III ♦ Sogni nell’Alba
Verrà
la notte che riconosceremo solo noi, quella che non farà
così
paura, che ci suggerirà la strada di casa.
Il
cielo era privo di luna, ma ricolmo di stelle quasi quanto la
città
di luci; e c’era calma, leggermente surreale per quella
metropoli
ma più che gradito per la sua mente.
Non
è rimasto nessuno laggiù; li abbiamo salvati
tutti — tu lo hai
fatto.
Respirava
a pieni polmoni, non era più là;
inspirava, ed era sempre là,
insieme alle ore che scorrevano sempre più velocemente, e
alle sue
speranze che cavalcavano con esse. Era
con tutti quelli a cui aveva teso una mano e spinto a rialzarsi, a
seguirlo e a non perdersi di nuovo; ogni volta che chiudeva gli
occhi, era la tenebra ciò che vedeva — e infine,
il lume sempre
più flebile della torcia spegnersi davanti a quello
più forte del
sole quando, improvvisamente, si era ritrovato al punto di partenza;
sfinito dalla tensione, il corpo dolorante dalla spasmodica ricerca e
dal peso di chi si era sorretto a lui per riuscire a rivedere il
giorno insieme a lui, ma vivo.
Sono
tutti salvi.
Era
ancora primo pomeriggio quando era collassato sull’asfalto
della
Città S, e qualcuno lo aveva stretto a sé
bagnandogli il viso con
acqua e carezze; in molti avevano pianto, allora, sussurrandogli
parole che non aveva compreso ⸺
ma che avevano lo stesso significato, ed erano le uniche che si era
atteso e che avrebbero ricompensato ogni suo sforzo.
Sono
tutti qui con noi.
Un
sospiro; il sonno non sarebbe giunto ancora per parecchio, nonostante
la prova passata, perché tra i pensieri che lo impedivano,
uno aveva
un’insistenza tutta sua. Era
più una sensazione, un pungolo che era nato nel ventre delle
tenebre
e lo aveva seguito per l’intero giorno, fino a
quell’istante; e
sarebbe andato avanti ancora per molto, fino al momento in cui non
avrebbe staccato lo sguardo da quella foto.
La
foto: l’unica di Hana, e sua.
Il
fioco lume della lampada notturna sembrò intensificarsi
quando il
sorriso della ragazza venne liberato dalla polvere non più
presente;
e il giovane si perse nuovamente a fissare come la macchina
fotografica fosse riuscita a intrappolare la morbidezza dei lunghi
capelli di lei e la spensieratezza negli occhi di entrambi.
Accarezzò
con un dito il viso dell’amica, e come
un’esplosione al centro
esatto del cuore rivide ancora una volta la scena di quel pomeriggio,
il
volto così simile al suo,
confuso e al medesimo tempo ben visibile tra la gente che lo aveva
circondato; aveva incontrato i suoi occhi solo per pochi secondi, due
stelle ferme nel mutarsi di voci e colori, ma era stato come
osservarli da sempre, come se il tempo non fosse mai passato
né
finito, né distrutto. Anche se nel volto di una sconosciuta,
quello
era il suo sguardo.
La
veglia venne prolungata fino all’alba; ma nemmeno allora
l’eroe
volle riporre la foto nel cassetto a doppio fondo che la teneva
imprigionata da due anni, posandola invece nell’angolo di
letto più
vicino al lato in cui dormiva.
Sarebbe
dovuto andare il prima possibile alla ricerca di un portafoto; di
qualcosa capace di mantenere la luce di quel passato, qualcosa di cui
non avere più paura.
❁❁❁
Verrà
il giorno che attendevamo, l’ora di ritrovarci.
Chi
può fermare il viaggio di un cuore che conosce il proprio
destino?
Aveva
aperto gli occhi piano, con timore; ma il dolore era già
svanito.
Le
sue dita erano ancora chiuse intorno a schegge di metallo e brandelli
di stoffa; il corpo interamente nudo, il vento aveva giocato con la
pelle facendola rabbrividire.
Si
era alzata piano, senza riconoscere il luogo in cui doveva essere
stata gettata dai suoi stessi poteri; ma il sapore del sangue sulle
labbra, il solletico causato dai capelli che erano ricaduti lungo
schiena e braccia appena si era messa a sedere li aveva percepiti
immediatamente come umani.
Allora aveva aperto una mano, nonostante il cielo già scuro
si era
specchiata nel pezzo di lama che vi aveva trovato; e
l’oscurità
non era riuscita a nascondere occhi neri come frammenti
d’ossidiana
e pelle pallida, un ematoma violaceo sulla tempia ⸺
dove lui
aveva colpito con tutta la sua disperazione ⸺ e la cicatrice
all’interno del collo, eredità
dell’infanzia.
Parte
delle sue abilità le era rimasta: grazie a queste era potuta
sgusciare dall’edificio in cui si era svegliata e trovare
vestiti e
cibo, correre nell’ombra delle strade e degli alberi; ma nel
giro
di qualche ora ⸺
anno,
mese, minuto? Quanto tempo è passato?
