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Autore: SparkingJester    11/04/2018    0 recensioni
Un giovane bambino cercando conforto dal tedio di un lungo viaggio mercantile, incontra un cavaliere dal passato e dal carattere decisamente imprevedibili.
Partecipa al contest ASYLUM di Haykaleen.
Pacchetto: Bipolarismo.
Genere: Dark, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quella notte Hud fu rimandato all’accampamento.
Ax si sdraiò e sbuffò, maledicendosi per essere sceso a patti con un ragazzino.
La mattina quest’ultimo si ripresentò, stavolta con due ceste di pakras.
«Già qui? Sono passate solo poche ore!»
«Queste le ho fatte io, finendo gli ingredienti di mamma. Mangia e racconta adesso, abbiamo tutto il giorno! O notte? Ho dimenticato la mia clessidra!»
Le pallotte di carne non sembravano invitanti come le precedenti ma Ax apprezzò lo sforzo del bambino e mangiò con gusto il quasi delizioso spuntino, orgoglio della cucina tradizionale Nem.
Hud si sedette con la schiena sul tronco del fungo, dimenticando per un attimo la tetra presenza dell’armatura d’ossa che gli sedeva affianco, col teschio chino e tetro come a guardare anche lei la cesta piena di carne che il ragazzino imbracciava.
Ax continuò ad afferrare e masticare, parlando con la bocca piena:
«Ma chi se ne frega, va bene. Tanto nemmeno io ho da fare. Allora, tanto per cominciare dimmi un po' che ci fate voi di Nem qui.»
«Andiamo a Nord, dobbiamo vendere il Ferro Cremisi delle caverne Aghal.»
«Oh, il Ferro Cremisi! Da quanto non vedo un’arma costruita con quella roba! E’ vero noi Nem siamo un popolo fortunato, un lungo tragitto dal deserto però! Saranno passati mesi ormai dalla vostra partenza.»
«Più o meno, ho perso il conto.»
«Bhé, io ad essere sincero non ci torno da… centosette anni credo.»
«Allora è vero! Sei vecchissimo eppure sembri così giovane!»
Ax sembrava sulla trentina, le pelata non intaccava il suo fisico mascolino, glabro e con muscoli da atleta. Nessuna cicatrice solcava la sua pelle mulatta e, ridacchiando per il complimento ricevuto, continuò:
«Sono maledetto, ragazzino. Ma ci arriveremo dopo. Non invecchio ma posso comunque essere ucciso, eh!»
«Wow!»
Gli occhi del bambino brillarono, pendeva dalle sue labbra. Ax ridacchiò ancora, nervosamente ed iniziò:
«Non so da dove cominciare, dannazione!»
«Forse dall’inizio?»
«Quale? Ne ho avuti molti.»
«La tua nascita! Ma sei tonto, sicuro di essere un cavaliere? Come si chiama la tua famiglia? A Nem ci conosciamo tutti. Anche se sono passati cento anni, la tua famiglia sarà rimasta nella memoria di qualcuno.»
Ax chinò il capo, la bocca corrugata dalla tristezza. Si sforzò di non deludere il ragazzino:
«Io… Non sono molto orgoglioso di dirlo. Il mio nome completo però è: Axanadros Dhey-Matuhaz.»
Come previsto, Hud sospirò dalla sorpresa. Lievemente spaventato, interruppe la triste voce di Ax:
«Dhey? La dinastia… dei Tiranni?»
«Ci hanno chiamato così? Davvero?»
Un sorrisetto orgoglioso gli risollevò il morale.
«Ma tu non sembri un tiranno, sei un tontolone nudo scrocca-pakras con un’armatura fantastica!»
«Non so se prenderlo come un complimento o meno…»
«Ma… La tua dinastia è scomparsa anni e anni fa. Allora è vero che hai più di cento anni!»
«Ma mi ascolti quando parlo? Non sono un bugiardo!»
Ax chinò ancora il capo, si grattò nervosamente la testa e proseguì:
«Lo so che la mia famiglia ha fatto cose orribili. Io sono l’ultimo dei Dhey, l’erede al trono Nem. Questo almeno anni fa. Ora so che sono cambiate un po' di cose ma francamente non mi interessa il potere. Io lì non voglio più tornarci. Ho una nuova famiglia ora.»
