cercare di attutire i rumori. Percepii il materasso infossarsi dalla parte opposta del letto, segno che il biondino si era finalmente deciso ad alzare il culo e rispondere alla chiamata.
«Dove l’ho messo?» lo udii sussurrare. Sollevai di poco il cuscino e notai che era seduto sul bordo del letto. Proprio come suo fratello Rufy, si stava grattando la nuca nel tentativo di ricordare l’ubicazione di quel simpatico animaletto. Animaletto che sarebbe stato presto buttato giù dalla nave – da me – se avesse continuato a squillare. Mi rigirai dall’altra parte, cercando di ignorare il tutto.
Sentii un “clack” ed emisi un debole mugugno d’assenso. Finalmente l’aveva trovato e aveva risposto.
«Sì?» la voce impastata di Sabo mi risuonò nelle orecchie. Non si era presentato, né aveva chiesto chi ci fosse all’altro capo. Forse lo sapeva già, oppure non gli importava. In ogni caso, non era più sveglio di quanto lo fossi io.
«I piani sono cambiati. È necessario salpare prima che tramonti il sole. L’incontro avverrà nel luogo prestabilito. Avete le coordinate» fece la persona dall’altra parte del lumacofono. Poi, senza nemmeno dare al rivoluzionario il tempo di rispondere – o di realizzare appieno ciò che gli aveva comunicato – riattaccò. Le parole mi arrivarono ovattate e fu un miracolo che fossi riuscita a capire cosa stesse dicendo, ma la voce... la voce mi era familiare. Era una voce delicata ma decisa, ferma ed impassibile, che in quei mesi non avevo sentito e che mi era mancata molto. Law. Era la voce di Law! L’inconfondibile e stupenda voce di Law. Ecco chi era, il pazzo che chiamava all’alba. A ripensarci, sarebbe dovuto essere ovvio fin da subito. Spalancai gli occhi e la bocca per poi togliermi il cuscino dalla testa e girarmi di scatto. Il mio sorriso a trentadue denti si trasformò in un’espressione delusa nel momento in cui realizzai che la conversazione si era conclusa lì e che il mio capitano aveva attaccato. Lo sapevo, lo avevo sentito riattaccare, ma una piccola parte di me sperava di potergli parlare. Fissai il biondo, che aveva gli occhi socchiusi e stava rimettendo il Den Den Mushi dentro alla tasca della sua giacca blu, rimasta afflosciata sul pavimento dalla sera prima. Alzò le spalle, ancora visibilmente assonnato. Storsi la bocca, contrariata.
«Torna a dormire» mi disse. Nella sua voce percepii una punta di dolcezza. «Lo rivedrai tra poco» tentò di convincermi. Aveva ragione. Non c’era motivo di dispiacersi. Avrei comunque rivisto il chirurgo a breve, e non mi sarei limitata a sentire la sua voce attraverso un animale che faceva da telefono. Avrei assaporato appieno il momento, lo avrei guardato negli occhi, nei suoi gelidi occhi grigi di cui tanto avevo sentito la mancanza, avrei inspirato il suo odore e perché no, forse sarei perfino riuscita ad abbracciarlo.
Sorrisi, persa nelle mie fantasie, poi picchiettai la mano sul materasso per indurre il rivoluzionario a rimettersi a letto. Anche lui aveva bisogno di dormire un altro po’. Non si fece pregare e si stese accanto a me. Avremmo dovuto comunicare le novità all’equipaggio della Marie Jolie, e lo avremmo fatto, ma solo dopo esserci riposati un po’. Dopotutto avevamo ancora tempo, e di certo i Pirati Heart non se ne sarebbero andati senza di me. Ci avrei messo la mano sul fuoco.
«Buonanotte» fece Sabo, sprofondando la faccia nel cuscino. Sollevai un sopracciglio.
«Buongiorno, vorrai dire» lo corressi, sarcastica. Si abbandonò ad una piccola risata, prima di chiudere gli occhi e addormentarsi. Non ci volle molto perché lo facessi anche io. Nonostante quella brusca interruzione, andavo – o meglio, tornavo – a letto felice. Perché adesso sapevo che Trafalgar D. Water Law mi stava aspettando.
 
Ancora con i vestiti che avevo addosso la sera prima, uscii dalla camera e, una volta sul ponte, mi stiracchiai ben bene. Il sole era alto nel cielo, anche se coperto in parte da alcune nuvole dispettose. Avrei detto che fossero più o meno le dieci di mattina. Degli uomini uscirono dalla cabina adibita a cucina e sala da pranzo, accarezzandosi la pancia e compiacendosi di quanto fosse buona la colazione. Sabo doveva essere là dentro, a cibarsi di qualsiasi pietanza gli capitasse sottomano. Io, invece, non avevo tanta fame, perciò avevo deciso di saltare quel pasto. Sorrisi nel riflettere che la scena che avevo davanti agli occhi non era tanto diversa dal siparietto a tratti comico che si ripeteva ogni mattina a bordo della Thousand Sunny. La colazione durava circa un’ora, i Mugiwara chiacchieravano amabilmente, arraffavano tutto ciò che potevano e tentavano di ingoiarlo prima che il loro capitano glielo soffiasse da sotto al naso. Poi, tutti – o quasi – uscivano compatti dalla sala da pranzo con l’aria soddisfatta e le pance piene. Con i rivoluzionari non era tanto diverso. C’era perfino il “ritardatario” di turno, ovvero quello che preferiva rimanere ad ingurgitare gli ultimi avanzi. E chi poteva essere, se non il biondo fratello di Rufy? I due non erano fratelli di sangue, ma di certo lo erano di stomaco! Nel pensarci, non potei fare a meno di ridere. Ma supponevo che Cappello di Paglia fosse giustificato, dal momento che con i piatti che preparava Sanji un boccone tirava l’altro. Quel giorno, i miei ricordi sembravano funzionare alla stessa maniera. Fu così che iniziai a sentire il rumore di pentole e scodelle che proveniva dalla cucina della Sunny, accompagnato dal profumo invitante che avevano le pietanze che il cuoco cucinava con tanto amore ed impegno. Sembrava infaticabile. Non avevo mai visto tanta dedizione, passione e cura in un essere umano. Perfino alle cinque di mattina mi era capitato di udirlo armeggiare con mestoli e padelle, e non era mai stanco. Nonostante fossi rimasta poco con loro, non lo avevo visto vacillare nemmeno una volta. Amava quello che faceva e amava le persone per le quali lo faceva. Avevo ipotizzato che fosse questo il suo segreto.
Spostai lo sguardo al centro del ponte. La risata di Brook mi risuonò nelle orecchie. Il suo archetto, stretto tra le dita ossute, scivolava con grazia sulle corde del violino, che produceva una melodia allegra ma delicata. Nelle mani dello scheletro, quello strumento diventava pura magia. Era capace di fare miracoli. Le sue canzoni scandivano la giornata, e tutti parevano svolgere le loro attività di routine più di buon grado con un po’ di musica in sottofondo. Se l’avessi rivisto mi sarei dovuta ricordare di chiedere al musicista della ciurma di Cappello di Paglia di suonarmi di nuovo “My Heart Will Go On”, nella speranza che ne ricordasse le note.
Alzai gli occhi. A qualche metro da terra, poco sopra al propulsone della Sunny, c’era la buffa struttura quasi rotonda che ospitava la palestra della nave. Al suo interno c’era Zoro, coperto da un velo di sudore ed estremamente concentrato a contare le flessioni che aveva fatto. Gli enormi pesi erano momentaneamente abbandonati in un angolo – per così dire – della stanza. Ero stata in quella palestra una sola volta. Era intrisa di un odore mascolino, che però avevo inspirato con piacere, perché quello era l’odore della nobiltà d’animo, dei sacrifici, della determinazione. Di un sogno che ad ogni goccia di sudore versata diventava sempre più reale.
