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Autore: PerseoeAndromeda    14/04/2018    5 recensioni
In un angolo di Giappone, tra i monti, a poca distanza dal Fuji, si dipanano le esitenze di due giovani uomini, Aito e Daisuke, cresciuti insieme e legati da un sentimento profondo. Aito, tuttavia, sta irrimediabilmente cambiando, trascinato da cupi pensieri e sogni nel baratro della depressione. La foresta di Aokigahara, nota in Giappone per essere il luogo più frequentato dagli aspiranti suicidi, diventa una presenza inquietante, un richiamo al quale Aito non riesce ad opporsi.
[Racconto partecipante al contest "Asylum", indetto da Haykaleen - PRIMA CLASSIFICATA]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 1

 

Il treno correva a velocità moderata tra i monti della prefettura di Yamanashi; al di là del vetro piccoli paesi si alternavano a boschi, fiumi e verdi vallate nelle quali occhieggiavano, qua e là, casolari sparsi con i loro variopinti tetti di ceramica.

Gli occhi di Aito erano persi fuori dal finestrino, fissi su quel paesaggio che conosceva a memoria.

Lo sguardo di Daisuke, invece, era perso in quegli occhi, tanto strani da vedere, con il loro verde intenso, in terra giapponese, quanto grandi e belli: il giovane si chiedeva quando essi avessero cominciato a mutare a tal punto.

Lui e Aito si conoscevano da sempre.

Vicini di casa nella cittadina termale di Isawa Onsen, erano nati a distanza di un anno l'uno dall'altro e la loro crescita fianco a fianco si era dipanata come un evento naturale e necessario riguardo al quale nessuno che li conoscesse si era mai posto domande: era accaduto perché doveva accadere e tanto bastava. La loro diversità non era mai stata un ostacolo all'affetto che provavano l'uno per l'altro.

Per Daisuke era sempre stato facile rapportarsi con il mondo, socializzare, farsi nuovi amici.

Per Aito no.

Timido e sensibile, nel suo microuniverso era sempre esistito solo Daisuke, non importava quanto spesso conquistasse gli altri con la sua dolcezza ed i suoi modi affabili, lui sembrava non saperlo, si accorgeva solo delle occhiate ostili dovute alla sua condizione di gaijin1 mai del tutto accettato.

Daisuke ricordava una conversazione svoltasi tra di loro nel giardino di casa sua, non molto tempo prima.

Quel giorno Aito era particolarmente pensieroso, le mani in tasca, gli occhi perennemente rivolti alle nuvole che correvano nel cielo azzurro.

“Dai-kun, sai, a volte mi chiedo come tu riesca ad essere tanto tollerante con me”.

Daisuke l'aveva guardato, totalmente incapace di dare un senso alla frase che aveva udito. lnfatti non seppe ribattere, ma Aito si sentì addosso il suo sguardo ed abbassò il proprio a terra.

“Come puoi sopportare la mia costante presenza in tutto ciò che fai? Tu avresti amici anche senza di me”.

Daisuke era andato su tutte le furie, ma non l'aveva mostrato all'amico, non gli mostrava mai quanto spesso la sua bassa autostima lo mettesse a disagio. Si era limitato a scrollare le spalle e a mormorare:

“Certo che ne dici di scemenze”.

E poi si era affrettato a cambiare argomento, come sempre.

Anche adesso, mentre il sole faceva capolino dalle vette e il treno li conduceva verso la città di Yamanashi, Daisuke non sapeva cosa dire, gli mancavano i momenti leggeri, le risate che condividevano e che si diradavano sempre di più.

“Aito...” Io chiamò leggermente e l’altro sussultò, come se solo in quel momento si fosse ricordato di non essere solo.

Si voltò verso di lui, gli occhi vacui, smarriti. Ed erano così segnati da farlo sembrare un po’ più vecchio, persino malato.

“Sei stanco?”.

Aito scosse il capo:

“Ho solo dormito poco”.

Daisuke corrugò le sopracciglia: ormai dava quella risposta troppo spesso.