«Si, le cose sono cambiate, ma in meglio! Se torni, avrai un’accoglienza che un tempo non potevamo sognare. La tua stirpe ha pagato il debito, non avrai il trono ma se vuoi puoi tornare a vivere a casa!»
«Assolutamente no. E soprattutto chi credi abbia pagato quel debito, mocciosetto? Ho una missione da compiere al momento: aspettare i miei compagni.»
«Ma allora parlami dei tuoi genitori! Chi erano?»
Un ultimo sbuffo, due pakras in bocca masticati voracemente e il racconto iniziò:
«Io sono figlio di Kalina e di Mahn, Ottantottesimo Faraone di Nem, Liberatore di Fiumi e Luce nella Notte.
Crebbi nella spensieratezza, nella gioia di vivere. Mamma la ricordo benissimo: bella, profumata e con delle trecce così articolate che facevo fatica a seguirle.»
Ax aveva uno sguardo sereno ma malinconico allo stesso tempo, Hud invece continuò ad annuire.
«Mi parlò di tutta la fauna del deserto e delle nostre divinità. Mi procurò giocattoli e compagni di gioco, venivo lavato da fascinose serve e scortato da possenti soldati. E quelle mura erano tutto il mio mondo.
Nonostante la cordialità, i doni, i bellissimi affreschi del Palazzo Reale e i mille animali che mamma riusciva a procurarmi, c’era qualcosa che non andava.
Mio padre di contro era sempre impegnato a “governare”, diceva. Tornava di rado a casa ma con me era sempre gentile: mi carezzava i capelli e mi sussurrava che presto, una volta cresciuto, mi avrebbe portato a caccia con lui e mi avrebbe mostrato il suo regno. Già, il suo regno.»
Afferrò quattro pakras insieme e se li mise compulsivamente in bocca, continuando a bocca piena:
«Fai, forfe fono un pho tonto – deglutì- poiché non mi accorsi che il palazzo aveva porte.»
Ax ridacchiò, nervosamente.
«Ero così… distratto da tutto quello che mamma mi faceva fare, ero così credulone nei confronti delle scuse che usava mio padre. Le guardie, che siano maledette, spostavano la mia attenzione con un’abilità unica verso barzellette, cibo, promesse di trofei di battaglia. Dannazione quant’ero stupido. Cinque anni chiuso in un palazzo e viziato fino all’orlo. Non avevo ancora idea di cosa fosse un regno, non pensavo che oltre la “Tenda Proibita” ci fosse un balcone dal quale mio padre parlava al popolo. Quando svaniva dietro le rosse tende, mamma mi teneva stretto tra le braccia per non farmi correre da lui. Dopo vari secondi di solito si levavano urla di giubilo e il suono di corni e trombe. Assurdo. Papà veniva fuori e… puff, gli affari del regno erano risolti. Mio padre non perse mai nemmeno il sorriso entrando o uscendo da quelle tende.
Io ero orgoglioso di lui… e amavo mia madre.»
Fece una lunga pausa, socchiudendo gli occhi, assonnato.
«Sveglia!»
Hud lanciò un pakras in faccia ad Ax e lo svegliò dal torpore dei ricordi.
«Oh? Scusa, ragazzino. Sono… ricordi difficili da affrontare per me.»
La sua voce era calma e rilassante stavolta.
«Poi però… accadde qualcosa. Di colpo, quelle robuste e ben difese porte che contenevano il mio piccolo e sicuro mondo dorato, vennero abbattute con violenza, urla e sangue. Entrarono a frotte: uomini e donne, vestiti di stracci, non come i miei abiti pregiati, brandendo falci, forconi e spade. Massacrarono le guardie, le schiave e fecero a pezzi mia madre. Tutto questo avvenne nel giro di pochi interminabili minuti.
Io restai… immobile. Fisicamente e mentalmente. Come un’improvvisa eclissi venuta a mostrarmi l’oscurità di questo mondo. Qualcuno di loro, tutti con sguardi truci e tesi, mi circondò. Prima iniziarono ad urlarmi contro, poi mi afferrarono per un braccio e mi strattonarono. Io non emisi un suono, guardai shockato alle loro spalle mentre mio padre veniva trascinato per le braccia da altra gente.