Piegai la testa da un lato e scossi appena la testa con un sorriso sornione. Eccoli lì. Rufy ed Usop, seduti scompostamente sulla ringhiera bianca. Tra le mani avevano una canna da pesca. Erano stati un’ora ad aspettare che qualche pesce abboccasse, sebbene sapessero che fosse inutile, perché si erano mangiati le esche. Dormivano beatamente schiena contro schiena e russavano pure.
«Stai fantasticando sul momento in cui rivedrai i tuoi compagni?»
Una voce alle mie spalle fece svanire le loro immagini dalla mia mente. Non c’era bisogno che mi girassi per capire a chi appartenesse. La conoscevo benissimo. Inoltre, c’era un’unica persona su quella nave che avesse la confidenza – che talvolta era anche troppa – per farmi una domanda del genere. A quanto pareva in cucina non c’era rimasto più cibo da ingerire.
«A dire la verità, stavo ripensando ai momenti passati sulla Thousand Sunny all’inizio della mia avventura, quando ero solo una ragazzina impaurita e piena di insicurezze che non sapeva cosa ci facesse in un posto del genere» affermai calma, incrociando le braccia al petto. Continuavo a fissare il parapetto della caravella, nella speranza di veder comparire davvero Rufy e Usop che pescavano.
«Ne è passato di tempo, eh?» fece Sabo, affiancandomi. Sbuffai una risata ed annuii, indecisa se abbandonarmi alla nostalgia o se essere fiera di me stessa per tutto quello che ero riuscita a superare.
«Però mi mancano, sai?»
«Rufy e la sua ciurma?» volle sapere. Mi strinsi nelle spalle.
«Tutti. Soprattutto i miei genitori» risposi. Mi umettai le labbra con la punta della lingua. All’improvviso mi sembravano aride. «Loro... loro mi mancano più di chiunque altro, perché so che la nostra non è solo una lontananza fisica».
Sospirai, cercando di non pensarci. Se c’era una cosa che avevo imparato in quegli anni, era che non tutti i mali venivano per nuocere. Alcuni mi avevano lasciato cicatrici indelebili, ma tutti, nessuno escluso, mi avevano aiutata a crescere. A diventare una persona migliore, più forte, più tenace, più consapevole.
«Il fatto che tu provenga da un altro mondo mi manda ancora in confusione» confessò il biondo, strappandomi una risata.
«Beh, non è qualcosa che capita tutti i giorni» commentai, spostando lo sguardo su di lui.
«O a chiunque» precisò con una rapida alzata di sopracciglia. Aveva un sorrisetto furbo e ambiguo. Che stava cercando di dirmi? Che dovevo ritenermi fortunata? Oppure quello era il suo goffo tentativo di rivelarmi che mi reputava una persona speciale?
«Ci sono momenti in cui mi chiedo perché la Stella abbia scelto proprio me. E perché abbia fatto tutto questo» allungai le braccia davanti a me nel tentativo di spiegare il concetto «Non riesco mai a trovare una risposta. O meglio, non riesco mai a trovare la risposta giusta. Ma poi dico a me stessa che se non l’avesse fatto sarei ancora la persona che non ho mai voluto essere. Quella che vaga nel buio, impaurita e persa, intrappolata in una realtà a cui non sente di appartenere».
«Forse è proprio questa la risposta che stai cercando» mi suggerì. Lo fissai stupita. Certe volte mi sorprendevo di quando Sabo riuscisse ad essere profondo.
«O forse non mi serve una risposta» dissi, più per cercare di convincere me stessa che lui «Sono qui, adesso, e questo è quanto. Era così che doveva andare ed è così che deve essere».
Distolsi lo sguardo dal biondo per un po’. Quando tornai a fissarlo, notai che nelle sue iridi era comparso un velo di tenerezza. Avrei fatto meglio a trovare un modo per smorzare i toni di quella conversazione, che stava diventando fin troppo seria per i miei gusti.
«Sai, credo di poter affermare che parte della mia felicità sta nel fatto che sono scampata agli esami di maturità» riflettei, fingendomi assorta.
«Ai che?» chiese il rivoluzionario, confuso.
«Meglio che tu non lo sappia» sussurrai con una smorfia. Scossi la testa con disinvoltura e gli diedi una pacca affettuosa e comprensiva sulla spalla. Certe cose sarebbe davvero stato meglio non saperle.
«Il mio unico rimpianto è di aver visto solo una piccolissima parte di quello che era il mio mondo d’origine. C’erano dei luoghi incantevoli che valeva la pena visitare» confessai poi in un sospiro. Avevamo già avuto una conversazione del genere, qualche tempo fa, tuttavia questa era la prima volta che gli rivelavo una cosa simile.
«Allora, quando tutto sarà finito e tu sarai tornata a casa, io visiterò questo mondo anche per te. E tu farai lo stesso, nel tuo universo» mi propose. Aveva lo sguardo sereno, gli occhi grandi e rotondi erano increspati agli angoli e sembravano ridere. Vedere il mondo era sempre stato il suo desiderio più grande, ed era sicuro che sarebbe riuscito a coronare il suo sogno. Sulle mie labbra comparve un sorriso amaro.
«Sempre se riuscirò a tornarci» mi lasciai scappare.
«Se è quello che vuoi, non vedo perché non dovresti riuscirci» fece lui con un’alzata di spalle.
«Già...» feci, poco convinta. Sospettavo che non fosse così semplice come credeva lui. A volte, volere non era potere, come sosteneva Sabo. La Stella era il mio unico biglietto di ritorno per il mio mondo, e non sapevo come farla comparire. E, anche se avessi trovato un modo, avevo già avuto i miei desideri, quindi non c’era possibilità che me ne concedesse altri. Il punto era che non mi dispiaceva più di tanto.
«Sai, sono piuttosto sicura che noi due ci rivedremo, un giorno, da qualche parte. Comunque vadano le cose. E quando lo faremo, saremo entrambi diventati...» mi interruppi, non sapendo come continuare la frase.
«Le persone che siamo destinate ad essere» proseguì lui per me. Era incredibile come certe volte riuscisse a captare i miei pensieri al volo. Eravamo entrati così in sintonia che adesso finiva pure le mie frasi.
Ci guardammo per un breve istante, prima di tornare a fissare il ponte della nave di fronte a noi, ora illuminato da qualche timido raggio di sole. Annuii con convinzione e sorrisi. Non avrei saputo trovare parole più giuste. Tuttavia, non potevo diventare la persona che ero destinata ad essere se prima non mi facevo una doccia. Non avevo intenzione di ritornare dai miei compagni con un odore sgradevole addosso.
Diedi un’ultima occhiata al ponte e poi a Sabo, dopodiché mi voltai e tornai nella mia cabina senza dire niente. La conversazione era caduta lì, ma noi due, quel giorno, ci eravamo implicitamente fatti una promessa.
 
La serratura scattò. Almeno in quel bagno c’era una serratura – seppur malandata e rugginosa – e stavolta mi ero ricordata di farla scattare in modo che nessuno potesse entrare. Avevo appena iniziato a spogliarmi, con il rumore dell’acqua della doccia che scorreva di sottofondo, quando la maniglia della porta iniziò a girare. Mi voltai di scatto.
«È occupato!» esclamai, nella speranza che la persona dall’altra parte mi sentisse. La maniglia si mosse ancora. Non mi aveva sentito.
