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Autore: Lau33    14/04/2018    5 recensioni
Improvvisamente, ricordo qualcosa. Ricordo che il pianoforte che mi sta fissando nell'angolo della stanza è il mio. Io so suonare...
Perché lo avevo dimenticato? E, soprattutto, perché ho paura del mio strumento?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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*Angolo dell'autrice*

Buonasera a tutto il popolo di lettori^^ Sono Laura e questa è la mia prima fic originale;) 
Come avrete intuito dal titolo, la storia tratta il tema della musica, perciò nel testo saranno presenti alcuni termini abbastanza specifici che, se non li conosceste, vi invito a cercare per immedesimarvi nel personaggio.
Detto questo, mi faceva piacere dire che questa è la storia a cui tengo maggiormente perché è ispirata alla mia esperienza personale e al mio passato e presente da pianista.
Buona lettura!



Mi sveglio di soprassalto. Respiro a fatica, con le mani intrecciate nei capelli, mentre ancora cerco di capire dove mi trovo. Sono nel mio letto, con le coperte disfatte, constato che è notte. Un incubo, di nuovo.
Cerco a tastoni l'interruttore della lampada sul mio comodino, che immediatamente illumina la stanza con una soffusa luce azzurra, rischiarando nelle tenebre un pianoforte.

A primo impatto, non lo riconosco. É un codino, laccato bianco, della Kawai. Sembra molto vecchio: ha i tasti in avorio e solo due componenti nella pedaliera. Perché c'è un pianoforte nella mia stanza? E perché riesco a descriverlo in modo così preciso?

Osservo le mie mani, poi le ombre delle dita che si proiettano sulla parete. Tremano. Perché sto tremando?
Mi avvolgo nelle coperte, come per nascondermi dalla realtà delle cose, da tutti e da tutto, ma soprattutto da lui.

È strano, attraverso i fili della stoffa, la sua immagine si imprime come una cicatrice indelebile sulle mie retine. Riesco ancora a vederlo e qualcosa di inspiegabile mi impedisce di distogliere lo sguardo.

Improvvisamente, ricordo qualcosa. Ricordo che il pianoforte che mi sta fissando nell'angolo della camera è il mio. Io so suonare...
Perché lo avevo dimenticato? E, soprattutto, perché ho paura del mio strumento?

I pensieri attanagliano la mia mente, li allontano. Decido di alzarmi, ma le gambe sembrano quasi non reggermi più. Da quanti giorni sono a letto? Da quanti mesi non esco di casa?
Mi passo una mano nei capelli, mi accorgo che trema ancora. Fermati, fermati. Istintivamente stringo le dita.

I miei piedi si dirigono verso lo sgabello e, senza che me ne accorga, mi siedo e sollevo il coperchio della tastiera. Il rosso vermiglio del copri-tasti mi annebbia la vista. Le dita, a contatto con il freddo avorio ingiallito, si induriscono, si ghiacciano.

Mi risveglio di scatto da quello strano sonnambulismo, notando che, in realtà, il pianoforte è chiuso... Devo aver sognato.
Guardando più da vicino, mi accorgo anche che il pianoforte è coperto di polvere. In quel momento, una profonda amarezza prende possesso del mio stomaco. 

Ricordo qualcos'altro: oggi è il 9 marzo. Oggi è il gran giorno.

Prendo il cappotto e, senza nemmeno badare a come sono vestita, esco di casa. Il cielo plumbeo non sembra distogliere la mia attenzione. Oggi è quel giorno. Mi dirigo verso il centro, arrivo in Duomo e stranamente nessuno mi urta. Mi piace rivedere l'atmosfera caotica della città, non ricordo quando ci sono venuta l'ultima volta. A sinistra, imbocco la galleria e affretto il passo. Sono in ritardo? Non ho nemmeno pensato di guardare l'orologio. 

Dopo l'infinita serie di boutique della via dorata, finalmente appare davanti a me quell'amata piazza. Si intravede la grande folla di persone all'entrata del teatro e si iniziano a sentire le loro voci concitate. Tra pellicce di visone, smoking e vestiti eleganti ci sono anch'io, con il mio vecchio cappotto che nasconde il pigiama. La Scala sta aprendo.

