Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Watson_my_head    02/05/2018    4 recensioni
Sherlock è morto. Cosa è successo in quei due anni prima del suo ritorno?
Questa è la storia di John, un uomo distrutto costretto a venire a patti con se stesso e a trovare la forza, forse, di cambiare il proprio destino.
#introspettivo #friendstolover #fixingpostreichenbach #happyending #dontbescared!
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Rieccomi qui, con quello che è il mio capitolo preferito tra quelli scritti fin'ora. John sta compiendo un lavoro su stesso (anche se forse non ne è del tutto consapevole), attraverso l'intreccio tra quella che è diventata la sua vita adesso ed i suoi ricordi, che lo colpiscono e lo tormentano in continuazione. Il passato ed il presente si intrecceranno fino a collidere e a coincidere ad un certo punto, in un determinato momento. 
Ah, Mary is coming.
Sherlock pure.

 

 

 




“Sii sempre con me, prendi qualsiasi forma, portami alla follia.

Solo non lasciarmi in quest’abisso, nel quale non riesco a trovarti”

Emily Brontë, “Cime Tempestose”

 

 

 

 

“Hai risposto ai messaggi di tua sorella?”

Oggi Ella ha qualcosa di diverso. Forse sono i capelli. Mi sembra distratta. Smettila, non sai giocare a questo gioco.

“John?”

“Si, ci vediamo la settimana prossima per un caffè.” Non è vero. La guardo. Resta in silenzio qualche secondo, sembra stia decidendo se credermi o meno.

“Sarebbe un progresso.”

No, non sembra convinta. Annuisco. Osserva il pavimento qualche istante prima di parlarmi di nuovo.

“John, capisco perfettamente quello che stai passando.” Non credo. “Ma mi sembra che da un po' di tempo siamo fermi.”

“Fermi?”

“Non stai facendo progressi.” Ma se hai appena detto il contrario. Prende un respiro. “Devi iniziare a prendere più seriamente le sedute. Devi restituire, John. Non possiamo passare ore intere a parlare solo del fatto che non riesci a dormire.”

“Ho dormito questa notte.” Ha ragione, lo sai.

“Ecco, vedi.”- si sposta sulla sedia. Picchietta il suo blocco dove-scrivo-quello-che-mi-pare-senza-che-tu-possa-saperlo con la punta della penna. “Sei costantemente sulla difensiva. Ogni volta, ogni singola volta. Non posso aiutarti così.”

Resto in silenzio. Guardo fuori. Perché è sempre il tramonto quando sono seduto su questa poltrona? Devo smettere di venire.

“E non puoi interrompere la terapia. Non è il caso. O almeno, non è una cosa che suggerirei.”

Suggeriresti. A chi? Mi mordo le labbra. Certo. Mycroft lo verrebbe a sapere nel giro di 4 secondi. Anzi, prima ancora che io abbia preso la decisione di lasciare la terapia, lui lo saprebbe. E non sarebbe felice. E' un incentivo a non venire più, in realtà. Sorrido.

“Ti fa sorridere John?”- mi guarda reclinando la testa di lato. Torno serio. Lei non può seguire il filo dei tuoi pensieri. Le piacerebbe. Sarebbe sicuramente più facile il suo lavoro.

“John.” - si sta spazientendo.

“Scusami. Riflettevo su una cosa.”

“Che cosa?”

“Che non si può dire niente a voi psicoterapeuti. Rispondete sempre con beh parliamone. Che cosa hai provato. Di che cosa si tratta.”- stringo gli occhi. John, smettila adesso. “Scusami. Ok, sono qui.”

“Bene. Direi di ricominciare da capo. Hai risposto ai messaggi di tua sorella?”

Sono indeciso questa volta. Guardo le mie mani unite sulle gambe. Respiro a fondo.

“No.”

Annuisce. “Bene. Una verità.” - scrive qualcosa sul quel suo blocco. Se chiedessi a Mycroft di scoprire cosa scrive, potrei saperlo. Probabilmente lui lo sa già. E comunque non me lo direbbe mai. “Perché?”- continua.

