Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Koa__    17/04/2018    9 recensioni
Sherlock Holmes, eccentrico e severo professore di chimica a Oxford, vive la sua vita tra aule, laboratori e violino. Un'esistenza solitaria, senza amici, né amori. Un giorno, però, nella sua routine entra con prepotenza John Watson, un medico ex militare giunto da poco a Oxford in veste di professore.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Puccini, Scuoti quella fronda di ciliegio
 
 
 
 
Faceva caldo a Charlbury. Un caldo di maggio, ancora un po’ fresco con una pioggerella verso sera e una brezza pungente da ovest. Eppure nessuno pareva preoccuparsene. Di certo, il professor Holmes non aveva la minima intenzione di sforzarsi a pensare a sciocchezze del genere. Era a letto ed era con John, per lui era sufficiente esser certo di entrambi questi fatti. Sebbene facesse ancora fatica a realizzare di star facendo l’amore da ore, un’abbondante parte di se stesso era pigramente concentrata sulla maniera dolce in cui i raggi del sole gli accarezzavano la pelle nuda, o per come la primavera sembrava volerlo lambire col proprio tocco gentile. Era maggio, ad amarlo a tal punto? Oppure il mondo gli sembrava sempre un po’ più meraviglioso quando John gli dormiva addosso? Sherlock si era sempre vantato d’avere una razionalità ferrea e incorruttibile, niente avrebbe mai potuto scalfire la logica ed era piuttosto sicuro d’essere un valido scienziato. In quei frangenti, però, non era più certo neanche di sapere quale fosse il proprio nome. Era steso su quel letto, sopra le lenzuola sfatte. Raggi del sole portati da un vento gentile e la Butterfly, che suonava da qualche stanza più in là, in un Bed and Breakfast che non era affatto uno qualunque. Perché lo aveva prenotato John e il suo John non faceva mai nulla per caso. Se fosse stato un po’ più lucido avrebbe tentato di sostenere con vigore che erano le endorfine, a farlo sragionare in quel modo e che quella felicità ottusa, che gli faceva vedere ogni cosa come se si trovasse dietro a un obiettivo sfocato, c’entrava prepotentemente con quell’orgasmo appena avuto e che lo aveva lasciato soddisfatto e lascivo. A ripensare ora a quel che avevano appena fatto su quel letto, pareva per davvero un sogno. E se non fosse stato per il corpo che ancora lo schiacciava e per quel lieve fastidio che sentiva, avrebbe creduto d’esser perduto nel proprio palazzo mentale. Perché erano passati dei mesi, ma Sherlock ancora stentava a crederci. John lo amava e voleva stare con lui; non era incredibile? Era per questo che, spesso, la notte lo guardava dormire o che si ritrovava a tastargli il polso andando a cercare il battito cardiaco. Era come se di continuo tentasse di trovare attorno a sé delle prove tangibili che gli facessero capire che era tutto vero. Anche adesso, per esempio, con la primavera che entrava dalle finestre lasciate sfacciatamente aperte e in quel loro esser nudi così impudico, senza badare agli occhi di chi guardava dal di fuori, a Sherlock tutto appariva irreale. Eppure il respiro di John era lento e regolare. Era vivo. E Dormiva, anche se da un minuto o due non era più sicuro che fosse così. Doveva essersi svegliato e a giudicare dall’eccitazione che cresceva e dagli accenni baci lasciati sulla pancia, sembrava pronto per ricominciare. Ecco cosa amava della loro relazione, era come se non sentissero la stanchezza e non avessero bisogno d’altro che di toccarsi per poter sopravvivere. Cibo e acqua non contavano (nonostante il rigoroso dottor Watson sostenesse il contrario e troppo spesso sparisse in cerca di qualcosa da mangiare) e nemmeno la partenza per Oxford, programmata per quella stessa sera, riuscì a smuoverli da dove stavano.

«Ripetimi ancora come hai fatto» si sentì dire in un mormorio assonnato di un John che, con pigra lentezza, si levava da dove stava e s’inginocchiava ai suoi piedi. Sherlock non rispose nell’immediato, mortalmente offeso per quella fuga inaspettata, restò zitto limitando a esprimersi in un mugolio di protesta. Nonostante avesse calcato teatralmente la mano sull’insofferenza, ogni intento di rimetter le cose come stavano, andò fallito. Pertanto si ritrovò ad allungare le braccia verso l’alto, in un timido tentativo d’ordinargli di tornare disteso. Purtroppo, però, questi continuava a ignorarlo. Invece che obbedirgli, s’era sistemato all’altro capo del letto e decisamente troppo lontano perché potesse raggiungerlo. Poco gl’importò di quel massaggio, piuttosto piacevole a dire il vero, che senza alcun preavviso aveva iniziato a fargli e nemmeno gli interessava un qualcosa di quanto bello fosse da guardare. Oh, era splendido. Così fermo, in contro luce. Baciato dai raggi del sole caldi che… Era stupendo, sembrava un Dio o un essere mitologico, un qualche eroe dell’antica Grecia. Una visione celestiale. Persino allora e nonostante l’infantile arrabbiatura che provava, Sherlock non riusciva a non amarlo. Anche se John preferiva la conversazione al sesso, e se aveva deciso di massaggiargli la pianta dei piedi invece che dormirgli addosso. Che ridicolaggini, pensò mentre andava ripetendosi che discutere e chiacchierare era decisamente noioso. Non avevano più molto tempo e il ritorno a casa incombeva su di loro, avrebbero dovuto farlo di nuovo. Lasciandosi andare a un ennesimo quanto sono sbuffo infastidito, Sherlock si chiuse in una sorta di privato mutismo: non aveva alcuna intenzione di rispondere.
 