Mi faccio strada faticosamente tra le anziane signore con le borse di pelle, cercando di avvicinarmi alla porta principale per intrufolarmi nella fila. D'un tratto, mi rendo conto di non essermi ricordata di prendere il biglietto. La fila avanza, il controllore si avvicina. Abbasso lo sguardo mentre continuo febbrilmente a cercare nelle tasche e il mio occhio scivola su un biglietto che sta precipitando inesorabile dalla mia mano. Lo raccolgo; non so perché lo tenessi tra le dita, non sono nemmeno sicura che sia il mio, ma in quel momento non m'importa. Non posso rinunciare a qualcosa che aspetto da così tanto tempo. 

Mostro il biglietto al controllore e, insolitamente, non me lo strappa nemmeno, né controlla il codice a barre. La fila prosegue ed entro anch'io nella splendida sala dorata illuminata dai lampadari di cristallo e decorata da statue solenni, che precede le antiche scalinate, protette dai tappeti rossi. Quasi corro nel salire i gradini, non posso attendere oltre. 

Oggi suona Krystian Zimerman.

Raggiungo il quarto piano del teatro, diciottesimo palco, posto davanti a sinistra. Nel “salottino” con me non c'è nessuno, se non una grande corona di fiori bianchi sulla porta. Non ci faccio caso, i miei occhi sono incantati davanti alla maestosità del più importante teatro al mondo. Il suo enorme lampadario sfarzoso, le poltrone di velluto, i disegni romboidali sul soffitto avorio, il grande stemma dorato che capeggia sul pesante sipario... non finiranno mai di affascinarmi, nonostante li abbia già visti innumerevoli volte. 

Sento gradualmente sopraggiungere nel petto quella sensazione così familiare, il cuore sembra esplodere di gioia. Entra il pianista. 

Mi sporgo dal corrimano dorato, come per essere più vicina a lui, come se volessi toccarlo con mano per provare la sua esistenza. Gli applausi che accompagnano il polacco, il quale si dirige verso il centro del palcoscenico, sono diversi dai soliti. C'è un'atmosfera triste.

Zimerman ha una strana espressione, quasi malinconica. Si inchina, tenendo gli occhi chiusi. Ora il pubblico tace.

Il musicista si ricompone, pronunciando qualcosa in inglese.

«I only have the forlorn hope that the music she loved so much will be able to soothe this deep sorrow.»

Non presto nemmeno attenzione a ciò che dice, sono troppo concentrata sulla sua figura che si avvicina a quel magnifico gran coda della Steinway&Sons, che torreggia davanti al pubblico. Non si avverte nemmeno un brusio, tutti sono in religioso silenzio, forse intenti a consultare il programma dello spettacolo. Il programma, un'altra cosa di cui non mi sono preoccupata. 

Penso tra me e me che non sia così importante, dopotutto so suonare il pianoforte e dovrei quindi essere in grado di riconoscere perfettamente i brani che saranno eseguiti... Non è così?

Krystian Zimerman si appresta a iniziare il primo pezzo. Le sue dita, prima di raggiungere i tasti, slacciano il bottone dello smoking e stringono ansiosamente la stoffa bluastra dei pantaloni. Sembra teso, non me lo sarei mai aspettata da lui. Non mi sarei mai immaginata che uno dei più grandi pianisti del mondo avesse timore di esibirsi; lui, che avevo sempre ammirato da dietro a uno schermo mentre si destreggiava in sonate complicatissime, senza battere ciglio, calmo e distaccato, ma mai inespressivo, ora pareva così fragile e vulnerabile. Lui, il mio modello sin dall'infanzia, la mia massima fonte d'ispirazione nel mondo pianistico, ora mi stava... deludendo?

Non pensarci, è da molti anni che non suona alla Scala.

Quella voce nella mia testa mi convince e, nel pensarci, la musica comincia. La riconosco: è la terza sonata di Chopin, opera 58. 

Il suo atteggiamento è cambiato: quando la mano destra scivola sulla tastiera, nell'aria risuonano le imponenti note di accordi arpeggiati discendenti, irrompendo nelle orecchie degli ascoltatori. Non avrei mai pensato che potesse suonare in questo modo, avendo visto quanto fosse agitato prima di iniziare; eppure ora le sue dita si muovono talmente leggiadre sui tasti perlati che faccio fatica a seguirle con lo sguardo. E poi, improvvisamente più lento, più delicato. 

