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Autore: ___MoonLight    23/04/2018    4 recensioni
«Tu sei riuscito a creare qualcosa di buono, non solo per te stesso. Qualcosa in cui credi.»
Tony gli riservò solo un ostinato silenzio, al che Bruce esitò.
«Ci credi ancora, vero?»
«Che importanza ha? Ho mandato tutto in fumo,» replicò piattamente lui.
«Sei già rinato dalle ceneri, Tony. Davvero non puoi farlo ancora?»

L'Afghanistan ha segnato Tony e gli ha donato l'opportunità di cambiare in meglio la sua vita. Ma il destino ha tutte le intenzioni di mettergli nuovamente i bastoni tra le ruote, e l'immagine corazzata che si è costruito e dietro la quale tenta di riparare i torti commessi e quelli subiti non è più abbastanza per proteggerlo. Cosa succede quando l'uomo diventa davvero di ferro, anche senza armatura?
[Storia completa e revisionata]
Genere: Commedia, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Pepper Potts, Tony Stark/Iron Man
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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34

 

  

Stay foolish







"I think I found my place
Can't you feel it growing stronger?
Little conquerors
Learning to walk again
I believe I've waited long enough
Where do I begin?"

[Walk – Foo Fighters]







24 Maggio, Villa Stark

«Non mi sembra una grande idea,» constatò ancora Tony, fissando dubbioso Nataša, al che lei alzò entrambe le sopracciglia.
«Ma come, non eri tu a dire sempre che a volte "bisogna correre prima di saper camminare"?» lo punzecchiò, facendogli poi cenno di muoversi.
«Era un'espressione metaforica. E mi sono ravveduto,» borbottò lui, ancora più riluttante a lasciare l'appoggio delle stampelle.
Nataša sospirò, presa in contropiede da quel suo atteggiamento stranamente cauto.
«Stark, fino a tre giorni fa scalpitavi per fare tutto subito, come sempre. Cosa ti ha fatto cambiare idea?»
Tony esitò, poi inclinò appena la testa di lato e una smorfia a metà tra il contrito e il perplesso gli attraversò il volto.
«I lividi?» tentò infine, poco convinto.
A quel punto Nataša si sedette di peso sulla panca, poggiò i gomiti sulle ginocchia a sorreggersi il mento e lo squadrò fissamente da capo a piedi. Era in attesa e Tony sapeva che non si sarebbe schiodata di lì finché non avesse fatto ciò che doveva. Nel caso specifico camminare, o almeno provarci.
Voltò la testa a sfuggire le sue iridi chiare e impassibili. Non era certo la prospettiva di qualche livido in più a frenarlo. A quelli si era abituato, così come al perenne dolore al petto, prima, e alle incessanti fitte ai moncherini, poi. A preoccuparlo era qualcosa di molto meno ovvio e si chiedeva con apprensione se la sua improvvisata fisioterapista, coi suoi anni di esperienza spionistica, riuscisse a intuirlo.
Finché aveva tentato quasi per gioco di stare in piedi o camminare da solo, ben conscio che fosse troppo presto per riuscirci, non aveva dato peso ai suoi fallimenti e aveva invece esaltato più del dovuto i suoi successi, per quanto minimi. Nataša si era sempre mostrata contraria a quelle bravate, insistendo che fossero controproducenti, ma voleva credere che anche lei fosse stupita dai suoi rapidi progressi. Lui stesso se ne meravigliava, quando fino a pochi mesi prima non riusciva a immaginarsi neanche di alzarsi da solo dal letto.
Adesso Nataša sembrava ritenerlo pronto per i primi tentativi "ufficiali". La cosa avrebbe dovuto entusiasmarlo. Al contrario, era paralizzato di fronte alla prospettiva di un fallimento stavolta ingiustificabile. Temeva di scoprire altri difetti in se stesso e nelle protesi, altre limitazioni alle quali non avrebbe saputo porre rimedio. Era quasi arrivato al capolinea: le protesi potevano ormai considerarsi complete. Doveva solo sostituire le vecchie articolazioni con le nuove, ma sapeva che anche quello non avrebbe migliorato in modo sostanziale il loro rendimento e le interferenze tra i reattori imperversavano, seppur in misura minore.
Intuiva con devastante chiarezza che non avrebbe mai raggiunto il controllo completo dei propri movimenti. Sentì un nodo alla gola nel dare forma definitiva a quel pensiero: non sarebbe mai riuscito a camminare così bene come aveva sempre  ottimisticamente prospettato. Con tutta probabilità sarebbe rimasto zoppo, e anche ammettendo che fosse un grande miglioramento rispetto al non avere affatto una gamba, non riusciva a capacitarsi di non poter fare di meglio.
Non voleva poi soffermarsi sui reali limiti del braccio, che finora aveva evitato di sperimentare appieno, ma la quantità di matite spezzate e oggetti rotti non faceva ben sperare. Così come il 15% di palladio nel suo corpo.
Aumentò la stretta sulle stampelle, sentendosi appesantito da quei pensieri e dalla fatica. A volte lo colpiva prepotente il desiderio di potersi risvegliare quel giorno di cinque mesi prima per poter compiere scelte completamente diverse da quelle che lo avevano portato in quella situazione, non solo per quanto riguardava le protesi. Lanciò un'occhiata sfuggente a Nataša chiedendosi se al suo posto avrebbe potuto esserci qualcun altro, potendo ricominciare.
Si decise a chiudere la porta su quei pensieri, prima che gli risucchiassero quel briciolo di volontà che riusciva ancora a raccimolare ogni mattina.
Lanciò un'occhiata alla palestra, come a verificare che non ci fossero altri spettatori, poi lasciò andare i suoi sostegni, facendoli cadere rumorosamente per terra. Mantenne l'equilibrio in modo abbastanza naturale: a quello si era ormai abituato, anche se non poteva ancora permettersi di perdere la concentrazione. Adesso doveva solo... muoversi. Sentì un velo di sudore freddo che gli imperlava la fronte, mentre si sforzava di trovare la percezione della propria gamba metallica. A quello non si era ancora abituato.
«Muovi prima la protesi,» gli arrivò la direttiva di Nataša, più un incoraggiamento che un vero e proprio consiglio.
Si era portata al suo fianco, così da poterlo sostenere in caso di bisogno. Si teneva comunque a una distanza ragionevole, rispettando quegli spazi ben delimitati dal suo orgoglio: sarebbe stato tutto molto più semplice se si fosse fatto guidare lei, ma c'era un limite alla sua tolleranza per l'aiuto altrui. L'estrema consapevolezza del suo corpo mutilato lo portava comunque a schivare attivamente ogni tipo di contatto fisico, anche se aveva finito per cedere un poco con Nataša.
Inspirò a fondo, tanto che sentì una leggera costrizione allo sterno, là dove il reattore compenetrava la gabbia toracica. Rilassò il petto alleviando la pressione.
Mosse cautamente il piede meccanico in avanti cercando di non pensarci troppo e riuscì a trascinarlo pesantemente sul pavimento. Vacillò appena per lo spostamento del baricentro e dovette allargare le braccia per non cadere. Nataša lo sostenne brevemente per una spalla e annuì piano a quel primo passo, ma era accigliata:
«Devi provare a sollevarla come faresti con l'altra. Stai dritto e abbassa le braccia.»
Lui si limitò a fare un cenno affermativo, troppo assorto per rispondere e sentendosi incapace di tenere a mente tutte quelle direttive. Si costrinse a rilassare le braccia lungo i fianchi per non sembrare un funambolo e trasferì lentamente il peso sulla protesi per tentare di muovere il passo successivo. Ci sarebbe stata una frazione di secondo in cui si sarebbe ritrovato in equilibrio su una gamba sola, prima di poggiare l'altra. Aveva simulato il movimento più e più volte, aveva fatto valanghe di esercizi per imparare a coordinare le due gambe, ma adesso gli sembrava di avere non una, ma due estremità inerti e insensibili ai suoi ordini.
"Salta prima di guardare," gli balenò in testa, e così fece, muovendo il passo con sicurezza.
La protesi cedette di schianto e si ritrovò carponi col volto a un soffio da terra; aveva avuto la prontezza di parare avanti almeno il braccio sano. Si prese qualche istante per assicurarsi di essere ancora tutto intero, ma a parte il palmo un po' arrossato e delle fitte più acute del normale ai moncherini non sembrava aver subito altri danni. Fortunatamente aveva avuto l'accortezza di rinforzare il rivestimento esterno delle protesi.
Accettò con riluttanza l'aiuto di Nataša e si rialzò sorreggendosi il meno possibile a lei, lasciandola non appena fu sicuro che il suo punto d'appoggio fosse stabile.
«Ok, quello era per scaldarmi,» buttò lì con disinvoltura, molleggiando lievemente sulle ginocchia per testare la tenuta delle articolazioni.
Il lampo accecante di dolore che seguì quel piccolo gesto fu tale che gli si appannò la vista e dovette simulare uno sbadiglio per mascherare l'espressione sofferente e le lacrime. Nataša inarcò un sopracciglio ma non commentò, probabilmente per non demolire la sua ritrovata buona volontà.
Tony ci riprovò, stavolta dosando con la massima attenzione i propri movimenti. Riuscì ad alzare appena il piede meccanico da terra e a riappoggiarlo senza sbilanciarsi; allargò di nuovo le braccia per mantenere l'equilibrio, sentendo un lieve fremito risalire lungo la sua gamba. Spostò avanti e indietro il suo peso, senza decidersi a fare leva sulla protesi per muovere il passo successivo. Si umettò le labbra secche, esitando ancora: in effetti non aveva così voglia di rimediarsi altri lividi, né di cadere ancora dando prova della propria incapacità.
"Cosa potrà mai succedere? Al massimo mi rompo l'altra gamba," s'incoraggiò infine tetramente.
Smise di guardare per terra e puntò lo sguardo su un punto indefinito di fronte a sé. Aveva ancora la percezione del suo appoggio; il pavimento era freddo sotto la pianta del piede nudo, e si convinse di poterlo sentire anche con quella artificiale. In qualche modo lo aiutò a focalizzare meglio la sua posizione. Per una frazione di secondo ebbe la percezione di se stesso avvolto nell'armatura, sollevato da terra dai propulsori. Tutto ciò era davvero tanto diverso rispetto ai suoi primi, goffi tentativi di volo? Sentì un pizzicore in fondo allo stomaco al pensiero e gli parve che qualcosa lo sospingesse in avanti con leggera fermezza.
Seguì l'impulso e mosse la seconda falcata, un po' bruscamente per paura di cadere di nuovo. Lo slancio fu troppo potente e fu costretto a compensare con un altro passo affrettato della protesi, che si abbatté rumorosamente a terra; si ritrovò a incespicare in avanti senza più riuscire a frenarsi. Inarcò la schiena all'indietro tentando di recuperare l'equilibrio e finì per atterrare a peso morto e ben poco dignitosamente sul sedere. Si tastò l'osso sacro dolorante, sforzandosi di non lasciarsi sfuggire neanche un lamento, concludendo che era meglio finire culo a terra in privato, piuttosto che in diretta come un paio di mesi prima.
Si lanciò un'occhiata circospetta alle spalle, dove Nataša lo osservava impassibile.
«Ehi, quelli valevano come cinque passi, no?» le chiese, con un ghigno tronfio.
Lei scosse la testa mentre si avvicinava, tradendo un accenno di sorriso.
«Più o meno,» si limitò a rispondere, offrendogli entrambe le mani e aiutandolo nuovamente ad alzarsi.
«Sto iniziando a capire,» affermò lui in tono saputo, piantandosi di nuovo saldamente sui suoi piedi come rinvigorito dalla caduta. «Dammi tre giorni e ti concedo quel match sul ring.» la sfidò poi con impertinenza.
Lei alzò gli occhi al cielo, ignorando le sue solite sbruffonate, ma sembrava lieta che avesse abbandonato la sua iniziale riottosità. In fin dei conti bastava poco per risollevargli l'umore e ancor meno per fomentare il suo ego.
«JARVIS, metti qualcosa che mi dia la carica; la playlist di volo della Mark III andrà bene,» esclamò Tony, attivando l'impianto stereo con un gesto della mano.
«Stark ti prego, non ricominciare con quella tua musica infernale o...»
«Casa mia, mie le regole!» la zittì con una linguaccia infantile, mentre la sua voce veniva coperta da un fragoroso accordo di chitarra elettrica.
Nataša si tappò le orecchie sensibili. Non vedeva l'ora che quell'incarico finisse, ma scosse la testa con fare divertito nel vedere Tony che cercava di camminare facendo finta di suonare una chitarra a mezz'aria.