«È occupato!» ripetei, stavolta con più convinzione. Il tizio non demorse e continuò a provare ad entrare. Sbuffai un paio di volte, poi mi rimisi la maglietta. I pantaloni li lasciai per terra, al massimo me li sarei infilati dopo. Mi rendevo conto che avere un solo bagno per quattordici persone non fosse proprio una soluzione ideale, ma quello era ciò che passava il convento – o meglio, l’Armata Rivoluzionaria – e dovevo accontentarmi. La stanza non era particolarmente grande, ma neanche minuscola. Il pavimento era composto da mattonelle piccole e quadrate color celeste pallido, mentre i muri erano completamente bianchi. Proprio accanto allo specchio sopra al lavandino, la parete era attraversata in verticale da un’impercettibile crepa. La doccia, invece, non ero del tutto sicura che si potesse chiamare tale. Era più una piattaforma quadrata appena rialzata, circondata da una tendina di plastica rosa. Perché fosse proprio rosa, rimaneva per tutti un mistero. Ad ogni modo, lo spazio, là dentro, era relativamente ridotto. Uno come Franky non ci sarebbe mai entrato. Non che ciò fosse un problema, per me, visto che ero abbastanza minuta rispetto ai giganti – letteralmente e non – che circolavano in quell’universo. Quanto al resto, c’era l’essenziale. Niente di più di ciò che ci si potesse aspettare da un bagno. Erano finiti i tempi in cui vivevo nel lusso. Dover dire addio a quella che per un po’ era stata la mia vasca era stato difficile. Però il fatto che non toccasse a me pulire la toilette era già un passo avanti. Un brivido mi attraversò nel momento in cui pensai che a breve Law mi avrebbe di nuovo obbligato a prendere lo scopino in mano.
La maniglia si girò di nuovo. Chiunque ci fosse là fuori, sembrava impaziente. Magari quel pover’uomo fuori dalla porta aveva un’urgenza. Girai il chiavistello ed aprii quel tanto che bastava per fare capolino con la testa. La mia finta espressione cordiale si tramutò in fastidio vero e proprio quando scorsi Sabo, in piedi davanti a me.
«Che cosa ti serve?» gli chiesi seccata. In risposta fece un ghigno malizioso.
«Ho da fare.» lo liquidai perentoria. Il suo ghigno si allargò nel momento in cui notò che ero in mutande.
«Lo so. Stai per fare la doccia» affermò, allungando il collo per scrutare l’interno del bagno. Assottigliai gli occhi.
«No, Sabo. No.» gli imposi con decisione.
«Sei stata tu a proporlo. Non puoi tirarti indietro» mi ammonì, tuttavia scherzando ed esibendo un sorrisetto compiaciuto.
Digrignai i denti. Aveva ragione. La notte prima gli avevo proposto di farci la doccia insieme. Mannaggia a me. E mannaggia a lui, che si ricordava solo quello che gli faceva comodo. Adorava giocare con le parole e rigirarle a suo piacimento.
Feci per chiudere la porta, ma lui la bloccò con una mano.
«Queste sono le tue ultime ore di viaggio. Dovresti approfittarne» disse, poi lasciò cadere la mano lungo il fianco, come se sapesse che alla fine avrei capitolato e lo avrei lasciato entrare. Aveva tentato il tutto per tutto con quella frase.
Scossi la testa e sbuffai. In fondo, non aveva tutti i torti. Quelle erano davvero le ultime ore che ci rimanevano insieme. Che motivo avevo di mettermi a fare la preziosa proprio adesso, quando non lo avevo fatto in tre mesi?
“Al diavolo. Al diavolo tutto” pensai, poi mi feci da parte ed aprii la porta, proprio come aveva previsto Sabo, che infatti non perse tempo ed entrò nel bagno. Sembrava contento, ed io sapevo che non era solo perché aveva “vinto” quella piccola battaglia.
«Ora ascoltami bene» iniziai, piazzandomi davanti a lui ed incastonando i miei occhi ai suoi, curiosi «Se questa è davvero la nostra ultima volta, farai meglio a renderla memorabile.» quasi glielo imposi, le iridi ferme e l’espressione impassibile. In cambio mi regalò uno dei suoi ghigni migliori. Dopotutto, gli avevo appena lanciato una sfida.
Prima di fare qualsiasi altra cosa, però, mi premurai di far scattare – per l’ennesima volta in quella giornata – il chiavistello della serratura. Sarebbe stato meglio non rischiare, soprattutto considerato che qualche tempo prima quell’idiota si era infilato nella mia vasca da bagno dimenticandosi di chiudere tutte le porte.
Quando mi fui accertata che tutto fosse a posto feci per togliermi la maglietta, ma lui mi fermò. Lo guardai interrogativa, tuttavia invece di rispondermi afferrò il lembo inferiore della mia t-shirt ed iniziò a sollevarlo lentamente. Feci un sorrisetto compiaciuto – che celava un po’ di sorpresa – poi alzai le braccia e lasciai che me la sfilasse. Fino a quel momento non era mai accaduto che volesse fare le cose con calma, e non mi aspettavo che potesse essere così paziente e delicato, invece continuava a sorprendermi. Forse aveva preso le mie parole sul serio e stava provando a rendere la nostra ultima volta davvero memorabile. Buon per lui. Anzi, buon per noi.
Osservai Sabo mentre si allentava il fazzoletto che aveva al collo, per poi liberarsene insieme alla giacca. Sebbene non ne avesse bisogno, decisi di ricambiare il “favore” che mi aveva fatto poco prima e lo aiutai a togliersi i pantaloni. Accompagnai l’indumento fino a terra con le mani e con il corpo, dopodiché risalii le gambe del biondo con i palmi, accarezzandone la superficie tiepida e muscolosa. Alzai la testa. Eravamo entrambi rimasti in intimo. Ci scambiammo una rapida occhiata, poi mi prese il viso fra le mani e lo guidò fin verso il suo, costringendomi a rialzarmi. Quando le nostre labbra si toccarono, mi resi conto che il mio corpo non era mai stato così leggero. Mi sembrava di fluttuare in aria o di galleggiare nell’oceano, e non avevo idea del perché mi sentissi così, sapevo solo che quella era la prima volta che mi capitava. Forse era perché ero consapevole che quella sarebbe stata la mia ultima occasione per lasciarmi andare sul serio.
Con un gesto svelto e sapiente Sabo fece scivolare i miei slip sul pavimento e poco dopo anche i suoi boxer subirono lo stesso destino. Ci abbandonammo ad una breve risata. Eravamo nudi e più liberi che mai. Iniziammo a baciarci con veemenza, senza smettere nemmeno per riprendere fiato. Avevo le palpebre serrate, persa in quel paradiso oscuro. Le sue mani erano pressate sulle mie guance, mentre le mie erano attorcigliate attorno al suo collo. Le nostre labbra, inutile dirlo, combaciavano alla perfezione e sembravano sapere esattamente come muoversi. Tra me e il fratello di Rufy c’era una complicità elettrica. Probabilmente c’era sempre stata, dovevamo solo trovare il modo di lasciarla uscire allo scoperto.
In un attimo fummo a qualche centimetro dalla doccia. Lo sentii scostare con la mano la tendina rosa e riaprii gli occhi per un paio di secondi, leggermente sorpresa. Non mi ero neanche accorta che ci stessimo muovendo, tanto ero presa dal momento. Entrammo nella doccia senza perdere tempo, e il biondo si allungò per girare la manopola e aprire l’acqua, che venne giù in uno scroscio gelido. Mi lasciai sfuggire un gemito di fastidio mentre un brivido si propagava in tutto il mio corpo. Il rivoluzionario si chinò verso di me sfoggiando un ghigno poco innocente e mi baciò con passione. Nonostante l’acqua fosse fredda, il mio corpo bruciava. Bruciava di desiderio, bruciava di piacere, bruciava e basta.