La melodia condotta dalla destra mi trasporta come un vento leggero, trasparente. Anche le acciaccature sembrano così naturali, per nulla virtuosistiche. Il crescendo tramuta la sua espressione calma in una quasi sofferente, come se i muscoli del suo viso si fossero contratti ad imitare i martelletti meccanici nello strumento. Aggrotta le sopracciglia, mentre riecheggiano suoni dissonanti e irregolari. Tutto si interrompe, torna la candidezza, la leggiadria, la velocità, poi il crescendo ed, infine, il cantabile. Osservo i piedi, che domano abilmente il pedale di risonanza, conferendo al suono ancora più eleganza di quanto già faccia il genio seduto sullo sgabello. Un accenno di pausa, inizia lo scherzo, molto vivace

Ancora mi stupisco della rapidità e della perfezione dei movimenti: non sbaglia una nota, non manca un tasto. Con una naturalezza disarmante introduce le battute malinconiche che sfociano poi in un'impeccabile corsa della mano destra. Un'altra interruzione, il terzo movimento.

Un largo che sembra avvolgere gli animi dei presenti con una maestria che raramente avevo sentito; una linea melodica tanto semplice da risultare banale, se suonata in modo superficiale. Guardo di nuovo il suo viso, ma faccio fatica a scorgerne i tratti: è come se stesse pensando, come se si stesse esclusivamente concentrando sulla sua musica. Una musica che sembra inevitabilmente trasmettermi delle immagini. All'inizio non riesco a distinguerle bene, ma poi si delineano davanti ai miei occhi senza che io possa impedirlo.

Vedo una bambina, sembra avere sette o otto anni. Sorrido nel vedere l'espressione serena ed entusiasta sul suo viso, incorniciato dai lunghi capelli marroni, raccolti in due code. Perché è felice? Facendo più attenzione, noto che è seduta su uno sgabello di pelle nera, davanti a un pianoforte. Alla sua destra siede una giovane donna con corti capelli corvini e orecchini a forma di chiave di violino, che sembra le stia insegnando a leggere il pentagramma.

Quella scenetta della mia fanciullezza mi scalda il cuore, ora capisco perché mi sia venuta in mente in un momento come questo. La melodia è così dolce e lieta, mi ricorda la spensieratezza dei pomeriggi infantili, trascorsi ad esercitarmi e a studiare quel nuovo linguaggio che tanto mi affascinava. Rivivo la grande curiosità che mi avvicinò a quell'arte così complessa e variegata che, a distanza di alcuni anni, sarebbe diventato tutto il mio mondo. 

Senza che me ne accorga, comincia il presto. Un tono misterioso, quasi tenebroso che viene accentuato dal ritmo incalzante e dai suoni concitati che si sovrappongono gli uni con gli altri. 

Una strana sensazione mi invade lo stomaco. Quelle note repentine mi portano a ricordare la mia adolescenza. Le immagini scorrono altrettanto veloci davanti ai miei occhi, rivedo intere giornate in pochi secondi. Il liceo, la mancanza di tempo, lo studio, altro studio, lo stress... Le lezioni di musica dal mio nuovo maestro, le competizioni, le esibizioni, i brani sempre più complessi... Non ricordavo di aver avuto un'adolescenza tanto frenetica e angosciante. Compaiono davanti a me momenti di rabbia e furore che iniziano a divenire sempre più frequenti. Ricordo quel senso di inquietudine che nasceva dal profondo dell'animo, e che non riuscivo ancora a spiegare. Cosa c'era di sbagliato in me, nella mia vita? Perché mi sentivo così? 

Era un'adolescenza piuttosto normale, lo stress lo abbiamo provato tutti, penso. Eppure quello non era semplice stress; in me stava nascendo una consapevolezza che non volevo ancora approfondire, forse per paura di affrontarla. Ancora una volta, scaccio il pensiero, concentrandomi sull'esecuzione.

I passaggi virtuosi a destra fanno da intermezzo per le ottave ansiose, che lentamente prendono possesso dei toni più gravi e profondi della tastiera, per poi ascendere verso i più acuti, conducendo all'appariscente e spettacolare finale. 

Zimerman rialza le mani dai tasti, quasi lanciandole in aria. Un boato di applausi si pone tra me e lui, che sembra stranamente rivolgermi lo sguardo o, anzi, fissare con le lacrime agli occhi il mio palco. Non capisco. Perché sta guardando in questa direzione? E perché ha quell'espressione?