Non si poteva certamente dire che avessero parlato granché negli ultimi giorni, anzi, non ricordava avessero avuto un vero e proprio dialogo da prima che lasciassero il pub. Pioveva, di questo ne era certo perché il suo meraviglioso vestito si era rovinato inzuppandosi d’acqua e sapeva anche che John era uscito appena dopo di lui. Nonostante i numerosi tentativi di mettere insieme tutte le tessere di quel puzzle, non seppe mai propriamente spiegarsi la ragione per cui il proprio corpo e i propri sensi considerassero eccitante tutto quello. A quanto pareva, per il proprio cervello era decisamente degna di nota l’idea d’essere inseguito. Gli era già capitato, qualche volta. Spesso si trattava di criminali o comunque gente che aveva intenzione d’ucciderlo o fargli del male, ma John era tutta un’altra cosa e più correvano meno Sherlock riusciva a ricordare il motivo per cui si era catapultato fuori da quel pub. Stava andando a Saint Mary, ma non riusciva a farsi venire in mente per quale ragione. Forse ci stava andando studiare con precisione la meccanica del delitto. Fatto stava che a un certo momento era stato raggiunto, da un istante all’altro e tanto che a malapena aveva avuto il tempo di realizzare che cosa fosse successo. Appena dopo una curva, si era sentito afferrare e quindi stringere e baciare e, da allora non aveva capito più nulla. Era sicuro d’esser stato trascinato sotto a una minuscola tettoia, sul retro di una casa inabitata e che da lì non si erano più mossi. Non erano servite parole, non era stato necessario confessare che cosa volessero uno dall’altro, era bastato guardarsi negli occhi e poi percepire sulla pelle fredda il calore intenso di carezze che diventavano sempre più intime. Baciarsi a quel modo, contro a una porta chiusa il cui legno scricchiolava a ogni movimento, fradici per la pioggia e inebriati dall’odore di terra bagnata e dopobarba, era la cosa più bella che gli fosse mai capitata. Bella da far male. Tanto meravigliosa da eccitarsi nuovamente al semplice rievocare le immagini che aveva gelosamente nascosto nel proprio palazzo della memoria. Quella passione era esplosa dopo giorni d’astinenza e tensione, era stata caricata dal “Ti amo” che Sherlock aveva urlato a pieni polmoni. Senza quasi rendersene conto, si erano ritrovati lì. A ridere sfacciatamente, con le lingue a rincorrersi in un gioco di stimolazione. John era stato passionale, lui lo era sempre in effetti ma in quei frangenti il suo tocco sembrava differente. Più brutale. Oh, sì, di passione ce n’era stata parecchia e fin dalla maniera in cui John lo aveva trascinato là sotto, non preoccupandosi del loro essere in un luogo pubblico. Sherlock aveva provato, a fermarlo. Ma il proprio si era rivelato un timido tentativo, una pallida puntualizzazione sull’andare in albergo, alla quale non credeva nemmeno lui. Naturalmente la propria protesta era finita in una serie di mugolii strozzati. Quel che si erano limitati a fare, era stato nascondersi oltre il portone, dentro a un cortile disabitato. Cercandosi come se non esistesse un domani. Con le mani dappertutto. I gemiti trattenuti da labbra martoriate dai denti. Se si soffermava a pensarci con un po’ più attenzione, si rendeva conto che c’era stato un qualcosa di diverso nel loro modo di cercarsi. Probabilmente confessare i propri sentimenti aveva cambiato le cose o magari era stata la lontananza forzata. Non poteva dire d’essere un esperto in relazioni sentimentali e con ogni certezza era davvero terribile come fidanzato, però lo aveva percepito ugualmente. Il tocco della lingua di John, le mani che lo toccavano e strizzavano pelle e vestiti, i movimenti del bacino che sfregava contro il suo, i denti che mordevano e la maniera in cui lo aveva stretto per la vita, toccandolo a palmi ben aperti, era eccitante. Era un sesso diverso da quello sperimentato in passato. Aveva percepito emozioni più profonde scorrere fra loro, forse una consapevolezza più matura e anche per come John si era lasciato baciare. Per come gli aveva ceduto il controllo, azzardando parole mai pronunciate. Fottimi, aveva detto, implorando appena. Non che non fosse mai accaduto niente del genere, al contrario e sebbene fosse il più inesperto dei due, era sicuro che avessero sperimentato di tutto. Ciononostante, in quei frangenti aveva tentennato. Una richiesta del genere, in un luogo pubblico… Era da arresto, e lo sapeva. Eppure gli aveva obbedito e per la prima volta da che stavano insieme non era stato lui a dettare le regole del gioco, proprio Sherlock che amava controllare e dominare ogni cosa, aveva obbedito e si era dato senza remore. Lui che aveva un piano per ogni cosa, aveva perso la ragione e aveva finito per scoparlo così, contro a un muro. Sotto a un portico. Con l’odore di pioggia e terra bagnata, il profumo di John a entrargli dentro. Gli occhi puntati nei propri. Fottersi così, mentre aspettavano che spiovesse. Sotto a una misera tettoia troppo piccola per entrambi ma dove c’erano rimasti per più di un’ora. A far niente, se non ritrovarsi.

