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Autore: Sinkarii Luna Nera    21/04/2018    3 recensioni
Prequel di ''Reflecting Mirrors"
Una Lusan, un Hakaishin e tutto ciò che è avvenuto prima che centinaia di milioni di anni, assieme a centinaia di milioni di situazioni complesse, portassero al presente per come lo conosciamo -nel bene e nel male.
(Ignoro il motivo per cui l'amministrazione si sia divertita a cancellare un'intro che è stata qui per anni, ma non abbia ancora cambiato il mio nick. Misteri della fede.)
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Champa, Lord Bills, Nuovo personaggio, Vados, Whis
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Reflecting Mirrors'
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«Va tutto bene, Beerus, era solo un incubo. Tranquillo… è tutto a posto…»
 
In realtà Beerus sapeva benissimo che era tutto a posto, non avrebbe avuto bisogno che glielo dicesse Anise, soprattutto perché in realtà l’incubo per cui stava venendo abbracciato e tranquillizzato non c’era mai stato. Si era soltanto svegliato assetato, aveva bevuto e i suoi movimenti avevano svegliato Anise.
 
«Non pensavo che l’avresti fatto» mormorò lui, vergognandosi un po’ per quelle coccole “rubate”.
 
«Fatto cosa?»
 
«Quel che stai facendo. Abbiamo litigato e poi non abbiamo nemmeno… insomma… non ci siamo “riavvicinati”».
 
Vero: pur essendo andati a dormire insieme come sempre non c’era stato il tipico “riavvicinamento” prima del sonno.
Sempre se ritrovarsi a fare l’amore poteva definirsi “riavvicinamento”.
 
Accadeva spesso. Non sempre, ma spesso: litigavano, andavano a letto “arrabbiato” -lui- e “in modalità muro di gomma” -Anise- per poi rimanere lì fermi per un pezzo, dandosi la schiena, ovviamente senza riuscire a dormire.
In quei momenti lui veniva assalito dalla nostalgia di momenti più gioiosi, dalla tristezza; si chiedeva come avessero potuto ridursi così, come avessero potuto permettere alla vita, l’Universo e tutto quanto di mettersi tra loro due.
Si metteva ad ascoltare il suo respiro, chiedendosi come due persone tanto vicine fisicamente potessero sentirsi così lontane una dell’altra e soprattutto… “Perché?”
Erano lì, erano insieme, stavano insieme. Quella distanza emotiva a un certo punto diventava una tortura costante, si ritrovava solo a desiderare di colmarla stringendo a sé la sua compagna nella speranza ingenua che un abbraccio potesse davvero riavvicinarli.
Il desiderio impiegava poco a diventare insostenibile, così lui cedeva… e anche Anise, preda degli stessi sentimenti nello stesso preciso istante.
Iniziava sempre tutto con un abbraccio, con dei baci, per poi diventare qualcosa di più: facevano l’amore stringendosi uno all’altra in maniera quasi disperata, come se sapessero di dover morire il mattino dopo, consci che però a “morire” e rinascere in continuazione era solo quella vicinanza che riuscivano e ritrovare e poi si lasciavano sfuggire tra le dita.
Alcuni l’avrebbero trovato triste, altri forse un po’squallido; per Beerus e Anise era semplicemente la loro realtà.
 
«Aver litigato non è una novità… non so tu, ma io inizio quasi a trovare strano un giorno in cui non si discute» replicò Anise, rendendosi conto che anche quella era una triste verità «Io però sono ancora la tua compagna. Se tu hai bisogno di me e io sono presente, ti aiuto come posso».
 
“E lo faccio anche se mi rendo conto che invece non ne hai bisogno” aggiunse mentalmente “Perché ormai riconosco le tue espressioni dopo gli incubi, e in questo caso non te ne ho vista fare neppure una. Tu hai trovato una scusa per ricevere coccole, io per farne, ed essendo due disgraziati nessuno dei due ammetterà mai nulla di tutto questo. Meriteremmo entrambi degli schiaffi”.
 
«Grazie» sussurrò Beerus, con un debole sorriso «Strano che tu non abbia fatto ancora domande riguardo l’incubo. Lo fai sempre» aggiunse, avendo imbastito una storia a caso nel mentre.
 
«Sicuro di volere che ne faccia?» buttò lì Anise.
 
“Quindi lo sa?” pensò Beerus, un po’sorpreso “Allora perché…”
 
Non finì neppure di domandarselo: di certo era lo stesso motivo che lo aveva spinto a rispondere di sì quando lei gli aveva chiesto se aveva avuto un incubo.
 
Quella era una buona ragione per restare in silenzio e godersi quel momento di pace, secondo lui, dunque non rispose e rimase fermo lì, abbracciato alla sua compagna.
 
Beerus amava ancora Anise. La amava terribilmente, esattamente come l’aveva amata oltre tre anni prima vedendola in piedi su quell’altalena, come l’aveva amata il giorno in cui le aveva mostrato l’oceano per la prima volta, come la notte in cui aveva fatto quel viaggio folle di andata e ritorno dal proprio pianeta pur di vederla, o come il giorno in cui era diventata la sua Iarim Neiē.
Se un sentimento d’amore fosse stato sufficiente a mandare avanti una relazione, loro due sarebbero state le persone più felici del creato anche solo grazie al suo apporto.
 