***


26 Maggio, Villa Stark

«Stark, concentrati, ci sei riuscito fino a...»
«È il Doc che mi sta portando sfortuna!»
«È bello trovarla affabile come sempre, signor Stark.»
«No, davvero, non ero caduto fino ad ora! Non è una coincidenza!» 
Tony sbuffò, rifiutò l'aiuto di Nataša e si issò sulla sua solita panca, accaldato e guardando storto Ian; si attaccò alla borraccia di clorofilla senza staccargli l'occhio di dosso. La donna scambiò un'occhiata esasperata col medico, che alzò le spalle, ormai abituato alle esternazioni di "gratitudine" del suo paziente preferito.
«Se ne occupa lei per un po'? Ho davvero bisogno di una pausa,» sospirò la donna, sottintendendo un palese "altrimenti lo strozzo".
Era evidentemente sfiancata dopo aver passato gli ultimi tre giorni a tenere a bada un irrefrenabile e iperattivo Tony Stark che, tra una crisi di scoraggiamento e l'altra, sembrava voler compensare tutto l'ozio di quei mesi nel minor tempo possibile. Ian annuì comprensivo, osservando Nataša uscire a passo di carica. Era incredibile come quella donna, che dalle sue enigmatiche telefonate con Coulson aveva intuito essere parte dello SHIELD, non l'avesse ancora ucciso.
Il medico si avvicinò con falcate indolenti a Tony, che si stava premendo una borsa del ghiaccio sulla testa ammaccata scrutandolo ancora con espressione decisamente diffidente.
«Mi sembra che la sua riabilitazione stia andando bene,» commentò Ian, mettendosi le mani in tasca e attirandosi una nuova occhiataccia da parte sua.
«Fino a dieci minuti fa, ,» replicò acidamente Tony.
Ian si schiarì la gola con fare irritato:
«Quella non si chiama "sfortuna", ma "ansia da prestazione".»
A quelle parole Tony sollevò la testa di scatto, puntandogli contro l'indice:
«Io e un altro centinaio di persone possiamo confermarle che non soffro di nulla del genere e che...»
«Stark! Non era questo che intendevo!» lo interruppe Ian, diventando paonazzo e non volendo assolutamente sapere se quella fosse un'esagerazione o meno.
Tony ammutolì, rendendosi conto di aver reagito un po' troppo bruscamente e piuttosto a sproposito.
«Mi basta la Everhart a screditare la mia virilità in prima pagina. Non ci si metta anche lei, neanche per scherzo,» replicò infine piccato, e riprese a premere il ghiaccio contro il bernoccolo.
Ian mantenne un cauto silenzio, rendendosi conto di aver toccato involontariamente un nervo scoperto. Tony notò l'espressione impacciata del medico e si lasciò sfuggire un sospiro:
«Tranquillo, Doc, non me la prendo per così poco. Ho comunque tutte le mie altre "performance" a smentire le balle di Vanity Fair.» Terminò la frase con un sorrisetto sghembo che riportò al cielo gli occhi di Ian, e ripose la borsa del ghiaccio accanto a sé. «Comunque, l'ansia è fatta per essere superata,» continuò in tono esageratamente teatrale, cercando di alzarsi da solo ma rassegnandosi infine ad accettare l'aiuto di Ian, che gli porse discretamente una mano.
Il medico era già pronto a sostenerlo, ma Tony rimase saldamente in piedi, così si allontanò di un passo, aspettando incuriosito e con moderata aspettativa. Poco prima l'aveva visto muovere appena un paio di passi incerti prima che lui notasse la sua presenza e rovinasse a terra all'istante. Anche solo il fatto di reggersi sulle sue gambe era un risultato eccezionale, considerando le condizioni pietose in cui versava fino a un mese prima.
Per ora, Tony continuava a spostare nervoso il peso da una gamba all'altra, sentendosi troppo osservato. Fino a quel momento non si era minimamente posto il problema di come apparisse ad occhi esterni, ma adesso si sentiva come alla prima di uno spettacolo poco prima di salire sul palco. O almeno, pensò che così dovevano sentirsi gli attori o i musicisti: lui di panico da palcoscenico non se ne intendeva, visto che si comportava sempre come se fosse sotto i riflettori, con assoluta disinvoltura. Concluse solo che non era una sensazione piacevole, ma s'impegnò a tenerla sotto controllo.
Quella era l'occasione giusta per mostrare a Ian, sempre così scettico e negativo, che le protesi funzionavano e, soprattutto, che non doveva pentirsi di avergliele impiantate. Sapeva benissimo che il medico era afflitto da molte più preoccupazioni riguardo al suo operato di quanto lasciasse trasparire, e voleva cercare di alleviarne almeno una parte, visti anche i suoi recenti turbamenti sui quali continuava a mostrarsi estremamente riservato. Gli scoccò uno sguardo da sopra la spalla, con un sorriso furbo:
«Stia a guardare. Sta per assistere a qualcosa che non si vede tutti i giorni,» si vantò, suscitando un'espressione dubbiosa sul volto dell'altro.
Tony represse il nervosismo che gli stava facendo tremare la protesi e ripeté la sequenza che aveva ormai imparato a seguire ed applicare: fece un respiro profondo, trattenne l'aria e mosse il primo passo con la protesi, espirando. Barcollò appena. Fece lo stesso con l'altra gamba e poi ancora, e ancora, a ritmo col proprio respiro. Era un trucco così elementare che quando Nataša gliel'aveva suggerito era scoppiato a ridere, pensando che lo stesse prendendo in giro. Si era dovuto ricredere ben presto. Non faceva certo miracoli, ma almeno lo aiutava a cadenzare la camminata, anche se per ora, più che una camminata, era una marcetta ridicola e macchinosa. Ma riusciva a muoversi senza aiuto, e questo fatto da solo lo riempiva di una gioia che non provava da tempo. Era a malapena in grado di contenere l'entusiasmo per quei pochi, stentati passi che riusciva a mettere in fila.
Contò il settimo. Poco prima ne aveva fatti nove e si era messo in testa di fare sempre meglio della volta precedente, così ricacciò indietro il tremito dei suoi muscoli e si sforzò di non guardarsi i piedi, continuando ad avanzare e contare. All'undicesimo passo si fermò di scatto a corto di fiato, avvertendo un tremito cedevole nei muscoli; ridistribuì il peso su entrambe le gambe per non cadere di schianto e si prese qualche secondo per metabolizzare il suo successo. Sentiva il moncherino in fiamme, ma strinse i denti e si girò con cautela a guardare Ian che lo fissava con espressione quasi scioccata, nonostante cercasse di mantenersi compassato come sempre.
Tony lasciò trapelare appena la sua euforia, prima di sorreggersi con le mani sulle ginocchia per poi lasciarsi scivolare lentamente a terra, nel tentativo di riprendere fiato tra i denti serrati e di alleviare il peso sulla ferita. Si sedette di peso e piegò un paio di volte il ginocchio, ignorando le proteste della piaga e il cigolio della protesi. Si accorse del medico che gli si avvicinava e si accovacciava alla sua altezza, ma non alzò la testa per nascondergli la sua espressione ancora dolorante. A quel punto Ian ebbe qualche secondo di esitazione, per poi dargli una goffa pacca sulla spalla e stringerla appena, puntando però lo sguardo da tutt'altra parte.
Tony quasi sobbalzò, ma apprezzò il tentativo. Sapeva che il medico trovava difficile esternare ciò che pensava, soprattutto se era qualcosa di positivo: da parte sua quel gesto impacciato valeva più di mille parole. Si decise ad alzare il volto, con la tipica espressione sorniona stampata in faccia a coprire quella ancora provata dallo sforzo.
«Non è così difficile, dopotutto,» disse, in tono forzatamente leggero.
Dal lampo che passò sul volto di Ian era sicuro di dover ringraziare le sue condizioni di salute ancora incerte per non aver ricevuto un pugno in piena faccia. Strinse un poco la presa sulla sua spalla.
«E ci ha messo così tanto a capirlo?» lo rimproverò laconico, ma in tono pacato, scrutandolo da dietro le lenti.
Tony sentì la sua soddisfazione rimpicciolire di fronte a quelle parole accusatorie. Si scostò i capelli umidi dalla fronte e distolse lo sguardo, improvvisamente a disagio. Intuiva perfettamente ciò che intendeva Ian, anche se di solito cercava di non pensare a tutto ciò che era successo prima. E soprattutto al tempo perso. Preferiva concentrarsi sui successi dell'ultimo mese, su quei progressi incredibili che non avrebbe mai immaginato di poter compiere in così breve tempo, sia mentalmente che fisicamente. Ritrovarsi in piedi era stato un fulmine a ciel sereno, e mentre sapeva che era in gran parte merito suo, si rendeva conto di dovere moltissimo anche agli altri. A dirla tutta doveva loro la vita, che aveva un valore infinitamente più alto di qualche bravata con le protesi. La gratitudine non era una sentimento a lui familiare, ma si era ritrovato a provarlo sempre più spesso in quell'ultimo periodo, soprattutto verso l'unica persona che gli mancasse in quel momento.
«Sarò anche un genio, ma sono un po' lento in queste cose,» tentò di sdrammatizzare, per camuffare il suo turbamento.
Era fin troppo consapevole che avrebbe dovuto iniziare a mostrarsi riconoscente molto, molto prima, quando invece gli unici sentimenti che lo affliggevano erano fastidio, frustrazione e insofferenza verso chiunque cercasse di entrare nel guscio impenetrabile che si era impegnato a delimitare accuratamente, e che aveva infine tentato di distruggere insieme a se stesso. Aveva davvero molto da farsi perdonare, ma doveva pur cominciare da qualche parte.
Si accorse con stupore che un sorriso appena accennato aleggiava sul volto di Ian.
«Meglio tardi che mai.»