A pensarci, si sentì tremare. Non era certamente per il freddo che avevano provato quel pomeriggio, la colpa era più che altro dell’eccitazione che aveva preso a increspargli la pelle. Avevano fatto l’amore tante e tante volte negli ultimi mesi, ma non sembravano averne abbastanza. Proprio Sherlock che era sempre stato disinteressato ai contatti umani e ai rapporti di un qualsiasi genere, proprio lui che non aveva provato a malapena l’autoerotismo prima di perdere la verginità nella notte di Natale e che, anzi, forse non era neppure esistito prima di John Watson. Ecco, proprio lui, ora non riusciva più a farne a meno. Come avrebbero fatto ora che dovevano tornare al lavoro?
«Dimmelo ancora» ripeté John, spezzando il silenzio così come il fruire illogico dei suoi ragionamenti. Parlava con fare calmo, ma evidentemente teso dal desiderio che provava. In quel suo guardarlo c’era un qualcosa di simile alla devozione, Sherlock era diventato abile a decifrare tutte le sfumature che leggeva sul suo viso. O almeno così credeva. Certamente sapeva che quella sua maniera di guardarlo non era poi tanto diversa da quella che aveva mentre facevano l’amore. Esser lambiti dagli occhi di John era come venir baciati o toccati, era una pura affinità mentale che aveva il potere d’eccitarlo. Quello che avevano era un legame specialmente di carattere intellettuale, una comunione mentale esplosa fin dal principio della loro conoscenza. Il loro piacersi non aveva nulla a che vedere col sesso e per assurdo era l’aspetto della loro relazione che Sherlock preferiva. Avere John in testa gli piaceva più che farsi scopare, ben più che inginocchiarsi tra le sue gambe per una sessione mattutina di sesso orale. La maniera in cui gli occhi blu di John s’accendevano d’emozione, le volte in cui gli sentiva dire qualcosa di geniale o lo ascoltava lanciarsi in una deduzione brillante, valevano più di mille scopate. L’ammirazione che gli leggeva in viso e quelle parole estatiche che gli rivolgeva, lo ripagavano di ciò che non aveva mai avuto prima del suo arrivo. E anche era tremendamente insensato a dirsi, Sherlock Holmes si disse assolutamente sicuro del fatto che nulla fosse esisto prima di quel lontano giorno d’ottobre.
«John Watson, stai forse cercando di sedurre la mia intelligenza?»
«Mh, azzardati a dirmi che non ti piace…» scherzò, stirando un ghigno con fare furbo «pensa a quanto potrebbe eccitarmi il sentirti parlare del caso.»
«Eccitarti?» rise, appena un poco imbarazzato e nascondendosi sotto al cuscino che si premette sul viso. Nel farlo, rise vibratamente. Lo fece in una maniera liberatoria e felice che non riusciva mai a controllare del tutto. Rise fino a farsi lacrimare gli occhi. Rise finché le forze non vennero meno, facendolo ricadere nuovamente tra le lenzuola. Rideva perché era orrendo anche soltanto a pensarsi. Sapeva che non era così che stavano le cose e che John non si riferiva propriamente al delitto, eppure era ugualmente terribile. Disgustosa l’idea che potesse piacere tanto il racconto macabro di una persona ammazzata. Chiunque li avrebbe ritenuti due demoni dai gusti insani, per fortuna sapeva che non era così. Perché non era la trama delitto, a eccitarli, ma la certezza d’aver risolto un caso che nessuno mai era stato in grado di comprendere. Era il genio, a irretire il dottor Watson e a scaldare Holmes molto più di quanto non riuscissero musica e chimica.
«Hai gusti strani, professore!» si ritrovò comunque a scherzare.
«Sì, e ti piaccio proprio per questo» annuì mentre riprendeva quel suo massaggio. Sherlock chiuse gli occhi, fisicamente incapace di tenerli aperti. Sentiva le dita di John risalire lungo la caviglia e quindi ridiscendere a sfiorare anche dita dei piedi. Aveva un tocco deciso, ma delicato. Forte e gentile. Sapeva esattamente cosa massaggiare, come e quanto farlo. Ma soprattutto sapeva come occhieggiarlo per convincerlo a fare una qualsiasi cosa, anche accettare di condividere una deduzione. Accadde allora, per la seconda volta da quando stavano insieme si sentì in sua completa e totale balia. Lui che aveva tentato di mantenere saldo il controllo, stava perdendo lentamente la ragione. Tuttavia evitò di confessarlo apertamente, c’erano aspetti del loro rapporto che non aveva mai avuto il coraggio ammettere e che doveva tenere per sé. Magari, quell’omicidio irrisolto, avrebbe aiutato a scacciare il desiderio di appagamento e devozione che si sentiva addosso. In risposta emise un timido sospiro e poco più tardi prese a raccontare.
 