«Ho sognato che Whis aveva rubato tutte le praline esistenti» bisbigliò Beerus, dopo un po’ «E che teneva l’intero Universo sotto scacco minacciando di mangiarle se non fossimo diventati tutti suoi schiavi».
 
«Se anche fossimo diventati tutti suoi schiavi le avrebbe mangiate ugualmente, secondo me» disse Anise.
 
«Questo è molto probabile. Anise!»
 
«Sì?»
 
«Mi è venuta voglia…»
 
La Lusan sollevò le sopracciglia. «Parlando di praline ti è venuta voglia di fare sesso?»
 
«No! Parlando di praline mi è venuta voglia di praline!»
 
«Questo ha più senso. Sai cosa non ha senso?»
 
«Cosa?» le domandò il dio.
 
«Che adesso sia venuta voglia di praline anche a me!» sospirò la ragazza «Solo che qui in casa tua non ne abbiamo, ho controllato proprio stasera».
 
«Ne abbiamo» la contraddisse Beerus «O meglio, ce le ha Whis. Nascoste sotto il suo letto».
 
«Il problema è che in teoria al momento dovrebbe star occupando suddetto lett-»
 
«Non importa! Vado, le prendo e torno» concluse l’Hakaishin, saltando giù dal letto «Se Whis dovesse cogliermi sul fatto e non dovessi tornare qui vivo, sappi che io… ehm» tossì «Lo sai».
 
Ancora una volta non era riuscito a dire quel “ti amo”, però Anise l’aveva recepito benissimo, tant’è che si alzò dal letto a sua volta. «Non lascerò che tenti quest’impresa da solo. A dirla tutta ho meno probabilità di prendere una bastonata io rispetto a quante ne abbia tu».
 
«Magari dovresti rivestirti» le fece notare Beerus.
 
«Vedermi nuda non gli scatena reazioni di sorta, e comunque potrebbe servirmi a distrarlo se mai dovesse svegliarsi. Lui mi rimprovera per l’indecenza e tu pensi al bottino».
 
«Non venderò l’onore della mia donna per un pugno di praline!» ribatté Beerus.
 
«Sembrava quasi una frase seria» disse la lince, indossando una sottoveste rosa cipria «Bene. Andiamo».
 
«Hai qualche piano?» le chiese Beerus, mentre uscivano dalla stanza.
 
«Avevo pensato a un diversivo che potesse allontanarlo dalla stanza, solo che lui potrebbe capire di cosa si tratta e tornare indietro troppo velocemente. O non muoversi affatto» aggiunse «Quindi il piano è questo: apriamo la porta, io gli salto sopra limitando il suo campo visivo con i miei capelli e tu in questo frangente usi la tua divina velocità per rubare le praline e scappare».
 
«Non posso lasciartelo fare! È troppo rischioso» protestò Beerus «Un colpo che manda KO me fa esplodere la testa a te!»
 
«Ragion per cui, se ci fai caso, Whis non ha mai alzato neppure un dito su di me neppure quando gli parlavo di Lulù. Può funzionare, fidati».
 
Una volta giunti a destinazione aprirono silenziosamente la porta della stanza di Whis. Dormiva supino sul letto, con le mani intrecciate tra loro all’altezza del petto: degno di un cadavere, insomma. Anise a dirla tutta era ancora sorpresa del fatto che gli angeli dormissero, tant’è che aveva una teoria secondo cui lo facevano solo per passare il tempo.
 
Diede un’occhiata d’intesa a Beerus e poi senza pensare oltre saltò addosso all’angelo dormiente, avendo cura di occupare il suo campo visivo con i capelli proprio come prevedeva il piano.
 
Whis aprì gli occhi. «Lady Anise».
 
«Sì?»
 
«Cosa. Sta. Facendo».
 
«Io sono un felino, Whis».
 
«I felini hanno la fama di creature piuttosto promiscue ma come può notare non sono minimamente interessato ad accoppiarmi con lei, sebbene la sottoveste che indossa sia molto corta, molto scollata e piuttosto trasparente».
 
«Questo è razzismo verso i felini. In ogni caso non sono qui per quello».
 
«E allora cosa vuole?» le chiese Whis, quanto mai seccato.
 
«I felini spesso corrono per casa alle tre di notte e chiedono di essere sfamati alle cinque del mattino. Indovina che ore sono?»
 
«Il mio orologio interno mi dice che sono le quattro di notte, il che rende quest’assurdità ancora più assurda».
 
Anise sollevò le sopracciglia. «Ah, quindi non sono le cinque?»
 
«Se non si toglie immediatamente di dosso potrei inavvertitamente lanciarla fuori dalla finestra o contro il soffitto. Ripeto: inavvertitamente».
 
La Lusan sollevò le mani in un gesto di resa, poi saltò giù dal letto. «Chiedo perdono».
 
