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Autore: WillofD_04    16/04/2018    2 recensioni
Questa storia è il seguito di "Lost boys". Per leggerla non è necessario aver letto "Lost boys", ma è consigliato.
A quanto pare, l'avventura di Cami non è affatto finita, anzi, è appena cominciata! Che cosa le è successo? Sarà in grado, questa volta, di risolvere la situazione? Questo per lei sarà un viaggio pieno di avventure e di emozioni, che condividerà con persone molto speciali.
Non posso svelarvi più di così, se siete curiosi di sapere cosa le è capitato, leggete!
DAL TESTO:
Poco ci mancò che non caddi all’indietro dall’incredulità. Infatti dovetti reggermi agli stipiti della porta che era dietro di me per rimanere in piedi. Dieci paia di occhi mi fissavano, tutti con un’espressione diversa. C’era chi era divertito, chi indifferente, chi curioso e chi stupito.
«Oh cazzo...è successo di nuovo!» esclamai, al limite dell’esasperazione.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mugiwara, Nuovo personaggio, Pirati Heart, Trafalgar Law
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Law gettò una rapida occhiata a Sabo, ora seduto sul letto, che contraccambiò il suo sguardo leggermente diffidente con uno più sereno. Poi tornò a posare gli occhi su di me e lo vidi fare un piccolo ghigno. Sgranai gli occhi nel momento in cui mi accorsi che avevo un paio di parti del mio corpo piuttosto esposte, e pensai a coprirmi come meglio potei, dato che la cerniera era ancora bloccata.
Una strana sensazione mi invase il corpo. Non era imbarazzo. Non solo, almeno. Percepivo anche un velo di delusione. Avevo pensato a vari scenari per il primo incontro tra me ed il chirurgo, ma questo non mi sarebbe mai venuto in mente. Mentre mi stavo facendo la doccia avevo deciso che avrei lasciato le cose al caso, che avrei preso quello che sarebbe capitato, ma non era così che dovevano andare le cose. Non era così che volevo o speravo che andassero.
Deglutii ed abbassai gli occhi, per non incrociare lo sguardo inquisitore del capitano.
«Bentornata» fece Law. La sua voce, per qualche assurdo motivo, mi fece venire le farfalle allo stomaco. Anche quella mi era mancata dannatamente. In un altro momento avrei sorriso come un’ebete, ma nella realtà non mi sembrava il caso.
Rialzai gli occhi e notai che sul suo viso armonioso era comparso un altro ghigno. Non ne ero sicura, ma mi sembrava che fosse uno dei suoi ghigni di sfida. Decisi di ignorare le sue taciute provocazioni e mi limitai a rivolgergli un piccolo sorriso grato.
«Grazie» risposi, accompagnandomi con un cenno del capo «Posso spiegare, comunque. Intendo... tutto questo» continuai, muovendo un passo incerto verso il moro e gesticolando animatamente. Lo vidi sollevare un angolo della bocca.
«Non mi devi spiegare niente» disse. Poi si girò e se ne andò.
Mi scambiai un’occhiata fugace con Sabo, che mi stava squadrando per cercare di capire quale sarebbe stata la mia prossima mossa. Per lui era quasi un gioco.
Lo lasciai lì e scattai in avanti. Rincorsi Law per il corridoio e lo raggiunsi qualche metro dopo.
«Sul serio, posso spiegare. Prima pioveva, il Capo di Stato Maggiore era fradicio, così gli ho lasciato usare la doccia. Io invece volevo soltanto indossare la divisa dei Pirati Heart. Ho pensato che vi avrebbe fatto piacere se l’avessi messa, solo che poi la cerniera si è...»
«Non mi devi alcuna spiegazione» ripeté, interrompendomi e seguitando a camminare. Perché non mi guardava? Che fosse... arrabbiato?
«Non mi interessa cosa fai, o con chi lo fai» affermò. Stavo iniziando a riconoscere il vecchio Trafalgar Law, quello cinico e distaccato. «Ciò che mi interessa è che ti occupi della riparazione della porta d’ingresso del sottomarino».
Boccheggiai, continuando a seguirlo come un cagnolino segue il proprio padrone.