È riuscito a suonare perfettamente e con grande personalità una delle più difficili sonate di sempre, senza un errore, senza la minima distrazione. Perché non è felice? Perché sembra sia sul punto di piangere? La sua non è tensione... è solamente dolore. Come quello che avverto con le prime due note del secondo e probabilmente ultimo brano del concerto; un brano che conosco benissimo, il mio brano preferito. Riconosco il largo pesante della ballata opera 23, anch'essa di Chopin. Due note penetranti che sembrano dilaniare la mia mente scombussolata, entrando nei miei pensieri confusi, nelle mie memorie dimenticate. Ricordo qualcos'altro.

Ricordo che lo stress, che mi torturava a diciotto anni, non era causato dalla mia agenda piena di impegni, o almeno non interamente. Ricordo che quell'angoscia e quell'ansia travolgenti non erano dovuti ai ritmi incessanti delle mie giornate. Ricordo che l'inquietudine e la delusione erano comparse per un altro motivo. 

Nelle mie iridi marroni si riflette di nuovo l'immagine della ragazza, che questa volta si accascia sul pavimento, in un mare di lacrime, nascondendo il viso tra le ginocchia. Vicino a lei, spartiti distrutti e diplomi stracciati. Le sue mani tremano e lei cerca invano di fermarle, stringendole in una morsa sempre più opprimente, fino a farle diventare bluastre. Quelle mani che tanto tremavano, come sui tasti, lei le odiava. Così come iniziava ad odiare quel mondo. Finto, scomodo, ingiusto. 

Non l'avrebbe mai immaginato da bambina, ma il mondo dei pianisti non è un campo fiorito, specie per una come lei. Lei, che non aveva mai dimostrato doti geniali, ma che aveva proseguito animata solo da una grande passione. Lei, che da bambina amava così tanto vedere i sorrisi delle persone che ascoltavano i suoi concerti, i suoi concorsi. Lei, che ora non poteva far altro che scorgere negli occhi delle stesse persone sentimenti negativi e, più di tutti, delusione. Lei, che era la prima ad essersi delusa. 

Lei, che aveva così tanti idoli nel mondo dei pianisti e che era certa che non li avrebbe mai raggiunti. Lei, che si immedesimava sempre nei brani ascoltati, che si commuoveva sempre udendo performance toccanti. Lei, che sapeva non sarebbe mai riuscita con la sua musica a far provare agli altri le stesse emozioni. 

Lei, che non si era mai arresa davanti ad una difficoltà, ma che non aveva mai ricevuto vere soddisfazioni. Lei, che lottava con tutte le sue forze, ma che, invece delle medaglie, collezionava solo fallimenti. Lei, che si immergeva negli abbracci del suo amato maestro, mentre tentava di rassicurarla, dicendo vedrai, la prossima volta andrà meglio. Lei, che era perfettamente consapevole che le stesse mentendo. 

Lei, che non avrebbe mai sentito i suoni degli applausi, quelli veri, quelli scroscianti. Lei, che studiava giorno e notte, ripetendo morbosamente i suoni scritti sullo spartito. Lei, che non aveva mai smesso di sperare che un giorno il suo sogno si sarebbe realizzato, che un giorno avrebbe suonato alla Scala. Lei, che non era nemmeno riuscita a finire quell'infernale conservatorio. 

Lei, che aveva ricevuto solo porte in faccia, dai giudici e dalle commissioni. Lei, che ora urlava nel buio della sua stanza, ancora troppo giovane per capire che quelle grida non avrebbero risolto nulla. Lei, che non aveva mai compreso che cosa non andasse nel suo modo di suonare e, forse, mai lo avrebbe fatto. Lei, che non aveva nulla di straordinario, nulla di geniale nelle sue note. Lei, che forse le sue note non le aveva ancora trovate. 

Lei... che era me pochi anni addietro.

Mi stringo istintivamente il petto nell'udire la triste melodia che accelera, evolvendosi in un'altra, pregna di tensione emotiva. Guardo il braccio contratto di Zimerman che carica il fortissimo, lo sforzato

Non capisco che cosa mi stia accadendo, né perché abbia ricordato tutto in una volta, udendo solo quelle due singole note. Eppure, manca ancora qualcosa, manca ancora un pezzo per terminare il puzzle; ma non sono sicura di voler sapere il finale di questa storia... della mia storia. 

Il pianista sta ora eseguendo le battute più malinconiche del brano, condotte da una melodia acuta e leggera che poi riprende il tema iniziale, più aggraziatamente. Nelle mie orecchie si instaura un graduale crescendo, imponente e dai tratti aggressivi. Aggrotto la fronte e abbasso le palpebre. 