Aito ritenne che tanto bastasse per porre fine alla questione e tornò a guardare fuori dal finestrino… sempre che quegli occhi senza espressione vedessero realmente qualcosa.

Per Daisuke la questione era tutt'altro che conclusa, ma il solito, fastidioso senso di colpa si insinuò in lui: c'era qualcosa che gli impediva di approfondire, di voler capire fino in fondo cosa si celasse dietro l'evidente malessere dell'amico. Forse temeva che fosse tanto profondo da contaminarlo? Era davvero così egoista da anteporre il proprio benessere a quello di Aito?

O forse, dopotutto, temeva di conoscere una persona diversa dal compagno con il quale era cresciuto o, peggio, di scoprire che non era affatto in grado di aiutarlo?

Sospirò, in preda allo sconforto.

Aveva preso con troppa leggerezza i momenti di malinconia sempre più frequenti del suo amico? Perché il bambino dagli occhi luminosi e pieni di sogni si era trasformato, in un percorso lento ma inesorabile, nel giovane uomo triste che era adesso?

Venne annunciata la fermata di Yamanashi e Aito fu il primo ad alzarsi, con mosse meccaniche che rendevano ancora più evidente la sua estraneità all’ambiente nel quale si trovava immerso.

Daisuke seguì i suoi movimenti con lo sguardo, per qualche istante: era quella parte di lui che faceva di tutto per ricordare all’amico che lui era lì, per far notare la sua presenza.

Qualche passeggero lo superò e, quando finalmente riuscì a scendere, Aito era già all’altezza del sottopassaggio: per raggiungerlo dovette fare una piccola corsa.

Questa volta non poté fare a meno di mostrarsi indispettito e lo prese energicamente sotto braccio:

“Hai proprio deciso di startene per i fatti tuoi, stamattina?”.

Percepì sotto le dita il tremito del giovane e un altro sussulto, un nuovo ritorno alla realtà dopo l'estraneità al mondo.

“Scusami… ero sovrappensiero”.

“Già, me ne sono accorto, non ci siamo scambiati quasi una parola”.

Mentre scendevano le scale, Aito chinò il capo: era visibilmente contrito.

“Non avercela con me, Dai-Kun”.

Daisuke avrebbe urlato per la frustrazione, dopo la tristezza arrivava il senso di colpa: non sapeva quale dei due aspetti del malessere di Aito lo facesse più infuriare.

Strinse i denti…

Perché avrebbe dovuto infuriarsi? Lui stesso faceva una colpa ad Aito per quello che era diventato?

Non era così: in realtà era infuriato solo perché non si confidava con lui. Ed era infuriato anche con se stesso, perché non riusciva a costringerlo a farlo.

 

***

 

Lo schermo del computer gli ondeggiava davanti facendogli male agli occhi, la pagina del sito al quale stava lavorando era velata da uno strato di nebbia. Si passò pollice e indice sulle palpebre: inutile negarlo a se stesso, non si trattava dello schermo, ma delle lacrime che tanto spesso non controllava. Ormai cominciavano a scendere senza che se ne accorgesse, silenziose, a ricordargli che non sarebbe mai più riuscito a tornare quello di un tempo. Quando era iniziato?

Ricordava un'infanzia felice.

Poi i primi lutti in famiglia, i suoi sensi che accoglievano con angoscia le brutture di un mondo che non capiva e che faticava ad accettare, rendersi conto che chi gli stava intorno lo sentiva estraneo e diverso…

E da ogni singolo dramma, piccolo o grande che fosse, lui, troppo debole e fragile, piano piano si era visto sopraffatto, soffocato, incapace di dare un ordine a tutto.

Fu sul punto di urlare al tocco che sfiorò la sua spalla.

“Che hai? Ti ho spaventato?”.

Respirò a fondo, non era assolutamente concepibile che Daisuke si accorgesse dello stato in cui versava. Doveva fare in modo di ritrovare il controllo di se stesso prima di rispondere, doveva rendere ferma la propria voce, ma temeva che cominciare a parlare significasse lasciare via libera al pianto che per ora si era sfogato solo attraverso gli occhi.