«C’è una spiegazione anche per quello» dissi infine, quasi mortificata «Ad ogni modo, mi dispiace. Me ne occuperò, puoi stare tranquillo».
Raggiungemmo la cucina in meno di un minuto. Da quando il tragitto dalla mia camera alla cucina era diventato così breve? Forse era l’agitazione a farmi sembrare la strada più corta.
Law si fermò sull’uscio e scrutò la stanza.
«Il cuoco non sarà contento quando si accorgerà che sono sparite metà delle sue provviste» affermò sogghignando.
Socchiusi la bocca, sorpresa. Come diavolo aveva fatto a capire che qualcuno aveva preso del cibo dal frigo!? Sbuffai una risata nel momento in cui mi ricordai che lui era praticamente onnisciente.
«Adesso non esagerare» lo rimproverai scherzosamente «Il frigo è comunque pieno».
Per un po’ rimanemmo in silenzio, in piedi uno accanto all’altro. Quello, però, era un silenzio confortevole e carico di significato. Almeno, così mi piaceva pensare. Mi immaginavo che in quel momento tra di noi non ci fossero gerarchie, né imbarazzo. Eravamo solo due vecchi amici che si ritrovavano dopo tempo e che non avevano bisogno di parole per riempire quella mancanza.
«Dovresti uscire in coperta. C’è qualcuno che ti aspetta» fece Law.
La mia bocca si spalancò ed i miei occhi si illuminarono di gioia.
«Vuoi dire che...» cercai di esprimermi, senza riuscire a finire la frase per l’emozione. Il capitano annuì ed io non persi tempo.
«Camilla» mi richiamò non appena mi fui girata, impedendomi di fare qualsiasi movimento. Mi voltai di nuovo verso di lui.
«Sì?»
Il chirurgo allungò entrambe le mani verso di me, lasciandomi spiazzata per un attimo. Le sue dita a contatto con la mia pelle mi provocarono un brivido di freddo. Aveva le mani gelate. Abbassai lo sguardo. In meno di un secondo riuscì a sbloccare la cerniera e a tirarla su, chiudendomi la divisa. Al primo colpo.
«Oh» mi lasciai sfuggire. Non sapevo se essere sorpresa o imbarazzata. Una cosa era certa: Trafalgar D. Water Law aveva delle dita magiche, lo avevo sempre sostenuto.
«Ti assicuro che prima si era inceppata» provai a giustificarmi, avvampando il giusto. Lui mi rivolse un’occhiata eloquente. «Comunque, grazie. Mi hai evitato l’ennesima figuraccia della giornata».
«Ora va’» mi sollecitò, sogghignando appena. Annuii e feci per uscire dalla cucina; tuttavia mi fermai sull’uscio.
«Capitano» stavolta fui io a richiamarlo. Lui mi guardò con un pizzico di curiosità. «Sono contenta di essere tornata» affermai, facendolo ghignare. Nemmeno io riuscii a trattenere un sorriso. Poi me ne andai, tornando sul ponte dove poco prima c’era stato il Diluvio Universale.
 
Aspettai con il cuore a mille per cinque minuti, ma dei miei compagni non c’era nessuna traccia. Cominciavo a pensare che fossero stati inghiottiti da un’onda anomala o che Law mi avesse preso in giro e che in realtà non ci fosse nessuno ad aspettarmi.
Ad un certo punto, udii dei passi dietro di me. Mi voltai all’istante e notai una figura molto famigliare che si stava avvicinando a me.
«Ma dov’eri finito?» gli chiesi, ricordandomi solo in quel momento della sua presenza sul sottomarino. Sabo sorrise. Mentre si avvicinava mi accorsi che – grazie al Cielo – si era rivestito. I suoi indumenti sembravano essersi asciugati, ma non avrei saputo dire se fossero ancora appiccicosi.
«Questioni da uomini» mi rispose, sogghignando con fare enigmatico.
Corrugai la fronte. Non ero del tutto sicura di voler sapere a cosa si stesse riferendo, anche se forse ne avevo un’idea. L’ipotesi che mi venne in mente mi fece sorridere. Se era corretta, stava a significare che il mio capitano era un uomo d’onore, ma soprattutto che ci teneva a me.
«Quindi, ci siamo. Adesso sono al sicuro, sul Polar Tang, e mi sono ricongiunta al mio capitano» cominciai, stringendomi nelle spalle.