Quella rabbia non fa altro che ricordarmi il mio astio verso la musica, e i motivi per cui la odiassi. Ricordo delle notti trascorse a piangere sotto le coperte e di quelle passate a premere violentemente i tasti per nascondere le mie urla di dolore con le sonate di Beethoven. Ricordo anche la tensione e l'agitazione frenetica prima di ogni gara, quando mi rinchiudevo in bagno a vomitare pochi minuti prima dell'esecuzione. Ricordo quanto tremassi sui quei maledetti tasti, davanti a quei diabolici sguardi fissi su di me, pronti ad annotare ogni minimo errore. Ricordo quanto piangessi su quegli insignificanti diplomi di partecipazione.

Mentre i miei pensieri viaggiano, noto che la musica è cambiata di nuovo. Osservo il viso del polacco: è rilassato, sereno; la mano destra sembra giocare e lui si diverte con lei. Sembra davvero amare quello che fa, sembra davvero che quella musica, che lo accompagna ormai da più di cinquant'anni, così ammirata dal pubblico e dalla critica, gli appartenga. La musica di Zimerman sembra quella di Chopin. 

I suoi occhi contenti e il sincero sorriso mi ricordano quanto anche io amassi la musica. Ricordo l'emozione dell'aver ascoltato un concerto dal vivo per la prima volta, dell'essere andata in teatro e di essermi seduta in prima fila, sulla sinistra, perché dovevo necessariamente osservare ogni minimo movimento delle mani del musicista. Ricordo l'emozione delle mie prime esibizioni infantili, quelle in cui parevo così promettente. Ricordo le intere serate trascorse a suonare Schubert e Debussy, capaci di risollevarmi da ogni mio pensiero negativo. Ricordo di non essermi mai addormentata senza le mie indispensabili cuffiette nelle orecchie.

La musica si evolve in qualcosa di nuovo: è sempre la ripresa del tema, ma è lui a suonare in modo differente: l'armonia introspettiva mi travolge come un fiume in piena. I suoni entrano nel mio animo, li posso sentire distintamente. Sembra che io possa quasi specchiarmi in quelle note che conosco tanto bene, perché... le so suonare anche io.

Questa ballata è stata il mio ultimo pezzo... nel vero senso della parola. Le mani ricominciano a tremare, ma questa volta non lo fanno per l'agitazione, come in passato; le mie dita tremano come quel giorno, esattamente un mese prima, strette intorno a quello stesso corrimano dorato a cui mi ero aggrappata; tremano di paura. Il mio cuore sussulta, come quel giorno, quando raccolsi il poco coraggio che mi era rimasto...

Ora tutto riacquista senso, tutto ciò che ho vissuto quella sera assume significato.

Il coperchio del pianoforte che non si era sollevato, la folla di persone che non mi urta nemmeno, il controllore che non guarda il biglietto, gli strani applausi... Il palco vuoto, la corona di fiori bianchi sulla porta e infine lui. L'espressione malinconica che rivolgeva verso di me...

Mi tornarono in mente le sue parole, cui prima non avevo dato ascolto: Io ho solamente la vana speranza che la musica che lei amava così tanto possa colmare questo profondo dolore.

Nella mia testa compaiono le immagini dei telegiornali di questa stessa sera e le testate dei quotidiani nazionali. Oggi la Scala riapre, un mese dopo la terribile tragedia. Zimerman ritorna in concerto per onorare la memoria di Ambra, la giovane pianista.

Ambra... sono io. Ed io... sono morta.

Quella sera mi sono lasciata cadere dal quarto piano del teatro dei miei sogni, per porre finalmente fine alle mie sofferenze. 

Quella musica, che prima amavo così tanto, non riuscivo più a sopportarla, perché ogni volta che una nota s'infilava nei miei timpani, il mio corpo era scosso da violenti tremori e insostenibili grida. 

Chi non ha mai fatto parte del mondo della musica non immagina nemmeno quale sia lo stress che si deve patire, quanta sia la mole di studio da sostenere, quale sia la pressione di dover affrontare un concorso, perché in quei pochi minuti si scommettono mesi e mesi di esercizio. Pochi conoscono il dolore del fallimento.