***


29 Maggio, Villa Stark, 08:20

Tony si svegliò particolarmente indolenzito e passò una buona mezz'ora a crogiolarsi nel letto senza trovare la voglia di alzarsi. Sentiva di meritare un po' di riposo dopo i successi dei giorni prima e per una volta non si sentiva incalzato dal senso d'urgenza che aveva permeato quelle ultime settimane, né dalla spossatezza rassegnata che lo trascinava spesso nell'apatia.
In quel caso aveva solo voglia di concedersi un po' di sano riposo: i suoi progressi superavano le aspettative e non sarebbero state un paio d'ore d'ozio a rallentarli. Si rifugiò di nuovo sotto le lenzuola appena lambite dalla luce dorata del sole, godendosi il tepore e la quiete del mattino mentre ondeggiava in un labile e piacevole dormiveglia.
Dopo poco, però, la sua naturale irrequietezza ebbe la meglio sulla pigrizia e si destò del tutto. Si sedette sulla sponda del letto e saggiò la stabilità della gamba, trovandola come sempre troppo dolorante per mettersi in piedi senza sostegni come aveva ingenuamente sperato. Si lasciò sfuggire un sospiro deluso, ma non lasciò che quell'inconveniente abbattesse il suo buonumore e afferrò le stampelle issandosi in piedi. La protesi anteriore cigolò spiacevolmente strappandogli una smorfia infastidita. Fece qualche passo di prova, concludendo che poteva poggiarla appena senza troppe conseguenze e si avviò in bagno, ansioso di abbandonarsi nella vasca per ridurre la pressione che sentiva sui moncherini, in attesa degli antidolorifici. Poi avrebbe potuto dedicarsi a qualche esercizio di "consolidamento delle articolazioni", come li aveva chiamati Nataša.
La donna aveva evidentemente esaurito la dose di buona volontà e pazienza nei suoi confronti e il giorno prima aveva stabilito che adesso era in grado di cavarsela da solo, ma gli aveva lasciato qualche compito a casa e aveva minacciato di scatenargli contro Rogers se avesse battuto la fiacca o, al contrario, se avesse fatto pazzie.
Lui si era limitato ad annuire e borbottare dei "sì" assenti ad ogni sua raccomandazione decisamente inutile: non aveva alcuna voglia di rompersi di nuovo le protesi per ricominciare tutto da zero, di nuovo. Nonostante ciò, l'aveva ringraziata con sincera riconoscenza e anche lei sembrava soddisfatta del lavoro che aveva svolto con lui, arrivando a congedarsi con un fiducioso "a presto", accompagnato da uno sguardo meno gelido del solito e coronato da un rapido, saldo abbraccio che l'aveva sorpreso. Tony si era limitato a sorridere di rimando e ricambiare in modo un po' impacciato: Nataša aveva fatto per lui molto più di quanto si sarebbe aspettato e probabilmente più di quanto le fosse stato ordinato. Sapere di essere forse riuscito a riconquistare almeno la sua fiducia, dopo quella di Clint, lo riempiva di ottimismo e alimentava la speranza che un giorno sarebbe stato di nuovo bene accetto tra i Vendicatori. Quel pensiero portò con sé una ventata di serenità, e si godette il bagno con un lieve sorriso ad aleggiargli sulle labbra.
Dopo essersi districato goffamente tra vasca, accappatoio e vestiti, riuscendo miracolosamente a non cadere, scese al piano terra, deciso a fare una colazione rapida e a non perdere altro tempo. Avrebbe speso la mattinata in laboratorio calibrando il braccio, visto che, da quando aveva finito di modificare i nervi, la sua eccessiva potenza gli era già costata tre bicchieri, un telefono e una stampella.
«JARVIS, proiettami un modello della protesi anteriore,» ordinò, mentre sorseggiava la sua prima razione di clorofilla al posto del caffè.
Premette distrattamente il dito sul rilevatore di tossicità: ancora 15%. Allargò il colletto della maglia per sbirciare il reattore e intravide il solito leggero reticolo di vene scure a circondarlo. Tutto nella norma.
L'ologramma era sospeso sul tavolo della cucina e lui prese a ruotarlo qua e là mentre cercava di stemperare il saporaccio del "succo d'erba" con un toast un po' bruciacchiato. Non era una combinazione vincente, concluse con una smorfia schifata, ingrandendo intanto la capsula del gomito. Avrebbe dovuto decidersi a realizzare le nuove articolazioni, ora che non aveva più scuse per rimandare la cosa...
«Di' ai robot di preparare un'altra partita di unobtanium. Me ne servirà un bel po', calcolane almeno tre o quattro di chili,» precisò, tracannando l'ultimo sorso dell'intruglio imbevibile.
«Subito. Robot operativi,» rispose il suo maggiordomo, stranamente laconico anche per essere un'entità incorporea.
Seguì un breve silenzio interrotto solo dal ticchettio distratto delle dita meccaniche di Tony sul tavolo, intento a ruminare sulla sua colazione e sugli schemi azzurrini.
«Oggi è il 29 maggio 2009,» annunciò inaspettatamente JARVIS. «Buon compleanno, signore.»
Tony rimase col toast a mezz'aria, preso alla sprovvista.
«Oh, giusto. Grazie, JARVIS,» riuscì a dire infine, riprendendosi dallo stupore e addentando il toast con ancor meno appetito.
Rimase pensieroso per qualche minuto, rimuginando sui suoi trentanove anni appena compiuti mentre finiva di mangiare. Doveva ammettere di aver perso completamente il conto dei giorni. Era consapevole che il suo compleanno si avvicinava, ma aveva volutamente ignorato la cosa, troppo preso dai suoi recenti successi per prenderlo come un evento davvero significativo – come se gliene fosse mai importato qualcosa, in effetti.
«C'è qualche messaggio per me?» chiese dopo un po', suo malgrado speranzoso.
Una schermata della sua posta elettronica fu proiettata sulla superficie lucida del tavolino. Tony prese a scorrere pigramente i messaggi, col mento sorretto dalla mano meccanica.
«Ha ricevuto un centinaio di e-mail di auguri dai soci delle Stark Industries e dai suoi ammiratori, oltre a quelli dei suoi affiliati e...»
«Intendevo messaggi
importanti. Da gente che conosco di persona e che non ho incontrato una sola volta in vita mia ubriaco a qualche festa o convegno,» lo interruppe lui, scurendosi in volto mentre selezionava con un gesto tutte le mail arrivate quel giorno.
Le estrasse virtualmente dalla loro finestra, le compresse in un agglomerato di pixel olografici e le gettò a mo' di palla da basket nell'icona del cestino 3D, che registrò il canestro con un jingle da sala giochi.
«Ha un SMS da parte del Colonnello Rhodes.»