«La mia missione qui è finita» continuò lui. Le sue parole, per qualche strano motivo, mi provocarono una fitta al cuore. Presi un respiro profondo prima di proseguire. Il silenzio di quel momento mi sembrava assordante e mi sentivo un macigno sul petto. Odiavo le separazioni.
«Mi dispiacerà non averti più intorno» gli confessai. Sabo mi raggiunse ed in pochi secondi mi fu di fronte. Il cielo era un po’ nuvoloso, ma a me per qualche ragione sembrava cupo, buio, come se all’improvviso fosse calata la notte.
«Ammettilo, ti ho fatto divertire» disse ghignando. Feci roteare gli occhi. Era ritornato il solito sbruffone pieno di sé.
«Lo ammetto» asserii infine, ridendo. Avrei voluto contraddirlo, ma non si poteva negare l’evidenza. In quei mesi mi aveva fatto divertire – in più sensi – e mi aveva fatto stare bene.
«Hai trovato pane per i tuoi denti» scherzò il biondo. Iniziai a scuotere la testa e corrugai la fronte.
«Non lo dire. Non qui, su questo sottomarino» lo avvisai, nella speranza che Law non avesse sentito. Se c’era una cosa che non mi sarei mai dimenticata, era che il moro odiava il pane, e si irritava anche solo a sentirne parlare, soprattutto all’interno del suo “territorio”. Ecco perché dovevo tenere le casse ben nascoste.
«Comunque... non dimenticherò mai ciò che hai fatto per me» dissi dopo un po’, evitando di incrociare il suo sguardo per l’imbarazzo. Sabo alzò le spalle, fingendo di non sapere a cosa mi riferissi.
«Ti ho soltanto fatto scoprire cosa significa la libertà» si limitò a dire, rivolgendomi un sorriso sghembo.
«No, non è vero. Non hai fatto solo questo. Ma grazie anche per quello» ribattei «Sei stato... fantastico, con me».
«Ho soltanto fatto il mio dovere» rispose, facendomi alzare un sopracciglio. Non sapevo se mi dava di più sui nervi quando faceva lo sbruffone o quando invece faceva il modesto.
Picchiettai i palmi delle mani sulle cosce per un po’, senza sapere bene che dire. Detestavo rimanere senza parole.
«Abbi cura di te. E cerca di non metterti nei guai» lo ammonii alla fine, tuttavia ghignando. Lui mi rivolse un’occhiata eloquente. Non aveva tutti i torti, era pur sempre il numero due dell’Armata Rivoluzionaria, e per quanti casini potesse combinare, di certo non c’era da stare in pensiero per lui. Sapeva badare a se stesso. Più o meno. Alcune volte i guai se li andava a cercare. Se non altro ne usciva quasi sempre indenne.
«Ah, quasi dimenticavo. Non far penare la povera Koala. Non si merita tutta l’ansia che le fai provare» aggiunsi poi, ridendo. Anche il biondo si aggregò alla mia risata, ma non disse niente.
«Cami» mi chiamò dopo un po’. Il modo in cui pronunciò il mio nome mi fece mancare il respiro. Non aveva mai usato questo tono, così soave e serio al tempo stesso.
«Sì?» volli sapere, in un sussurro. Ero a corto di fiato. Avevo paura di quello che sarebbe potuto succedere.
Un istante. Ci fissammo un istante solo negli occhi. Poi mi baciò. Percepii le sue mani sulla nuca, strette in una morsa dalla quale sarebbe stato impossibile liberarsi. Non che volessi farlo. In quel momento non mi preoccupai nemmeno del fatto che qualcuno potesse vederci. Volevo solo assaporare le sue labbra, solo per qualche secondo, solo un’ultima volta. Mi aggrappai alla sua giacca e ne strinsi i lembi con le dita, come ad impedirgli di andarsene, di lasciarmi.