Per un breve momento mi fermai ad osservare l’acqua che gocciolava sul suo viso. Dai capelli dorati che gli ricadevano sulle tempie, le goccioline scivolavano sulle guance, poi sulle mandibole ed infine sulla pelle tesa ed invitante del suo collo. La vena pulsante sulla sua gola pareva che stesse chiamando il mio nome, quasi aspettasse di essere marchiata dalla mia lingua. Per una volta fui io a non pensare. Mi avventai sul suo collo, come un predatore si avventerebbe sulla giugulare della propria preda, e cominciai a percorrerlo con bacetti appena accennati che poco dopo si trasformarono in piccoli ed innocenti morsi. L’acqua, adesso un po’ più calda, scivolava copiosa lungo la mia schiena nuda ed ormai libera dai capelli. Probabilmente era anche questo che mi faceva sentire la testa più leggera. Se non fossi stata presa ad assaporare ogni centimetro di epidermide del rivoluzionario, avrei riso. Percepii che il mio “assalto” gli stava piacendo perché mi accorsi che gli era venuta la pelle d’oca. Gli piaceva compiacermi, perché in questo modo compiaceva anche se stesso, ma stavolta... era differente. In un certo senso, volevo ripagarlo per tutte le volte in cui mi aveva fatto sentire così bene che sarebbe stato impossibile da spiegare a parole. Non aveva fiatato fino a quel momento, né una parola, né un gemito, né un lamento; eppure aveva parlato, era stato il suo corpo fremente a farmi capire esattamente quello che voleva. Me. Voleva me. Non era una novità che mi desiderasse – non nel senso strettamente fisico, almeno – ma questa volta c’era qualcosa che mi rendeva euforica al pensiero. Forse perché questo mi dava la certezza che separarsi da me non sarebbe stato troppo facile neanche per lui.
Le sue dita, che fino a quel momento avevano vagato per tutto il mio corpo alla ricerca di una meta ben precisa, smisero di solleticarmi la pelle. Mi fermai anche io e lo guardai interrogativa, pensando che ci fosse qualcosa che non andava.
Incastonò i suoi occhi ai miei, sul volto aveva un’espressione indecifrabile. Le sue iridi di carbone risplendevano di una luce strana, diversa.
Mi spinse con forza verso il muro. La mia schiena aderì completamente alla parete bianca e mi lasciai andare ad un sommesso risolino. Sembrava una contraddizione. Il bianco, un colore puro ed immacolato. Era decisamente inadatto a fare da sfondo a ciò che stavamo facendo. Annaspai, come se stessi cercando un appiglio a cui reggermi per non essere sommersa da tutta quella passione; Sabo, però, mi riportò prontamente le mani sopra la testa ed intrecciò le dita alle mie, come se con quella mossa mi avesse lanciato il salvagente che mi serviva per restare a galla. Le mie mani erano fuse alle sue, circondate da una prigione accogliente e rassicurante, la stessa che mi aveva terrorizzata il giorno in cui il rivoluzionario mi aveva dato il primo bacio e nella quale adesso non vedevo l’ora di trovarmi. Proprio come quel giorno, si prodigò in un bacio. Un bacio talmente potente ed intriso di voluttà che mi fece gemere. Pensavo che la testa mi sarebbe scoppiata, che non avrei retto a tutte le sensazioni che stavo provando. Il cuore batteva fortissimo, la vista era appannata, le gambe erano deboli e tremolanti ed il mio corpo non vedeva l’ora di unirsi a quello di Sabo. Era arrivato il momento. Non potevamo più aspettare.
Le nostre mani si staccarono. Le sue andarono a piazzarsi sui miei fianchi, ormai protesi verso i suoi, mentre le mie finirono tra i suoi capelli. Gli passai le falangi con forza su tutta la testa, stringendo e giocando con ogni singola ciocca umida che riuscii a trovare. All’improvviso, la mia gamba sinistra si sollevò, sorretta dal braccio del biondo. Arricciai le dita del piede, non potendo fare altro. Ero completamente scoperta e vulnerabile, e avevo scoperto che mi piaceva essere in balìa degli eventi. Annuii, dandogli così il permesso di farlo, di diventare un tutt’uno con me. Ci scambiammo un ultimo sguardo ed un ultimo bacio prima che accadesse l’inevitabile.
Nel momento in cui successe, reclinai la testa all’indietro e chiusi gli occhi. L’acqua si riversava violenta sul mio viso. Per un breve momento, attorno a me tutto sparì. C’eravamo soltanto io e Sabo. Il tempo aveva smesso di scorrere e la testa di pensare. Riuscivo a riconoscere solo una sensazione: puro piacere. Non mi ero mai sentita in questo modo. Mai. Ero in estasi. Mi sentivo leggera, come se il mio corpo non avesse un peso, ma allo stesso tempo mi sentivo parte di ogni cosa. E sapevo che Sabo si sentiva alla stessa maniera. Riuscivo a sentire il suo cuore battere forte, quasi frantumare la gabbia toracica per poter uscire dal corpo e unirsi al mio. Non era una cosa fisica, non lo stavo percependo con i cinque sensi, ma lo sapevo e basta. Eravamo connessi. Eravamo una cosa sola. Due anime unite in un solo corpo.
Trattenni il respiro, per poi esplodere in tutto il mio assenso. Fortunatamente per noi, lo scroscio dell’acqua copriva ogni altro rumore e rendeva impossibile sentire urla e gemiti di qualsiasi tipo da fuori. Le mie unghie si conficcarono nella carne della sua schiena, supplicandolo di non fermarsi. Dovevo averne di più. Ancora di più. Sempre di più. Quella sensazione di leggerezza e potenza che non avevo mai provato prima mi rendeva ingorda. Mi diedi una piccola spinta ed avvinghiai entrambe le gambe al suo busto. La mia schiena aderiva completamente al muro, il getto d’acqua era proprio sopra le nostre teste. In quell’intreccio di gambe e braccia, percepii il suo respiro caldo contro la mia pelle. Ansimava, perso in quell’oasi di piacere.
«Questo...» feci per parlare, ma le parole vennero soffocate da un gemito di piacere che mi fece di nuovo reclinare la testa all’indietro.
«Sì...» fece lui, ansando.
«Questo è...» riprovai, venendo zittita dal biondo, troppo impegnato a fare magie per potersi distrarre.
«No, lo devo dire» insistetti, grattando sulla sua schiena «Questo è...»
Stavolta non fui interrotta da niente e nessuno, però mi ero resa conto di non riuscire a trovare la parola adatta per descrivere il momento.
«Magnifico» disse lui per me. Annuii, non sapendo che altro fare, sebbene non fossi del tutto d’accordo. Era molto più che magnifico, accidenti a lui. Se non altro ero contenta che stesse provando le mie stesse sensazioni.
Affondò la testa nella mia spalla, la fronte pressata proprio nell’incavo della clavicola. Lui sosteneva il mio corpo ed il suo. Però, nessuno dei due avvertiva il peso dell’altro, né il proprio, né quello delle cose che ci circondavano. Sentivo il suo fiato bollente sul petto, proprio all’altezza del cuore; come se il suo respiro fosse riuscito a scongelarlo dal torpore in cui era. Lo circondai con le braccia e lo strinsi a me. Rimanemmo in quella posizione senza staccarci o muoverci per un tempo indefinito. Potevano essere secondi, minuti o perfino ore, non ci importava. Volevamo solo rimanere ancora un altro po’ così, avvinghiati, tuttavia senza alcuna malizia. L’acqua scorreva libera lungo la nostra carne. Il suo getto non si era affievolito in quei minuti, proprio come la passione che ci legava. Non avevamo bisogno di dire nulla. Non avevamo bisogno di parole, sapevamo esattamente quello che pensava l’altro. Ci capivamo tramite i nostri corpi. I nostri respiri sembravano essersi sincronizzati. Adesso eravamo davvero una cosa sola. Stavamo tremando tutti e due, scossi dal piacere. A far tremare me, però, non era soltanto il piacere. Era anche la felicità che stavo provando in quel momento. Non ero stanca, non avvertivo la fatica e non mi sentivo svuotata, ma anzi, mi sentivo riempita, riempita di speranza, di libertà, di soddisfazione. E non avevo rimpianti di alcun tipo. Dopo parecchio tempo, sentivo che niente sarebbe potuto andare storto. Mi sentivo invincibile, e sperai che anche per il biondo fosse lo stesso.