“Perché francamente, dubito che mia sorella sia la persona più adatta con cui parlare al momento. O in qualsiasi altro momento, in effetti”. Inizio a pensare lo stesso di te, Ella.

“Non dovete discutere di questo, John. Della tua situazione. E' solo un modo per uscire di casa e andare in un posto che non sia l'ambulatorio. E poi è tua sorella. E' preoccupata. Lo sarà sicuramente.”

E' preoccupata”. Vi telefonate? Non voglio saperlo.

Annuisco. “La chiamerò”. Non voglio farlo. Lo farai.

Sembra sollevata. “Avevamo fatto tanti progressi, John. Non sarà difficile trovare di nuovo un tuo equilibrio. Ma devi volerlo. Devi almeno volerci provare.”- fa una breve pausa. “A volte ho i miei dubbi, che tu voglia farlo sul serio.”

La odio. Resto in silenzio.

“Sei un uomo molto diverso da allora. Ricordi?”

“Che cosa?”

“La prima volta.”

 

***

 

La mattina dopo l'avventura del barista killer mi svegliai davvero male. Fu strano. Prima ancora di aprire gli occhi mi accorsi che c'era qualcosa che non andava. La luce, seppure tenue, proveniva dalla parte sbagliata. Il materasso era più morbido rispetto al mio, troppo morbido. Il cuscino era scomodo per me. Anche l'odore della stanza era diverso. Un odore che conoscevo, ma che decisamente non era il mio. Quello non era il mio territorio. La prima sensazione fu il panico. Il cervello associò in un meccanismo automatico e insano gli ultimi ricordi degli occhi terribili di Damon Pine alla consapevolezza di trovarsi in un posto sbagliato. Come se le due cose avessero potuto collegarsi in una qualche maniera a me sconosciuta. Fu un ragionamento complesso, sviluppato in una frazione di secondo e svanito altrettanto velocemente nell'istante stesso in cui aprii gli occhi. La camera di Sherlock. Che diavolo ci faccio qui? Mi guardai attorno. La luce era talmente bassa che non riuscivo a capire che ore fossero. Mi misi a sedere. Dio... L'emicrania era fortissima. Avrei potuto sentire le vene pulsare sulla mia testa se mi fossi concentrato abbastanza. Poi ricordai. Pine arrestato, ritorno a Baker Street, la stanchezza, Sherlock che mi diceva che avevo la febbre, la sua mano sulla mia fronte...Compresi il mal di testa. Ma non il motivo per cui mi trovavo lì. Mi alzai, lentamente. Molto lentamente. Indossavo il mio pigiama e una buona dose di ansia. Aprii la porta e attraversai la cucina fermandomi sulla soglia del soggiorno.

“Buon pomeriggio”. Eri seduto sulla tua poltrona, vestito come il giorno prima. Non ha dormito. Avevi il violino in mano e pizzicavi le corde distrattamente. Mi appoggiai alla porta.

“Che ore sono?”

“Le 15:36. Come ti senti?”

Mi guardai attorno. Ero confuso. Imbarazzato. “Ho mal di testa.”

“Ovvio. Ieri avevi 39 e mezzo di febbre. Hai fame?”

Non avevo fame. Piuttosto, avevo la nausea, quella tipica degli stati febbrili. Ma avevo anche bisogno di un antidolorifico quindi dovevo mangiare qualcosa. Mi girai e tornai indietro verso la cucina senza rispondere. Mi sedetti al tavolo. Era il solito macello. Non ci feci nemmeno caso. Appoggiai i gomiti sul piano e mi stropicciai gli occhi. Sei uno straccio, Watson.

“John?”

Eri di fronte a me. Sicuramente io ero abbastanza rallentato, ma tu eri stato piuttosto silenzioso. Mi fissavi. Come sempre.

“Si”.

“Ti preparo un tè?”

“Si.” Non riuscivo a concentrarmi su cosa fare e lo sapevi. Probabilmente l'avevi capito da come me ne stavo in piedi sulla soglia del soggiorno, o da come avevo camminato fino a lì, o dal modo in cui avevo aperto la porta della tua camera, o da come ero sceso dal tuo letto. Forse eri in grado di percepire anche l'esatta angolazione dell'apertura dei miei occhi stando seduto in un altra stanza e da lì dedurre che ero perfettamente rincoglionito. Chiediglielo.