Il cadavere Mary Elisabeth Lewis era stato ritrovato un mattino dell’estate del 1824, privo di vita nel bel prato a fianco della chiesa di Saint Mary The Virgin, nel sud di Charlbury. Oxfordshire, Inghilterra. Stando alla descrizione precisa e rigorosa, fatta da un giornalista londinese giunto si lì per il caso del secolo (o almeno così sperava), Elisabeth indossava un abito color vinaccia che si era sporcato di fango. Aveva piovuto la notte precedente al rinvenimento del corpo, gli aveva ricordato un preciso John mentre leggeva dagli appunti annotati di fretta sul proprio quadernetto. Con ogni probabilità l’acqua aveva cancellato le impronte e ogni possibile traccia dal terreno ma questo, in effetti, poco importava. Anche se avesse avuto la possibilità di visitare la scena del crimine a poche ore dal delitto, Sherlock era convinto che sarebbe riuscito a risolverlo senza preoccuparsi di orme di scarpe e tracce di tacchi. A sua detta, gli indizi importanti erano altri come quel pezzetto di foglio pentagrammato rinvenuto tra le mani della morta. Mozart, Fantasia, c’era scritto. Quello e nient’altro. Quello che, naturalmente, era bastato a fargli capire chi fosse il colpevole.
«Perché conta così tanto?» gli domandò John a un dato momento, riferendosi alla a quella scritta poco leggibile e, per lui, di dubbia utilità per comprendere chi fosse l’assassino.
«Ma perché dice ogni cosa su chi l’ha uccisa, ecco perché» brontolò Sherlock, balzando a sedere e incrociando le gambe. Non aveva avuto la reale intenzione di rifiutare un massaggio piacevole, però adesso la conversazione si era spostata su un caso. Un caso irrisolto, gli ricordò la sua mente precisa in un barlume di lucidità. Era necessario collocare le tessere di quel puzzle nel posto giusto, ed era meglio farlo subito. Anche se erano nudi ed eccitati. Pertanto si mise a sedere ben diritto con la reale intenzione di fronteggiarlo apertamente, guardandolo negli occhi come se la loro fosse una sfida tra titani. Sherlock e John, che sorridevano e avevano fiumi di parole a premere per voler uscire, loro col sesso messo da parte poiché non importante. Come se non contasse nulla. Un delitto, un mistero da risolvere, due menti che suonavano quasi fossero una soltanto. Era questo, l’amore? Questo il peso di un ti amo urlato sulla soglia di un pub di periferia? Dall’alto del suo genio, Sherlock Holmes non lo sapeva.
«La Fantasia in re minore è un brano per strumenti a tastiera» esordì con quelle parole la propria spiegazione. Ben sapendo che se si fosse trovato al 2 di Ship Street, probabilmente avrebbe prima girovagato per il soggiorno in cerca della giusta dose di suspense e che quindi si sarebbe fermato di fronte la finestra. Guardare una Oxford buia e deserta che viveva al di fuori di quei vetri, magari pizzicando le corde del violino in attesa che la verità premesse per uscire, gli sarebbe stato d’ispirazione per trovare le parole giuste. Lo avrebbe fatto sembrare ancora più intelligente di quanto non fosse e John avrebbe finito col riempirlo di complimenti. Ma adesso erano relativamente lontani da casa, erano nudi da giorni e lui nemmeno ricordava se fosse veramente mai esistita una vita in cui era stato vestito per gran parte del tempo. Pertanto rimase fermo dove stava, limitandosi a mettersi in ginocchio e ad allungare una mano verso di lui. John che sorrise, decidendo in un frangente di generosità d’intrecciare le dite a quelle di Sherlock e stringerli le mani tra le proprie. Fu in quel momento in cui realizzò quanto profondo fosse il desiderio d’esser toccato e persino in un gesto innocente, come due mani che andavano a stringersi. Anche di quello aveva bisogno. E dopo che quelle mani piccole e tozze presero ad accarezzargli il dorso della mano, ebbe la sensazione che tutto il mondo si fosse concentrato in quel gesto. Tornare sul delitto di Charlbury, fu dannatamente complicato.

«Mozart» riprese e avrebbe voluto apparire come più determinato, ma la voce gli uscì in un sussurro. Parevano più che altro un singulto non molto comprensibile e tanto che fu costretto a deglutire e a schiarirsi la voce per poter riprendere. «Mozart lo compose nel 1782 per pianoforte, anche se all’epoca non aveva l’aspetto che ha oggi. Era più piccolo e si chiamava Fortepiano.»
«Dio, resterei ad ascoltarti per delle ore…» pigolò John che per tutto quel tempo non aveva smesso di baciargli la mano, interessandosi quindi al polso e all’avambraccio. Piccoli baci a fior di labbra, tocchi fugaci e veloci. Nulla di dichiaratamente erotico, ma che aveva lo stesso la capacità di far andare entrambi fuori di testa.
«Si tratta comunque di uno strumento a tastiera» riprese, tentando miseramente di trovare la concentrazione perduta «e nell’ottocento veniva suonata proprio come oggi. Secondo te quante persone avevano in casa uno strumento di quel genere?»
«Non so, qualcuno come Mr Barrymore?» azzardò a chiedere, mentre lo lasciava andare. Adesso erano entrati nel vivo e persino John sentiva che non c’era più da scherzare. «Magari si era innamorato di lei, magari le aveva fatto delle avances e quando Elisabeth ha minacciato di raccontare tutto alla moglie, lui l’ha uccisa.»
«Teoria affascinante, professore, peccato sia del tutto errata. Tu dimentichi la cosa più importante.»
«E sarebbe?»
«Mrs Barrymore» annuì Sherlock, con convinzione. La sua determinazione nel raccontare ogni più piccolo dettaglio su quell’omicidio era talmente tanta, che gli occhi dovevano scintillare per l’emozione. Come sempre, i casi avevano quell’effetto su di lui. «Lei era stupita dal fervore religioso di Elisabeth, ma io mi chiedo perché avrebbe dovuto esserlo. Per quale motivo se n’era accorta soltanto dopo la trasferta della famiglia a Charlbury, e soprattutto come mai un’istitutrice rigorosa e attenta faceva tutti quei ritardi? E perché qui? Se anche a Londra, Elisabeth fosse stata distratta e ritardataria, Mrs Barrymore non le avrebbe permesso di seguirla sin lì, anzi avrebbero colto l’occasione per licenziarla. E invece le chiesero di seguire la famiglia, pagandola anche bene per questo. Che cosa ci porta a pensare? Beh, te lo dico io, dottore. Vuol dire che le distrazioni di Elisabeth Lewis sono nate qui, a Charlbury e che la fede accesa che tanto aveva stupito Mrs Barrymore aveva ben altre radici che la preghiera.»
«Forse la sua religiosità si era riaccesa proprio venendo qui, non puoi escluderlo completamente» gli fece presente John, furbo.
«O forse, Elisabeth, una relazione l’aveva davvero. Ma col pastore.»
«Intendi che aveva una tresca segreta?»
«Guardati intorno, siamo a Charlbury! Qui non c’è niente neanche oggi. Pensa a cosa poteva esserci nell’ottocento e poi in quanti potevano possedere uno strumento costoso come un pianoforte? Ed è vero che le chiese non ne hanno uno, ma hanno degli organi anche di piccole dimensioni. Tutti strumenti con i quali è possibile suonare la Fantasia in re minore di Mozart. Quindi sì, dottore, Elisabeth aveva una relazione col pastore che è colui che l’ha uccisa. D’altra parte è stata ritrovata in un cimitero accanto alla chiesa, che cosa era andata a fare dopo il tramonto in un posto del genere? Le messe solitamente si svolgono al mattino e i preti non confessano o ricevono nessuno in piena notte. La meccanica del ritrovamento parla chiaro: l’assassino era inesperto e impacciato, di sicuro al primo delitto. Non ha pensato a spostare il corpo, cosa che gli avrebbe permesso d’essere sicuro che la morte venisse scambiata per un incidente. Lasciandola qui pensava che la polizia avrebbe creduto a un suicido e che la ragazza si fosse gettata dalla torre campanaria. Non aveva capito che nessuno potrebbe mai uccidersi saltando giù da quel campanile, né che il farlo le avrebbe lasciato ben altre ferite. Quel tale era un idiota che ha avuto la gran fortuna di vivere tra idioti ben più stupidi di lui. Non capisco davvero come abbia potuto restare un mistero per più di un secolo.»
 