La musica non è solo fonte di gioia. Molti non lo sanno, ma quella musica che sembra salvarci da questo mondo sbagliato ogni singolo giorno, a volte può anche uccidere. Così avevo smesso di sentirla, per tentare di cancellarla dalla mia vita, ma non ci ero riuscita; la musica aveva lasciato dentro di me una ferita indelebile e ogni giorno senza suoni era peggiore del precedente. Non potevo vivere, con o senza di lei.

E nessuno dava ascolto ai miei pensieri o cercava di aiutarmi, perché nessuno intorno a me riusciva a comprendere la frustrazione di chi non ha talento in ciò che ama più di se stesso. Sono morta perché non riuscivo a sopportare una vita in cui non fossi una pianista.

Penso a Zimerman che sta suonando davanti a me, alla Argerich, a Pollini, a Schnabel, a Benedetti Michelangeli... Penso a tutti i geni della musica che ho sempre ammirato, alle loro vite straordinarie e a quanto esse, seppur impegnative e frenetiche, fossero così appaganti e significative: avere la possibilità di diffondere la cultura della musica classica in tutto il mondo, riuscendo a trasmettere l'intenzione del compositore, interpretandola con le proprie emozioni... Questo, il mio sogno evanescente e irrealizzabile.

Era uno strano dolore. Sono morta di nostalgia per qualcosa che non avrei mai vissuto. 

Improvvisamente, mi alzo, come spinta da una forza ultraterrena, e in un attimo mi ritrovo sul palcoscenico. Rimango immobile davanti a quella vista, davanti all'emozione che avevo sognato. I migliaia di spettatori che mi guardano nelle celle dorate delle pareti e nella platea. Mi stringo il petto, travolta dal meraviglioso. 

Alla mia sinistra, sento le note più intense di prima. A meno di un metro di distanza, c'è Zimerman, il mio pianista preferito, che suona. 

Il desiderio irrefrenabile di suonare, di suonare il pianoforte, di suonare il pianoforte con lui si fa largo nella mia mente, senza che possa impedirlo. E come in un sogno, accanto allo Steinway, compare il mio Kawai, non più impolverato ed usurato, ma brillante. So che nessuno mi vede, ma mi siedo comunque, ne sento il bisogno, per l'ultima volta.

O Chopin, tu che sei stato poeta del pianoforte, so che non ne sono degna, ma potrei suonare per l'ultima volta questa tua poesia? E tu, o Zimerman, che sei uno dei più grandi esponenti del pianismo contemporaneo, tu che hai dipinto la mia anima di così tanti colori, mi permetti di affiancarti in questa ballata?

Per un attimo mi è parso di vedere i suoi occhi voltarsi verso di me, come per rispondermi. Chiudo gli occhi, posando le dita sui tasti. E poi, come d'incanto, la nostra musica comincia. 

Il suono si duplica, si sincronizza, si enfatizza. Non ricordo l'ultima volta che mi sono sentita così viva... Non ricordo l'ultima volta in cui mi sono emozionata accarezzando quegli stessi tasti che avevo martellato per anni. È così, pensavo di averla dimenticata: l'emozione di creare la musica. 

Mi concentro più su di essa: mi sembra la stessa di sempre, la mia musica un po' strampalata, imprecisa e personale, così inadatta per il mondo perfetto dei pianisti. Ma ascoltando meglio, noto una differenza fondamentale rispetto a prima; forse, per la prima volta dopo tanto tempo, suono senza avere paura di sbagliare, suono senza odiare le mie imperfezioni, suono senza aver paura di far sentire me stessa. Per la prima volta, suono davvero, lasciando vivere le mie emozioni. Mi accorgo di avere la vista annebbiata. 

Distolgo lo sguardo dalla tastiera, rivolgendo la mia attenzione verso il pubblico, decisamente più in fermento rispetto a prima. Vedo l'inconfondibile testa riccia del mio maestro tra le prime file della platea, l'unico immobile, composto come sempre, in mezzo a quella moltitudine. Anche lui piange, sembra quasi che riesca a vedermi, o almeno a sentirmi. Che abbia riconosciuto la mia musica, quella che aveva sempre cercato di insegnarmi, ma soprattutto quella che mi ha insegnato ad amare?

Mentre suono, mi rendo conto che non l'ho mai ringraziato. Mentre suono, le lacrime s'infrangono sulle ciglia, perché realizzo che ormai è troppo tardi per farlo.