⸺
era ritornata a respirare senza sentire l’anelito al massacro
nella
gola, a desiderare il gusto di ogni pietanza ma non quello sporco e
ferroso del sangue, a sentire la tristezza.
Il
vuoto.
La
colpa.
La
colpa.
Che
cosa aveva fatto? Ucciso, separato.
Che
cosa aveva fatto? Aveva massacrato, aveva riso delle preghiere di
chi, come
lei,
aveva avuto paura di morire; aveva punito chi non aveva mai avuto
colpa ma ai suo occhi sì, sì che
l’aveva avuta, aveva lottato con
altri mostri per tenere intatto il suo regno di terrore, aveva
portato la paura.
Hana…
cos’era diventata? Non chi,
cosa:
non si sarebbe più dovuta definire nemmeno umana.
E
che cosa avrebbe continuato a vivere al riparo
dell’incoscienza?
Quali crimini la mente aveva sotterrato per non farla impazzire, di
quante tombe e lacrime era stata la responsabile?
Una
caduta nelle tenebre era bastata per renderla un incubo, un animale,
un cuore di pietra?
Per
iniziare a comprendere, a ricostruire le sue stesse tracce, appena
era stata certa di aver ripreso totalmente la propria
umanità senza
pericolose ricadute ⸺
e poter gestire ciò che di mostruoso le era rimasto ⸺
era ritornata alla sua vecchia casa e famiglia; o meglio, a
ciò che
di entrambe era rimasto, in quanto i suoi passi esitanti si erano
fatti largo nell’assenza:
di mobili, di voci, di vita. Non era rimasto nessuno tra le mura
spogliate di ogni cosa; probabilmente, troppo colpiti dalla sua
tragedia, i suoi genitori se ne erano andati per sempre… li
aveva
persi.
Non
li avrebbe più potuti rivedere, se non scatenando una
reazione di
spiegazioni che avrebbe solo peggiorato la situazione; oppure
cercarli, e rimanere a guardare la loro vita senza di lei.
No;
meglio lasciare la realtà così
com’è. Evito solo un dolore
ancora più grande… a me, e a voi.
Eccola,
la seconda realizzazione: dopo il risveglio che l’aveva
privata
della morte e del suo oblio, gettandola nella sommaria consapevolezza
delle proprie azioni, era giunta la colpa più lucida.
Perché
non si era lasciata semplicemente andare?
Con
quale sfrontatezza aveva creduto di poter continuare a vivere?
Come
aveva potuto anche solo pensare di meritarselo?
Tra
vicoli fumosi aveva cercato davvero il coraggio di darsi la fine; ma
come qualcuno
le aveva detto, in fondo era sempre stata una codarda, ed era finita
per gridare di terrore e repulsione davanti a quella scelta,
terrorizzando chi si era trovato a passare vicino alla sua
invisibilità.
La
morte era giunta per guardarla un solo, maledetto istante durante una
di quelle notti insonni senza soluzioni; in un sogno, incombendo su
di lei ma senza toccarla, troppo
sporca anche per le sue mani.
Il
mattino successivo, tutto e niente era mutato; ma era stato ormai
accertato che il suo viaggio —
qualunque fosse stato — non era ancora cessato. Se
solo sapessi dove conduce…
Se
solo nulla, Hana. Ora ci sei solo tu, e tutto quello che sei.
Tutto
quello che sei.
… E
cos’è che non sono mai stata?
Alla
fine, le risposte avevano trovato il loro modo per raggiungerla.
«I
fiori che vendete sono sempre stati i più belli della
città, ma da
quando sei arrivata tu, questo posto è ancora più
luminoso. Il tuo
nome ti ha davvero portato fortuna!»
Sorrideva
a tutti, aveva una parola per chiunque; difficile riconoscere in lei
la ragazza riservata che era stata, semplice vederle sul volto una
pacata gentilezza.
«Questi
sono un regalo. Quando viene a farmi visita, poi potrei chiudere il
negozio per esaurimento scorte… quindi li prenda senza
problemi!»
In
tutti quei giorni passati china tra libri di musica e spartiti,
accordi e composizioni, non avrebbe mai pensato di trovare una
sintonia con i fiori; eppure, da quasi un anno ne curava di ogni tipo
nel cuore della Città S, dove il sole le era sembrato subito
più
benevolo e nessuno avrebbe potuto riconoscerla.
Lei
era proprio come quelle piante: aveva iniziato a crescere nuovamente,
si stava avvalendo del tempo, della pazienza, delle proprie cure e
anche dell’altrui calore per sbocciare e dare il meglio di
sé.
Quel
lavoro si era dimostrato l’occasione migliore per
ricominciare:
proteggere e amare le forme di vita più indifese, per
riprendere sé
stessa.
«Sei
sempre allegra, tu!»
Ricordo
quando non lo ero, e non vedevo più la strada dei sogni.
Sorrido
anche per quella che ero allora.
«Vivi
da sola?»
Questa
solitudine non è un problema.