Quando il lungo monologo aveva finito di riecheggiare nella piccola stanza, il silenzio che scese non si poté definire in altro modo se non pacifico. Nonostante quella scomoda sensazione che stava provando e che lo dominava le volte in cui infilava così tante parole una dietro l’altra. Vuoi per la foga di raccontare tutto e subito o per l’abitudine a dover spiegare lentamente a lezione, quando si lanciava in deduzioni accorate, poi si sentiva vuoto e spaventato. Si trattava di un sentore strano e non del tutto specificato, che nasceva dalla scarsa abitudine all’essere per davvero ascoltato da qualcuno. Per tutta la prima metà della sua vita, Sherlock Holmes aveva tenuto per sé molte delle considerazioni che si era ritrovato a fare. Sapeva quanto un comportamento del genere non fosse nella propria indole ed era stato crescendo, infatti, che le cose erano cambiate. Quel bambino timido e che parlava poco, aveva lasciato spazio a un uomo adulto dalle lapidarie sentenze e senza peli sulla lingua. Non si rifiutava mai di dire la propria, non si tirava indietro di fronte a niente e a nessuno. Nemmeno se tutti lo detestavano. Ma se non teneva in considerazione le lezioni di chimica in facoltà, Sherlock non era poi abituato a fare dei lunghi discorsi. Non delle deduzioni che faceva o delle cose che aveva capito osservando questo o quello. I monologhi a John e le lunghe spiegazioni, erano una novità piacevole nata soltanto di recente. Alla fine di una delle filippiche nelle quali si lanciava, c’era sempre un istante in cui restava sconvolto e in cui aveva la sensazione orribile d’aver detto troppo, d’essersi mostrato in maniera eccessiva. Anche oggi, dopo mesi, aveva un po’ paura d’aver fatto vedere parti di se stesso che era terrorizzato si notassero. E lo temeva anche ora, dopo aver blandamente ricostruito un delitto avvenuto più di un secolo prima. Era stupido e irrazionale, ridicolo e privo di alcun fondamento, eppure non riusciva a non pensarci. Scacciare quell’orribile sensazione fu odiosamente complesso.
«E come ha fatto a ucciderla?» si sentì domandare in un sussurro, da un John che aveva da poco ripreso a baciargli il polso e che aveva deciso di risalire lungo il braccio. Concentrarsi, si rese conto, diventava sempre più difficile.
«Ha cercato di trattenerla» balbettò Sherlock, sedando un brivido d’eccitazione «i lividi al braccio lo dimostrano. Elisabeth era riuscita a divincolarsi e a scappare, così lui l’ha colpita alla nuca. Probabilmente si è trascinata fuori, ma purtroppo non è potuta andare lontano.» Povera, povera Mary Elisabeth Lewis, pensò lasciando andare a un sospiro proprio mentre le labbra di John risalivano in una leggera scia di baci, su lungo il braccio. Povera… Povera chi? Di chi stava parlando? Stava dicendo una cosa importante o almeno così credeva, cielo, non si ricordava più nulla. Non sapeva più niente. Sentiva solo quelle labbra che lo divoravano e le mani che stringevano e toccavano ovunque.
«Il mio bellissimo genio» lo sentì mormorare poco più tardi, una carezza gentile andò a sfiorargli una guancia. Quello fu l’inizio di tutto. Dopo, soltanto baci.
 


 
*



Quando Sherlock prese coscienza di se stesso e della fragilità del proprio animo, Butterfly cantava di quella fronda di ciliegio. L’aria a duetto, portata gentilmente dal vento, si frappose tra di loro e prese a serpeggiare al pari di un terzo amante. E mentre Sherlock si lasciava andare a un piccolo gemito strozzato, inarcandosi appena, ebbe la sensazione che Puccini gli stesse entrando dentro invadendogli il palazzo mentale con ogni nota. Perché proprio Butterfly? Si domandò, senza riuscire a frenare mugolii e sospiri. Come mai, in quella che era la vasta scelta del melodramma, questo implacabile ascoltatore aveva deciso per le vicissitudini tragiche di Cho Cho San? Non avrebbe voluto far perdere la mente a quel modo, nella situazione in cui stava era un vero e proprio spreco concentrarsi su Puccini invece che sulle mani di John Watson. Eppure non poté evitare di pensarci e, in una certa maniera, d’accostare la propria vita a quella della sfortunata Butterfly. Tutta la sua esistenza era un’illusione? Anche adesso lo era? Ora che godeva di quei tocchi intimi e dei baci che mordevano il collo? C’erano momenti in cui temeva che fosse così, tanto d’aver paura di svegliarsi al mattino e scoprire che era stato tutto un sogno. Aveva la sciocca sensazione che lasciarsi andare e crogiolarsi in questo amore forte e potente, avrebbe avuto lo stesso effetto di quella fronda di ciliegio. Servivano petali di fiori per abbellire la propria fantasia? E come quella donna, nell’opera, anche lui si convinceva (falsamente) che John lo amava e che desiderava davvero stare con lui? Chissà quanto di questa passione e dell’amore gridato senza vergogna alcuna, sarebbe rimasto anche nel futuro e che cosa invece sarebbe andato perduto. John lo amava davvero o Sherlock Holmes era un’illusa e sciocca Madama Butterfly? Probabilmente era ingiusto chiederselo e gli sarebbe bastato osservare John con la debita attenzione che meritava, per rendersene conto. Perché aveva la realtà sotto agli occhi, ma ancora non la vedeva. Era tutto vero? La domanda lo scosse con brutalità e soltanto a quel punto si rese conto di che cos’era successo per tutto quel tempo. Gli aveva ceduto, completamente ceduto. Di nuovo aveva perso la ragione e si era lasciato trasportare dalle emozioni. E adesso si ritrovava così, incondizionatamente passivo ed era questo il problema maggiore, ciò che per mesi lo aveva terrorizzato e sconvolto. Anche se per chiunque si trattava di una stupidaggine, per Sherlock era spaventoso. Lasciarsi andare lo terrorizzava perché, se non avesse avuto il pieno controllo di se stesso e delle proprie azioni, avrebbe potuto anche commettere un errore. Uno sbaglio anche minimo avrebbe finito per farli allontanare.