“Perché stavo dormendo in camera tua?”- buttai la domanda. Come se non ci stessi pensando dal momento stesso in cui hai aperto gli occhi.

“L'hai suggerito tu.”- hai risposto, senza nessuna inflessione nella voce che potesse darmi un qualche motivo, il più disparato a cui aggrapparmi per rifletterci su. Eri di spalle e preparavi il tè. Due tazze. “E comunque era più comodo portarti lì che di sopra. Ovvio. Molly mi ha aiutato.”

Molly. E' vero, hai detto che sarebbe passata. Non la ricordo. L'ho suggerito io? Io? Non può essere. Io? Perché? Perché avrei dovuto dirti... Perché? Non può essere. Non me lo ricordo. Chiediglielo. Non posso chiederlo di nuovo. Non posso aver detto... Deliravo, devi aver capito male. Sicuramente. E' stata la febbre. Non posso averti chiesto deliberatamente di portarmi in camera tua. Hai capito male.

“Smettila John.”

Ero rimasto in silenzio tutto il tempo. Fissavo il muro davanti a me.

“Sento i tuoi pensieri da qui. Sei noioso”- mi porse il tè e dei biscotti che Mrs. Hudson aveva preparato per noi il giorno prima. Non chiesi più niente.

 

Le settimane a seguire furono difficili. Difficili è usare un eufemismo, in realtà. Non ci furono casi interessanti per un po' e quei pochi che arrivarono alla nostra porta furono classificati nell'ordine come: noioso, ridicolo, banale e per l'amor di Dio. O forse ci fu prima per l'amor di Dio e poi quello banale. Non lo ricordo.

Eri tremendamente annoiato. Io, ero tremendamente nervoso.

Dopo quella notte con la febbre ero precipitato in uno stato di nervosismo perenne che non faceva che aumentare col passare dei giorni. Era come se fosse qualcosa che non dipendeva da me. Come no, John. Non lo controllavo. Me ne stavo in silenzio, o leggevo, controvoglia. Rispondevo, controvoglia. Mangiavo, dormivo, controvoglia. Tu sembravi ignorarmi. Grazie a Dio. Giravi per casa in preda ad un vero e proprio esaurimento nervoso. Un giorno recitavi in piedi sul divano un passo dell'Otello. Un altro giorno decantavi alla finestra aperta le diverse qualità di droghe conosciute e non. Una notte hai quasi dato fuoco alla cucina durante un esperimento. Sono venuti i pompieri, quindi potrei togliere il quasi. Mrs. Hudson lasciò Baker Street per qualche giorno, “altrimenti lo uccido”, mi aveva detto prima di andarsene. Penso che lo avrebbe fatto davvero. Potrei farlo io.

Poi una sera, dopo aver urlato ad un concorrente di Masterchef che la moglie lo tradiva con il suo migliore amico mentre io leggevo controvoglia un libro di cui non ricordo assolutamente niente, hai detto:

“John, va tutto bene?”

Ho alzato la testa. Ero seduto sul divano, tu sulla mia poltrona girata verso la tv. Mi davi le spalle. Non risposi.

“Ho calcolato che per un po' di tempo saresti stato intrattabile, dopo quella sera. Niente di nuovo. Tipico di te. Ho atteso qualche giorno. Ma sono passate tre settimane e non è cambiato niente. La mattina scendi in pigiama, invece di vestirti, come tua consuetudine. Prepari il tè ma non lo chiedi. Lo fai e basta. Hai smesso di leggere. Quel libro lo tieni in mano da un mese. Hai letto quattro pagine in tutto. Ho cambiato il posto al segnalibro una volta spostandolo di 50 pagine e quando l'hai ripreso hai continuato a leggere come se niente fosse. Non hai più indossato il maglione verde, quello orrendo. Pensavo fosse uno dei tuoi preferiti. In realtà sono tutti orrendi ma quello lo è in particolare, comunque. Quando esci dimentichi l'ombrello. Prendi il cibo da asporto per due, senza nemmeno chiedermi cosa voglio. Dimentichi il cellulare in camera. Non ti sei più lamentato per il tavolo della cucina. Non ti sei lamentato nemmeno quando sono venuti i pompieri. E quello è stato piuttosto divertente, dovresti ammetterlo. Mrs. Hudson è preoccupata per te.”- hai fatto una breve pausa, poi hai aggiunto con un tono di voce leggermente più basso - “E ieri hai attraversato senza guardare, John.”