«Hai
tanti amici?»
Tra
il battito calmo del cuore e una lieve nota di malinconia che
addolciva ancora più lo sguardo, le mani accarezzavano
petali e
foglie con maggior lentezza. «Forse sì; ma solo di
uno sono davvero
certa.»
Solo
quando l’aveva rivisto di nuovo aveva compreso quanto le
fosse
mancato; ma lui non l’aveva notata, e lei non aveva fatto
nulla
affinché riuscisse a farlo.
Bad
non doveva rincontrarla nelle parole, ma nei fatti; per tale motivo,
quello
stesso mattino l’aveva seguito.
Aveva
sentito la scossa prima di tutti, quando era ancora lontana; aveva
stretto il grembiule del negozio con tutte le forze, contando gli
istanti mancanti al sisma e facendo lo stesso per tutta la sua
durata… e subito dopo aveva infranto la promessa di non
riprendere
più le vesti di un’ombra, e ombra era divenuta.
Quando
è impossibile dimenticare qualcosa, lo si può
trasformare in forza
o incubo; in quegli istanti, lei aveva scelto la prima opzione,
raggiunto il centro della città e si era gettata nella
voragine,
alla ricerca di chi avrebbe potuto essere divorato dal suo stesso,
orrendo cammino.
Aveva
distrutto con i poteri residui parte delle macerie, liberato chi era
rimasto ferito, accorso al pianto di chi non aveva visto nessuna via
d’uscita; lo aveva fatto sempre mantenendosi celata
nell’oscurità,
perché quella parte era sua come ogni altra, e se avesse
potuto
impiegarla per aiutare gli altri, invece di ferirli, allora avrebbe
vinto un’altra battaglia.
E
lì, proprio nel cuore delle tenebre, lui era arrivato.
Il
coraggio e la decisione con cui si era addentrato nel pulsare
dell’ignoto le aveva fatto da faro; per l’ennesima
volta, si era
dimostrato più forte di lei, anche se ciò non le
aveva lasciato
nessun sentimento negativo —
solo la consueta malinconia.
Era
stata al suo fianco per tutto il tempo; lo aveva guidato a suo modo,
attenta a non mostrarsi, accontentandosi solo di sfiorarlo.
L’occasione
di aiutarlo concretamente si era rivelata solo alla fine, quando le
forze di Bad avevano iniziato a diminuire e sia il ragazzo che i
cittadini erano stati in grave pericolo; allora, ogni pensiero aveva
lasciato spazio a qualcosa di più concreto. Nessuno, in
seguito,
sembrava essersi ricordato completamente quello che era accaduto
laggiù; e questo era stato un bene, perché come
avrebbero potuto
spiegare la sensazione di essere stati trascinati,
trasportati, sostenuti?
Aveva
rischiato molto più della perplessità generale,
con Metal Bat
presente; ma d’altra parte, non avrebbe mai potuto lasciare
alle
tenebre qualcuno di loro… come lei.
Non
avrebbe potuto accettarlo, e ancor meno dopo aver avuto la sensazione
che Bad fosse sceso laggiù proprio per lo stesso motivo.
Non
sono completamente lontana da te, amico mio.
«E
questa? Davvero conosci Metal Bat?»
«È…
è stata solamente una gentilezza che mi ha
concesso.»
«Ma
è strappata!»
«Un
piccolo incidente… per fortuna sono riuscita a
riattaccarla.»
«Potresti
sempre chiedergliene un’altra.»
Hana
strinse la foto con delicatezza, seguendo la linea irregolare che
erodeva la carta per un tratto, e accennò un sorriso. Gli
occhi neri
di Bad sembravano capaci di sciogliere la carta, e le grida di Zenko
che coordinava i loro movimenti prima di scattare erano ancora vivi
nelle orecchie. «Potrei», mormorò,
accarezzando con un dito il
volto dell’eroe.
«Faresti
solo bene! Ma ora, mia cara, vai pure; è tempo di
chiudere.»
La
ragazza annuì e salutò, e ancor prima di
potersene rendere conto
percorreva le calme vie della città.
La
foto che la collega di lavoro le aveva quasi tolto dalle mani era
ancora tra le sue dita, a ballare per un bordo; la alzò
davanti al
volto, e sotto le luci di un tardo tramonto la fissò ancora.
«Sì,
forse è davvero ora di scattarne
un’altra», mormorò, prima di
riporla con cura nella tasca laterale della giacca, la più
vicina al
cuore.
Fece
qualche passo nel vento della sera; poi si fermò, si
lasciò
abbracciare completamente da esso. «Nella
prima discesa nelle tenebre, hai ucciso il mostro e salvato la sua
vittima più grande; nella seconda discesa nelle tenebre, ho
ucciso
io il mostro e salvato l’eroe.
E
sì, presto avremo tanto di cui parlare; ma non di come
salvare una
vita.
Quello
lo sappiamo già fare, semplicemente vivendo.»
We
are all broken;
That’s
how the light gets in
— Ernest
Hemingway —