Era cambiato qualcosa tra di noi, in quella doccia? Chi poteva dirlo, chi poteva saperlo. Lo avevo praticamente obbligato a rendere memorabile la nostra ultima volta insieme, e lui aveva fatto ciò che gli avevo chiesto di fare.
Quella... fu un’ultima volta memorabilissima.

Ero in piedi, lo sguardo fisso su qualcosa a pochi metri da me. Il cuore batteva forte e lo stomaco faceva le capriole, mentre gli occhi erano lucidi di gioia. Di fronte a me, in tutto il suo giallo splendore, si ergeva il Polar Tang. La mia casa. Mi portai istintivamente la mani al cuore e mi strinsi nelle spalle.
«È questo? Sei sicura?» mi chiese Sabo, alle mie spalle. Annuii distrattamente. Come potevo non esserne sicura? Lo avrei riconosciuto ovunque e tra mille altri sottomarini gialli. Ci erano voluti dieci minuti per arrivare fin lì. Dieci minuti di emozioni intense. Ma alla fine – contro ogni previsione – lo avevamo trovato.
Quando mi avevano comunicato che eravamo arrivati a destinazione, la gola mi si era chiusa ed all’improvviso ero diventata impaziente. Non mi importava più di niente, volevo solo rivedere i miei compagni. Avevo salutato gli altri rivoluzionari e li avevo ringraziati per tutta la gentilezza che mi avevano mostrato e la disponibilità che avevano avuto nei miei confronti. Loro mi avevano detto di prendermi cura di me stessa ed io li avevo ringraziati ancora. Poi ci eravamo dovuti separare, loro erano rimasti sulla caravella, mentre io e Sabo eravamo stati calati in mare su una scialuppa. Mi avevano spiegato che sarebbe stato più sicuro in questo modo, era meglio non avvicinarsi troppo al sottomarino con la caravella, ed io mi ero trovata d’accordo. Dovevamo essere prudenti.
Il biondo aveva remato per un po’, finché non avevamo trovato il sommergibile. Ci era praticamente apparso davanti agli occhi, e quando lo avevo visto il mio cuore aveva smesso di battere per qualche secondo. Non mi era mai sembrato tanto bello e familiare come in quel momento. Tutto sembrava calmo e silenzioso, come mi aspettavo che fosse.
La piccola scialuppa barcollò ed io rischiai di perdere l’equilibrio.
«Bene. La via è libera» constatò il rivoluzionario. Con la coda dell’occhio notai che aveva impilato sulla spalla sinistra le due casse di pane come se fosse la cosa più naturale al mondo, dopodiché assicurò la barchetta alla catena dell’ancora del Polar Tang con una corda.
«Andiamo» mi sollecitò. Poi, senza aspettare un cenno o il permesso di salire a bordo, mi afferrò per la vita, saltò verso l’alto e riatterrò sul ponte del sottomarino, con me e le casse di pane appresso.
Rimasi interdetta per un paio di secondi dopo che appoggiai i piedi sul pavimento del ponte. Non sapevo che dire o che fare. Non sapevo se essere arrabbiata con Sabo per il modo in cui aveva “gestito” il tutto o se essere felice perché a pochi passi da me c’erano i miei compagni. Avrei voluto assaporare di più e meglio il momento, ma in fondo avrei dovuto aspettarmelo. Dopotutto, al biondo non piaceva perdere tempo in convenevoli. In questo era simile a Law.
«Addio entrata trionfale» commentai esasperata.
«Sarebbe stata comunque sprecata» replicò il rivoluzionario. Mi guardai intorno. Aveva ragione. Non c’era nessuno sul ponte. Era deserto. Forse i Pirati Heart volevano farmi credere che non ci fossero per poi farmi una sorpresa. No, il capitano non era il tipo che si lasciava andare a tali sentimentalismi. Quindi, doveva esserci qualcos’altro sotto. Che fossero tutti dentro? Impossibile, soprattutto in una bella giornata come quella. "Bella" era un eufemismo, visto che verso l'ora di pranzo si era fatto piuttosto nuvoloso, ma comunque non pioveva. Risalivamo poco in superficie, figurarsi se si lasciavano scappare un’occasione del genere per prendere un po’ d’aria. Probabilmente erano sbarcati sull’isola Denim e non erano ancora tornati. Eppure eravamo in perfetto orario, avrebbero dovuto essere lì. Un velato senso di angoscia iniziò a farsi strada in me nel momento in cui mi ricordai della telefonata di quella mattina. Non ci avevo dato troppo peso, ma cominciavo a pensare che ci fosse qualcosa che non andava. Altrimenti perché chiamare all’alba e prendere tutte quelle precauzioni?
«Deve essere successo qualcosa. Dobbiamo andare a controllare. Law non è mai in ritardo» dissi decisa. Sabo, accanto a me, mi strinse appena il braccio, come per impedirmi di compiere qualche gesto avventato.
«Non lo è neanche stavolta. Rilassati. Siamo noi ad essere in anticipo» mi spiegò, calmo e sorridente.
«Sul serio? Credevo che fossimo puntuali» dissi, sgranando di poco gli occhi.
«No, siamo in anticipo di circa un’ora» rispose con una blanda alzata di spalle. Mi tranquillizzai. All’apparenza era tutto in ordine e tutto a posto. Sospirai e mi spostai dalla parte opposta del ponte per osservare l’orizzonte. Eravamo distanti dalla costa dell’isola Denim, perciò tutto ciò che riuscivo a scorgere era una linea irregolare di terra e rocce sui toni del verde e del marrone. I miei compagni dovevano essere lì. Avrei tanto voluto vedere cosa stava succedendo.
Il biondo mi raggiunse poco dopo.
«Credi che stiano bene?» gli chiesi, voltandomi verso di lui, lo sguardo leggermente preoccupato. Non potevo perderli di nuovo, non ora che ero così vicina a ritrovarli.
«Non lo posso sapere con certezza, ma il tuo capitano mi sembra uno che sa il fatto suo» affermò ghignando. Sorrisi anche io ed annuii. Ci poteva scommettere che sapeva il fatto suo.
Un brontolio mi distrasse dalle riflessioni. Sbuffai involontariamente una risata. Era stato lo stomaco di Sabo ad emetterlo.
«Non dirmi che hai ancora fame. Hai pranzato un’ora fa» quasi lo canzonai. “Tale fratello maggiore, tale fratello minore” pensai tra me e me, scuotendo la testa e ridendo. Il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria, in tutta risposta, si strinse nelle spalle e si avviò verso il portone metallico dal quale si accedeva all’interno del sommergibile.
«Hai la chiave?» mi domandò, studiando il possibile funzionamento della porta.
«La chiave? Non so neanche se quell’affare si apra con una chiave» risposi. Se c’era una cosa certa ed appurata – che anche Sabo sapeva, perché lo aveva ammesso lui stesso poco prima – era che Law non era uno sprovveduto. E nemmeno un idiota. Sapeva come tenere al sicuro le cose a cui teneva. Non tutte, ma buona parte, e il sottomarino era tra quelle. Sospettavo che nessuno, a parte forse Bepo, sapesse come sbloccare la serratura. Ammesso che ci fosse una serratura. Il portellone poteva aprirsi solo ed esclusivamente risolvendo un rompicapo cinese o completando il cubo di Rubik, o magari recitando una formula in aramaico antico, per quel che ne sapevo. Non mi ero nemmeno mai posta il problema.
Il biondo picchiettò le nocche un paio di volte sul portone, come a testarne lo spessore.
«Lascia perdere. Se adesso apri quella porta e profani il luogo sacro dietro di essa, ti farai un nemico» lo avvisai, ma lui non demorse «Inoltre, non c’è alcun bisogno che aspetti qui con me. La tua missione è terminata, sono arrivata sul sottomarino sana e salva».