Chiusi gli occhi e mi lasciai trasportare dal momento. Non c’erano parole per descrivere quanto fosse stato meraviglioso quell’ultimo bacio. I nostri corpi aderivano, le nostre bocche erano cucite insieme, i nostri pensieri in simbiosi. Come lo sapevo? Ci muovevamo come se sapessimo esattamente cosa stesse pensando l’altro. Non mi importava niente di nessuno. Avrebbe potuto fotografarci qualche paparazzo invadente, avrebbe potuto attaccarci la Marina, sarebbero potuti tornare i miei compagni e coglierci in flagrante o sarebbe potuto perfino finire il mondo, non me ne fregava niente. Mi sentivo semplicemente come se fossi nel posto giusto al momento giusto. Come se quel bacio fosse scritto nel mio destino, come se fosse dovuto accadere per forza. E proprio di forza si trattava. Una forza invisibile capace di trasportarmi nelle profondità marine e allo stesso tempo sopra le nuvole. Era così con Sabo. Semplice e complicato. Bello e strano. Ed era infinito, anche se il nostro tempo insieme era limitato.
La sua mano sinistra si spostò sulla mia guancia destra. Le sue dita premevano sulla mia pelle, la bruciavano, la elettrizzavano, la rigeneravano.
Quando ci staccammo l’uno dall’altra, ero davvero senza fiato. Il biondo, però, non era messo meglio. Qualcosa mi diceva che gli era piaciuto tanto quanto era piaciuto a me.
Mi leccai le labbra, per gustarmi ancora una volta la sua essenza. Lui mi passò la falange del pollice su di esse, come a volerne memorizzare il contorno. Forse voleva imprimersi bene a mente ciò a cui stava rinunciando, o forse voleva imprimere a me un marchio simbolico che stabiliva che non appartenevamo l’uno all’altra, ma che eravamo stati qualcosa.
«Non ti dimenticare del sapore della libertà» si raccomandò, con un largo sorriso sulle labbra «E non ti dimenticare della nostra promessa».
«Non lo farò» lo rassicurai. Come avrei potuto dimenticarmi del “sapore della libertà”? Era così inebriante che sarebbe stato impossibile non ricordarsene. Quanto alla promessa, quella era un’altra faccenda. Se non avessi trovato il modo per tornare nel mio mondo, sarebbe stato piuttosto difficile mantenerla. Sorrisi. Nel mio sorriso, tuttavia, c’era una punta di malinconia.
«Non lasciare che la paura ti freni. Ti è stata data una seconda occasione, non sprecarla» mi consigliò, quasi con fare materno. Sabo mi aveva insegnato che dovevo fare ciò che mi faceva battere il cuore, senza stare a pensare se fosse moralmente giusto o sbagliato. Dovevo percorrere la strada che mi avrebbe portato alla felicità, senza avere timore. E di questo gli sarei stata eternamente grata.
Annuii, solenne. Sapevo cosa dovevo fare e come farlo, se avessi superato gli ostacoli che avevo davanti nessuno mi avrebbe più fermata. Sarebbe stata mia, la tanto agognata felicità.
Quanto al fratello di Rufy, un giorno ci saremmo rivisti e quando lo avremmo fatto gli avrei insegnato io un paio di cosette sulla libertà.
Dei rumori provenienti dalla mia sinistra mi distrassero. Quando mi voltai di nuovo verso il biondo per cercare di capire se si stesse avvicinando un potenziale pericolo, lui era già scomparso. Non riuscii a mascherare la delusione che era comparsa sul mio volto.
«Ciao anche a te...» sussurrai in un sospiro. Se n’era andato. Da un lato era meglio così, però. Non mi serviva l’ennesimo addio strappalacrime, anche perché il Capo di Stato Maggiore dell’Armata Rivoluzionaria non era il tipo che faceva queste cose. E poi, quello non era un addio, solo un arrivederci.
Mi rigirai e mi concentrai sui rumori. Qualcuno stava risalendo il fianco del sottomarino. Un chiacchiericcio sommesso faceva da sfondo alla risalita. Spalancai gli occhi. Non c’era alcun dubbio su chi fossero i proprietari di quelle voci. I miei compagni. Erano i miei compagni!
Il cuore prese a battermi fortissimo. Non potevo credere che fosse finalmente arrivato il momento. Iniziai a saltellare sul posto, presa dall’eccitazione, tuttavia non mi spostai di un millimetro. Preferivo aspettare che fossero loro ad arrivare sul ponte e a notarmi.