E se non c’era stato niente prima di quell’ormai lontano giorno d’ottobre, cosa avrebbe potuto esserci dopo John Watson? Nulla se non morte e dolore.

Stavano facendo l’amore e il suo possessivo fidanzato era in quello spirito lì, da toro da monta dal quale difficilmente riusciva a distogliersi. Non che a Sherlock dispiacesse o che non fosse mai accaduto prima, tuttavia sentiva un qualcosa alla bocca dello stomaco. Un sentimento spiacevole e al quale faticava a dare una vera ragione d’esistere. Di certo non era nulla che avrebbe mai dovuto provare in una situazione del genere. Se fosse stato onesto con se stesso, si sarebbe reso conto del fatto che erano mesi la che la provava e che tentava di sopprimerla. La paura di sbagliare e rovinare tutto, di far inconsapevolmente aprire gli occhi a John, lo paralizzava letteralmente e finiva per fargli assumere il controllo di qualsiasi cosa. Della quotidianità, dei discorsi che facevano. Dei casi. Persino del sesso. Non andava bene perché continuare così lo avrebbe distrutto; era vitale dire tutta la verità a John. Ma davvero si stava facendo tanti problemi soltanto per star sotto o sopra? Per un’ennesima volta, Sherlock si ritrovò a spiegare a se stesso che la faccenda era ben più complessa e che non si trattava di un banale rapporto sessuale, era per questa ragione che inizialmente aveva tentato di scacciare questo sentimento e poi ancora di soffocarlo. Non era mai riuscito a cancellare quei pensieri e tanto che adesso a fatica respirava, gli sembrava d’avere un peso opprimente all’altezza del petto. Panico, gli suggerì la vocina petulante di Mycroft che riecheggiò nella sua mente. Ha a che vedere col sesso, Sherlock, non spaventarti. Lo sentì dire con quel suo tono odiosamente mellifluo, che altro non faceva che renderlo ancora più insopportabile. Però successe allora, precisamente in quell’istante. Non volle mai dare a suo fratello il merito di tutto, però erano state certamente quelle parole a farlo smuovere da una situazione di stallo. Accadde mentre John era particolarmente dedito a uno dei suoi capezzoli, d’un tratto le carezze e i baci divennero fastidiosi e il godimento mutò in insofferenza. Non c’era più piacere, né risate. Solo un bisogno tangibile d’allontanarsi e di respirare, riordinare le idee non gli era mai sembrata una prospettiva così allettante. Parlare a John di tutto questo, invece, pareva proprio un sogno. Non aveva mai pensato di condividere il proprio disagio, ma adesso era come se i sentimenti che aveva represso avessero deciso di esplodergli nel petto. E di dargli il coraggio di levarsi da dove stava. Un attimo più tardi e senza avere idea di come ci fosse finito, Sherlock si ritrovò in piedi davanti la finestra. A stringere con forza il davanzale, inspirando profondamente. Lento, a incamerare aria nei polmoni mentre cercava di sedare il battito del cuore. Il suo palazzo mentale pareva un nido di api, un groviglio di fili che non aveva un vero inizio e che sembrava invece l’emblema della confusione più totale. Incoerentemente e senza preoccuparsi di se stesso, si ritrovò a spiare John attraverso il riflesso che scorgeva nel vetro. Ancora sedeva sopra al letto sfatto e lo guardava con un’espressione a metà tra la confusione e il terrore, ed era quanto di più orribile avesse mai visto su qualcuno. Il dolore di John gli attraversava lo stomaco, lo passava da una parte all’altra. Tra loro non c’era soltanto paura, ma anche un’ansia che cresceva e tendeva l’aria che respiravano a fatica. A quel punto, Sherlock comprese che non poteva più mentire e che la verità necessitava d’esser detta.