Ero sconvolto. Avevi elencato, come fai di solito per impressionare un cliente, una serie di cose su di me di cui nemmeno io mi ero reso conto. Come la prima volta che ci siamo visti. Ma non mi stavi ignorando?

“Non puoi attraversare la strada senza guardare, John.” - hai ripetuto continuando a tenere lo sguardo fisso sulla tv. Vedevo solo i tuoi capelli. Quindi per settimane mi avevi studiato, registrando ogni mio minimo cambiamento senza dire nulla. E poi, quello che apparentemente avevo fatto il giorno prima ti aveva costretto a rendermi partecipe dei tuoi pensieri. Perché? Ma sei stupido John?

“Ho attraversato senza guardare?”- ho ripetuto, abbastanza incredulo.

“Mycroft mi ha fatto vedere il video. Senza dubbio, lo hai fatto. Stai cercando di ucciderti John?”- avevi una voce molto calma. Io ero turbato. Mycroft. Ovviamente. Vuoi arrabbiarti per questo adesso? Sei sicuro? Attraversi senza guardare, John? Andiamo.

Chiusi il libro. Lessi il titolo forse per la prima volta. Cime tempestose. Cime tempestose??Cinquanta pagine? Me ne sarei accorto. Certo. Guardai per terra.

“Non essere ridicolo.”

“Lo immaginavo. Non mi importa se compri cibo cinese a caso, e nemmeno se vai in giro in pigiama o se dimentichi l'ombrello anche se ti sta piovendo praticamente in testa. Ma gradirei che tu prestassi maggiore attenzione quando cammini, John. Sarebbe oltraggiosamente banale farsi ammazzare così per uno come te.” Poi hai insultato qualcuno alla tv.

Ed io, mi sono sentito irrimediabilmente ordinario.

Avrei voluto dire una cosa, qualsiasi cosa. Una qualunque. Ma ero interdetto. Dal fatto che avevi dedotto tutte quelle cose su di me. Non che fosse una novità certo, ma pensavo che non stessi facendo caso a quello che facevo io visto che eri impegnato nei tuoi melodrammi da noia. Ed ero arrabbiato. Con Mycroft, con te e con me stesso, per essermi concesso una tale distrazione. Il solo pensiero di me che attraverso una strada qualsiasi di Londra senza guardare mi avrebbe provocato incubi certi. Ero già preparato. E tutto perché ero...distratto. Da cosa?

Lo sai benissimo.

Distratto e nervoso. Ed ero confuso. Il mio nervosismo era stata una reazione istintiva di difesa successiva a quella notte. L'essere distratto, assente e lontano dalle mie abitudini fu solo una conseguenza. Ma l'essere così un libro aperto per te era la cosa che più mi mandava fuori di testa.

“Io...”.

Fu l'unica cosa che dissi. Lestrade stava salendo le scale e dal modo in cui lo faceva avevi già capito tutto. In un attimo eri in piedi, in mezzo alla stanza ad aspettarlo.

“Questo è uno buono”- Ed i tuoi occhi cambiarono colore. Si riaccesero di quella sfumatura fatta di eccitazione e attesa che ben conoscevo. Mi alzai anche io, lasciando quel libro non letto abbandonato sul divano.

“Dovresti venire con me”. - disse Lestrade non appena varcò la soglia.

“Certo, voi siete degli incompetenti, è ovvio.”- gli hai risposto togliendoti la vestaglia e prendendo la giacca. “John? Vieni?” Mi hai guardato. All'improvviso non ero più così scontato per te?

Annuii. E fui grato a Greg per quella conversazione interrotta.