“Ero… concentrato”.

Parlò a voce bassa per mascherare l'inevitabile tremolio di ogni parola.

Daisuke si sporse oltre la sua spalla, a scrutare lo schermo.

“Hai qualche intoppo con il software? Ti serve una mano?”.

Lo schermo tremava davvero troppo… o era lui che tremava?

“N-no… non credo. Perché?”.

Gli occhi dell'amico abbandonarono la pagina web per spostarsi sul suo viso, facendolo sentire piccolo e nudo.

“Sei fermo al medesimo punto di stamattina”.

Si stropicciò nervosamente le mani l'una contro l'altra e guardò con occhi vacui la tastiera, ma le lettere ballavano e i tasti sembravano muoversi da soli, un po' su e giù, un po' ondeggianti come le placche terrestri durante un terremoto. Ingollò un grumo di saliva troppo denso e respirò ancora:

“Non ero soddisfatto e ho cancellato il lavoro”.

Era dannatamente difficile sforzarsi di conferire naturalezza al tono della propria voce, più ci provava e meno gli sembrava naturale.

“Ma così rischi di non finire in tempo”.

Sbuffò, nascondendo il volto nelle mani: Daisuke non poteva saperlo, ma stava ottenendo solo di aggiungere ulteriore ansia a quella che già lo opprimeva.

Sentì il rumore di una sedia che veniva spostata e seppe che Daisuke si era accomodato accanto a lui; il suo respiro era caldo, la sua presenza avvolgente, troppo in quel momento durante il quale per Aito risultava difficile controllarsi.

“Dai, non ti agitare, ti do una mano io, così nel giro di un'oretta o due ti rimetti a passo. Tanto io ho finito tutto il lavoro che avevo in programma per stamattina”.

Aito si alzò di scatto, scostandosi dall'amico in maniera così brusca che si spaventò di se stesso e ricevendo, in cambio, uno sguardo quasi costernato.

“Ho bisogno di staccarmi”.

Daisuke non rispose subito, poi scosse il capo, si alzò a propria volta e mise le mani sui fianchi, tendendo la schiena per sgranchirsi.

“Pausa pranzo allora! Prendiamo qualcosa al Seven o preferisci andare in un locale?”.

Una scrollata di spalle fu l’unica risposta che riuscì a dare, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, lo sguardo fisso a terra. Da qualche parte dentro di lui, uno dei pochi frammenti di se stesso conservatisi lucidi gli diceva che stava mostrando in maniera troppo plateale il proprio stato d'animo, cosa che non aveva mai voluto fare, ma quella parte era distante, affondata nel buio di un’anima che faticava sempre più a riconoscere come propria.

 

 

 

***

 

Il cielo era così limpido sopra Yamanashi che la vetta del Fuji si accendeva di tanti lampi dorati nel riflettere i raggi del sole.

Qua e là, nei parchi e nei viali, qualche timido fiore di ciliegio cominciava a fare capolino tra i rami.

“Non manca molto all’hanami2” osservò Daisuke, gli occhi che vagavano qua e là, a cogliere i primi segnali di primavera.

Sperava, in tal modo, di ravvivare l’interesse dell’amico, di scorgere, nei suoi occhi, un po’ degli antichi fermenti, di quella gioia ed emozione di fronte alla bellezza della vita. Aito aveva sempre amato quel momento dell’anno in cui tutto, intorno a loro, si risvegliava e si riempiva di luce.

Spiò la sua reazione e rimase deluso: Aito non guardava assolutamente nulla, se non l’asfalto della strada, ma Daisuke non era certo che vedesse neanche quello. Era probabile che non avesse neanche ascoltato le sue parole.

Con un sospiro infilò le mani in tasca e tornò in silenzio: gli dispiaceva dover ammettere che la compagnia dell’amico, da qualche tempo, era diventata opprimente, anche se gli bastò concepire un tale pensiero per sentirsi in colpa.