«C'è ancora chi manda SMS? Anzi, esistono ancora?» commentò lui, nascondendo lo stupore e connettendosi a distanza col suo telefono, probabilmente sepolto sotto un mucchio di ciarpame in laboratorio.
L'SMS si rivelò essere un lapidario
"Auguri." che suonava più come un'intimidazione. Apprezzò lo sforzo di Rhodey, ma evitò di rispondere con un altrettanto minaccioso "Grazie."
«Tutto qua?» sbottò infine, senza nascondere la propria delusione.
«Signore, è innegabile che il suo recente comportamento non abbia ispirato sentimenti positivi verso di lei, nemmeno nel giorno del suo compleanno.»
«Spero che questa predica non sia il
tuo regalo,» sbuffò lui.
"Scommetto che se avessi organizzato una delle mie feste qui mi sarei ritrovato mezza Los Angeles alla porta, pronta a darsi alla pazza gioia," pensò infine con amarezza, senza riuscire a trovare la voglia di alzarsi da tavola.
Aveva sempre saputo che il suo enorme giro di conoscenze era formato in gran parte da ipocriti e opportunisti che lo frequentavano unicamente perché era Tony Stark: geniale, avvenente, ricco, e soprattutto generoso. Una combinazione che non poteva che attirare sciami di adulatori come mosche sul miele. Col tempo si era convinto di aver trovato delle persone che guardassero oltre i suoi completi firmati, ma una gli mandava frecciatine spacciate per auguri, l'altra l'aveva cacciata lui stesso dalla propria vita, e l'ultima si era rivelata una serpe e l'aveva ridotto in quello stato pietoso. Si accorse di aver contratto la mascella e si impose di rilassarsi, avvertendo un rancore bruciante che l'avrebbe probabilmente portato a rompere la prima cosa gli fosse capitata a tiro. Fece bruscamente leva su una stampella, allungandosi per afferrare l'altra, quando sentì il metallo cedere sotto la spinta eccessiva della protesi; si sostenne al tavolo con la mano libera e sollevò l'attrezzo, prendendo atto con sgomento della maniglia deformata e dell'asta completamente incurvata.
«Buon compleanno a me,» canticchiò avvilito, alzando l'occhio al cielo.
Mollò per terra di malagrazia quell'arnese ormai inservibile, sentendo la rabbia che scemava a poco a poco, a ritmo coi respiri profondi che si imponeva di fare. Non era il caso di mettere di nuovo a soqquadro la cucina. Si destreggiò attraverso la stanza con la stampella superstite e dopo qualche passo scoprì di non cavarsela così male come credeva: l'impedimento più grande era l'attuale dolore al moncherino, ma a parte ciò riusciva a spostarsi con relativa agilità.
Si trasferì zoppicando in bagno – era
decisamente l'ora dei suoi antidolorifici – usando la stampella a mo' di bastone da passeggio con il braccio sano per evitare di danneggiare anche quella. Non era una soluzione malvagia, concluse adocchiando lo strumento. Sicuramente adesso che controllava meglio la protesi poteva essere un miglioramento rispetto alla sua solita andatura a balzelloni, anche se così si spostava molto più lentamente. Finché non riprendeva a camminare in modo decente avrebbe potuto farci un pensierino. Fissò il suo riflesso accigliato, con una piega amara a solcargli le labbra: d'altra parte, dubitava che sarebbe mai più riuscito a camminare senza un qualche tipo di sostegno. Mandò giù con più sollievo del solito le sue pasticche.
Un quarto d'ora dopo era stravaccato indolentemente sul divano, di nuovo in pace con se stesso e con l'impianto stereo che faceva vibrare i vetri con gli spericolati riff dei
Van Halen. Ascoltava distratto, muovendo appena il piede meccanico a ritmo con la musica. La consapevolezza che fosse il suo compleanno allontanava la sua mente dal senso del dovere, indirizzandola verso una condizione di noia e fiacchezza. Avrebbe voluto festeggiarlo in qualche modo, ma non c'era davvero molto che potesse fare, a parte prendersi una pausa dal lavoro. Aveva constatato con fastidio che la piscina era vuota e inutilizzabile, non era dell'umore per guardare un film, non era esattamente un amante della lettura e stava già dando fondo alla sua collezione di vinili che non l'avrebbe tenuto impegnato a lungo.
Avrebbe potuto riprendere qualche lavoretto sulle sue macchine d'epoca. C'era ancora la Ford Flathead del '32 che non era mai riuscito a perfezionare come voleva... ma che gusto c'era a riparare auto se poi non poteva guidarle? Coi riflessi e la vista che si ritrovava il quel momento sarebbe precipitato dalla scogliera alla prima curva. E poi chi lo sentiva Fury...
Il suo sguardo si aggirò svogliato per il salotto, registrando con una punta di rammarico la piattaforma un tempo occupata dal pianoforte. Non che avrebbe mai potuto sperare di combinare nulla di che con una mano sola, ma sarebbe comunque stato un diversivo piacevole. Peccato che avesse avuto la brillante idea di schiantarcisi sopra con la Mark II, e poté quasi sentire i comprensibili rimproveri di sua madre.
Sprimacciò il cuscino sotto la testa, assorto. Era fin troppo conscio del fatto che il più bel regalo di compleanno sarebbe stato poter indossare l'armatura e volare anche solo per qualche minuto. Sentì il familiare senso d'incompletezza farsi strada in lui, ma lo soppresse con veemenza: almeno per quel giorno non voleva dare vita ai suoi pensieri negativi. Dovevano rimanere inerti: solo per quel giorno voleva vederli come semplici ombre in lontananza, incorporee e innocue.
Quindi... aveva già escluso tre quarti di ciò che amava fare. Ed erano appena le dieci del mattino. Sospirò annoiato.
Forse passare un po' di tempo in laboratorio non era un'idea così malsana. Avrebbe sempre potuto progettare qualcosa di assolutamente frivolo e inutile... per esempio un bastone da passeggio all'avanguardia che non l'avrebbe fatto sembrare un relitto appena uscito da una casa di riposo.
Si lasciò sfuggire un mugolio annoiato: sembrava che l'unico vero passatempo rimasto fosse la tv, che accese con un gesto svogliato della mano. Stava giusto scorrendo una cineteca virtuale, alla ricerca di qualcosa che non lo facesse addormentare dopo cinque minuti – evitando la fantascienza: basta rivolte delle macchine – quando adocchiò la console sotto l'enorme schermo piatto in salotto, rimasta a prendere polvere nel corso degli ultimi anni.
Si tirò la punta del pizzetto e scostò da parte l'ologramma, improvvisamente tentato.
Da quanto non faceva una partita?