Non capì nulla. Non sapevo cosa fosse tutta quella… rabbia. Non comprendevo il motivo dei loro sguardi, il motivo della loro veemenza e violenza. Mamma ormai era morta, avevo perso di vista papà ed io venni trascinato fuori, nel mondo esterno che mai mi era stato concesso di vedere.
C’erano migliaia di persone di fronte al palazzo. Non sapevo nemmeno che ci fosse una rampa per raggiungerlo, pensa tu! Per me quello era un posto nuovo, casa mia, la capitale Hinamer. Ma le nuvole erano nere, un alone rosso copriva il cielo, generato da enormi incendi che si levavano da dietro gli edifici.
I templi erano in rovina, soldati e nobili erano impalati e sorretti come bandiere, oggetto di scherno, dissacrati e maledetti.
Nel caos generale, la mia mente non riuscì ad orientarsi. Probabilmente ebbi uno sguardo terrorizzato, paralizzato. A quanto pare non dissi nemmeno una parola da quando quella porta fu sfondata.
Ricordo vagamente di essere stato preso a schiaffi, legato e trasportato alle Prigioni Rosse, sbattuto in una delle famigerate Cinque Stelle d’Isolamento. Ovviamente ad un’ospite come me, l’unico e l’ultimo discendente maschio dei Dhey, fu riservata la Stella centrale: alte pareti rocciose, spoglia e con un pilastro al centro a cui venni legato per le mani con catene spesse. Non capisco il perché, poi! Dannazione avevo cinque anni!»
Ax batté il pugno sul proprio ginocchio, forte.
«Dannazione… Ci credi che mi tennero lì per altri cinque anni?»
«Davvero? Ma è una cosa tristissima.»
«Già, a cinque anni, chiuso per cinque anni in una cella vuota. Mi tenevano tutto il giorno legato con le braccia in alto. Il mio corpo si sorreggeva sulle ginocchia, il mio volto guardò il pavimento per la maggior parte del tempo. Venivano a portarmi da mangiare e da bere, nutrito a forza. Va bene, ho le mie colpe, potevo ribellarmi, ma ero sconvolto e paralizzato da… non so nemmeno io cosa. Tutto il mondo che conoscevo si incrinò, rivelandone dietro una malvagità che non pensavo esistesse. Le mie orecchie funzionavano ancora bene però. C’erano altri quattro prigionieri nelle Stelle che mi affiancavano, in celle gemelle adiacenti ma con sporgenze di roccia abbastanza comode da formare letti o scrivanie. Non che li usassero, erano pazzi anche loro. Chiuso con un assassino seriale, un sacerdote rinnegato, un ex-nobile impazzito ed una “strega”. Tra loro e gli insulti delle guardie, capì ben presto che mio padre non era poi il buon sovrano che io mi aspettavo che fosse, che lui mi fece capire di essere.
Schiavizzava, sovvertiva, trafficava. I suoi sorrisi non erano di spensieratezza ma di autocompiacimento. Crudele, privo di coscienza a quanto dissero. Nella mia mente turbinavano ricordi ed informazioni, mescolandosi e confrontandosi a vicenda.
Il mio corpo crebbe debole, mal nutrito, capelli lunghi e sporchi. In pantaloncini per cinque anni, che cavolo potevano mettermela una veste! Va bene che nelle grotte fa caldo, però!»
«E come hai fatto a scappare da lì? Non dirmi che ti sei ribellato e hai rotto le catene, uccidendo le guardie e fuggendo!»
«Non ti eccitare, Hud. Niente di tutto questo. A me non fregava niente, la fuga non fu nemmeno un’opzione. Che potevo fare? Ero un bambino! Non sapevo combattere. Sarei morto lì, di vecchiaia e solitudine, se un giorno non vennero a chiamarmi. Mi accorsi di quello che stava accadendo solo quando sentì il torpore delle braccia svanire, accolto dalla sensazione di sollievo mi svegliai per un attimo e notai che due guardie ed un nobile dalla pelle chiara mi stavano liberando e trasportando fuori dalla cella.