Come se gli avesse letto nella mente, Aito parlò per la prima volta da quando erano usciti e quello che disse fece sentire Daisuke ancora più male:

“Mi dispiace Dai-kun, potevi andare a pranzo con gli altri, io non me la sentivo”.

Daisuke lo guardò, ma non riuscì a rispondere subito, soprattutto perché le successive parole di Aito risultarono anche peggiori da sopportare:

“Non dovevi sentirti obbligato a venire con me… non me la sarei presa”.

Il tutto pronunciato con quella sua voce dolcissima e morbida che, nei momenti migliori, riscaldava solo ad udirla, ma che adesso era come il pianto di una creatura in agonia. A maggior ragione il cuore di Daisuke si sciolse: avrebbe voluto afferrargli un braccio per attirarlo contro di sé e stringerlo forte, per non lasciarlo andare finché non gli avesse confessato cosa gli stesse accadendo.

Invece, come sempre, si lasciò vincere dalla paura…

Paura di una reazione che lo avrebbe colto di sorpresa, che lo avrebbe messo a contatto con una persona che non era più così sicuro di conoscere.

Si limitò quindi a sbuffare, gli occhi levati al cielo e a commentare con le prime parole che gli salirono alle labbra:

“È una giornata così bella che non andava neanche a me di andare a pranzare in un locale, preferisco comprare qualcosa e sedermi al parco”.

Aito annuì e lasciò cadere l’argomento, ma Daisuke avrebbe voluto che sollevasse, almeno un po’, gli occhi su di lui; invece li mantenne fissi a terra, a guardare non si sapeva cosa. Intanto avevano raggiunto il Seven Eleven3 che si trovava a pochi passi dal posto di lavoro. Daisuke non poté fare a meno di osservare quanto poco cibo Aito comprò per sé e, per l’ennesima volta, notò quanto fosse dimagrito negli ultimi mesi.

“Ti ricordo che devi arrivare fino a stasera” cercò di scherzare, “guarda che se ti viene fame io non ti do niente!”.

Con soddisfazione riuscì a strappargli un sorriso, per quanto forzato e intriso di tristezza: “Tranquillo, non mi verrà fame, puoi divorare tranquillamente tutto quello che hai preso”. Daisuke fece una smorfia:

“Non è così positivo che non ti venga fame”.

Continuando a sorridere, Aito scrollò le spalle, gesto che gli era diventato abituale e che faceva pensare ad un’inquietante indifferenza, soprattutto nei confronti di se stesso. Pagarono e tornarono all’esterno e lì Aito si immobilizzò, gli occhi enormi fissi davanti a sé. Daisuke, preoccupato, seguì la direzione del suo sguardo.

Comprese subito cosa avesse turbato l’amico a tal punto: sull’asfalto giaceva il corpo senza vita di un colombo, le piume sparse e il sangue ancora caldo.

“Prima non c’era… devono averlo investito adesso”.

La voce di Aito era flebile, tremante, sull’orlo delle lacrime e Daisuke si morse le labbra: Aito si era sempre mostrato sensibile al cospetto di ogni scena triste cui gli capitasse di assistere, ma quella tendenza, nell’ultimo periodo, aveva assunto connotati sempre più destabilizzanti, persino distruttivi.

Gli prese una mano e se lo trascinò dietro, più lontano possibile da quella visione angosciosa.

“Non ci pensare, vieni qui”.

Nell’attirarlo verso di sé, prese la sua testa e se la portò sulla spalla, poi affondò la mano nei ricci morbidi, strappandogli un gemito e un sussulto.

Daisuke non aveva resistito alla tentazione di lasciarsi andare ad un gesto di affetto e fu felice nel constatare che Aito lo accettò, come lo avrebbe accettato un tempo. Forse, dopotutto, ne aveva ancora bisogno, forse almeno quello non era cambiato.

È questo che vorresti?” avrebbe voluto chiedergli, “più abbracci, più affetto?”.