Non mi rispose. Non mi degnò nemmeno della sua attenzione. Era troppo impegnato a cercare un modo per poter entrare all’interno del sommergibile e mettersi a svaligiare il frigo. Ma io non potevo lasciarglielo fare. Non per il frigo, né perché Ryu si sarebbe infuriato se il rivoluzionario lo avesse svuotato, quanto perché l’idea che i miei compagni lo vedessero mi faceva stare in ansia. Law avrebbe sicuramente capito. Lui capiva sempre. Avrebbe capito anche se io e Sabo non ci fossimo guardati. E chissà che cosa avrebbero pensato gli altri Pirati Heart. Quando volevano sapevano tirare fuori allusioni molto fastidiose. Dovevo trovare un modo per farlo andare via prima che ritornassero. Mi avvicinai a lui e gli poggiai una mano sulla spalla.
«Dico sul serio, Sabo» insistetti, nella speranza che stavolta mi ascoltasse «È meglio che torni alla Marie Jolie. Io starò bene, e saremo tutti conten...»
Un tuono vicinissimo e potentissimo squarciò l’aria sopra di noi e mi fece prendere uno spavento, impedendomi di finire la frase. Alzai lo sguardo. Tre nuvoloni neri erano comparsi all’improvviso sopra il Polar Tang. Sembravano essersi radunati lì apposta. Ci mancava solo che si mettesse a piovere. Neanche a farlo apposta, infatti, poco dopo iniziò a piovere davvero. Solo che quella che stava cadendo dal cielo non era acqua normale. Era blu. Blu. Assurdo. E dire che ne avevo viste di cose strane in vita mia.
La pioggia scendeva con così tanta violenza che mi infradiciai in un meno di un minuto. Tuttavia non ebbi il tempo di metabolizzare, perché una mano mi afferrò il polso e mi tirò all’interno del sottomarino. Tirai un sospiro di sollievo. Ero in un luogo asciutto, rassicurante e famigliare. Ero all’interno del Polar Tang. Dopo mesi e mesi di lontananza, ero finalmente ritornata nel mio posto preferito. Il mio sollievo, però, durò poco. Finì nell’esatto momento in cui realizzai che Sabo, per entrare, aveva fuso la serratura della porta, molto probabilmente utilizzando i suoi poteri. Chiusi gli occhi e mi strinsi il ponte del naso con pollice ed indice. Dannato idiota. L'aveva combinata grossa. E la colpa sarebbe ricaduta su di me. Il capitano si sarebbe arrabbiato e me l’avrebbe fatta pagare, poco ma sicuro. Sperai solo che la mia punizione non comprendesse la pulizia dei bagni.
«Dov’è la cucina?» mi chiese il biondo con nonchalance.
Allargai le braccia e le feci ricadere rumorosamente lungo i fianchi, esasperata. Solo in quel momento notai che accanto a me – sane, salve e asciutte – c’erano le due casse di pane. Le tirai su e me le misi in spalla.
«Seguimi» gli dissi, iniziando a camminare in direzione della cucina. Tanto ormai il danno era fatto. Se aveva fame non c’era motivo di non fargli avere ciò che chiedeva.
Gli spiegai la strada per la cucina e gli intimai di non fare altri casini, poi mi diressi in camera mia insieme alle casse. Non potevo lasciarle in bella vista. Se non le avessi nascoste, Law se ne sarebbe sbarazzato.
Sorrisi appena. Il grigio dei muri del corridoio, che tanto mi era sembrato austero, adesso mi sembrava bellissimo. Quelle pareti raccontavano una storia. Ad ogni passo che facevo mi veniva in mente un ricordo. Mi sorpresi nello scoprire che ce n’erano così tanti. Appoggiai le casse di pane per terra e toccai uno dei muri. Era liscio e freddo, ma allo stesso tempo era caldo. Vi appoggiai la fronte per qualche secondo, sorridendo come un’ebete. Poi mi staccai dalla parete e feci un paio di giravolte a braccia larghe.
«Sono tornata» dissi, quasi aspettandomi una risposta da parte del Polar Tang. Non potevo vedermi, ma ero sicura che gli occhi mi brillassero. Non ero mai stata tanto contenta di ritornare in un posto così asettico ed impersonale in vita mia. E comunque, era tutta apparenza. Coloro che ci vivevano sapevano che non era così. In realtà era un posto pieno di vitalità, e di vino, soprattutto. Mancava il pane, ma a quello avevo prontamente rimediato.
Inspirai a pieni polmoni l’aria che mi circondava. Il sottomarino sapeva di disinfettante. Aveva sempre avuto questo odore? Oppure ero io a non essermene mai accorta? Supponevo che non avesse troppa importanza, perché da quel momento in poi quello sarebbe stato uno dei miei odori preferiti. Mi avrebbe ricordato che c’erano delle cose per cui valeva la pena combattere e tenere duro. Io lo avevo fatto, avevo tenuto duro ed ero riuscita a ritornare lì, contro ogni previsione. Non avevo vinto nessuna guerra, ma avevo vinto la mia battaglia personale. Ce l’avevo fatta.
Lasciai momentaneamente le casse lì e vagai per il sottomarino per un po’. Mi fermai davanti alla porta della cabina di Shachi e Penguin e la aprii. Risi nel constatare che era esattamente come me la ricordavo, con l’unico particolare che era ancora più in disordine, se possibile. Chissà quante volte era rabbrividito il povero Bepo, maniaco dell’ordine, davanti a quella confusione.
Mi diressi verso l’infermeria. Accesi la luce ed entrai nella stanza. Ne squadrai ogni centimetro ed osservai minuziosamente ogni particolare, senza perdermi niente. Quanto mi era mancata. C’era stato qualche cambiamento nella disposizione dei mobili e dei medicinali, ma niente di troppo drastico. Era sempre la stanza delle meraviglie, o degli orrori, a seconda dei punti di vista. Ci avevo passato tantissimo tempo, là dentro. Erano stati quasi tutti bei momenti. In quei mesi non mi ero resa del tutto conto di quanto mi fossero mancati i Pirati Heart e il Polar Tang. Adesso che rivedevo quegli ambienti dopo un lasso di tempo infinito, però, iniziavo a realizzarlo. Mi erano mancati terribilmente.
Spensi la luce e mi ritrovai quasi automaticamente davanti alla cabina di Law, che tuttavia era chiusa a chiave. Sbuffai una risata. “Giusto. Quasi mi ero dimenticata delle tue paranoie” gli dissi nella mia mente. Diedi un piccolo colpetto alla porta – che sarebbe stato l’equivalente di una pacca sulla spalla per un essere umano –, poi recuperai le casse e le portai in camera mia, evitando accuratamente di passare per i bagni. Non ci tenevo tanto a rivederli.
Quando finalmente mi ritrovai davanti la mia cabina, prima di lasciarmi andare a sentimentalismi di qualsiasi genere, nascosi il pane nell’armadio. Quando le due casse furono al sicuro, chiusi le ante e mi ci appoggiai mentre osservavo la mia stanza, travolta dai ricordi e dalla felicità che tali ricordi mi provocavano. Era tutto esattamente come lo avevo lasciato, a parte il libro, che non era più sul letto ma sul comodino, e il telefono, in carica anch’esso sul comodino. Per il resto era tutto uguale e famigliare. Persino l’odore era lo stesso. La cabina non era grande come la camera che avevo alla base e non avevo a disposizione una mega vasca da bagno tutta per me, però quello era molto meglio. Perché era in assoluto il mio posto preferito. Un posto che all’inizio avevo odiato, ma che poi avevo imparato ad amare, spazio ridotto e colori spenti inclusi.