Gli altri quattro ergastolani mi insultarono ancora di più, sputarono e vennero percossi dalle guardie. C’era molta agitazione nell’aria. Altri prigionieri e guardie durante il tragitto mi fecero capire che stava accadendo qualcosa. Mi portarono in un sacco di stanze, ma realizzavo poco a poco. Venni lavato, curato e vestito. Mi tagliarono persino i capelli e si assicurarono che i pigmenti dei miei tatuaggi fossero intatti.
Quando il mio cervello si destò completamente dal torpore durato cinque anni, mi trovai in una carrozza che correva nel deserto. Elaborata e dorata, al cui interno un uomo dalle vesti porpora e la sua giovane figlia, bionda e dalle vesti rosse, mi fissavano curiosi.»
«Ti comprarono come schiavo?»
«Non proprio, non come schiavo. Ecco, io…»
«Che c’è?»
«Mi comprarono per… sposarmi.»
«Cosa!? Davvero?»
«Davvero. Quei codardi della capitale non ebbero il coraggio di uccidermi. Ero colpevole di essere un Dhey ma ero pur sempre un bambino innocente e privo di potere, nel loro regno. Mi imprigionarono solo per disprezzo e vendetta. Pensarono che fossi stato addestrato ad essere un tiranno, un truffatore.
Ma la fortuna non mi abbandonò. Un mercante dell’Ovest voleva costruire un suo impero clandestino nei nostri deserti. Aveva bisogno di sangue nobile da far sposare a sua figlia, Elohette, che gli dei mi perdonino. Quant’era bella.»
«Uuuuh, che schifo.»
«Che schifo? Ma quanti anni hai?»
«Dieci, ma non mi interessano le ragazze così tanto. Ma che avete tutti? Pure le guardie!»
«Aaah, lascia perdere, moccioso. Sei strano tu, non io!»
Hud gli fece la linguaccia e mangiò anche lui stavolta dalla cesta. I due condivisero altri bocconi e poi Ax proseguì:
«Dicevo, dovevano farmi sposare. Una roba politica, io non sono bravo in queste cose, insomma se io sposavo Elohette, lui prendeva il controllo di alcuni villaggi.
Fui condotto ai limiti del deserto, dove la verde vegetazione iniziava a prendere il controllo della terra. Per me fu una meraviglia indescrivibile. Non facevo che guardarmi attorno e stupirmi di ogni singola cosa. Ricordo ancora quanto ero ingenuo e curioso. Iniziai a sentirmi ancora come quando stavo a casa con i miei genitori. E ogni volta che guardavo, ricordavo ed ogni volta che ricordavo… veniva il vuoto.»
La voce calò, seguita da uno sguardo triste a capo abbassato.
«Che ti prende, Ax?»
«Questi… vuoti erano come flash nella mia mente, come lampi rossi. Era tutto così meraviglioso fuori da quelle prigioni ma una voce dentro di me ripeteva sempre: “Tu non appartieni a questo mondo.”
Mi stupì di me stesso all’inizio ma poi divenne quasi familiare.
Venni cresciuto nelle tenute lussureggianti del Nobile Bisbak, circondato ancora una volta da guardie e servi. Mi sentii a mio agio, all’inizio. Però non ero un figlio, ma uno studente.
Imparai a leggere, scrivere, comportarmi elegantemente. Venni allenato e nutrito a dovere per essere un marito esemplare, degno di estirpare il male del passato della mia famiglia e sostituirlo con una nuova possibilità. Pensavo sarebbe stato facile. Ma di questo, ti parlerò in seguito.»
«Cosa? E perché?»
Insistette Hud.
«Perché è quasi ora di cena a giudicare dal profumino che arriva fin qui.»
«Che profumino? Io non sento niente. Ah, è vero non ho la clessidra con me!»
«Tranquillo, io lo sento. E so anche che ora è. Vattene un po', mangia e riposa. Faccio un pisolino e ci vediamo più tardi. Svegliami, in caso.»
E i due si separarono, uno impaziente e l’altro soddisfatto.
  
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