I primi a risalire furono Shachi e Penguin. Poco a poco, li raggiunsero anche gli altri. Gli occhi mi brillavano di gioia e sul mio volto c’era un largo sorriso, che andava praticamente da orecchio ad orecchio. Congiunsi le mani sotto al mento, in attesa che si accorgessero di me.
«Dannata pioggia» commentò Ryu mentre tentava di asciugarsi i vestiti con i palmi delle mani. Allora anche loro erano stati vittime dell’acquazzone, non ero l’unica ad aver avuto sfortuna. Il cielo tuttavia non era scuro, anzi, a me sembrava più terso che mai. Ma forse era solo l’emozione che mi faceva percepire le cose più luminose di quanto fossero in realtà.
«Stammi lontano, Bepo! Puzzi!» esclamò Penguin, allontanandosi dall’orso polare.
«Chiedo scusa. Quando piove il pelo mi si bagna e si impregna di questo odore sgradevole» si giustificò il Visone, chinando il capo per scusarsi umilmente.
Sbuffai una risata. Non era cambiato niente, erano le stesse persone di qualche mese fa.
Nessuno di loro mi aveva visto, però. Forse dovevo fare io la prima mossa. Feci un debole cenno della mano, azzardando un timido saluto. Niente. Erano tutti troppo impegnati a tirare su le scialuppe, a strizzarsi i vestiti – nel caso di Bepo a sgrullarsi – e a chiacchierare tra loro della loro permanenza sull’isola Denim.
Quando finalmente  mi videro, dopo un primo momento di confusione, restarono a bocca aperta. Rimanemmo tutti immobili, in attesa che qualcuno agisse. I nostri sguardi erano intrisi di felicità. Attesi che mi venissero incontro, sebbene il mio corpo volesse precipitarsi da loro ed abbracciarli uno ad uno. I primi a muoversi furono Penguin e Shachi, che iniziarono a correre verso di me. Poco dopo anche Ryu cominciò a spostarsi nella mia direzione. Dopo un paio di metri, però, il pinguino e l'orca finirono stesi a terra a pelle d’orso. Aggrottai la fronte e spalancai la bocca. Il cuoco aveva rifilato loro due schiaffi ben assestati sulla nuca.
«Idioti!» gridò furioso «Siamo arrivati tardi per colpa vostra! Vi avevo detto di sbrigarvi, sapevo che sarebbe tornata! Ma voi due imbecilli avete preferito rimanere a guardare un gruppo di sgualdrine che si facevano il bagno in costume! Adesso non solo ci siamo persi il suo arrivo, ma sono anche in ritardo per la preparazione del banchetto!»
Scoppiai a ridere; risi così tanto che dovetti portarmi una mano alla bocca. Chissà perché, la cosa non mi stupiva più di tanto. Niente di tutto quello mi stupiva, a dire la verità.
I mammiferi in calore si lamentarono, ma optarono per la soluzione più sicura, ovvero rimanere stesi a terra per evitare di prendere altre botte. Quando lo chef ci si metteva d’impegno, i suoi colpi erano capaci di tramortire anche un Re del Mare.
Quando alzò la testa, Ryu passò dalla rabbia alla dolcezza in meno di un secondo. Ricominciò a camminare nella mia direzione, tuttavia, a sorpresa, qualcuno mi raggiunse prima che potesse farlo lui. Una palla di pelo volante atterrò proprio sopra di me e mi fece stramazzare a terra.
«Cami! Sei tornata!» pianse Bepo, strofinando la sua guancia lanuta contro la mia.
«Sì, lo avevo messo in conto» riflettei a bassa voce, corrugando le sopracciglia e trattenendo una risata «D’accordo, pelosone, questo te lo concedo. Anche tu mi sei mancato» gli confessai poi, accarezzandogli dolcemente la testa. Il suo pelo era soffice al tatto e mi solleticava la pelle. Aveva un odore particolare. Non era un odore sgradevole, come invece sosteneva Penguin, però non avrei saputo classificarlo. Sapeva di pioggia, ma oltre a quello c’era altro. Sapeva di un posto sicuro.