***


29 Maggio, Helicarrier, 10:30

Pepper cancellò per l'ennesima volta il messaggio e mise nuovamente in tasca il cellulare, sapendo che probabilmente non avrebbe resistito a lungo prima di riprenderlo.
Si costrinse a riportare l'attenzione sulla riunione gestionale dello SHIELD, al confronto della quale il summit annuale delle Stark Industries sembrava l'evento più divertente di sempre. Soprattutto quando il proprietario si decideva a presenziare, trasformando il tutto in uno spettacolo di cabaret. Si accorse di sorridere al ricordo e la sua mano ripescò come di riflesso il cellulare, causandole un moto d'irritazione che dissolse il sorriso dal suo volto, riportandolo a una maschera corrucciata.
Si ritrovò a fissare la schermata del nuovo messaggio ancora intonsa, con la stanghetta di pixel neri che lampeggiava come incitandola impazientemente a scrivere.
L'unico campo compilato era quello del destinatario: "Tony Stark".
Accanto al nome c'era una miniatura della foto che lui le aveva praticamente imposto di assegnare al suo contatto: si distingueva Tony con degli occhiali da saldatore indossati al contrario e una smorfia comica sul volto, col laboratorio a soqquadro a fargli da sfondo. All'epoca aveva tentato in tutti i modi di cambiarla, ma lui doveva aver criptato chissà come il file per evitarlo: tipico di Tony. Fu colta da un misto di rabbia e nostalgia. Dalla foto si intravedeva già il puntino luminoso del reattore: notarlo le richiamò come sempre un leggero tremito nelle mani e una sensazione viscida e serpeggiante nello stomaco.
Sospirò e spense lo schermo, fingendo di interessarsi a ciò che stava blaterando Coulson, anche se dalla sua voce monocorde non interessava probabilmente neanche a lui. Dopo pochi minuti la disattenzione ebbe di nuovo la meglio su di lei.
In quel lasso di tempo trascorso allo SHIELD aveva avuto modo di pensare. E anche di non pensare. Aveva passato due lunghe settimane assorbita dal lavoro, serena e libera da preoccupazioni. Era stato come concedersi un sonno ristoratore, e, quando i pensieri che l'avevano angosciata avevano ricominciato a fare capolino, aveva avuto la certezza di poterli affrontare con mente fresca e razionale come era abituata a fare. Non sentiva più il bisogno di ignorarli, così aveva accostato la porta che aveva tenuto chiusa fino ad allora, lasciando trapelare tutto ciò che aveva deciso di accantonare momentaneamente.
Si era ritrovata a pensare sempre più spesso a Tony, soprattutto in termini negativi: il ricordo di ciò che aveva tentato di fare a stesso continuava a tormentarla. A volte ripensava a quegli attimi eterni di panico e terrore, al buco straziante che le aveva perforato il petto quando aveva veramente creduto che fosse morto davanti a lei. In quei momenti avrebbe solo voluto trovarselo davanti per potergli urlare in faccia quanto fosse stato un idiota e un ingrato e di quanto in quel momento l'avesse odiato con tutta se stessa. Anche adesso pensarci le provocava un miscuglio di sollievo nel saperlo viv,o e di cieca rabbia per averlo visto lasciarsi andare a quel modo.
Le capitava ancora di svegliarsi agitata nel bel mezzo della notte senza sapere perché, ma in cuor suo riusciva a intuire cosa avesse sognato e ciò non faceva che aumentare la sua frustrazione. A volte però scorreva nella sua testa anche tutto il resto: visioni fugaci di quei dieci anni in cui aveva imparato a conoscerlo più di chiunque altro, almeno così le era sembrato, arrivando a segnare tappe che andavano decisamente oltre al puro rapporto lavorativo per scivolare in un affetto sincero. Non provava alcun rancore per quegli anni, anzi, avrebbe voluto tornare a quei giorni prima dell'incidente, anche egoisticamente prima di Iron Man, nonostante sapesse quanto Tony tenesse a quella parte di sé e quanto lei stessa avesse preso a guardarlo con occhi diversi da quando aveva intrapreso quella strada tutt'altro che semplice. Nel costruire Iron Man e accettare tutto ciò che ne conseguiva, aveva dimostrato una purezza d'ideali che mai si sarebbe aspettata da una persona in apparenza superficiale e materialista, costantemente barricata dietro sorrisi falsi, occhiali scuri e completi costosi.
Ricordava chiaramente la loro discussione al riguardo e fino a quel momento non lo aveva mai visto parlare in modo così serio e con così tanto trasporto di qualcosa. Le sembrava che avesse iniziato a vivere veramente solo nel momento in cui aveva indossato l'armatura, dandosi un obiettivo concreto.
Poteva davvero biasimarlo fino in fondo per la reazione che aveva avuto dopo l'incidente, quando aveva creduto di aver perso tutto ciò per sempre? Quel pensiero empatico verso di lui fu offuscato dalla rabbia che riemerse nel rammentarsi seccamente che, nonostante il percorso di redenzione che si era imposto, aveva tentato di porre fine alla sua vita, e quello non avrebbe mai potuto giustificarlo.
Pepper chiuse per un breve istante gli occhi, riprendendo il controllo sui suoi pensieri così atipicamente irresoluti.
Di una sola cosa era certa: prima o poi uno di loro si sarebbe inevitabilmente trovato a fare un passo verso l'altro. Una parte di lei esigeva che fosse lui. Le sembrava semplicemente naturale, visto come erano andati i fatti. Era estremamente raro e inusuale che Tony chiedesse scusa a qualcuno, ma era riuscito a farlo in un paio d'occasioni, di cui una fin troppo recente e dolorosa. Sarebbe stato ragionevole aspettarselo anche in questo frangente, ma aveva la netta impressione che non sarebbe andata così, per il semplice motivo che, se era raro che Tony ammettesse di aver sbagliato, era ancora più inaudito che provasse vergogna. E aveva la certezza che si vergognasse profondamente del suo comportamento: l'aveva percepito durante la loro ultima discussione, quando lui aveva avuto a malapena il coraggio di guardarla negli occhi dopo averle fatto male. Si toccò inconsciamente il braccio, che non recava ormai alcuna traccia di quel gesto avventato ma, ne era cosciente, involontario. Tony poteva essere insopportabilmente arrogante, indisponente ed egoista, ma non si era mai permesso di sfiorarla neanche con un dito, figurarsi ferirla di proposito. E soprattutto, pur di proteggerla aveva messo a rischio la sua stessa vita, finendo per perderne proprio la parte più importante. Ma quello era un pensiero che le causava un gorgoglio acido nello stomaco e troppi dardi roventi nel cervello.
Comunque fosse, non era sicura che Tony fosse in grado di superare quel muro di senso di colpa di propria iniziativa, e per questo era consapevole che, forse, il primo gesto doveva venire proprio da lei. Ciò la indispettiva: le sembrava un'ammissione di resa, un messaggio secondo il quale tutto poteva essergli perdonato. E lei non aveva alcuna intenzione di farlo, né adesso, né mai. Forse un giorno avrebbe potuto accettare la cosa con occhi diversi e leniti dal tempo, ma non sarebbe mai stata in grado di dimenticare quella parte rabbiosa e ostile di lui che era emersa così prepotentemente, impossibile da contenere e dannosa per se stesso e gli altri. Non era un qualcosa che si potesse semplicemente aggiustare: sarebbe sempre rimasta una crepa a segnare quella rottura.
Quella consapevolezza la addolorava, ma sapeva che era inevitabile, se mai fossero davvero riusciti a radunare i cocci per porre rimedio a quel disastro. Per il momento si era imposta di non tentare nulla di avventato che potesse risultare fraintendibile o di cui si sarebbe potuta pentire.
Poi, una settimana prima, aveva ricevuto la sua mail. Non era riuscita a forzarsi ad aprirla subito, ma dopo poco aveva capito che non era stata recapitata solo a lei, ma a tutto lo SHIELD, sollevando un lieve scompiglio tra il personale in un misto di incredulità, scetticismo e pettegolezzi. Pepper si era quindi decisa ad aprirla, trovando una semplice riga di testo – "per una volta cammino prima di correre" – con una foto in allegato. Nel vederla aveva capito lo scalpore che aveva suscitato: si vedeva Tony in piedi e senza sostegni, con le mani a formare due "V" di vittoria e il solito sorriso irriverente e compiaciuto di sé a illuminargli il volto.
Pepper sospettava che Fury avesse volontariamente lasciato correre la cosa. In fondo, sotto quella scorza d'acciaio, sapeva avere dei momenti di umanità inaspettata, e nonostante la breve, estremamente seccata comunicazione via intercom che invitava gli agenti a ignorare l' "esibizionismo da diva di Stark", era propensa a credere che la notizia dei rapidi progressi di uno dei suoi collaboratori lo rallegrasse e rassicurasse allo stesso tempo.
Soprattutto, dopo l'innaturale riservatezza di Tony, che aveva incredibilmente tenuto un basso profilo anche al processo e aveva addirittura accettato di intraprendere la riabilitazione facendosi seguire da Nataša senza prenderla come un'umiliazione, Pepper era abbastanza convinta che quello si potesse considerare ben più di un passo avanti. Anche dai brevi scambi che aveva avuto con l'agente Romanov, con la quale in realtà si era lasciata sfuggire più di quanto volesse, le era sembrato che tutti avessero un'opinione più positiva di lui, anche gli stessi Vendicatori. Persino Coulson aveva mitigato le sue considerazioni pungenti, forse anche vedendola più serena.
La realizzazione l'aveva raggiunta con qualche giorno di ritardo: Tony si stava rialzando. Stavolta per davvero e senza paura di mostrarsi a tutti così com'era. 
E adesso lei non riusciva neanche a spedirgli un messaggio di auguri. Aveva passato gli ultimi tre giorni a chiedersi se fosse il caso di farsi viva in modo così improvviso.
Il compleanno di Tony era sempre stato un momento molto delicato dell'anno, immancabilmente onorato da un party grandioso e monumentale alla Villa o in qualche locale di lusso; Tony, col suo carisma e la sua dissolutezza, non aveva mai avuto problemi ad essere l'anima della festa e l'anfitrione più desiderato da tutti. Ma questo era come voleva apparire agli occhi degli invitati, spesso degli sconosciuti che non avrebbe più rivisto in vita sua.
Solo lei aveva avuto il raro e dubbio privilegio di vederlo subito prima della sua festa, e quell'immagine strideva nettamente con quella che lui voleva far trasparire. Era il ritratto di un uomo solo e taciturno, perso tra macchinari e ologrammi digitali, con una tuta da lavoro addosso e olio per motori sulle mani, sprofondato nel cofano di qualche auto d'epoca. Era difficile credere che nel giro di qualche ora avrebbe indossato il suo smoking migliore, sfoggiando un sorriso smagliante e irriverente per tuffarsi tra fiumi di invitati, alcool e fuochi d'artificio.
In quel giorno Pepper non l'aveva mai visto ricevere visite da nessuno, se non Rhodey quando capitava che non fosse in servizio o Stane quando se ne ricordava. Nessun parente, nessun amico. Solo l'occasionale giornalista che sperava in un'esclusiva e che veniva ricacciato indietro senza tanti convenevoli, o al massimo qualche magnate o amministratore delegato che sperava di fare buona impressione presentandosi a sorpresa con un regalo molto costoso. Tony aveva per loro solo sorrisetti di circostanza e una generale freddezza che gli era altrimenti estranea; persino il suo lato da dongiovanni si attenuava e rifiutava inviti e visite di donne a cui normalmente non avrebbe saputo dire di no, almeno fino alla festa.
Con lei si poneva invece nel solito modo di fare giocoso e impertinente e, anzi, la cercava più spesso del solito. Pepper aveva finito per convincersi che fosse felice di essere in sua compagnia in un giorno che avrebbe altrimenti passato in completa solitudine. Era sicura che, anche se non lo avrebbe mai ammesso, rimanere solo in quel giorno lo facesse soffrire.
Probabilmente anche in quel momento stava lavorando senza sosta per non pensarci.