 

Di nuovo il lungo fiume. Notte. Ma non c'è un altro scenario in tutta Londra per uccidere qualcuno? Ero irritato. Davanti a noi, il solito schema. Cordoni della polizia. Qualche pattuglia. Luci rosse e blu. Io, tu e Lestrade scendemmo dall'auto e ci avvicinammo. Donovan simpaticissima come sempre, all'ingresso vip. Ci alzò il nastro giallo. Fece una battuta che non ricordo, ma ricordo benissimo la mia risposta poco gentile, poco da me. Mi hai guardato un istante. Io ho continuato a camminare. Ecco sta deducendo cose. Perfetto. Stai zitto John Watson. Ci avvicinammo al cadavere. Era nudo, supino.

“John?”

Mi invitavi a dare un'occhiata, come sempre. Mi inginocchiai nel fango. Feci qualche valutazione, studiai quello che vedevo.

“Maschio, ma questo è evidente, credo tra i 50 e i 60 anni. Ferita mortale da corpo contundente alla testa, ecchimosi varie qui e qui, braccia e gambe. Segni di tentato strangolamento. E' morto da almeno un paio di giorni.”- nessuna flessione nella mia voce. Stavo leggendo un libro di medicina, praticamente. Mi rialzai. Ormai avevo imparato a reprimere l'empatia sulle scene del crimine. “L'empatia è superflua e inutile”, avevi detto, tipo 47 volte in 47 occasioni diverse.

“Grazie John”. Poi hai cominciato ad osservare il cadavere.

“Pensavo fosse annegato.” -disse Lestrade guardandosi attorno.

“Pensare è pericoloso. Nulla è più ingannevole di un fatto ovvio, Graham.” - hai risposto mentre controllavi la bocca dell'uomo morto.

Graham. Ho scosso la testa. Non ti ho corretto. Avrà notato che non l'hai corretto. Sospirai. Lestrade si era comunque già allontanato.

Passarono cinque minuti.

“Ci sarà una rapina.”

“Una rapina?”

“Si John, una rapina. Sei forse sordo?” - armeggiavi con il cellulare.

Aggrottai la fronte. “E cosa c'entra questo con il cadavere?”

Hai roteato gli occhi. “Deve essere proprio bello essere voi. Lo usate il cervello ogni tanto?Che ci fate?”. Ti eri incamminato verso le macchine della polizia.

Non ho risposto. Non è proprio la sera adatta Sherlock. Sospirai per reprimere l'istinto di uccidere anche te, sul lungofiume, di notte. All'improvviso mi sembrava uno scenario perfetto.

“Quest'uomo è William Crowder. E' un autista di portavalori. E' morto da due giorni, ma nessuno ne ha denunciato la scomparsa”

“Non se ne sono accorti?”

Hai sospirato, impaziente. “Non puoi accorgerti che qualcuno è scomparso, se non lo è.”

Mi sentivo sempre più confuso.

“Potresti gentilmente spiegare a noi comuni mortali che cosa hai scoperto?”. Anche Lestrade si era avvicinato.

Ti sei fermato, la frustrazione nello sguardo. “William Crowder qui presente, è morto da due giorni. Ma dai controlli che ho appena fatto risulta che il nostro cadavere è andato regolarmente a lavoro. Quindi, o il suo è un fantasma particolarmente zelante, oppure...” -ci guardavi speranzoso agitando una mano verso di noi, come se servisse a tirarci fuori la risposta.

“Qualcuno deve aver preso il suo posto”- dissi. Ero io o eri tu ad essere particolarmente irritante quella sera?

“Bravo John, stai migliorando.” Eri tu. Decisamente tu. “Quindi, sappiamo che qualcuno ha preso il suo posto. Domani il portavalori di cui è responsabile sposterà un'ingente somma di denaro. Ciò significa che ci sarà una rapina. E' così ovvio.”

“Come hai fatto a capire che questo è William Crowder se nessuno ne ha denunciato la scomparsa?” - fu la domanda di Lestrade.

Hai sorriso. “Due giorni fa la signora Crowder è venuta a Baker Street per chiedere il mio aiuto. Diceva che il marito era strano, che era lui ma non era lui.”

“Me la ricordo. Le hai detto che era pazza, che il marito aveva l'amante, cioè la baby sitter e che comunque era un caso noioso.” - dissi. “Direi che ti eri sbagliato.”