Zimerman si guarda intorno, senza deconcentrarsi dall'esecuzione, come per cercare qualcosa. Cerca me, cerca la mia musica. Forse, riesce a sentirmi; anzi, ne sono quasi sicura. Finalmente sembra aver capito dove mi trovo, tende l'orecchio verso la mia direzione. Sento un sussurro. Ambra?

Per rispondergli, improvviso un paio di trilli. La sua espressione muta da spaventata a stupita, fino a divenire... immensamente triste. Credo abbia capito, il mio “canto del cigno”, la mia ultima dichiarazione d'amore alla musica, prima di sparire per sempre. E con lui, lo realizzo anche io. Manca poco più di un minuto alla fine del brano, altri sessanta secondi, prima di andarmene... Suonare ci diventa sempre più difficile, perché i tasti sono bagnati delle nostre lacrime. 

I rimpianti si impongono sugli altri pensieri. Come ho potuto abbandonare tutto? Come ho potuto essere così debole ed arrendevole? Come ho potuto sprecare quel dono meraviglioso?

E piango con gli occhi disperati di chi ha compreso la vita solamente da morta.

Inizia la scalata inesorabile di ottave discendenti, sempre più forti, più dirompenti. 

Altre domande, altri dubbi, altre incertezze. Li allontano, poiché ormai non conta più nulla. Rifletto su quanto il tempo risulti effimero. Solo trenta secondi

Avverto le dita più leggere e noto che sono diventate di un rosa più trasparente. Sto svanendo.

Sento dei rumori oltre il palcoscenico e al mio fianco mentre arpeggio. Vedo il mio maestro alzarsi in piedi; si tocca il petto e mi guarda, trattenendo i singhiozzi. Vedo Krystian tremare, fissandomi con gli occhi lucidi. Mi possono vedere.

Vorrei piangere, ma abbozzo un sorriso. Non voglio che mi ricordino in lacrime, non voglio che tutto ciò che rimarrà di me sia il mio dolore. Ora mi sento così felice... 

Anche il legno bianco del mio pianoforte inizia a divenire più tenue, il pavimento si intravede sotto i martelletti. Mi soffermo su di lui, il mio migliore amico fin dall'infanzia. Rivedo i suoi graffi, le ammaccature, gli smorzatori usurati; ritocco i suoi tasti ingialliti, il pedale cigolante; sento sotto di me l'instabile sgabello. Mio compagno di studi, gioie, insoddisfazioni e sofferenze... quanto vorrei suonare ancora con te in paradiso o all'inferno. 

Rimarrai da solo? Resterai protetto sotto alla polvere? Chi ti suonerà ora che non ci sono più? Spero tu possa venire con me, spero potremo rimanere insieme, ovunque andremo. Non avrei mai voluto abbandonarti, perdonami.

Il penultimo accordo, e le dita cominciano a tremare, come in passato. Non tremate, non abbiate paura di sbagliare.

Le lacrime solcano le guance di Zimerman e del maestro. Non piangete, ora sono felice. Forse per colmare il mio dolore, ne serviva uno più grande; forse mi occorreva davvero il dolore straziante dell'abbandonare la vita.

Ammiro ancora una volta il teatro dei miei sogni più remoti, il suo pubblico costretto ad assistere a questo bizzarro concerto strappalacrime. Osservo alcuni volti, imprimendo nella mia mente le loro espressioni. Sarò riuscita ad impressionarli? Si ricorderanno di me?

Guardo ancora una volta il mio amato insegnante. Lo avrò raggiunto? Avrà sentito il mio grazie

Le note finali, un accordo incisivo, penetrante. Rifletto sul potere della musica, di quella forza naturale che trascende le parole e, spero, anche la morte... Sorrido, pensando che forse qui rimarrà il ricordo della mia musica.

Zimerman si volta verso di me. Grazie per avermi regalato quelle emozioni e per avermi lasciato un ultimo, magnifico ricordo prima di andarmene per sempre.

Ripenso a tutti i giudizi insufficienti, alle note sbagliate, ai centinaia di premi non vinti, ai riprova l'anno prossimo, ai non sei in grado di emozionare.
Eppure dal suo viso, sono sicura che le mie dita gli abbiano trasmesso almeno un centesimo di quello che la sua musica suscitava in me. E questo a me basta. 


E così come la musica, svanisco, lasciando nell'aria il riverbero delle mie note. 
Finalmente, credo di averle trovate.

 

  
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