«Io ritengo che lei abbia qualcosa di malfunzionante nel cervello» affermò l’attendente «L’ho sempre pensato, ora ne sono ancor più convinto. La invito a tornare al tipo di rapporto prettamente civile che abbiamo mantenuto in questi mesi».
 
«Contaci, meno ho a che fare con te meglio mi sento» replicò la ragazza, tranquillissima «Buonanotte!»
 
Quando Anise uscì dalla stanza, Whis scosse la testa e alzò gli occhi al soffitto. Beerus diceva che Calida era pazza, però anche Anise era tutt’altro che a posto per decidere di saltare addosso a qualcuno che detestava, seminuda, alle quattro del mattino.
 
«Mah» bofonchiò l’angelo, facendo spallucce «Rinuncio a comprendere».
 
Intendeva rimettersi a dormire, però prima volle togliersi lo sfizio di mangiare una pralina: quelle erano sempre utilissime se si trattava di rimettere in sesto il suo umore, tant’era che dopo quell’aborto con annesso ricatto ne aveva mangiate circa quaranta una di fila all’altra.
 
«…»
 
Peccato che della sua scorta segreta di praline non trovasse traccia.
 
«Non vanno più d’accordo ma vedo che se si tratta di rompere i cosiddetti al sottoscritto ripristinano l’associazione a delinquere in men che non si dica!» esclamò, assai innervosito.
 
Fu tentato di effettuare una strafexpedition in camera di Beerus per riavere il maltolto, poi però decise di attuare una strategia diversa: il suo Hakaishin non avrebbe mangiato alcun tipo di dolce per un mese -bastava un incantesimo che lo facesse correre in bagno ogni volta che stava per metterne in bocca uno- e le perline di vetro che Anise aveva lì, in casa loro, sarebbero misteriosamente scomparse.
Oh, e naturalmente tra un’oretta sarebbe andato a svegliare entrambi: i felini non andavano forse nutriti alle cinque del mattino?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
«Ha detto che non è interessato a un accoppiamento con la sottoscritta, mi sento molto ferita nel mio orgoglio femminile» sospirò Anise, con un’espressione di finta costernazione.
 
«Se Whis avesse avuto simili intenzioni nei tuoi confronti avrei dovuto picchiarlo» ribatté Beerus, lanciandosi in bocca una manciata di praline «O almeno provarci».
 
«Quando si accorgerà della sparizione ce la farà scontare, in un modo o nell’altro…»
 
Nonostante quel pensiero Anise si sentiva abbastanza tranquilla. Era ragionevolmente convinta che Whis non avrebbe cercato di danneggiarla parlando a Beerus della sola e unica cosa con cui avrebbe potuto farlo davvero, ossia l’aborto, perché quello coinvolgeva personalmente anche lui; per il resto si riteneva in grado di gestire qualsiasi rappresaglia.
 
«Ti difenderò io da qualunque cosa possa venirgli in mente di fare, non preoccuparti» dichiarò il giovane dio, molto convinto.
 
«Sei un tipo coraggioso».
 
«Io per te affronterei anche i miei colleghi tutti insieme, più i loro angeli! E anche il Gran Sacerdote! E anche Zeno in persona!» esagerò Beerus.
 
«Vuoi dire che per me affronteresti “solo” tutti gli esseri più potenti del creato? Mi deludi» disse lei, scherzando «Tieni così poco alla sottoscritta?»
 
«E anche il Coniglio Assassino di Carbannomeer!» aggiunse lui «Lo faccio rivivere non so come in modo da poterlo distruggere!»
 
«D’accordo, mi hai convinta, tutto sommato ci tieni» concesse Anise.
 
«Sempre. Sempre, Anise» affermò Beerus.
 
«È una parola grossa».
 
Ed era anche il motivo per cui non sarebbero riusciti a mettere un punto alla loro storia in tempi brevi, perché momenti come quelli erano come piccoli adamandnery pinc nascosti in secchiate di fango, e il valore di quelle pietruzze era molto grande.
 
«Per quanto riguarda me è la pura verità. Tu cosa mi dici?»
 
«Dico che forse le quattro di notte non sono l’ora giusta per-»
 
«Qualunque ora in cui riusciamo a parlarci così è quella giusta» la interruppe Beerus, appoggiando la fronte contro quella di Anise «Per come la penso».
 
«Mi sa che non hai torto» ammise la Lusan «Sì, Beerus, ci tengo anche io, esattamente quanto ci tieni tu. Immagino sia per questa ragione che teniamo duro pur sapendo che tra poche ore finiremo a litigare per qualcosa, qualsiasi cosa, come sempre da un anno e mezzo a questa parte».
 
«Lo facciamo perché nonostante tutto sappiamo di non essere senza speranza. A meno che domani Whis abbia progettato di ucciderci per colpa delle praline, allora sì, in quel caso siamo senza speranza».
 
«Non dicevi che mi avresti difesa e che avresti affrontato perfino il Coniglio Assassino?»
 