***


29 Maggio, Villa Stark

«DEVI COSTRUIRE ALTRI PILONI.»
«Lo so, chiudi il becco!» sbottò Tony.
Diede una schicchera allo schermo virtuale dei comandi che galleggiava di fronte a lui per scacciare il box della notifica e piazzò in campo l'ennesimo pilone azzurrognolo con un gesto esasperato.
«Signore, se posso permettermi, trovo l'intelligenza artificiale di questo software oltremodo...»
«Muto. Non ti ci mettere anche tu, JARVIS, è un momento delicato,» lo zittì, riportando lo sguardo allo schermo principale, preoccupato dalle navicelle nemiche che si avvicinavano pericolosamente alla sua base.
Ora ricordava perché non giocava spesso ai videogiochi: diventava fin troppo competitivo e finiva per perdere la pazienza o, come in questo caso, era terribilmente tentato dall'inserire nel programma qualche stringa di codice in più che gli garantisse dei "vantaggi strategici" non del tutto leciti. All'ennesimo squadrone d'attacco che venne sbaragliato senza troppi problemi dall'avversario si decise a chiudere con stizza la schermata prima di veder comparire il fatidico game over.
Il silenzio tornò nel salotto e lui reclinò la testa sullo schienale del divano, sbuffando: era ancora mezzogiorno. Non ricordava che oziare fosse così impegnativo. E neanche di essere così arrugginito coi giochi di strategia... scoccò un'occhiataccia alla console e trattenne la tentazione di riaccenderla per una rivincita.
Una ventina di minuti passati a fissare il vuoto gli fecero capire che neanche quello non era un modo costruttivo per impiegare il suo tempo, così si decise ad alzarsi per scendere in laboratorio, dare un senso alla giornata e finirla là con quella storia del suo compleanno. Si sentiva frustrato. Almeno negli anni passati aveva avuto la prospettiva di una festa notturna durante la quale avrebbe potuto darsi alla pazza gioia per compensare l'apatia che si autoimponeva nel corso della giornata. Stavolta non c'era neanche Pepper a rendergli più piacevole quel giorno odioso in cui diventava improvvisamente consapevole di quanto fosse solo.
Mentre attraversava lentamente la stanza, posò involontariamente lo sguardo sulla porta dello studiolo chiuso a chiave e voltò subito la testa di scatto, forzandosi a fissare invece la vetrata. Deciso a distrarsi, si puntellò sulla stampella per fermarsi a guardare l'oceano, scintillante sotto il sole a picco. 
La sua espressione si fece nostalgica. Una nuotata non gli sarebbe dispiaciuta, anche se dopo le strane allucinazioni che aveva avuto in fin di vita non era sicuro di riuscire affrontare la cosa con serenità. Guardò con amarezza le sue protesi: in effetti il problema non si poneva, nelle sue condizioni.
"Già, le mie condizioni..."
Si stropicciò l'occhio e tastò con cautela lo sfregio che ultimamente aveva preso a irritarlo più del solito, continuando a esitare sul posto e a rimuginare su quei pensieri deleteri. Si decise infine ad aprire la porta-finestra e a uscire in terrazzo. 
Si sporse dalla balaustra a picco sull'oceano, scrutando l'orizzonte accecante. Era una giornata calda, ma una brezza marina tesa e frizzante gli solleticava la pelle, rinfrescandolo. Aspirò a pieni polmoni l'aria densa di salsedine; il vento portava con sé delle minusole goccioline d'acqua e ben presto percepì il sapore del sale sulle labbra. Sentì il metallo delle protesi scaldarsi rapidamente al sole e gli venne da sorridere, senza sapere bene perché.
Guardò in basso, verso le onde di un blu profondo che si schiantavano contro la ripida parete della scogliera, e avvertì un'improvvisa ma piacevole stretta di vertigine allo stomaco, simile a quella che provava nel decollare con l'armatura. Si trovò a seguire con una punta di malinconia il volo dei gabbiani, che per il puro gusto di farlo si gettavano in picchiata verso la spuma lanciando alte strida, per poi risalire con elegante rapidità sulle ali delle correnti d'aria.
Era una cosa che aveva amato fare anche lui, fino a non troppo tempo prima. Distolse a fatica l'attenzione da quelle acrobazie aeree e seguì la linea degli scogli aguzzi che sporgevano a pelo d'acqua, con le onde che vi si abbattevano in forme sempre diverse. Inconsapevolmente si trovò a calcolarne la traiettoria, cercando di indovinare dove e in che modo si sarebbero infrante contro la roccia rossastra; nel rendersene conto gli venne da rimproverare quella sua parte fin troppo scientifica e razionale che s'intrometteva in un momento così spensierato.
Il suo sguardo si soffermò sulla piccola insenatura sabbiosa incastonata nel fianco della scogliera, che poi si allargava fino a diventare la sterminata spiaggia dorata che si stendeva fino a Santa Monica. Seguì con gli occhi la stradina lastricata e abbastanza agevole che si dipanava direttamente dal suo giardino fino alla caletta, una cinquantina di metri più sotto in linea d'aria, poco più di duecento a piedi. 
Picchiettò sul reattore e poi prese a lisciarsi il pizzetto, meditabondo e improvvisamente ispirato. Forse, in effetti, avrebbe potuto farsi un regalo di compleanno...
Guardò di sottecchi la stampella, dubbioso: con quella non sarebbe arrivato lontano. Si staccò dalla balaustra e la soppesò con aria assorta, sorridendo tra sé.
«È ora di un upgrade, bellezza.»