Lui era lì per darglieli, perché non accadeva più spesso?

Ancora si arrabbiò con se stesso: se Aito era un testone che non chiedeva aiuto anche lui, Daisuke, lo era, anzi era un vigliacco, terrorizzato da quel nuovo Aito che non cessava di amare in maniera profonda, ma la paura di vederlo scivolare via, inghiottito dalla propria stessa oscurità, era ancora più forte del coraggio che avrebbe dovuto mostrare nel dargli un appoggio.

Raggiunsero il parco e si sedettero su una panchina riscaldata dal tiepido sole di inizio primavera. Dal punto in cui si trovavano era possibile vedere il Fuji, che si stagliava solenne all’orizzonte, la dama velata, incontrastata custode e regina di quell’angolo di Giappone incuneato tra i monti.

Mentre Daisuke divorava con appetito tutto quello che aveva comprato, Aito sbocconcellava la sua insalata controvoglia, tanto da attirare nuovamente l’attenzione dell’amico.

“Lo vuoi almeno un po’ di pane? Ne ho comprato abbastanza per entrambi”.

Aito scosse il capo:

“No, grazie, mangerò di più stasera”.

“Come no” borbottò Daisuke, poco propenso a credergli.

Una coppia di piccioni scese dagli alberi per aggirarsi circospetta, gli occhietti curiosi e speranzosi che qualcosa cadesse dalle loro mani. Daisuke colse al volo l’occasione per cercare di rasserenare l’amico: staccò qualche briciola dal proprio panino e la gettò a terra. Il gesto richiamò non solo i due primi arrivati, ma un intero stormo che piombò dal cielo, in un frullare di ali e piume, ad ingaggiare una lotta all’ultimo rimasuglio di cibo.

Daisuke sperava che la vivacità e il fremito della vita confortassero Aito, dopo lo spettacolo di morte cui aveva dovuto assistere.

“Loro pensano solo a vivere. Dimenticano presto il dramma” commentò, osservando l’amico di sottecchi, per cogliere ogni sua espressione.

Aito, intanto, si era accovacciato a terra, si era fatto salire un piccione su una mano e lo guardava con un sorriso mesto:

“Non sanno quel che si rischia a vivere…”.

Daisuke corrugò la fronte:

“Sì che lo sanno, ma la vita viene prima di tutto, deve essere così, prima della paura e della tristezza”.

Il sorriso scomparve dai lineamenti di Aito:

“Hai ragione”.

Pronunciò quelle parole con tono neutro, tutt’altro che convinto e, per l’ennesima volta, Daisuke si sentì sconfitto.

 

***

 

“Sono a casa!”.

Aito si sfilò le scarpe posandole sulla pavimentazione in legno del genkan4 e chiuse lo shoji5 alle proprie spalle.

Lo stretto corridoio che portava alle stanze della sua casa era immerso nel buio, ma un fascio di luce si riversava dalla cucina e alcuni bisbigli raggiunsero le sue orecchie, mentre le narici vennero colpite dal profumo della cena in cottura.

Trovò la nonna seduta al tavolo e sua madre impegnata ai fornelli: fu certo che avessero interrotto di colpo una conversazione dopo averlo visto comparire nella cornice della porta, come a volergli nascondere qualcosa. Non importava che lui fosse adulto, sulla soglia dei trent’anni, loro due continuavano ad essere protettive nei suoi confronti, cosa che lo umiliava perché, per quanto si impegnasse, non riusciva a dimostrare di essere ormai un uomo da tempo.

Ogni volta che rincasava il suo cuore veniva invaso da un senso di profonda tristezza e nostalgia, la sua memoria andava a quando c’erano tutti intorno a quel tavolo: suo nonno, suo padre, cani e gatti che avevano transitato tra quelle mura e altre presenze di amici e parenti scomparsi da anni.