«Amore, che hai?»
«Ci ho provato, ma non ci sono riuscito» soffiò fuori, mentre lacrime gli pungevano gli angoli degli occhi. Stava tentando pateticamente di ricacciarle indietro, ma non vi riusciva. Non avrebbe desiderato lasciarsi andare a tanto e oltretutto per una questione così stupida, ma non riusciva a farne a meno. Neppure spiare John gli era di una qualche utilità, già perché questi si era teso ancor più di quanto non lo fosse stato sino a quel momento. Se ne stava inginocchiato in punta al letto, aveva il corpo proteso in avanti e gli occhi grandi, spalancati. Teneva i pugni chiusi e non per rabbia, quanto per potersi trattenere. Si mordeva le labbra per non parlare e tremava vistosamente. Se in Sherlock fosse rimasta anche soltanto una briciola della sua decantata razionalità, avrebbe capito senz’altro quanto reale fosse l’amore di John Watson. Quel gesto, quel frenarsi pur volendo fare altro, mostrava sino a che punto quell’uomo lo amasse. Voleva parlare eppure taceva, desiderava abbracciarlo e restava fermo. Rispettava la sua volontà sino al punto da forzare dolorosamente se stesso. Purtroppo, la ragionevolezza era ben lontana da Sherlock Holmes e la logica dello scienziato freddo e distaccato, che osservava il mondo attraverso il vetrino d’un microscopio, non gli apparteneva più.
«Devi essere più specifico, amore mio» pigolò John con voce strozzata «altrimenti non so di cosa parli. Hai provato a far cosa? A stare con me? È questo che non riesci più a fare?»
«Quel ti amo ha cambiato tutto» ammise, ignorando la sua domanda. Non poteva lasciarsi distrarre e il tono dolce e carico d’ansia della sua voce, era un qualcosa sul quale avrebbe ragionato per ere geologiche. Perciò se ne stava stoicamente immobile, con le mani strette al davanzale della finestra. Gli occhi chiusi. La carezza del vento sul viso a stuzzicare lacrime che bagnavano labbra martoriate. Nelle orecchie, ancora l’odioso canto della Butterfly. «Io non pensavo che avrei mai detto ti amo a qualcuno, ma poi sei arrivato tu e hai cambiato tutto. Hai sconvolto il mio mondo, John Watson. Ho fatto così fatica ad ammetterlo, però è così e… sono innamorato di te, in un modo che non credevo possibile potesse appartenermi. So di averci messo tanto tempo a dirtelo, troppo a dire il vero. Anche se lo sapevo fin dalla nostra prima volta, e anche prima quando abbiamo ballato alla festa di Mike. Perché sono crollato miseramente nell’attimo stesso in cui ti ho conosciuto e non c’è stato niente che potessi fare. Eppure me lo sono tenuto dentro per mesi, così come ho fatto con quella cosa.»
«Di che parli?»
«Quello che…» s’azzardò a rispondere, ma non riuscì a proseguire oltre. Sapeva che era un discorso sconclusionato e senza capo, né coda e sapeva anche quanto poco comprensibile risultasse agli occhi di John. Non era necessario decifrare l’espressione sconcertata e confusa sul suo viso, per esserne sicuri. Sherlock non aveva alcuna difficoltà a immaginarsela. E perciò balbettava e tremava, per questo avrebbe tanto voluto gridare a quella Butterfly di smetterla di cantare. Ogni strofa pronunciata, ogni nota intonata con quella pulizia che solo la Callas era capace d’avere, era come una stilettata nel cuore. Non poteva essere un illuso, non poteva essere come lei. No, John lo amava davvero. Perché nessuno potrebbe essere tanto idiota da confessare di amare uno come Sherlock Holmes, mentire su questo aspetto sarebbe stato da stupidi.
«Avrai notato» riprese «che ho la tendenza a controllare tutto. Anche quando facciamo sesso io non sto mai, cioè che non riesco a stare sotto e quando ti faccio star sopra divento petulante e alla fine mi dai retta e fai a modo mio.»
«Certo che me ne sono accorto e a dire il vero non mi ha mai neanche stupito» abbozzò, scrollando le spalle. «Sei una persona dominante e mi dai ordini anche quando dobbiamo far colazione, pensavo che ti piacesse stare sopra e avere sempre il comando su tutto. Aspetta un momento, è questo il tuo grande problema?»
«Io… non è soltanto per il sesso, è per tutto quanto. Una parte di me si fida di te e dei sensi che mi dicono che tutto questo è vero e reale, ma l’altra metà ha ancora paura che io stia vivendo in una fantasia e che io mi risvegli da un momento all’altro. Per questo faccio fatica a lasciarmi andare. Anche a letto. Non fraintendermi, mi piace quello che abbiamo fatto finora però ci sono momenti in cui mi amerei farmi dominare. Permetterti di decidere cosa fare e come farlo. Esserti completamente e incondizionatamente passivo. Io mi sento uno stupido a dirlo perché è una sciocchezza e lo so benissimo, ma l’idea di cedere mi terrorizza e…» E si vergognava anche solo a pensarlo, avrebbe voluto aggiungere ma quel discorso cadde lì e in quel momento. Finì nel silenzio, il quale scese subito dopo che ebbe terminato di pronunciare quelle parole. Era un tacere viscido e infido, impossibile da dedurre nello stato in cui versava. Tanto che si spaventò ben più di quanto qualsiasi altra cosa sarebbe mai riuscita a fare. Non una volta gli era importato dell’opinione di qualcuno, perché le persone erano idiote nella maggioranza dei casi e avevano un cervello piccolo e che pensava cose altrettanto stupide. Ma di John, della sua parola gl’interessava eccome. Di lui tutto era fondamentale, persino un’occhiata o una presa di posizione su un qualcosa di sentito in tv. Perciò in quei frangenti fu il terrore, a sconvolgerlo. Se non fosse stato per quella stupida Butterfly che duettava o per il vento fresco che lo accarezzava tanto da diventare una distrazione, avrebbe sentito frusciare le lenzuola e il materasso cigolare. Invece non notò niente, non ascoltò nulla se non il battito del proprio cuore e il respiro frammentato da un singhiozzo mal trattenuto. Sentì i vetri che sbattevano, grida lontane. L’infrangersi di petali di ciliegio che cadevano al suolo, in un giardino non troppo distante. Ma non sentì John e il suo avvicinarsi. Fu per questo che sussultò con violenza nell’attimo stesso in cui le sue braccia lo strinsero per la vita, in un moto di gelosa possessione. Quindi un bacio, timido e reverenziale, s’andò a posare sulla guancia bagnata di lacrime. Non poteva essere un sogno, pensò deglutendo a fatica. Sorprendentemente, la mente si quietò appena. Le ciglia sfarfallarono agitate dal pianto. I denti ancora non la smettevano di torturare le labbra. Solo le parole che seguirono ebbero il potere di quietarlo.
«Sherl, ascoltami, amore mio e immagazzina questi concetti in quel tuo bel cervello perché è importante» disse, regalandogli un altro bacio e questa volta il tocco ebbe raggiunto le labbra «sei una persona insopportabile praticamente sempre. Hai un pessimo carattere, sei prepotente e arrogante e il più delle volte sei uno stronzetto saccente. Ma hai anche un cuore d’oro, un animo sensibile e un’intelligenza che mi conquista giorno dopo giorno. Sei stupendamente strano, dannatamente arrapante e pazzo, e pazzo, e pazzo, e io ti amo per questo. Ti amo davvero, stupido idiota. E per quel che riguarda il sesso… Cristo, se raccontassi alla più navigata delle puttane, tutte le fantasie che ho su di te la farei arrossire!» mormorò, ridendo appena, prima di tornare serio. «Non ti giudicherò mai, qualsiasi pensiero o perversione tu abbia e se un domani decidessi che non lo vuoi più fare a me andrebbe bene comunque, perché qualsiasi cosa tu voglia per me è importante. Ti amo, dannato idiota e tu sei talmente stupido che ancora ne dubiti. Vuoi avere il controllo? Cristo, mi farei scopare per tutti i giorni della mia vita se ciò ti rendesse felice. Perché sai che c’è? Che ti amerei anche se fossi una donna o un alieno con le antenne e non me ne frega un cazzo di chi sta sopra e chi sotto. Attivo, passivo… Sono tutte stronzate. Io voglio te in tutti i modi possibili, anche senza sesso. Voglio te nella mia casa e nella mia mente, in tutte le maniere in cui vorrai e potrai offrirmi in futuro. Sceglierei Sherlock Holmes persino se un domani dovessi rimanere invalido o paralizzato, ti sceglierei sempre e comunque. Quindi se hai una fantasia, un dubbio, un qualcosa che vuoi che facciamo o non facciamo, non ti tormentare per mesi sul dirmelo o meno. È solo sesso, Sherlock, ci sono cose più importanti. La tua felicità, la mia felicità valgono più di qualsiasi altra cosa.»