“Lui aveva davvero una storia con la baby sitter, John! Prima di morire, ovviamente.”

Mi venne un po' da ridere. Come se non fossimo nel bel mezzo di un omicidio, preceduto da una sostituzione di persona, e seguito da una prossima rapina.

“Andiamo a prenderlo” - disse Lestrade.

“Noi prendiamo un taxi.”

Quindi, ci separammo. Prendemmo un taxi subito dopo. Eri silenzioso.

“Dove stiamo andando?”

“La polizia sta andando a casa di Crowder, quello vero. Ma lui, quello finto, non è lì. O meglio, non sarà più lì.” - guardavi il tuo telefono.

“E perché non gliel'hai detto? Cristo, Sherlock!”

“Perché sono troppo stupidi. Quando arriveranno, se lo faranno scappare. Ma lo prenderemo noi. Hai la tua pistola vero?”

“Non mi hai detto che dovevo portarla.”

“Ma l'hai portata.”

“Certo.”

Non dicemmo più niente. Fu un altro dei nostri infiniti viaggi in silenzio, nel retro di un taxi, insieme a Londra di notte. Cercai di farmi scivolare addosso il nervosismo di quelle ultime settimane. Respira John. In realtà mi rendevo perfettamente conto che il mio corpo rispondeva automaticamente a situazioni come quelle. Più erano difficili e pericolose e più avevo i nervi saldi. Era sempre stato così. Quello era il mio territorio.

Il taxi ci lasciò in un posto terribile, al limite di una strada oltre la quale non c'era nulla. Dovemmo camminare a piedi per un bel pezzo prima di arrivare da qualche parte, nei pressi di un enorme capannone attorno al quale giacevano bidoni sparsi e rottami. Sentivo l'adrenalina scorrermi nelle vene. Mi sentivo da Dio.

“Come fai a sapere che verrà qui.”

“E' già qui. E' dove tengono il portavalori e dove hanno organizzato il colpo. Mycroft mi ha mandato le coordinate.” - hai risposto, muovendoti rapido ma silenzioso.

Diedi un'occhiata veloce intorno. Studiare il territorio. Individuare le eventuali vie di fughe per il nemico e per noi. Escogitare un piano funzionale di attacco. Portare a casa tutti sani e salvi. Lo avevo già fatto. Non era niente di nuovo per me. Ho iniziato a parlare quasi in maniera automatica.

“Ok, due ingressi. Quindi dobbiamo dividerci o potremmo perderlo. Tu davanti, io vado sul retro. Entriamo. Resta sempre contro il muro. E non fare niente di stupido. Hai capito?” - ti ho guardato dritto negli occhi. Il mio tono di voce era un po' diverso dal solito, non permetteva obiezioni. Mi hai restituito lo sguardo, hai annuito. Quindi ci separammo.

Il retro del capannone era un vero disastro. La porta era ostruita da rottami e varie cianfrusaglie che comunque non avrebbero impedito un'eventuale fuga. Fui costretto a scavalcare varie cose al buio, mi ferii un piede e una spalla. Niente di grave. Raggiunsi la porta che era semi aperta. Fantastico. Non mi sembrava proprio un buon segno. Mi affacciai. L'interno era completamente buio. Più buio dell'esterno. Con la pistola ferma tra le mani all'altezza del viso, entrai e strisciai lungo il muro. Cercai di abituare gli occhi all'oscurità per capire dove mi trovassi, se il capannone fosse un ambiente unico, se riuscissi a vederti dall'altra parte o chissà che altro. Ma non vedevo niente. Solo una piccola luce in lontananza, forse una piccola lampada. Un cellulare? Non può essere Sherlock, non sarebbe così stupido. Deve essere il nostro morto che cammina. Mi abbassai contro alcuni bidoni. Cercai di avanzare lentamente verso la luce, in silenzio. Sentivo solo il mio respiro e dell'acqua gocciolare da qualche parte.

Poi all'improvviso un frastuono agghiacciante. Bidoni rovesciati, un colpo di pistola. Mi si gelò il sangue.