«Confermo!» annuì Beerus «Ti difenderei e affronterei chicchessia. L’esito di tutto ciò però è un altro paio di maniche».
 
«Ah, ecco» sorrise lei.
 
«Detto ciò, mi si chiudono gli occhi» disse Beerus, con uno sbadiglio «Torniamo a dormire?»
 
«Sì, è il caso di farlo».
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
«No, Hogevor Calida, il Moriameer a-ghekavary e famiglia non sono sul campo di battaglia, ma… perché stiamo parlando di una cosa simile? Se Kahzameer e Moriameer combattono tra loro forse sarebbe meglio limitarsi a rimanere fermi lungo la riva del fiume e aspettare che passi il cadavere, metaforicamente parlando!» esclamò Recte «Perché dovremmo andare ad aiutare la città di Kahzameer in battaglia? Noi odiamo Kahzameer!»
 
«I motivi per cui forse -e sottolineo “forse”- andremo ad aiutare Kahzameer in battaglia sono due: il primo è “Perché lo dico io”, che dovrebbe già bastarti» disse Calida «Il secondo è che, contrariamente a quello che stai dicendo, i cadaveri che speri passino non passeranno mai. Kahzameer e Moriameer non riusciranno mai né a distruggersi a vicenda né a prevalere una sull’altra, perché la superiorità di una rispetto all’altra non è tale da fare veramente la differenza. Questa sarà l’ennesima guerra che finirà in un logoramento generale» profetizzò «Che porterà all’ennesima tregua, che pochi anni dopo verrà rotta per l’ennesima volta, com’è sempre stato da che se ne ha memoria. La storia della nostra valle è questa: tensione, massacro e tregua, un ciclo continuo ripetuto innumerevoli volte».
 
«La guerra scorre nelle nostre vene come il sangue, non è una novità» ribatté il luogotenente, non capendo dove Calida volesse andare a parare.
 
«È vero, io su questo sono d’accordo, però questa iterazione continua e costante è andata avanti per troppo tempo. Io voglio spezzare la ruota» “Possibilmente prima di impazzire peggio di adesso” pensò «Io non voglio che la città di Ulthmeer sopravviva a questa guerra, io voglio che la nostra città vinca. Solo che non possiamo farlo da soli, esattamente come non può farlo nessun’altra città. Purtroppo dobbiamo accettare questo fatto».
 
«Anche se abbiamo migliori cannoni?»
 
«Anche se abbiamo migliori cannoni» ripeté Calida.
 
«Quindi lei sta parlando di allearci con la città di Kahzameer? È questo che vorrebbe fare?» domandò Recte, per nulla felice all’idea «Non ci sono altre opzioni?»
 
“Sì, c’è quella della corona, però non mi va di condividere la mia testa con qualcun altro. Se riuscissi a fare qualcosa di buono con mezzi più tradizionali potrei evitare di cedere alla tentazione di pagare quel prezzo per avere il potere di Rubedo” pensò la Lusan “Una tentazione che diventa sempre più forte ogni maledetto giorno che passa. Forse per colpa mia, forse per colpa della situazione, o forse perché Rubedo stesso mi sta influenzando: questo non lo so. L’unica cosa che so è che al momento preferisco cercare di vincere mantenendo il possesso del mio cervello malato. Un’alleanza con annessi e connessi è un compromesso da cui volendo posso recedere più facilmente rispetto a una possessione”.
 
«Se vogliamo davvero provare a vincere, no. Ora che Thandrumeer è distrutta, Kahzameer è la città che è un po’più grande delle altre…»
 
«Il Kahzameer a-ghekavary accetterà un’alleanza con noi? Anche se li aiutassimo non è detto che sarebbero disposti a dirci di sì» disse Recte, scettico «A parte i cannoni non abbiamo da offrire più di qualsiasi altra città».
 
«Io invece penso che qualcosa in più che possiamo offrire ci sia! Devo solo lavorarci un pochino. Questa notte stessa» aggiunse Calida, agguantando un sacco «Il tuo compito per ora è attendere e preparare gli uomini ad entrare in battaglia a fianco di quelli di Kahzameer, cosa che accadrà solo e soltanto quando tornerò dalla mia… come dire, commissioncina».
 
«Cos’ha in mente? Forse è il caso… insomma, ovunque voglia andare forse sarebbe meglio portare almeno un paio di uomini e-»
 
«Recte, mon sei sciocco e sei meritevole di stima, ma tieni sempre a mente qual è il tuo posto. Fino a prova contraria il capo della città di Ulthmeer sono io: io decido dove andare, cosa fare e chi portare con me. Tu esegui. Non c’è altro da aggiungere».
 
Non disse altro a Recte -aveva giudicato che quel discorso era stato sufficiente- e in poco tempo oltrepassò i confini della città di Ulthmeer, diretta a Moriameer. Era bene che si sbrigasse a fare quel che voleva fare ora che era in grado di riconoscere le persone che si trovava davanti agli occhi, sperando che il cervello non la tradisse nel momento sbagliato.
 