Qualcosa – o meglio, qualcuno – lo tirò via da sopra di me. Ryu era arrivato a destinazione e pretendeva il suo momento con me. Mi prese per i polsi e mi rialzò senza fatica. Quando fui di nuovo in posizione eretta, iniziò un’accurata analisi del mio corpo. Abbassai lo sguardo, temendo che la cerniera potesse essersi di nuovo inceppata. All’apparenza sembrava tutto normale.
«Non va bene» iniziò scuotendo la testa, l’espressione cupa. Lo guardai perplessa. «Sei dimagrita» continuò. Sembrava quasi preoccupato. Provai a dire qualcosa, ma non avevo idea di cosa replicare. Non mi pareva affatto di essere dimagrita, forse era lui che mi vedeva sotto una luce diversa.
«Oh, al diavolo!» esclamò, poi mi sollevò da terra e mi abbracciò con una tale forza che le mie ossa scricchiolarono sotto la sua stretta ermetica.
«Bentornata» disse, iniziando a darmi delle energiche pacche sulla schiena.
«Grazie» risposi, quasi soffocando. Per quanto mi facesse piacere che il cuoco si mostrasse così contento, sperai che quell’agonia finisse presto. Per fortuna qualche secondo dopo mi rimise giù.
«Bene, ora vado a preparare il banchetto! Sono molto indietro e c’è tanto da fare!» urlò, con un tono a metà tra l’eccitato e l’impensierito. Diede un’ultima occhiata torva a Shachi e Penguin – che nel frattempo si erano rialzati – e poi sparì all’interno del sottomarino.
«Che fine hanno fatto i tuoi capelli!?» mi domandò Maya. Lei ed Omen mi avevano raggiunta.
«Ah, già» mi ricordai, sfiorandomi appena una ciocca. Da brava amica, la donna era l’unica che aveva notato il mio cambio di look. Forse anche Law lo aveva fatto, ma non mi aveva detto niente in proposito. Non che avessimo avuto modo di discuterne, il nostro primo incontro dopo ben quattro mesi era avvenuto in maniera inaspettata e caotica, con me e Sabo mezzi nudi e le mani di quest’ultimo praticamente sul mio seno. Era assurdo come funzionasse il destino. Avevo fatto di tutto per evitare che il mio capitano scoprisse degli “incontri occasionali” tra me ed il rivoluzionario, e alla fine lo aveva comunque capito. E sì, lo aveva capito anche se non ci aveva colto in flagrante, perché a lui non sfuggiva nulla. Nulla. Probabilmente gli era bastato uno sguardo per capire. Quell’improvvisa realizzazione mi fece tremare.
«Eravamo così in pensiero per te...» la voce di Maya mi richiamò alla realtà.
«Per fortuna stai bene» aggiunse Omen. Sul volto aveva la sua solita maschera, perciò non potevo vedere la sua espressione, ma sospettavo che stesse sorridendo.
«Stai bene, vero?» chiese preoccupata la sua fidanzata, avvicinando la sua faccia alla mia e sgranando di poco gli occhi. Annuii e sorrisi.
«Sono sana e salva» replicai, lasciandomi avvolgere dal loro abbraccio.
Maya mi accarezzò la schiena, materna, e la sentii sospirare di sollievo un paio di volte. Quando ci staccammo, la mia amica mi fece una carezza sulla guancia e poi fece segno al suo fidanzato di rientrare. Il ragazzo, prima di andarsene, mi poggiò una mano sulla spalla, come a farmi sentire il suo supporto.
«Ehilà» mi salutarono all’unisono Shachi e Penguin, fingendo un’indifferenza che non apparteneva loro.
«Smettetela di fare gli idioti e venite a salutarmi come si deve» dissi, con un tono di voce che non ammetteva repliche. Ghignammo tutti e tre, dopodiché ci prodigammo in un abbraccio. Abbraccio che durò qualche buon minuto. Nonostante sapessi che per loro quella stretta avesse una valenza più maliziosa che affettuosa, la cosa non mi dispiaceva affatto. Ero disposta a passarci sopra, perché alla fine quei due mi erano mancati un po’ più degli altri.
«Ho visto le bottiglie in frigo. Non vedo l’ora di scolarmele clandestinamente con voi» sussurrai, sogghignando. Non c’era bisogno che specificassi a quali bottiglie mi stessi riferendo, sarebbe stato palese per chiunque.