Forse piangeva più di prima, non lo sapeva. Aveva soltanto la certezza d‘essersi voltato e aver affondato il viso nell’incavo del collo di John, sapeva che quelle mani forti gli avevano impedito di crollare a terra. Probabilmente parlò anche, nelle ore che seguirono, ma i ricordi di quel momento insieme sarebbero stati sempre fumosi. Sherlock avrebbe ricordato altro che il misero sfogo nel quale s’era lanciato. Di fatto, non si dissero altro. Perché John doveva aver messo assieme una propria privata deduzione e aver compreso sino a che punto il messaggio fosse stato ricevuto, pertanto non insistette. Semplicemente, lo baciò. D’altra parte, furono le loro azioni a parlare per entrambi. E Sherlock non dovette mai precisare nulla, aveva capito che doveva smettere di torturarsi su tutto o di pensare di vivere in un’illusione. In quel pomeriggio, col sole di maggio che entrava dalle finestre e il caldo di Charlbury ad amare entrambi, furono sufficienti i sospiri e i baci. Il fare l’amore su quel davanzale, meravigliosamente scomodi. E una passività improvvisata, nuova. Totalizzante. Un lasciarsi andare che era un arrendersi a se stesso e alle proprie convinzioni, a una paura d’esser lasciato nuovamente solo. Il loro fu un fare l’amore differente, nuovo. Diverso. Un inizio di un qualcosa che c’entrava con la condivisione, ma che era molto ma molto più complicato da spiegare.

«John Watson» disse Sherlock a un certo punto, rompendo il silenzio e prima di lasciarsi andare a una risata contagiosa. John Watson, pensò ancora e ancora, tra baci e altri sospiri. Di nuovo e di nuovo. John Watson, ripeté e intanto la Butterfly ancora cantava, morendo tra petali di ciliegio. In quel canto struggente, tuttavia, Sherlock Holmes non ci vide altro che bellezza.
 
 
 
 
 
Impromptu
 
 
 
 

Fine
 
 

 
 
Note: Puccini, Scuoti quella fronda di ciliegio. Aria a duetto tratta dal secondo atto della Madama Butterfly. Non mi soffermo mai a spiegare, ma qui occorre farlo. Con quest’aria siamo in un punto delicato dell’opera. Butterfly, che per anni ha sognato il ritorno dell’amato Pinkerton, viene a sapere che lui è sulla nave americana attraccata al porto. Il che la ripaga dell’attesa, è felice e chiede a Suzuki di abbellire la casa con i fiori del giardino. C’è però un aspetto che contraddistingue Butterfly e che viene fuori in quest’aria in maniera struggente, ovvero l’illusione. Lei è un’illusa, è accecata completamente dall’amore e dal sentimento che prova, tanto che lo giustifica (in questo è esplicativo è il duetto con Sharpless, sempre nel secondo atto). In quest’aria è felice, peccato che le cose non stiano come crede. Pinkerton è sposato con un’altra donna e non è lì per lei, ma per prenderle il figlio e portarlo in America. Sappiamo come finisce l’opera, ma l’accostamento ai pensieri di Sherlock non sta nel gesto disperato di Butterfly (e infatti Sherlock alla fine vede solo la bellezza dell’opera e non accosta più nulla a se stesso), quanto nell’illusione. Sherlock ha paura di essere come lei, di vivere in un sogno e convincersi di cose che non sono vere. Da qui l’iper-controllo e, beh, tutto il resto. Se vi sembra un ragionamento affrettato da collocare nella parte finale, allora la pensate come me perché ho tentennato sino all’ultimo su questo.
 
Ma ora, due brevissimi ringraziamenti. A chi ha letto la storia sino alla fine, anzitutto. Grazie davvero a chi mi ha sostenuta e anche con le recensioni, che son sempre tantissime e sempre molto apprezzate. Spesso i vostri pareri mi aiutano a capire da che parte soffia il vento. Non voglio dilungarmi oltre, quindi rinnovo i ringraziamenti.
Koa
   
 
Leggi le 9 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Koa__