Doveva ammettere che solo fino a pochi mesi prima non si sarebbe arrischiata a fare una del genere, partire da sola alla volta di Moriameer con l’intento di intrufolarsi nella città e nella casa del capo; tuttavia, che fosse per una pazzia più profonda di quanto credesse o un semplice tentativo disperato di fare qualcosa per non cedere all’idea di andare a prendere quella corona, Calida aveva deciso di gettarsi a capofitto in quell’impresa appena i tasselli di quella sottospecie di piano avevano trovato un ordine.
 
“Come immaginavo” pensò, una volta che si fu avvicinata abbastanza alla città da poter vedere cosa c’era attorno “Il capo di Moriameer ha mandato un’armata piuttosto numerosa a combattere, però ha lasciato diverse persone di guardia ai confini. Il solo modo in cui posso entrare in città senza essere vista è seguire la mia idea iniziale di sfruttare il braccio di fiume che scorre fin dentro la città”.
 
Sembrava che i suoi tentativi passati di cercare il tesoro di Rubedo immergendosi di giorno e di notte -perlopiù di notte- nel lago di Vynumeer stessero per dare finalmente dei frutti.
Calida era piuttosto convinta che se non aveva trovato quella grotta era semplicemente perché non sapeva dove cercare, non certo perché non avesse fiato sufficiente da raggiungerne almeno l’imboccatura; immergersi nel fiume e passare da sotto le mura non sarebbe stata una cosa infattibile, soprattutto perché avrebbe avuto anche la corrente a favore.

 
“A rigor di logica saranno troppo impegnati a sorvegliare le mura per far caso alla testa di una Lusan che fa capolino dalle acque” concluse “L’orario, la battaglia in corso e il fatto che la dimora del Moriameer a-ghekavary non sia distante dal fiume mi faciliteranno il compito”.
 
Meskal “buonanima” non aveva mai capito il motivo per cui lei, a quei tempi, durante le torture e i pestaggi cercasse di strappare alle sue vittime quante più informazioni possibili sulla posizione e il tipo di strutture presenti nelle città, al punto da averne ricavato delle mappe abbastanza precise; l’aveva sempre giudicato un lavoro inutile e noioso.
Il punto era che adesso, proprio grazie a quel “lavoro inutile e noioso”, Calida poteva arrivare a destinazione senza sbagliarsi: aveva la strada da fare ben chiara in mente.
 
Si tuffò nel fiume e iniziò a procedere verso Moriameer, trascorrendo in immersione la maggior parte del tempo.
Lasciò riemergere la testa per un attimo quando giunse a toccare la pietra delle mura, tanto per sincerarsi che nessuno si fosse accorto del suo arrivo, poi si immerse di nuovo, nuotando velocemente all’interno della città.
Continuò a nuotare e a lasciarsi spingere dalla corrente per un pezzo, tornando a galla solo una volta che ebbe concluso di essere ormai vicina alla dimora del Moriameer a-ghekavary. Si guardò attorno: non c’era anima viva.
 
“Appunto, sono tutti in battaglia o vicini alle mura, e chi non lo è sta dormendo” concluse, mentre raggiungeva la riva del fiume e usciva dall’acqua “Non sono certa che il Moriameer a-ghekavary lo stia facendo, però affrontarlo non sarebbe un grosso problema. Lui è un guerriero e lo sono anch’io. Anzi, forse io lo sono più di lui, dal momento che ha questa tendenza ad affidare ai suoi luogotenenti tutto quello che può. D’accordo, un capo deve anche saper delegare… ma fino a un certo punto”.
 
Nonostante l’assenza di persone che potessero vederla decise di muoversi con rapidità e circospezione, cercando di evitare le zone illuminate dalla scarsa luce dell’unica luna rimasta.
La dimora della persona che stava cercando si trovava poco lontano dal negozio di uno speziale, che lei non faticò a trovare e a superare.
La sola “difficoltà” che riscontrò fu il doversi nascondere in un vicolo buio quando sentì le voci di due Lusan in avvicinamento. Avrebbe potuto ucciderli, ma preferiva non dare nell’occhio e limitarsi a portare a termine la missione.
 
Raggiunse la casa del Moriameer a-ghekavary, un edificio a due piani dallo stile semplice e praticamente identico a quello di casa sua; nulla che potesse stupirla sapendo che le abitazioni nella valle erano tutte costruite più o meno allo stesso modo -cambiavano solo le dimensioni a seconda della posizione sociale o del denaro posseduto- e anche la disposizione degli edifici nelle città si somigliava sempre abbastanza.
 
“Ora devo solo scassinare la serratura della porta sul retro ed entrare” pensò, tirando fuori dalla fodera attaccata alla cintura un pugnale dalla lama lunga e sottile.
 
La serratura cedette come se fosse stata di burro: ecco, era finalmente dentro.
 
Percorse solo pochi passi prima di trovarsi davanti la moglie del capo di Moriameer, e quest’ultima ebbe solo il tempo di sgranare gli occhi e aprire la bocca per urlare, senza riuscirci, perché Calida la sgozzò con un gesto fulmineo.
 