***


Per l'ennesima volta, Tony esaminò con aria critica l'attrezzo che aveva appena realizzato, reputandolo definitivamente un'idea molto sciocca.
Aveva davanti quello che a prima vista sembrava un banale tubo d'acciaio, che però terminava da una parte in un grossolano pomello. Forse era davvero un po' troppo rozzo, ma doveva essere qualcosa di provvisorio e funzionale, non un'opera d'arte. A quello magari avrebbe provveduto dopo.
Gli diede una schicchera con la mano meccanica e quello produsse un tintinnio acuto che gli infastidì i timpani. Si risolse a smetterla di temporeggiare e sollevò il bastone da passeggio, impugnandolo goffamente con la sinistra e soppesandolo. Era più pesante di quanto volesse, ma per un qualcosa arrangiato sul momento andava più che bene. Lo puntò per terra facendo leva per alzarsi, incontrando qualche difficoltà. Riuscì nell'impresa di non cadere a faccia avanti al primo tentativo e scaricò tutto il peso sul bastone, costringendosi a mantenere l'equilibrio e cercando di abituarsi a quel nuovo supporto, meno ingombrante delle stampelle, ma anche più complesso da maneggiare.
Forse aveva bisogno di fare un po' di pratica, prima di rompersi l'osso del collo con le sue passeggiatine fuori programma.
Provò a muovere un passo ancora rigido e insicuro, accompagnando la falcata col bastone e usandolo come appoggio insieme alla protesi, per poi usufruire del supporto aggiuntivo per muovere quello seguente. Quel movimento gli era del tutto estraneo e si mosse in modo goffo, scoordinato, ma era sicuramente meglio che avere entrambe le mani occupate dalle stampelle; inoltre sarebbe almeno stato costretto a usare davvero le gambe invece di relegare tutto lo sforzo sulle braccia. Ultimamente lo snodo della spalla gli stava facendo vedere le stelle ed era un sollievo poter riposare il braccio meccanico.
La gamba non ne voleva sapere di muoversi come avrebbe dovuto: percepiva ancora chiaramente dei fugaci punti morti nel segnale, causati da quelle maledette interferenze.
Riuscì ad arrivare all'angolo-cucina all'altro capo del laboratorio affaticato ma integro, senza troppe ripercussioni sul moncherino comunque dolorante. Quello che lo estenuava era lo sforzo mentale, il dover pensare costantemente ad ogni minima flessione e contrazione delle sue gambe per non rovinare faccia a terra. Sapeva che prima o poi sarebbe diventato un automatismo, ma per ora stava rivivendo in modo cosciente quello che un infante provava nell'imparare a camminare – scivoloni, capitomboli e bernoccoli inclusi.
Sospirò. Si era abituato alla vita con un reattore, prima, e a volare con un'armatura, poi. Sarebbe riuscito a controllare anche le protesi.
Sorseggiò di malavoglia un bibitone di clorofilla, più per dovere che per sete, poi si staccò dalla credenza e tentò qualche altro passo claudicante. La sua idea sembrava funzionare. Magari avrebbe dovuto perfezionare un po' quel suo nuovo accessorio un po' stravagante, per lo meno da punto di vista estetico: dopotutto gli era sempre piaciuto fare le cose con stile.
Anche se in quel caso...
«JARVIS, quanto sono ridicolo da uno a dieci?» sospirò, fermandosi per sostenersi al banco di lavoro.
«Signore, i bastoni da passeggio sono un'utilità ben nota anche ai nostri tempi, sebbene assai antiquati. Solitamente si preferiscono bastoni ortopedici più moderni, ma...»
«Riesci sempre ad avere una parola d'incoraggiamento per me, cervellone, unita alla capacità di demolirmi l'autostima,» lo troncò con uno sbuffo.
A volte si pentiva di aver programmato un computer così sagace.
"Io sarei 'antiquato'?" pensò poi infastidito, coprendo i pochi passi che lo separavano dalla sua sedia e venendo accompagnato dal battito metallico del bastone.
Si sedette, osservando attentamente e con più convinzione il suo nuovo amichetto pseudo-tecnologico. Sarà anche apparso ridicolo e anacronistico, ma lo preferiva a una di quelle diavolerie a tre piedi che aveva adocchiato in rete o, ancora peggio, a un deambulatore. Certo, adesso gli sarebbe bastato piazzarsi un cilindro in testa e inforcare un monocolo per sembrare uscito da un romanzo Vittoriano. Era sicuro che gli avrebbero donato, soprattutto il monocolo, magari sull'occhio sbagliato. Si stropicciò di riflesso lo sfregio sul volto, suo malgrado ironicamente divertito all'idea. Anche i Vendicatori si sarebbero fatti grasse risate nel vederlo...
Si piazzò il bastone sulle spalle, appoggiandovi i polsi con fare indolente, e si concesse un attimo di respiro prima di riscuotersi: era ora della prova sul campo.