Non toccai niente a parte l’armadio, perché non volevo contaminare gli oggetti con quello strano liquido blu che mi si era appiccicato addosso. Invece, mi tolsi i vestiti ed andai in bagno. Anche lì era quasi tutto come lo avevo lasciato. Mi sfuggì un’esclamazione di sorpresa quando notai che c’erano degli asciugamani puliti. Non credevo che ce ne fossero; a quanto pareva qualcuno aveva fatto il bucato per me. Sorrisi grata – sebbene nessuno potesse vedermi – e poi mi infilai sotto la doccia. L’acqua scorreva calda e gentile sulla mia pelle, niente a che vedere con il getto violento di quella mattina. Avevo fatto due docce quel giorno, ed entrambe erano state molto speciali. Era un giorno fortunato, nonostante il risveglio indelicato, i tempi sbagliati, la pioggia blu e la porta fusa.
Mentre mi sciacquavo i capelli, mi chiesi come sarebbe stato il primo incontro con i Pirati Heart. Era una domanda che nell’ultimo mese mi ero posta parecchie volte, ma non ero mai riuscita a trovare una risposta. Forse perché non c’era una risposta giusta. Alla fine, non serviva a niente fantasticare ed immaginarsi lo svolgersi della scena, perché sarebbe stato ciò che doveva essere. Alcune cose non si potevano prevedere, e io nemmeno volevo farlo. Avrei vissuto il tutto godendomelo appieno, senza tentare di indovinare o anticipare le reazioni dei miei compagni. Dopotutto, era anche questo il bello dei ricongiungimenti. La mia unica paura era che i Pirati Heart non fossero felici di rivedermi. Era una paura pressoché irrazionale, visto che sapevo quanto loro tenessero a me e mi volessero bene – mi avevano persino fatto il bucato! Quando mai avevano fatto il bucato per qualcun altro, in vita loro!? – però non riuscivo comunque a togliermi questa spiacevole sensazione di dosso. Era passato tanto tempo dall’ultima volta in cui ci eravamo visti e potevano essere cambiate tante cose, forse troppe perché riuscissi a tenere il passo. E a quel punto, mi avrebbero voluto bene lo stesso? Mi avrebbero vista alla stessa maniera? Sarei stata in grado di rendermi di nuovo utile?
Scossi rapidamente la testa, come se oltre all’acqua potessi scacciare anche quei pensieri molesti dalla mia testa. Non c’era motivo di angosciarsi. Dubitare è umano, ma c’era una cosa, una sola, di cui ero sempre stata certa in quegli anni: una volta che entri a far parte dei Pirati Heart, è per sempre.

Dopo che ebbi finito di fare la doccia, mi avvolsi un asciugamano attorno al corpo. Mi sentivo rinfrescata, pulita e rigenerata. Quando uscii dal bagno, però, per poco non ci rimasi secca. Scattai all’indietro – rischiando anche di scivolare sul pavimento bagnato – e protesi le mani in avanti. Di fronte a me, tranquillo come al solito, c’era il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria. Nudo.
«Sabo, ma che cazzo fai!?» gli gridai; poi però mi ricordai che non poteva sentirmi perché non avevo la cintura indosso. La recuperai alla svelta, me la misi e lo fissai truce. Per terra, sparsi attorno a lui, c’erano i suoi vestiti.
«Sabo... che diavolo stai facendo?» gli chiesi. Parlai lentamente, ma dal mio tono traspariva una certa furia. «Rivestiti. Ora. Non è questo il momento di mettersi a fare gli idioti.»
«Già che sono qui, ne approfitto. Anche io ho bisogno di farmi una doccia» mi spiegò. Non si scompose troppo, al contrario di me. Per fortuna fui in grado di contenermi e di non dare di matto. Perché ogni volta che uno di noi aveva bisogno di farsi una doccia o un bagno anche l’altro finiva nudo automaticamente?
Osservai gli indumenti riversi sul pavimento. Anche i suoi sembravano piuttosto appiccicosi e bagnati. Effettivamente, aveva bisogno di farsi una doccia, e si era già svestito. Non mi sembrava il momento di mettersi ad obiettare. Il biondo non si sarebbe comunque rivestito tanto presto; che avrebbero detto i miei compagni se fossero tornati e lo avessero visto nudo, e per giunta in camera mia? Meglio dargli ciò che voleva, con un po’ di fortuna la cosa sarebbe stata rapida ed indolore per tutti. Mi feci da parte e lo lasciai passare, con uno sguardo che esprimeva quieta rassegnazione. Gli lasciai un asciugamano pulito sul lavandino e me ne andai in cucina per controllare i possibili danni che poteva aver fatto Sabo.
Non c’era pericolo che qualcuno mi vedesse girovagare per il sottomarino. Se i miei calcoli erano corretti, mancavano ancora una ventina di minuti prima che i miei compagni ritornassero. Dovevo approfittarne, non capitava tutti i giorni di riuscire a passeggiare liberamente per le stanze del Polar Tang con un misero asciugamano addosso. Mi chiesi se quelli fossero i miei ultimi momenti di libertà o se invece fossero i miei ultimi minuti di solitudine, e non potei fare a meno di sorridere. Dopotutto, la risposta ce l’avevo scolpita nel cuore.
Arrivai in cucina e non mi stupii nello scoprire che era pulita ed ordinata, proprio come ci si sarebbe aspettati da Ryu. C’erano delle briciole sparse qua e là, molto probabilmente lasciate dal biondo, ma nulla di troppo serio. Del resto, quando voleva il fratello di Rufy – al contrario di quest’ultimo – sapeva essere una persona rispettosa. Aprii il frigo. Sembrava ancora pieno e ben fornito. Per fortuna il rivoluzionario non aveva mangiato troppo, si era riempito lo stomaco il tanto che bastava per non lasciare tracce evidenti del suo passaggio e per non destare troppi sospetti. Il cuoco ci avrebbe comunque fatto caso, ma non avrebbe fatto storie. Dopotutto, dietro al suo atteggiamento da duro si nascondeva un animo tenero. E poi, uno dei principi fondamentali di un cuoco non era quello di concedere il cibo agli affamati?
I miei occhi si illuminarono e ghignai soddisfatta. Eccole lì, sul primo ripiano in basso. Le mie bottiglie di vino. Le mie amatissime bottiglie di vino! Allora c’era. Il vino c’era! Esultai silenziosamente e pensai a tutti i modi possibili per consumarle senza che nessuno mi importunasse. Tuttavia alla fine resistetti alla tentazione e richiusi il frigo. Non era quello il momento di ubriacarsi. Lo avrei fatto, eccome se lo avrei fatto, ma tutto a suo tempo.
Uscii dalla cucina e controllai la situazione meteorologica, aprendo di poco la porta metallica dell’ingresso, ormai rotta. Aveva smesso di piovere, fortunatamente. Forse anche il cielo si stava preparando all’incontro, e come me voleva che fosse sereno. Sospirai impaziente. Ormai era questione di pochi minuti, poi li avrei rivisti.
Mi affrettai a tornare in camera, con un’idea ben precisa in testa. Sabo era uscito dalla doccia e si era legato l’asciugamano in vita. Storsi appena la bocca nel constatare che anche con poca luce i suoi addominali apparivano perfettamente scolpiti. Non sarebbe stato facile rinunciarvi, ma non si poteva avere tutto dalla vita, e quello era il prezzo da pagare per stare con le persone che amavo.