“No, appunto… non dormivano. Non tutti, almeno”.
 
I rantoli della donna richiamarono l’attenzione di quello che sicuramente era uno dei suoi figli adolescenti -uno dei due maschi- ma anch’egli, appena spuntato fuori dalla stanza accanto,  non ottenne nulla più di un pugnale volante infilato in gola.
 
La possente Lusan recuperò l’arma ancor prima che il ragazzo cadesse a terra in un lago di sangue, immaginando che anche l’altro figlio non dovesse essere troppo lontano.
 
«Mahanum!»
 
Non si era sbagliata di molto, perché l’attimo successivo si trovò a dover respingere l’aggressione della terza figlia del suo collega, una sedicenne alta quasi quanto lo era stata lei a quell’età, che le aveva appena urlato “muori”.
 
Le si era avventata contro con uno spillone per capelli, un’arma impropria quasi ridicola che però poteva risultare letale nelle mani giuste. Calida riuscì a evitare i primi colpi senza emettere un suono, e con la coda dell’occhio vide il fratello maschio, quello cui aveva pensato poco prima, in attesa di tentare a sua volta un attacco silenzioso.
 
“Aspetta” pensò, evitando un altro affondo della ragazza “Non ancora… ecco”.
 
Si abbassò al momento giusto, proprio quando vide che il ragazzo era partito all’attacco, e fu così che il disgraziato Lusan venne colpito mortalmente in un occhio dallo spillone della sorella.
 
«No!... Hetri!» esclamò la ragazza, disperandosi nel rendersi conto di ciò che aveva fatto al fratello.
 
«Uno in meno di cui occuparmi» fu il solo commento di Calida, che agguantò la ragazza preparandosi a ucciderla.
 
«Tu!... cosa… cos’hai fatto?!»
 
Ecco che finalmente il Moriameer a-ghekavary, bersaglio principale ma non unico della sua missione omicida, si palesava giusto in tempo per ammirare il lavoro da lei compiuto finora.
 
«Mi sembra abbastanza evidente, Lenen Moriameer a-ghekavary. Tu e i tuoi familiari sareste dovuti andare in battaglia, magari sareste sopravvissuti».
 
«Lascia andare mia figlia, altrimen-»
 
Il Lusan non poté neppure finire di dire quell’altrimenti, perché venne interrotto dallo schiocco sonoro del collo spezzato di sua figlia.
 
«Fatto» disse Calida con calma glaciale, lasciando cadere a terra il cadavere.
 
La reazione del suo collega nel veder uccidere la propria figlia fu quella che ci si aspetterebbe da qualunque padre, ossia scagliarsi contro l’assassina in un impeto di pura ferocia. Peccato che fosse proprio quel che Calida si aspettava, e ancora una volta lanciò il pugnale, uccidendo il padre nello stesso modo in cui aveva ucciso il figlio: una lama conficcata in gola.
 
«Rendiamoci conto che in tutto questo la figlia adolescente mi ha dato più rogne di quante me ne abbia date suo padre. Se non altro l’aveva cresciuta decentemente» sospirò Calida, estraendo con cura la sua arma dal collo dell’ultima vittima «Posso dire di aver finito».
 
Il grosso del lavoro era stato fatto, si disse, aprendo il sacco che si era portata appresso; ora non restava altro da fare che prendere i souvenir e poi tornare a Ulthmeer con il “bottino”.
 
Il pianto di un neonato, proveniente dal piano superiore, attirò la sua attenzione. Non ricordava che il defunto Lenen avesse avuto un figlio da poco, ma del resto non era detto che lo fosse: poteva tranquillamente essere un nipote, anche se non le risultava che i suoi figli fossero sposati.
 
«D’accordo: avevo “quasi” finito» rettificò la Lusan, imboccando la scalinata che portava al piano di sopra.
 
Esattamente come nell’occasione in cui Thandrumeer era stata distrutta, Calida notò che in tutto quel lasso di tempo non aveva avuto alcun tipo di problema: niente allucinazioni di Anise zombie, niente difficoltà a riconoscere i volti e ricordare i nomi… stava bene, assolutamente bene, tanto che anche ogni voglia di porre fine alla propria vita era passata.
 
Nel dirigersi verso la stanza da cui proveniva il pianto del piccolo -o della piccola- Lusan, pensò che forse per poter continuare a vivere in modo dignitoso era destinata a uccidere, che forse era diventata simile a un parassita che aveva bisogno di versare sangue altrui per non impazzire del tutto.
 
Se però il sangue non era quello di Anise, era un prezzo che Calida era tranquillamente disposta a pagare.
 
 
 
 
 
***
 
 
 
 
 
La battaglia tra i Lusan di Kahzameer e quelli di Moriameer, ignari del fatto di aver perso il capo della loro città, infuriava sempre più aspra nonostante entrambe le armate ormai avessero perso parte dei loro componenti.
 
«ARRAJ ADHART! AVANTI!» urlò il capo della città di Kahzameer, che stava combattendo duramente pur non essendo in prima linea «Possiamo respingerli! AVANTI!»
 