“John! Joh..!” -avevi urlato il mio nome un paio di volte. Uscii allo scoperto per raggiungerti, dovevi essere ad a una decina di metri da me. Inciampai in qualcosa. Finii a terra. Gli occhi erano ormai abituati all'oscurità e riuscivano a scorgere la tua sagoma in lontananza sormontata da qualcuno. Ti stava soffocando. “Cristo, Sherlock!”. Avrei voluto sparare, non avrei esitato se non avessi avuto il timore di colpirti. Abbandonai quel pensiero e mi precipitai verso di te. L'uomo che ti stava addosso era esattamente uguale al cadavere trovato sul fiume, almeno per altezza e corporatura. Non riuscivo a scorgerne il viso. Te lo tolsi di dosso con forza e lo scaraventai a terra ad un paio di metri di lontananza.

E poi, persi del tutto il lume della ragione.

Mi avventai su di lui e lo picchiai. Lo picchiai così forte che mi spaccai le mani. Non riuscivo a fermarmi. Avrei voluto togliergli la vita strappandogliela dal petto. Avrei voluto farlo. Volevo farlo. Volevo ucciderlo. Ero completamente fuori di me.

Mi hai afferrato per un braccio. “John! Smettila! John! Non si muove più. Fermati”. Mi sono voltato di scatto verso di te. Ero in iperventilazione. Avevo le mani piene di sangue, mie e di Crowder. Doveva essere una scena pietosa. Mi resi conto di quello che stavo facendo solo nel momento in cui ti guardai. Sherlock. Ed ogni pezzo sembrò tornare al suo posto. Mi sono accasciato su me stesso reggendomi sulle ginocchia. Ero sfinito. Completamente distrutto. Gli occhi spalancati, guardavo il pavimento e cercavo di respirare e tornare, a galla.

Mi hai messo una mano sulla spalla. “John, va tutto bene.”

Ho continuato a respirare. Volevo solo respirare.

 

Quella notte non chiusi occhio. Ero spaventato. Guardavo il soffitto della mia camera e rivivevo in continuazione quelle scene terribili, mentre picchiavo Crowder, colpevole di aver messo le sue mani su di te. Sei impazzito John? Alzai le mani davanti agli occhi. Piccole fasciature sulle nocche. Mi hanno quasi obbligato a metterle. Guarda che hai combinato. Respirai. Mi sentivo terribilmente in colpa e terribilmente solo. Era notte fonda e i miei pensieri erano così assordanti che avrei voluto urlare pur di sovrastarli. Mi alzai, uscii dalla camera e scesi le scale. Andai in cucina, guardai la tua porta chiusa per un istante. Volevo farmi un tè ma guardai le mie mani, rinunciai e passai in salotto. E tu eri lì. Dormivi rannicchiato sul divano, nella penombra. Non ci entra nemmeno tutto. Sorrisi. Mi appoggiai con la schiena alla porta, mi lasciai scivolare e mi sedetti per terra. Ti guardai dormire. C'era il più assoluto silenzio, solo i nostri respiri. Non lo so per quanto tempo ti ho guardato. Minuti? Ore? Dormivi placido, respirando leggero. Avevi una maglietta a maniche corte e i pantaloni del pigiama a quadri blu. Non potrò mai dimenticarlo. I capelli erano un disastro, ricadevano sul cuscino senza nessun senso. Ho reclinato la testa di lato. Ti guardavo dormire e pensavo a quanto io fossi triste e miserabile. Con le mie mani rotte e il cuore a pezzi.

 

E fu quella.

Fu quella la prima volta in cui pensai che avrei voluto guardarti dormire tutte le notti.

 

 

***

 

 

“John? La prima volta. Intendo la prima volta che sei venuto da me, dopo l'Afghanistan.”

“Mh?”

Ella mi sta guardando come se fossi scomparso per ore. “Dove sei appena stato John?”

Mi schiarisco la voce.

“Ci vediamo la prossima settimana?” - le dico, alzandomi. Lei annuisce. Ma credo che vorrebbe dire altro.

“A giovedì. E chiama tua sorella.”

“Lo farò.” - la voce esce da me senza controllo.

Mi incammino e lascio lo studio.

 

E' quasi notte. Dio, ho bisogno di bere.

   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Watson_my_head