Mi tolsi la cintura e poi lasciai cadere l’asciugamano al suolo. Avevamo ancora pochi minuti e dovevo sbrigarmi. Aprii l’armadio e frugai tra i vestiti – che erano comunque pochi – sotto lo sguardo perplesso e stupito del biondo, che vedeva soltanto degli indumenti svolazzare da una parte all’altra del guardaroba. Infilai alla svelta il primo paio di mutande che riuscii a recuperare, dopodiché continuai la mia ricerca. Quando la trovai, la strinsi a me. Lasciai che la mia guancia si sfregasse contro l’indumento e ne inspirai l’odore. Poi non persi tempo e lo indossai. Chiusi gli occhi per qualche secondo, assaporando appieno la sensazione familiare di quel particolare tessuto a contatto con la mia pelle. La stoffa mi avvolgeva il corpo alla perfezione, come se ne conoscesse ogni curva e ogni centimetro. In effetti era così. Ne avevamo passate tante, insieme. L’avevo odiata, l’avevo ripudiata, ed infine era diventata la mia seconda pelle. Mi sembrava assurdo, ma mi era mancata. La divisa dei Pirati Heart. La divisa che Law mi aveva imposto di indossare. Ancora con gli occhi chiusi, strinsi i lembi tra le mani e lasciai che le dita scivolassero sulla stoffa appena ruvida. A sinistra, di poco sopra il cuore, c’era ricamato il logo giallo dei Pirati Heart. Ero consapevole che quella non era la mia uniforme, non poteva essere quella che mettevo sempre, perché era andata distrutta nel combattimento contro Doflamingo, però era il valore simbolico che aveva, era ciò che rappresentava, che contava. Adesso ero di nuovo parte di qualcosa. Sorrisi appena nel pensare che i miei compagni avrebbero apprezzato il mio gesto. Qualcosa mi diceva che in particolare lo avrebbe fatto Law, perché era una cosa che non si sarebbe aspettato.
Sabo mi porse la cintura – o meglio, la porse all’aria dato che non poteva vedermi – ed io me la sistemai sotto la divisa. Quando ritornai visibile ai suoi occhi lo vidi fare una faccia compiaciuta.
«Il tuo capitano ha un ottimo gusto in fatto di abbigliamento» commentò, annuendo sporadicamente e fissandomi nella stessa maniera in cui mi fissavano Shachi e Penguin ogni volta che mi vedevano con quell’uniforme addosso. Non erano del tutto da biasimare, visto che era piuttosto attillata. Per di più, non avevo nemmeno tirato su la cerniera, per cui parte del mio corpo era esposto.
«Hai intenzione di lasciarla aperta?» mi chiese poi il rivoluzionario, come se mi avesse letto nel pensiero. Mi immaginai quale sarebbe stata la reazione dei due mammiferi alcolizzati se mi avessero visto in quel modo e mi affrettai a chiudere la divisa.
«Merda!» esclamai a denti stretti. La cerniera sembrava essersi bloccata in un punto proprio sotto al seno. Feci un paio di tentativi per sbloccarla, ma fu tutto inutile. Il tempo stringeva, quello era un inconveniente che non ci voleva.
«Sabo, dammi una mano» gli ordinai. Sul suo volto comparve un ghigno furbo. Fece per parlare, ma io lo stroncai sul nascere.
«Sta’ zitto e tira» gli imposi perentoria. Il mio sguardo non ammetteva repliche.
Si avvicinò e cominciò a trafficare con la cerniera. Provò a disincastrarla per qualche minuto, ma nemmeno il suo tocco parve sortire alcun effetto. Di tutti i giorni possibili, quella stronza aveva deciso di incepparsi proprio ora.
«Più forte. Tira più forte» lo sollecitai. Fece come gli avevo detto e tirò con più forza.
Emisi un lamento.
«Mi hai preso la pelle in mezzo alla cerniera, idiota!» gli gridai. Stavo iniziando ad agitarmi. I miei compagni sarebbero tornati da un momento all’altro e se qualcuno ci avesse visto in quel modo avrebbe sicuramente frainteso la situazione.
Il biondo mi piazzò una mano in mezzo al seno per tenere uniti i due lembi della divisa e facilitare il tutto.
«Sbrigati» lo esortai di nuovo, impaziente. Fissai la porta socchiusa con preoccupazione.
«Devo usare la forza o fare in fretta?» mi chiese, alzando appena lo sguardo – fino a quel momento fisso e concentrato sulla cerniera – e sorridendo beffardo.
«Possibile che tu non riesca a fare entrambe le cose?» gli domandai sarcastica. La sua calma mi stava infastidendo parecchio. Lui non aveva nulla da perdere, ma io sì. La dignità, ad esempio.
Con la coda dell’occhio percepii un movimento alla mia sinistra. Voltai la testa ed avvampai all’istante. Per poco gli occhi non mi uscirono dalle orbite e la mascella non cadde al suolo. Il mio cuore perse un numero considerevole di battiti e la mia vita si accorciò di una ventina di anni.
La porta della camera era aperta. In piedi a pochi metri da noi, sull’uscio, c’era Law. Con il passo felpato che aveva, nessuno lo aveva sentito arrivare.
In quel momento il resto del mondo si oscurò e rimase soltanto lui. Era la prima volta in quattro mesi che lo rivedevo, e mi resi conto di quanto mi fosse mancato solo quando il mio sguardo incrociò il suo. La prima considerazione che feci fu su quanto fosse bello. Era innegabile, persino un cieco lo avrebbe pensato. I capelli neri leggermente spettinati nascosti dal cappello maculato, le basette, il pizzetto sul mento, gli occhi grigi e gelidi che al loro interno celavano un universo, i lineamenti delicati del viso, la carnagione olivastra, il lungo cappotto nero, i tatuaggi, la sua Kikoku stretta tra le dita affusolate... Non era cambiato di una virgola. Era fottutamente bello. La sua era un tipo di bellezza capace di uccidere. Ai deboli di cuore sarebbe bastato un suo sguardo per restarci secchi.
Non ero più abituata al suo fascino travolgente, e mi ci volle un attimo per riprendermi. Quando tornai alla realtà, lo osservai da capo a piedi. Aveva le braccia incrociate e l’espressione impassibile. Il suo sopracciglio sinistro era appena alzato, forse ad esprimere quello che poteva essere un accenno di perplessità.
Ricambiò la mia occhiata, incastonando le sue iridi di ghiaccio alle mie nocciola. Sembrava quasi... sollevato. Nel suo sguardo, però, c’era anche una punta di fastidio, ma non riuscivo a capire se fosse disappunto o irritazione. Mille pensieri presero a vorticarmi in testa. Il cuore martellava contro la mia gabbia toracica.
Gettai un occhio alla situazione. I vestiti di Sabo giacevano abbandonati disordinatamente per terra. Sul letto, invece, c’erano i miei indumenti ed il telo che avevo usato poco prima per detergermi il corpo. Il biondo, coperto solo da un misero asciugamano, stava ancora armeggiando con la mia cerniera, e la sua mano era praticamente poggiata sul mio seno, parzialmente scoperto. Era ad un paio di centimetri da me e aveva lo sguardo molto concentrato. Probabilmente non si era neanche accorto che il mio capitano fosse lì. Oppure non gli importava, perché secondo lui non stavamo facendo niente di male. Le circostanze erano decisamente equivoche.
Fino a quel momento ero rimasta immobile, evitando persino di respirare, forse per l’imbarazzo o forse per le mille emozioni che avevo provato in quei secondi. Nemmeno il chirurgo si era mosso, né aveva detto nulla.
Mi ripresi dallo shock della situazione in un nanosecondo e una ruga di preoccupazione mista a vergogna comparve in mezzo alla mia fronte.
«Non è come sembra. Posso spiegare!» gridai a Law, spingendo via il rivoluzionario e portando le mani ai lati della faccia, come se qualcuno mi stesse puntando una pistola contro. Non che fosse tanto diverso, comunque.
Il capitano non sembrò dare segni di vita, e un senso di frustrazione iniziò a frasi strada in me. Era imperscrutabile, come se stesse indossando una maschera. Non riuscivo a capire cosa stesse provando, ammesso che stesse provando qualcosa. Era infastidito per la situazione che si era venuta a creare? Era contento di rivedermi? Niente, dannazione. Non lasciava trasparire niente.
La ruga sulla mia fronte divenne più profonda. No, non era così che volevo che andasse il nostro primo incontro.
   
 
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