Pian piano tutto si era svuotato di voci e di vita, tutto era diventato malinconia e silenzio, quello era il significato del trascorrere inesorabile del tempo, la perdita e l’abbandono, l’incapacità sempre più grande di affrontarli e l’amplificarsi, anno dopo anno, di sofferenze e paure… e la consapevolezza di sentirsi sempre più soli.

“Che succede?” domandò, facendo correre lo sguardo sulle due donne di casa. Non fu cieco di fronte all’inquietudine che rendeva sfuggenti gli occhi di sua madre.

“Le solite stupidaggini” rispose la nonna, energica, con una scrollata di spalle, “ma tua madre se la prende sempre troppo”.

Se entrambe erano protettive con lui, la nonna li proteggeva entrambi. Era una donna forte, plasmata nell’autentico spirito dell’antico Giappone: sopravvissuta, senza aver perso la testa, alla morte del marito e di due figli, era stata lei a mantenersi lucida e salda, anche quando, intorno a lei, tutti erano stati sul punto di crollare.

Aveva accettato che il figlio maggiore tornasse da un viaggio in Europa accompagnato da una gaijin, dopo un primo momento di sconcerto aveva preso relativamente bene anche la notizia dell’arrivo di un nipote. Si era chiusa in se stessa per un po’ e poi, come era stato raccontato ad Aito, aveva preso in mano le redini della situazione ed aveva deciso che avrebbe difeso quella famiglia ibrida da ogni condanna e pregiudizio, trasformandosi in una madre anche per quella straniera giunta a movimentarle l’esistenza ed un rifugio solido e sempre presente per un nipotino che cresceva fragile, troppo permeabile alle critiche del mondo esterno.

“Ancora le solite vicine?”.

“E tua madre che dà troppo peso alle parole”.

“È che sono stanca di sentirmi straniera a casa mia! E non sono solo loro. Vado a fare la spesa e mi scrutano, come se ogni giorno fossi una creatura diversa, possibile che non si abituino mai a me?”.

“Tu ormai sei giapponese, Maeve, se non se ne sono fatti una ragione dopo tutti questi anni, è un problema loro”.

La donna più giovane sbuffò e apparecchiò la tavola con fare nervoso poi, come se solo in quel momento si fosse ricordata della presenza del figlio, si avvicinò a lui e lo baciò sulla guancia:

“Scusami, Ai-kun, torni stanco da una giornata di lavoro e ti accolgo così”.

Aito ricambiò il saluto e le sorrise. Poteva comprendere sua madre: lui stesso aveva passato anni a sentirsi un escluso a scuola senza capire perché, lui era giapponese, voleva così disperatamente essere giapponese, era nato e cresciuto alle pendici del Fuji, si era sempre sforzato di comportarsi come i giapponesi si sarebbero aspettati da lui, tanto che Daisuke era solito dirgli che sembrava più giapponese dei giapponesi autentici.

Eppure il suo aspetto non ingannava nessuno e lo escludeva a prescindere: se non ci fosse stato Daisuke nella sua vita, se non avesse avuto una famiglia accogliente ed affettuosa, sarebbe sempre stato solo.

Un sottile miagolio e uno strofinarsi sulle sue gambe lo portò ad abbassare lo sguardo:

“Ciao, Yoori”.

Si chinò a raccogliere tra le braccia il gatto di casa ed annunciò che aveva già mangiato fuori, che era stanco e che sarebbe andato subito a letto.

La sua tristezza lo stava rendendo persino bugiardo, una persona che mai più avrebbe potuto amarsi ed essere orgogliosa di se stessa.

1Termine con cui i giapponesi definiscono gli stranieri. Spesso, anche se non sempre, è usato in senso spregiativo.

2Letteralmente: “guardare i fiori”. L'usanza giapponese di festeggiare la fioritura dei ciliegi.

3Catena di Combini o Convenience Store molto presente in Giappone.

4Anticamera di ingresso di molte case giapponesi, dove si è soliti togliersi le scarpe.

5Porta scorrevole che divide le stanze giapponesi, in legno con riquadri di carta di riso.

 
   
 
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