Anch’egli, esattamente come tutti gli altri capi delle città e non solo, aveva subodorato da tempo l’arrivo di una guerra. L’ultima era finita quando lui aveva otto anni e, per quanto allora fosse un bambino, aveva fatto in tempo a respirarne l’aria a pieni polmoni e a imparare a riconoscerne l’odore di morte ancor prima che sangue, cadaveri e deiezioni venissero sparsi nei campi di battaglia della valle.
 
Da un lato ne era quasi felice perché, come praticamente tutti, lui non era esente dall’avere voglia di massacri; dall’altro lato tuttavia lo era di meno, perché se non avesse dato il massimo -come tutti gli altri capi- avrebbe corso il rischio che Kahzameer cadesse in mano a un qualsiasi nemico o fosse distrutta dopo secoli e secoli in cui questo non era accaduto.
 
«UCCIDETELI! Neppure uno di loro deve tornare a casa!» gridò ai propri uomini, decapitando un soldato nemico.
 
Dolmer, questo era il nome del era Kahzameer a-ghekavary, sentiva su di sé una pressione violenta, schiacciante come mai avrebbe creduto di sentirne. Non perché non fosse abituato a dare il massimo, lui dava sempre il cento per cento qualunque cosa facesse, ma perché fino a un anno e mezzo prima non aveva mai creduto davvero alla possibilità che una città potesse essere rasa al suolo.
 
Poi però c’era stata la distruzione di Thandrumeer, un fatto che aveva cambiato le carte in tavola. Thandrumeer era stata fino ad allora la città leggermente più grande di tutte le altre, quella con le mura leggermente più spesse e con una montagna a proteggerne parzialmente i confini, la stessa montagna che aveva segnato la sua condanna.
 
Calida Ulthmeer a-ghekavary non si era limitata a far costruire armi migliori, aveva anche dimostrato di saperle usare con acume.
Prima della distruzione di Thandrumeer il suo nome era già ben conosciuto: Calida la Lusan gigantesca, Calida la Lusan che non soffriva il dolore, Calida K’ery Sùilean, Divoratrice Di Occhi; dopo Thandrumeer però non c’era Lusan nella valle che non conoscesse Calida a-Teinen Agaibh, ossia “Calida Delle Croci Infuocate”.
 
Tutte le città si detestavano tra loro, tutti i capi si detestavano uno con l’altro, però quella era una donna nubile, sanguinaria al punto di farsi ampiamente notare in una valle in cui lo erano un po’tutti quanti, che si era guadagnata una certa fama e che oltre a essere utile in battaglia avrebbe potuto generare figli grandi e grossi quanto lei; tutti motivi per cui lui, pur non trovandola bella, era stato svelto a farle pervenire una proposta di matrimonio. Non aveva contato particolarmente su una risposta affermativa -non era mai capitato che il capo di una città ne sposasse un altro, ci si sposava quasi sempre tra compaesani- però aveva tentato ugualmente e, da quel che sapeva, non era stato neppure il solo.
 
«MAHANUM!» ringhiò, dopo essersi lanciato su un nemico con un balzo. La lama della sua spada trapassò il cranio del soldato da parte a parte e altro sangue macchiò il pelo dorato con striature fulve di Dolmer, il quale comunque non ne fu infastidito.
 
Improvvisamente però il clamore della battaglia divenne tre volte più forte, troppo più forte: c’era qualcosa che non andava e quando si voltò capì che il “qualcosa” era un’armata di Ulthmeer che si era appena gettata in battaglia con la stessa forza e intensità di un fiume in piena -o di una valanga.
 
Urlò ai propri uomini dell’arrivo di altri nemici, così che i pochi che non si erano accorti potessero rendersi conto di quel che stava succedendo, per poi notare una cosa fondamentale: i soldati di Ulthmeer non stavano attaccando i suoi soldati, stavano colpendo solo e soltanto quelli della città di Moriameer… come se fossero giunti in loro aiuto.
 
“Questo però non è possibile. Le città si attaccano tutte tra loro, non si aiutano mai” pensò il Lusan, decisamente confuso.
 
Forse però non era il caso di farsi troppe domande, non in quel momento: era molto meglio sfruttare quella stranezza a suo vantaggio, sperando che l’armata di Ulthmeer si rivoltasse contro di loro solo quando fosse stata indebolita a sua volta.
 
Emise l’urlo, anzi, il ruggito di guerra più potente della propria vita, e con rinnovato vigore lui e i suoi uomini si scagliarono contro i Lusan di Moriameer, ancor più determinati a non risparmiare nessuno.
 
La battaglia andò avanti a ritmo serrato per quasi un’ora e quando ebbe termine -con la disfatta dei soldati di Moriameer- stava iniziando ad albeggiare.
 
Affiancato da alcuni uomini fidati e leggermente ferito, Dolmer osservò una scena che non avrebbe mai creduto di vedere in tutta la propria vita: Lusan di Kahzameer e di Ulthmeer intenti a uccidere i feriti di Moriameer lasciati sul campo di battaglia, senza cercare di ammazzarsi a vicenda.
 