«Te le abbiamo tenute in fresco apposta» affermò Shachi con fierezza. Nel sentire le sue parole, li abbracciai ancora più stretti. Sapevo che per loro non era stato affatto facile resistere alla tentazione, ma lo avevano fatto. Per me.
«A proposito... Non ci hai portato nemmeno una goccia di vino?» chiese Penguin, deluso.
Feci per parlare, ma poi decisi di rimanere zitta e mi limitai a scrollare le spalle. Non era il caso di fargli sapere che lo avevo finito tutto durante il viaggio.
«Non ho alcolici con me, però ho riportato qualcos’altro. E credo che apprezzerete molto ciò che vi ho portato. Anche più del vino» li informai, con una punta di malizia. I loro occhi si accesero.
«Che cos’è?» volle sapere l’orca, più curiosa che mai.
«Un’altra donna?» domandò Penguin, pieno di speranza. Quel giorno sembrava ancora più pervertito del solito. Scossi la testa ed alzai gli occhi al cielo. Erano sempre i soliti idioti.
In quel momento, una timida figura che si teneva a distanza mi distrasse. Si stava torturando le dita e aveva la testa bassa.
«Tutto a suo tempo» mi limitai a dire, continuando a tenere lo sguardo puntato sulla figura.
«D’accordo» fecero in coro, leggermente delusi. Con la coda dell’occhio li vidi varcare la porta d’ingresso del Polar Tang. Poi, però, ci ripensarono e si fermarono.
«Bentornata, compagna!» esclamò Penguin, facendomi sorridere. Aspettavo solo che me lo dicessero.
«Ci sei mancata» aggiunse Shachi. Mi girai verso di loro.
«Anche voi mi siete mancati» confessai, dando delle piccole pacche sulla spalla ad entrambi. Pacche che si tramutarono in schiaffi sulle guance nel momento in cui notai che stavano fissando il mio decollété senza alcun pudore. Supponevo che fosse quella la cosa di cui più avevano sentito la mancanza. Ma, di nuovo, mi stava bene così.
«Camilla?» mi chiamò una voce esitante. Mi voltai.
«Kenji» feci, lieta di rivederlo. Gli sorrisi e piegai la testa da un lato.
«Ciao» mi salutò, accompagnandosi con un gesto della mano «Bentornata».
«Ciao anche a te. E grazie» replicai. Notai che aveva i palmi delle mani sudati. Faceva molta tenerezza. Se ne stava in piedi ad un metro da me, senza sapere bene che dire o che fare.
«Sei... sei bellissima. Questa nuova acconciatura ti sta benissimo. Voglio dire, eri bellissima anche prima, ma ora sei davvero stupenda» mi fece sapere dopo qualche secondo di silenzio, abbassando lo sguardo. A quanto pareva c’era qualcun altro che si era accorto che avevo tagliato i capelli. «Sono molto felice che tu sia di nuovo qui con noi» aggiunse poi. All'improvviso avvampò. Divenne rosso come un pomodoro e dovetti trattenere una risata. Prima che succedesse tutto quello che era successo, il nostro rapporto era incerto. Era nata un’amicizia sincera tra noi, ma sospettavo che lui provasse qualcosa per me. Avevo tentato di chiedere il parere di Law in proposito, ma l’arrivo di Doflamingo aveva bruscamente interrotto la nostra conversazione. Adesso, però, ero tornata, e quella era una cosa che andava chiarita. Non in quel preciso istante, ma comunque prima o poi avrei dovuto farlo.
«Anche io sono contenta di essere di nuovo qui» affermai, piegando un angolo della bocca all’insù.
«Come stai?» mi chiese, sinceramente interessato. Esitai un attimo prima di rispondere.
«Bene, grazie» replicai infine, cercando di sembrare il più convincente possibile «Tu come stai?» volli sapere a mia volta. Anche lui tentennò qualche istante prima di parlare.
«Ora che sei qui, benissimo» rispose, nascondendo gli occhi sotto alla visiera del cappello. Rimasi spiazzata da quella risposta, tanto che boccheggiai per vari secondi.
«Allora... ci vediamo dopo» disse per togliersi dall’imbarazzo, giocando con una delle sue trecce rosso fuoco.