***


29 Maggio, Malibu Beach, 18:20

Tony maledisse se stesso, le sue idee, la sua testardaggine, il suo orgoglio e il suo corpo, il tutto più o meno simultaneamente mentre arrancava lungo la stradina che si era rivelata non essere poi così agevole come ricordava. Incespicò sui suoi stessi piedi e frenò la caduta col bastone, fermandosi a prendere fiato.
Si guardò intorno per l'ennesima volta, stentando a credere a ciò che stava facendo. Da mesi non usciva di casa se non in terrazzo o per qualche spiacevole processo. Non si era accorto quanto gli fosse mancata l'aria aperta e adesso se ne stava inebriando ad ogni passo. Nonostante continuasse borbottare imprecazioni a mezza voce e a convincersi che fosse un po' troppo presto per andarsene a zonzo da solo, si sentiva più forte e saldo sulle gambe doloranti, anche se si rendeva conto che forse stava forzando un po' troppo i suoi limiti, incluso quello della sua tolleranza agli antidolorifici.
"Nataša mi ammazza... poi Ian mi salva e mi ammazza di nuovo," riuscì a pensare con uno sbuffo affaticato.
Mancavano poche decine di passi che percorse quasi trascinandosi: la fatica e il pulsare bruciante del moncherino gli annebbiavano i pensieri e non riusciva più a controllare i movimenti della gamba, tornata ad essere un pezzo di ferro pressoché inerte. Arrivò ad avanzare sulla sabbia morbida, ondeggiando con difficoltà crescente. Si adagiò infine il più delicatamente possibile sul bagnasciuga e si tolse le scarpe, tirando un profondo sospiro di sollievo e soddisfazione nel sentire le onde che gli lambivano i piedi.
Quella scena gli era familiare.
Era simile al sogno, o forse era stata più un'illusione voluta e agognata dalla sua mente esausta in un momento che era riluttante a richiamare. Il ricordo trapelò appena oltre il filtro che si era imposto per quel giorno e capì di non poterlo trattenere. Percepì un senso di vuoto nel petto, come se si fosse di nuovo tolto il reattore, e fu di nuovo conscio dei minuscoli barbigli metallici incastonati a pochi centimetri dal suo cuore. Respirò a fondo per calmarsi, puntando lo sguardo sul mare che tremolava placidamente dinanzi a lui.
Non voleva ripensare al suo suicidio. Gli interessava quel che era venuto subito dopo: quello stesso mare, la spiaggia, la sensazione di felicità incontenibile nel riavere la sua vecchia vita. Per degli istanti infiniti si era sentito felice e completo.
Adesso non sentiva la sabbia sotto le proprie dita, non poteva nuotare, non aveva l'agilità che ricordava di aver avuto in sogno, aveva ancora le protesi, non c'era nessuno ad aspettarlo sulla spiaggia. Ma era lì e ci era arrivato da solo. Portò una mano al petto, al suo fidato reattore: nel sogno non aveva avuto neanche quello. Voleva dire che nella sua mente non era mai stato rapito, non aveva mai avuto dei frammenti di bomba nel petto, non aveva mai conosciuto Yinsen. Non era mai diventato Iron Man.
Forse non era stato un sogno così bello, concluse con amarezza, e anche una punta d'orgoglio nel constatare quanta strada avesse percorso da quel giorno di due mesi prima. Ormai aveva accettato da tempo il reattore come una parte di sé. Avrebbe quasi potuto affezionarvisi se non fosse stato per l'intossicazione, ma anche quella era inclusa nel prezzo del cambiamento e di ciò che aveva deciso di poter sopportare per essere migliore dell'uomo indifferente e vile che aveva abbandonato nel deserto afghano. Magari un giorno sarebbe riuscito ad accettare anche le protesi non come dei semplici aiuti e supporti, ma come parte integrante di se stesso. Potevano diventare qualcosa di più di due pezzi di ferro semoventi, avere una storia da raccontare che andasse oltre il dolore e la frustrazione. Potevano diventare dei simboli di vittoria, come lo era diventato il reattore.
Si sdraiò sulla sabbia e sollevò il braccio meccanico verso il cielo terso, come a prendere le misure, a voler controllare quanto ancora fosse lontano da quella meta. Lo lasciò ricadere lentamente, sentendosi più vicino che mai.
Tornò a sedersi e a guardare l'oceano, stanco ma soddisfatto, finché il cielo non iniziò ad assumere una tinta calda man mano che il sole si avvicinava all'orizzonte. Si godette il tramonto sul mare, finché il globo rossastro non lanciò un ultimo raggio morente, lasciando posto al crepuscolo e a un'improvvisa brezza che lo fece rabbrividire nei suoi vestiti leggeri.
Si riscosse e scoccò un'occhiata preoccupata alla stradina che aveva percorso, rendendosi conto di quanto in effetti fosse ripida, vista da laggiù. Il moncherino inferiore pulsava in modo sordo e costante, scoraggiandolo dal provare ad alzarsi. 
Si arruffò i capelli pieni di sabbia, accigliandosi.
"Sì, è tutto molto bello e poetico... ma adesso come ci torno a casa?"


***


29 Maggio, Villa Stark, 19:45

«Grazie per il salvataggio.»
«Come sempre, capo.»
Happy lo osservò dal finestrino mentre lui chiudeva la portiera.
«È tutto, signor Stark?»
Tony ebbe un leggero sussulto a quelle parole familiari, ma si ricompose in fretta:
«Sì, Happy. Spero di aver bisogno più spesso di passaggi,» aggiunse con un mezzo sorriso.
Happy ricambiò, poi rimise in moto l'auto con un cenno di saluto e svanì ben presto alla vista. Gli avrebbe davvero dovuto dare un aumento... non si era aspettato che rispondesse con tanta prontezza alla sua chiamata fuori programma, invece si era dimostrato quasi entusiasta ed era stato stranamente loquace durante il brevissimo tragitto in macchina.
Non appena rientrò in casa, tutta la stanchezza accumulata gli si rovesciò addosso lasciandolo stordito nell'atrio e per un attimo fu sicuro di svenire. Si mosse come un sonnambulo per raggiungere il divano, dove collassò stremato. La gamba meccanica reagiva a malapena ai suoi comandi e anche il braccio era diventato difficile da controllare. Si sentiva come al rientro da una missione, se non peggio, ma allo stesso tempo lo riempiva un senso di spossata completezza che non provava da mesi. Si abbandonò mollemente sui cuscini e abbassò le luci con un gesto stanco della mano, soffocando uno sbadiglio. 
Un sorriso si delineò sul suo volto nel realizzare di aver appena festeggiato il suo compleanno nel modo migliore che poteva. Il pensiero fece appena in tempo a prendere forma nella sua mente che si addormentò di colpo, facendolo decollare in sogni di voli, acrobazie e vertigini sempre più vividi.


***


29 Maggio, Helicarrier, 19:50

Pepper lasciò squillare a vuoto il telefono per quasi un minuto, prima di riattaccare a metà tra il deluso e il sollevato. Rimase a fissare lo schermo, non sapendo come interpretare quel silenzio imprevisto. Si convinse a non dargli troppo peso: dopotutto Tony era famoso per rifiutare e ignorare telefonate prima ancora di sapere chi lo stesse chiamando. Sospirò, rendendosi conto che la delusione superava di gran lunga il sollievo.
Alzò appena gli occhi e notò Coulson che la osservava di sbieco seduto alla postazione di fianco alla sua. Lei si affrettò a riporre il telefono, tornando alle sue pratiche come se nulla fosse e ignorando l'espressione incuriosita del collega.
«C'è qualche novità?» butto lì Phil con nonchalance.
«Nessuna,» ribatté secca lei, arrossendo fino alla radice dei capelli.




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Note Dell'Autrice:

Prima di tutto: la mia ansia per Infinity War è tale che sto aggiornando in anticipo per paura di un infarto prematuro. Almeno vado al cinema serena di aver pubblicato :'D
Dunque, questo capitolo è interminabile. Mi rendo conto che potrebbe essere indigeribile, ma siete avvertiti: la lunghezza standard rimarrà più o meno questa. Ho optato per spezzettare i capitoli dall'interno e farli più lunghi, piuttosto che spezzare la storia in capitoli più brevi. Spero che non si riveli una scelta troppo pesante, ma a questo punto ritengo importante che ogni capitolo faccia progradire la trama il più possibile per non trascinare la storia.

Finalmente mi sono decisa a far "tornare" Pepper, anche se solo a distanza e con molta confusione in testa. Negli ultimi capitoli Tony è stato relativamente poco riflessivo per i suoi standard e mi sembrava giusto lasciare spazio a lei.
Volevo anche che per contrasto Tony sfoggiasse più sicurezza e intraprendenza, invece di lasciarsi in balia degli eventi come al solito.
Ah, d'ora in poi, salvo diversa indicazione, quando Tony "cammina" lo fa sempre con l'ausilio del bastone da passeggio. Mi rendo conto che può sembrare un'aggiunta fuori luogo, ma non ambisco a far tornare Tony "perfetto", almeno per ora, e volevo che iniziasse a confrontarsi anche con la parte puramente "estetica" della sua condizione, a partire dal rimanere zoppo.

Per il resto credo e spero che il resto del capitolo parli da sé :)
Tony, ve lo assicuro, ha ancora tanta strada da fare, ma siamo nella curva positiva di questa seconda parte, quindi godetevela finché dura :D

Ringrazio come sempre
_Atlas_ che recensisce puntualmente questa storia e mi riempie di gioia nel sapere che ancora la segue. Grazie anche per averla citata nelle note della tua one-shot Undisclosed Desires (che è bellissima come tutto ciò che scrivi <3), mi hai resa un sacco felice :D
E grazie a chiunque leggerà/recensirà :)

Adesso non mi rimane che attendere con angoscia l'uscita di Infinity War, sperando che la Marvel non decida di farmi cadere in depressione col suo sadismo. 
Au revoir,

-Light-

P.S. Piccola aggiunta forse pretenziosa: magari sono io a volermi convincere che la sopracitata Atlas non sia l'unica intrepida rimasta a leggere la storia e non sono davvero il tipo da elemosinare recensioni... ma ho notato un leggero aumento delle visite e qualche "seguita" in più tra le statistiche di Phoenix e mi farebbe veramente piacere ricevere un qualsiasi tipo di feedback da parte di chi legge/segue, fosse anche una mezza riga di critiche che mi arriva tramite MP.
Sto dedicando a questa storia moltissimo del mio tempo e ricevere le opinioni di chi la legge significherebbe molto per me anche per capire come e dove potermi migliorare :)

P.P.S. Tony sta giocando a Starcraft, un gioco di strategia che manderebbe ai pazzi chiunque. Il "devi costruire altri piloni" è uno dei tormentoni che deve sorbirsi chi gioca.

EDIT: Il mio estro "artistico" è riemerso negli ultimi tempi: qui sotto trovate uno schizzo senza pretese della scena sulla spiaggia :) (prima o poi lo inchiostrerò, ma il terrore di devastarlo mi frena :'D)




 

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