«Strano spettacolo, collega. Non pensi?»
 
L’aveva pensata e ora Calida era lì, proprio davanti a lui, a sua volta affiancata da alcuni dei suoi uomini e con un sacco issato in spalla.
 
Non capendo che intenzioni avesse, Dolmer mise mano alla spada. «Perché tu e i tuoi soldati siete venuti in nostro aiuto? Non ne avevamo bisogno!»
 
«Lo so. La battaglia sarebbe finita con un numero più o meno pari di morti e con una ritirata da entrambe le parti, come accade di solito. Non dubito che tu saresti sopravvissuto alla battaglia, proprio come non dubito che Kahzameer, come tutte le altre città, sopravvivrebbe a questa ennesima guerra. La mia domanda però è: perché limitarci a sopravvivere da soli quando le nostre città insieme potrebbero vincere?»
 
Sentendo una cosa del genere il Lusan sgranò gli occhi dorati in un’espressione di assoluto stupore, per poi ritrovare contegno. «È uno scherzo, non può essere altrimenti. La mia città non ha bisogno della tua per restare in piedi».
 
«Esattamente come la mia non ha bisogno della tua, ma io per l’appunto ho parlato di vincere. Kahzameer è grande, ha risorse, uomini e armi; io dal canto mio ho risorse, uomini e cannoni migliori dei tuoi».
 
«Anche le altre città hanno risorse, uomini e armi, quindi perché dovrei allearmi con la tua?»
 
«Perché io sono Calida a-Teinen Agaibh» ribatté l’altra «E se l’intera valle conosce il mio nome c’è più di una buona ragione» aggiunse, indicando i resti di Thandrumeer in lontananza «Come ben sai. Se però non ti basta, dentro questo sacco c’è una crisi di governo per Moriameer!»
 
Dolmer si avvicinò con una leggera diffidenza al sacco che Calida gli aveva appena lanciato, per poi tastarlo delicatamente senza riuscire a capire cosa ci fosse dentro.
Quando però lo aprì e si trovò davanti la testa tagliata e bagnata di quello che era stato il Moriameer a-ghekavary, con suo sommo stupore capì cosa intendesse dire quella donna con “crisi di governo”.
 
«Ci sono anche moglie e figli. Sono dell’idea che sia un peccato separare le famiglie» disse Calida «Se ora ci uniamo e attacchiamo Moriameer in questo momento di instabilità politica sarà la prima di una serie di vittorie».
 
Il Lusan tirò fuori dal sacco la testa del collega, come a volerla esaminare meglio, o come a volerla mostrare a tutti i presenti. «Avrei dei motivi per accettare» disse «Però non ho garanzie che rispetterai l’accordo, Calida a-Teinen Agaibh».
 
«Né io al momento ho garanzie che lo farai tu» ribatté lei «Motivo per cui, dopo un’attenta riflessione durata un anno e mezzo, ho deciso di farti l’onore di accettare la proposta che mi facesti e di concederti la mia mano».
 
Recte e altri luogotenenti di Ulthmeer sapevano cosa aspettarsi, ma tra i Lusan di Kahzameer cadde un silenzio tombale.
Era stata una notte sorprendente ma l’alba lo era ancora di più.
 
«Se dici una cosa del genere alla presenza di testimoni fai sul serio» disse Dolmer, dopo un po’ «Però non comprendo…»
 
«C’è poco da comprendere: tu hai fatto una proposta e io l’ho accettata. Ci sposeremo domani».
 
«O stasera stessa» rilanciò il Kahzameer a-ghekavary. Era “entusiasta” quanto doveva esserlo lei, ma era meglio sbrigare la faccenda prima che la carte in tavola cambiassero ancora.
 
«Prima è, meglio è» annuì Calida «Mi aspetto dei doni degni del capo che sono e del capo che sei. Non tentare una qualsivoglia idiozia durante la cerimonia».
 
«I matrimoni sono sacri» ribatté Dolmer.
 
Era credenza popolare estremamente radicata che interrompere una cerimonia nuziale e/o farla finire nel sangue avrebbe portato sfortuna a coloro che commettevano tali azioni e alla loro discendenza, motivo per cui non erano mai stati registrati massacri durante un matrimonio. Alcuni pacifisti avrebbero pensato che i Lusan della valle avrebbero dovuto sposarsi ogni giorno.
 
«Bene. Ci incontreremo stasera all’albero sacro» concluse Calida.
 
«Non mancherò».
 
 

 
 
 
 
Voi probabilmente non ve lo aspettavate, ma vi comprendo, non me lo aspettavo nemmeno io. Io e Calida abbiamo un patto secondo cui lei può fare quello che vuole -purché nella sua follia abbia del senso- e i miei occhi restano al loro posto. In questo caso la proposta di matrimonio di cui si accenna nel capitolo 15 si è concretizzata :'D
Vi avviso che la settimana prossima potrebbe esserci una pausa nella pubblicazione e, per il resto, lascio a voi eventuali commenti e un disegno di Dolmer!


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