«Puoi starne certo. Adesso che sono tornata non intendo andare da nessuna parte. A dopo» lo salutai, osservandolo mentre si appropinquava all’interno del sommergibile. Risi nel momento in cui lo vidi affondare la faccia nelle mani e scuotere la testa affranto. Di tutti i miei compagni, anzi, di tutte le persone che avevo conosciuto in quell’universo, lui era quello che aveva il cuore più puro. Dentro di me sperai che rimanesse sempre così.
Quando ritornai con gli occhi sul ponte, davanti a me era apparsa l’equipe di medici al completo. C’erano tutti, a parte ovviamente Kenji, che mi aveva salutato poco prima.
«Il capitano ci ha dato il suo bel da fare in questi mesi» esordì uno.
«Meno male che sei tornata» aggiunse un altro.
«Adesso possiamo contare sull’aiuto di un’esperta» commentò un terzo.
Feci un mezzo sorriso. Un lieve senso di angoscia iniziò a farsi strada in me. Davano tutti per scontato che stessi bene e che non avessi problemi, ma non era così. La verità era che non sapevo se sarei potuta tornare ad essere un medico. In quei mesi non avevo mai tentato di approcciarmi ad una procedura medica di nuovo, dopo l’episodio con Jasper, perché avevo troppa paura. Adesso che ero di nuovo sul Polar Tang, però, sarebbe stata questione di settimane, forse di giorni, prima che tutti si accorgessero che c’era qualcosa che non andava in me. Non potevo nemmeno più usare il metodo “scacciapensieri” che usavo di solito, perché Sabo se ne era andato. Come se fosse un monito – o più precisamente un segno del destino – il polso sinistro iniziò a tremare. Chiusi le dita a pugno, nella speranza che nessuno notasse quel tremore sospetto.
«Rientrate. Si è fatto tardi, dobbiamo salpare» la voce di Law alle mie spalle arrivò come una manna dal cielo. Tirai un sospiro di sollievo ed il polso smise di tremolare.
I dottori fecero un piccolo cenno del capo e poi obbedirono agli ordini del capitano. Mi voltai anche io, pronta a seguirli, tuttavia incontrai lo sguardo serio del chirurgo. Il mio cuore perse un battito. Che sapesse anche del mio problema alla mano?
«Due minuti» mi disse, e per la seconda volta in pochi secondi sospirai sollevata. Gli sorrisi grata e lo osservai sparire per il corridoio. Come al solito, aveva capito che avevo bisogno di prendere una boccata d’aria e di contemplare un’ultimissima volta il cielo.
«Che è successo alla porta? Perché la serratura è fusa?» chiese uno dei medici ad un altro suo collega. Mi schiarii la voce facendo finta di niente e sperando che non ricollegassero la vicenda a me. Mi allontanai di qualche passo per evitare che mi facessero domande scomode. Quella era un’altra delle cose di cui mi sarei dovuta occupare.
Quando il ponte fu sgombro, mi appoggiai allo stipite della porta e mi trattenni un minuto a scrutare il mare. Una lacrima fugace scese lungo la mia guancia mentre osservavo le ultime luci della giornata affievolirsi sempre di più per lasciare posto ai toni rossastri del tramonto e poi alla notte. Non era il panorama ad avermi fatto commuovere. Era il modo in cui ero stata accolta dai miei compagni. Mi avevano fatto sentire come se non li avessi mai lasciati. Erano rimasti lì, tutti in fila, in attesa di avere un momento con me. Erano contenti di riavermi tra loro. Le mie erano lacrime di gioia, vederli in quel modo mi aveva suscitato una grande allegria. In quel momento mi sentivo così tanto amata che il mio cuore scoppiava di felicità. Mi volevano bene e non avevano paura di mostrarlo. Mi avevano fatto sentire a casa. Avevo trovato dei compagni fantastici con i quali condividere il mio viaggio, che poco a poco erano diventati una seconda famiglia per me.
Nel silenzio di quell’istante, mi dissi che commuoversi era giusto e che ne avevo tutto il diritto. Che ero fortunata ad averli trovati e che, se proprio dovevo piangere, ero contenta di farlo per loro, perché si meritavano tutte le lacrime di gioia che sarei riuscita a versare.
   
 
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